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Poste Italiane s.p.a. - Sped. in Abb. Post. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n. 46) art. 1, comma 2, DCB BL STRUMENTO DI INFORMAZIONE MISSIONARIA Emigrazione e Fede La condivisione della fede nel mondo della migrazione Novembre 2013 - N. 21

Emigrazione e Fede - DIOCESI · P.zza Piloni, 11 32100 Belluno. Tel. 0437 940594 [email protected]. . Emigrazione e Fede. La condivisione della fede nel mondo della migrazione

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STRUMENTO DI INFORMAZIONE MISSIONARIA

Centro Missionario DiocesanoDiocesi di Belluno-FeltreP.zza Piloni, 11 32100 BellunoTel. 0437 940594centro.missionario@diocesi.itwww.centromissionario.diocesi.it

Emigrazionee FedeLa condivisione della fedenel mondo della migrazione

Novembre 2013 - N. 21

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Emigrazione e Fede

- La parola del direttore pag. 1

- Il fenomeno migratorio oggi pag. 3

- Migrazioni: nuove prospettive e istanze etiche pag. 10

- Gli immigrati, la religione e l’integrazione pag. 13

- Testimonianze dal mondo: pag. 16Brasile pag. 17Argentina pag. 21Nigeria pag. 24Costa d’Avorio pag. 25Thailandia pag. 29Albania pag. 32 Spagna pag. 36

- Riflessioni e preghiere pag. 38

- Fede diffusa dai nostri emigranti pag. 45

NotizieCentro Missionario di Belluno-Feltre

Hanno collaborato a questo numero: don Luigi Canal,don Ezio Del Favero, Mario Bottegal, Josè Soccal,Chiara Zavarise, Fabian Brandalise, don Aldo Giazzon,Gasper Gojcaj, Pedro

Foto a cura di Josè SoccalRedazione c/o: Centro Missionario Belluno-Feltre

Piazza Piloni, 11 - 32100 Belluno – Tel. 0437 940594centro.missionario@diocesi.itwww.centromissionario.diocesi.it

Direttore di redazione don Luigi CanalResponsabile ai sensi di legge don Lorenzo Dell’AndreaStampa Tipografia Piave Srl - BellunoIscrizione al Tribunale di Belluno n. 1/2009

sta, non desisterono dal viaggio. E fu proprio nella foresta che furono col-ti da un’imboscata da parte dei rivo-luzionari anticlericali. Il missionario ed il suo fedele ministrante furono condotti in una remota zona della foresta, vennero legati a due alberi e fucilati, sacrificati così in odio alla fede cristiana e alla Chiesa cattolica. Adilio non aveva ancora compiuto i 16 anni: era il 21 maggio 1924.

Si racconta che le bestie della fo-resta rispettarono quasi miracolo-samente i corpi dei due martiri e solo dopo quattro giorni i coloni di Très Passos riuscirono a dar loro sepoltura. Nel 1964 le loro spoglie, ormai considerate vere e proprie re-liquie, vennero traslate nella chiesa parrocchiale di Nonoai. I cristiani del luogo mai dimenticarono l’eroi-ca testimonianza del parroco e del

chierichetto, morti per amore del Vangelo, e numerosi devoti prese-ro ad accorrere sulle loro tombe ed invocare aiuto dal Signore per loro intercessione. Ogni anno si celebra il Pellegrinaggio Penitenziale al San-tuario Nostra Signora della Luce e dei Servi di Dio Pe. Manuel e Chie-richetto Adilio. Il 21 ottobre 2007, Papa Benedetto XVI proclamò Adilio Beato.

Il Beato Adilio è uno degli “intercessori”scelti dal papa per i giovani che hanno partecipato alla Giornata Mondiale della Gioven-tù a Rio de Janeiro nel luglio 2013. Adilio è il primo chierichetto del mondo a ricevere la beatificazione e per questo è considerato il patrono dei chierichetti. È anche “per ora”, il primo beato “bellunese”, almeno di origine!

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LA PAROLA DEL DIRETTORE

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Cari amici,avete fra le mani il n. 21 di “Notizie”: lo strumento creato dal Centro Missionario diocesano per comunicare e condividere con voi le esperienze e i valori della Missione.L’Ottobre Missionario ci ha proposto quest’anno la Missione “Sulle strade del mondo” ed il Papa ci invia continuamente alle “Periferie esistenziali” dell’umanità, dove il Vangelo deve diventare balsamo per le ferite dei popoli e gli operatori del Vangelo devono farsi “Angeli consolatori” in questo Ospedale da campo che è la Chiesa fra le battaglie della complicata convivenza umana.Alla conclusione dell’Anno della Fede (il 24 novembre 2013), volevamo dare anche noi un nostro contributo e per questo abbiamo scelto il tema: “Emigrazione e fede.” Il fenomeno migratorio è di grande attualità, caricando con sé pesanti fardelli di sofferenza, ma anche testimonianze mirabili di fede nella Vita e nel Signore della Vita... sia nei nostri emigranti che salparono l’oceano a fine ‘800 in cerca di pane e lavoro, come anche negli immigrati che

approdano oggi alle nostre coste, spinti dalla fame, dalle guerre e dalle persecuzioni dei loro paesi di origine dell’Africa o del Medio Oriente.Mentre scrivo assistiamo ad un’ennesima tragedia, quella del barcone incendiato nei pressi di Lampedusa, con oltre un centinaio di morti. Noi restiamo attoniti di fronte a questo terrificante spettacolo, ma esercitando la memoria storica, non fu differente per i nostri migranti di un tempo. Sappiamo per es. che nel 1927 il bastimento “Principessa Mafalda”, salpato da Genova con un carico di migranti piemontesi, si inabissò poco lontano dalle coste brasiliane causando la morte di 314 persone. Su questo barcone avrebbe dovuto imbarcarsi anche il papà dell’attuale Papa Francesco, ma chissà per quale disegno della Provvidenza, rimandò il viaggio all’anno seguente. Da questa famiglia di migranti italiani è sorto nientemeno che un papa. Ma quante famiglie nostre, soprattutto nel Sud America, hanno praticato e seminato una fede viva e robusta da generare schiere di sacerdoti e suore, per la diffusione della fede cristiana in quei paesi!

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«Condividere la fede nel mondo dell’emigrazione»” vuol dire oggi farci attenti ed accoglienti delle testimonianze di fede che tanti immigrati ci portano con una fede schietta, entusiasta, esuberante, offrendo stimoli preziosi anche alla nostra fede soffocata spesso dall’illusione del benessere, distratta dall’indifferenza globalizzata e impoverita dalla freddezza della nostra cultura, che spesso, a detta del papa, è diventata la “cultura dello scarto”, cioè quella mentalità diffusa che considera da ignorare, rifiutare e “buttare” tutti quegli esseri umani che non contribuiscono al nostro

egoistico benessere. Hai mai provato a dialogare con qualche immigrato su questo argomento? Provaci e vedrai!Questo opuscoletto ci presenta esperienze stimolanti di fede che vengono dall’Argentina, dal Brasile, dalla Costa d’Avorio, dal Bellunese o da altri paesi di missione frequentati dai nostri missionari: hanno volti e nomi concreti, perfino quello di un ragazzino agordino, morto martire in Brasile ed ora proclamato Beato e patrono dei chierichetti: il Beato Adilio da Ronch.Buona lettura e Buon Natale!

Don Luigi Canal

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Le migrazioni,caratteristica strutturaledel mondo d’oggi

Una caratteristica ormai struttu-rale del mondo attuale è l’accre-sciuta mobilità umana, divenuta un fenomeno stabile e sempre più consistente. Migrazioni e deporta-zioni di massa si sono avute in ogni epoca della storia, ma oggi hanno assunto caratteristiche nuove che

richiedono continuamente nuove soluzioni. Esse costituiscono una dimensione notevole dell’inter-dipendenza mondiale creatasi fra tutte le nazioni.

Il numero di persone che vivono in un Paese diverso da quello in cui sono nate continua a crescere, oggi nessuno Stato sfugge a qual-che forma di migrazione.

Quando ci si accosta a questi problemi, la prima impressione è

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di sconcerto, anche per la grande eterogeneità di situazioni, difficil-mente comparabili l’una all’altra. È perciò difficile dare anche solo una visione completa del fenomeno e ancora di più pensare di trovare soluzioni applicabili a fatti così di-versi fra loro.

La mobilità umana, oggi, ele migrazioni internazionaliLa “planetarizzazione”del fenomeno migratorio

I flussi migratori, nella loro du-plice componente di movimento in entrata e uscita, non sono più una esperienza limitata ad alcune

aree, ma costituiscono un feno-meno mondiale, comune ad ogni continente.

Mentre in passato le migrazioni di matrice europea erano predo-minanti, oggi emerge prepotente il flusso migratorio proveniente dai paesi latino-americani, asiatici e africani. Seguendo in modo preva-lente le direttrici Sud-Nord, queste “nuove” migrazioni coinvolgono quantità sempre più grandi di per-sone che si spostano soprattutto verso aree e Paesi avanzati in cam-po economico e tecnologico e dove sono in vigore sistemi di tipo democratico-occidentali.

Accanto alle migrazioni interna-

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zionali, si verificano anche sposta-menti massicci all’interno di una stessa nazione o del medesimo blocco linguistico.

L’urbanizzazione, fenomeno ca-ratteristico delle società moderne, si rivela in alcuni Paesi conseguen-za indotta ed obbligata degli squi-libri economico-produttivi interni e internazionali. Il latifondo, la di-soccupazione, l’assenza di mezzi di sussistenza e l’emarginazione sociale della popolazione rurale, la mancanza di prospettive nelle aree agricole specialmente per i giovani, nonché l’attrazione con-sumistica della città, sollecitano massicci esodi rurali e portano al

conseguente formarsi di aree di insediamento urbano selvaggio e caotico. La crescita abnorme e, in apparenza, incontrollabile delle megalopoli dei Paesi in via di svi-luppo, marcata da estrema pover-tà ed ulteriore emarginazione so-ciale, rende i nuovi insediamenti precari, trasformandoli spesso in trampolini di lancio verso nuove mete interne o internazionali.

Sono sempre più numerosi i migranti nel mondo: 232 milioni di persone nel 2013, il 3,2% della popolazione mondiale, contro i 175 milioni del 2000 e i 154 milio-ni del 1990. Sono quasi equamente divisi tra uomini e donne, che rap-

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presentano il 48% del totale, e nel 74% dei casi sono persone in età da lavoro, cioè tra i 20 e i 64 anni. Lo dicono i dati appena pubblicati dal Dipartimento degli Affari econo-mici e sociali delle Nazioni Unite (Onu, 2013).

Secondo le ultime statistiche, l’Europa e l’Asia ospitano qua-si due terzi di tutti i migranti del mondo. Con 72 milioni di migranti internazionali nel 2013, l’Europa ri-mane il continente di destinazione più popolare, contro i 71 milioni dell’Asia .

Le migrazioni dunque costitu-iscono un fenomeno planetario.

Non esiste al mondo alcuna na-zione che non ne sia toccata o in partenza o in arrivo o simultane-amente in partenza e in arrivo. Questa planetarizzazione tuttavia è accompagnata da mutamenti ra-pidi e continui delle direttrici dei flussi, cosicché risulta complicato prestare la debita attenzione alle singole problematiche. La facilità dei viaggi e delle comunicazioni telefoniche, l’influsso dei media, i rapidi cambiamenti socio-politici, l’intenzione di utilizzare i fondi per lo sviluppo economico, fanno spostare continuamente i lavorato-ri, tanto che l’immagine prevalen-

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te nel futuro potrebbe diventare quella dell’uomo “senza fissa di-mora”, prodotto tipico della cul-tura postmoderna, in cui sembra essere vietato ritrovarsi ancorati a qualche stabile struttura.

La “terzomondializzazione”delle migrazioni

Se da un lato, la “gente del nord” diventa sempre più mobile all’in-terno di spazi ristretti e privilegiati, dall’altro le popolazione del sud della terra sono invece sempre più costrette ad uscire dai loro Pae-si. Dalla “terzomondializzazione” dell’emigrazione deriva una immis-

sione di religioni e culture diverse in nazioni spesso monoculturali.

La diversificazionedei blocchi religiosi

È un dato di fatto che verso l’Eu-ropa confluiscono tuttora preva-lentemente immigrati musulmani e verso l’America del Nord si diri-gono i cristiani del sud del mondo. Questo avrà un impatto sempre maggiore sulla composizione reli-giosa e culturale di queste nazioni, che diventeranno sempre più plu-raliste.

Ezio Del Favero(dal sito www.vatican.va)

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Riportiamo nello schema una sintesi del Dossier Statistico Immigrazio-ne 2012, in cui leggiamo, tra le altre, alcune stime numeriche percentuali delle religioni delle popolazioni che giungono in Italia. Nel Dossier si ri-corda che, anche se il fenomeno migratorio assume proporzioni sempre più estese, non bisogna mai dimenticare che le persone che vi sono coin-volte “non sono numeri”.

Dossier Statistico Immigrazione 2012 - dati in sintesi

Gli stranieri residenti in Italia al primo gennaio 2013 sono circa 4,4 milioni, l’8,3% in più rispetto all’an-no precedente. La quota di cittadi-ni stranieri sul totale dei residenti (italiani e stranieri) continua ad aumentare, passando dal 6,8% del primo gennaio 2012 al 7,4% del pri-mo gennaio 2013. È quanto rende noto l’Istat nel suo rapporto “La popolazione straniera residente in italia – bilancio demografico anno 2012”.

Il numero degli stranieri residen-ti nel corso del 2012 cresce soprat-

tutto per effetto dell’immigrazione dall’estero (321 mila individui) ma, in parte, anche delle nascite di bambini stranieri (80 mila).

I nati stranieri nel 2012 costitui-scono il 15% del totale dei nati da residenti in Italia. La distribuzione degli stranieri residenti sul territo-rio italiano non è uniforme: l’86% degli stranieri risiede nel Nord e nel Centro del Paese, il restante 14% nel Mezzogiorno.

Gli incrementi maggiori nel cor-so del 2012 si manifestano nel Sud (+12%) e nelle Isole (+10,9%).

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Statistica a Belluno per l’A.S. 2011-2012

Scuole multietniche

La scuola evidenzia sempre più la consistente e crescente presenza di alunni con cittadinanza non ita-liana, come avviene in altri ambiti del panorama italiano.

Gli alunni stranieri, sempre più numerosi e multietnici, hanno reso necessario un adeguamento della scuola ad una nuova realtà di plu-ralismo culturale attraverso inter-venti volti a favorire l’integrazione e l’interculturalità.

Un servizio statistico dell’ottobre 2012 del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca ha rilevato che nell’anno scolastico 2011/2012 circa il 73% del totale delle scuole ha una presenza per-centuale di alunni con cittadinan-za non italiana compresa tra uno e trenta. Ci sono scuole (quasi 1.000) che, per motivi logistici, di territo-rio e di disponibilità di offerta for-mativa, si trovano a dover accoglie-re una percentuale di stranieri che

supera il 40% degli alunni totali. A livello regionale questo fenomeno è maggiormente rilevante in Emilia Romagna, Lombardia e Piemonte.

Nell’anno scolastico 2011/2012 il numero degli alunni con cittadi-nanza non italiana è pari a 755.939 unità. Il rapporto degli alunni stra-nieri sul totale degli alunni è in continua crescita per ciascun ordi-ne di studio; nella scuola dell’ob-bligo ormai su 100 alunni 9 sono stranieri.

Gli stranieri residenti in provin-cia di Belluno al 1° gennaio 2011 sono  13.731  e rappresentano il 6,4% della popolazione residente. La comunità straniera più nume-rosa è quella proveniente dal Ma-rocco con il 14,6% di tutti gli stra-nieri presenti sul territorio, seguita dalla  Romania  (12,1%) e dall’Alba-nia (10,5%).

Nell’A.S. 2011-2012 a Belluno, gli alunni con cittadinanza non italia-na erano 2069: vediamo il dettaglio nella seguente statistica.

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Le previsioni in campo migra-torio sono gene-ralmente molto labili, anche a medio termine. Analizzando tut-tavia l’evoluzio-

ne in atto, è possibile individuare alcune direttrici e le problemati-che emergenti:•La linea di demarcazione tra mi-

grazioni internazionali e interre-gionali diventa sempre più labile e incerta.

•L’internazionalizzazione dell’emi-grazione rende necessaria una le-gislazione comune che armonizzi le varie tendenze e tenga conto delle esigenze delle persone.

•La ricerca di un nuovo ordine economico internazionale esige precise scelte per una equa di-

stribuzione dei beni della terra che possano frenare gli esodi: l’emigrazione diviene una que-stione etica.

•Si prospetta un ruolo più incisi-vo dei sistemi educativi e di in-formazione in un mondo sem-pre più pluralistico allo scopo di attrezzare gli alunni, siano essi figli di immigrati o di genitori autoctoni, a vivere in pienezza la mondialità, che è soprattutto uno sguardo, un modo di vivere la realtà, una visione del mondo, della famiglia umana globale in-tesa come una comunità di po-poli, piuttosto che come società di Stati-nazione.

•Acquistano una rilevanza sempre maggiore gli organismi sociali in-termedi (il privato sociale) come cerniera con l’apparato istitu-zionale e come input verso uno

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“stile di convivenza” fra diversi e la creazione di una controcultu-ra che tenga in debito conto gli “esclusi”.

•Dobbiamo tutti sentirci coinvolti nella battaglia in favore dei diritti umani.

•Siamo chiamati a riscoprire sem-pre più il valore dell’etnicità.

•Dobbiamo prendere atto del pas-saggio da diritti basati sulla con-cezione di Stato-nazione a diritti basati sulla residenza in un de-terminato luogo.

•Siamo chiamati ad approfondire la ricerca di valori comuni minimi ma indispensabili che sostengo-

no la vita di una società pluricul-turale.

Si stanno aprendo nuove vie al dia-logo interreligioso ed ecumeni-co: il passaggio da società mono-culturali a società pluriculturali deve essere interpretato come segno ed inizio di una più forte presenza di Dio tra gli uomini.

Conclusione

Se in passato la cultura occiden-tale ha risposto al problema della diversità con il principio della tol-leranza (che nasce dopo le guerre di religione e si afferma soprattutto

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con l’illuminismo borghese euro-peo), oggi tale principio non basta più perché la diversità non è più una eccezione nella nostra società.

Il nuovo contesto storico è carat-terizzato dalla presenza dei mille volti dell’altro: altri popoli, altre culture, altre religioni, altri gruppi etnici. Oggi la tolleranza non basta più perché la diversità è diventata la regola: occorre costruire una so-cietà basata sulla cooperazione per la convivenza di tutti.

Come ieri si è passati da uno spi-rito di ostilità e di scomunica allo spirito di tolleranza (grandissima acquisizione culturale, politica, eti-ca, religiosa, giuridica), così oggi dobbiamo passare da uno spirito di tolleranza a uno spirito di coo-

perazione, di condivisione.Ma questa nostra società non

sembra preparata o particolarmen-te predisposta alla “convivialità delle differenze” (Levinas), all’in-terculturalismo, all’interdipenden-za dei popoli, alla soluzione non-violenta dei conflitti, a un rapporto pacifico con la natura e l’ambiente circostante. Sembra essere finaliz-zata piuttosto alla più ampia omo-logazione delle identità. Il diverso è out. La differenza deve essere cancellata: non c’è posto per l’al-tro. Dobbiamo dunque sentirci tutti chiamati a una cultura della solidarietà per realizzare insieme una vera e propria cultura della “convivialità delle differenze”.

Ezio Del Favero

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Le comunità religiose degli immigrati costi-tuiscono una pre-senza sempre più visibile e social-mente rilevante. Per anni si è par-

lato soprattutto dei musulmani e dei centri di preghiera che sorge-vano come funghi in città che os-servavano sorprese e preoccupate questa nuova presenza. Ma oggi ad oltre un milione di musulmani si sono aggiunti almeno ottocen-tomila ortodossi che molto spes-so si riuniscono in chiese cattoli-che dismesse e circa trecentomila evangelici provenienti soprattutto dall’Africa occidentale, dalle Filip-pine, dalla Corea del Sud e da alcu-ni paesi dell’America Latina. Oltre ovviamente a molti altri credenti

sikh, induisti, buddhisti e così via.La storia ormai più che cente-

naria dei grandi flussi migratori ci insegna che la religione, le sue tradizioni e i suoi simboli, costitu-iscono dei beni preziosi che ogni migrante porta con sé che, spesso, rivaluta ed enfatizza proprio nel paese in cui finisce per stabilirsi. La religione costituisce dunque un importante elemento dell’identi-tà dei migranti, la radice forse più solida di una cultura e di una tra-dizione che, almeno all’inizio del loro percorso di integrazione, essi intendono proteggere con partico-lare determinazione. Idealmente, infatti, la religione aiuta a riconnet-tersi con quello che si è lasciato e ad affrontare l’impatto con nuove culture e nuovi comportamenti. Per migliaia di donne dell’est eu-ropeo, per fare un esempio, la par-

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rocchia ortodossa è uno dei pochi spazi di socializzazione e di ritrovo al di fuori degli ingranaggi di impe-gnativi lavori di cura.

Per molti immigrati la pratica reli-giosa e l’incontro con sorelle e fra-telli nella fede costituiscono quin-di una risorsa spirituale e sociale di primaria importanza.

Riconosciuta questa realtà, però, la storia dei processi migratori in-segna anche che le comunità reli-giose possono svolgere funzioni sociali molto diverse e talvolta di esito opposto. In qualche caso possono costituire un muro che paradossalmente rallenta il per-corso di integrazione: comunità

chiuse, impermeabili all’esterno, autocentrante, alimentano un’i-dentità statica, sempre uguale a se stessa, estranea se non antago-nista alla società circostante. Alcu-ne moschee nel Regno Unito ma anche molte chiese evangeliche, ad esempio nei paesi scandinavi, hanno finito per costituirsi come un muro di protezione ma anche di isolamento dal contesto sociale, con effetti drammatici dal punto di vista dell’integrazione. Ma, nel-la misura in cui riescono ad aprir-si all’esterno e a stabilire positive relazioni con le corrispettive real-tà italiane, le comunità religiose possono anche essere un ponte,

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un potente vettore di percorsi di integrazione ed inclusione sociale. L’intera esperienza di Essere chie-sa insieme, sia pure nella varietà e nella flessibilità dei modelli speri-mentati, va in questa direzione.

La novità di questa settimana è che il governo ha finalmente de-ciso di prendere atto di questa “ambiguità” del ruolo sociale delle comunità di fede degli immigrati, delle sue potenzialità ma anche dei rischi che essa porta con sé. Ed a questo riguardo, la decisione del ministro Riccardi di istituire una Conferenza permanente sul tema “Religioni, Cultura, Integrazione” costituisce una novità rilevante. Sbaglia chi pensa che con questo si vogliano “confessionalizzare” le politiche migratorie sottraendole a un pubblico confronto laico. Al contrario, la Conferenza affida alle

comunità di fede una decisiva fun-zione civile: il riconoscimento del loro ruolo sociale, infatti, implica che esse si attivino molto più di quanto hanno fatto sin qui per so-stenere percorsi di apprendimento della lingua, di promozione della cultura della legalità, di conoscen-za dei fondamenti costituzionali: in una parola, di “integrazione”. Alcu-ne comunità sono più pronte di al-tre a raccogliere questa sfida, altre saranno più lente e persino reti-centi. Ma vedere allo stesso tavolo cattolici e buddisti, sikh e ortodos-si, evangelici e buddhisti conferma quello che da anni è evidente: l’im-migrazione sta ridisegnando il pro-filo religioso dell’Italia ed è tempo che a questo cambiamento le isti-tuzioni garantiscano il dovuto rico-noscimento culturale e giuridico.

Paolo Naso

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Testimonianzedal mondo

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17 Notizie - N. 21

di don Aldo GiAzzonBrasilePrima che i sa-

cerdoti diocesa-ni Fidei Donum ed anche i Mis-sionari di varie Congregazioni giungessero in Brasile, i nostri

Emigranti alla fine ottocento han-no portato con le speranze di mi-gliorare la vita anche la fede vissuta in patria. Abbiamo molte testimo-nianze raccolte da numerosi viaggi che oggi i Bellunesi fanno al Sud del Brasile, negli Stati di Caxias do Sul, S. Caterina, S. Paolo e dai di-scendenti degli immigrati che con trepidazione ritornano nei territori dei loro antenati in Italia per co-noscere le città, le vallate, le mon-tagne, le canzoni, le tradizioni (le processioni... la polenta) traman-date dai bisnonni , dai nonni, fino ai nipoti.

Un esempio tra tanti. Una fami-glia Giazzon è partita per il Brasile verso il 1980. Come tante altre, si è moltiplicata enormemente, tanto da contare oggi circa 2000 perso-ne, sparse in varie parti del Brasile del Sud, in Brasilia, in Argentina e altrove. Ma quello che più stupisce è che nei primi tempi dall’arrivo in Brasile, dopo le costruzione di case di legno, si è pensato subito alla

chiesa che ha come titolare la pa-trona S. Giustina, oggi museo con all’interno foto ricordo, strumenti di lavoro portati dall’Italia, quadri di Santi di famiglia tirati fuori dai bauli insieme a quei quattro “strac-ci” che la gente portava con sé. Era il luogo di fede e di aggregazione dei Giazzon e di altri vicini. Intorno alla chiesa si facevano feste, pro-cessioni, danze. Possiamo contare molte di queste storie anche di al-tre famiglie bellunesi.

Con il trascorrere del tempo, la fede non si è affievolita.

Nei primi anni della mia vita mis-sionaria, nel tempo duro della dit-tatura militare (parlo del periodo 1965-1975) ho avuto in casa giova-ni provenienti dal Sud del Brasile, scampati dalla feroce persecuzio-

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ne di chi era contrario al regime. Con loro, nascosti in casa, più volte ho sostato in preghiera e nella ri-flessione della Parola di Dio. Erano discendenti di italiani (tra essi un Giazzon, che ho incontrati in Italia 40 anni dopo), con una fede viva trasmessa di padre in figlio. Inol-tre un movimento di evangelizza-zione rurale, sempre originario dal Sud Brasile, si è esteso fino al Nord Est brasiliano, creando comunità di base per lo sviluppo della fede, della giustizia e della riforma so-cio-politica.

Il Brasile, occupato dai porto-ghesi, è stato costretto a “farsi cri-stiano”, ad opera dei conquistatori che portavano con sé i missionari, i quali avevano la missione di cate-chizzare gli Indios e, più tardi, gli schiavi importati dall’Africa, per tre lunghi secoli.

Al mio arrivo in Brasile (1965), c’erano diocesi costituite in quasi tutto il territorio, meno nell’Amaz-zonia. Praticamente tutti erano “cristiani” o diciamo meglio “bat-tezzati”, così la mia azione pasto-rale nel Nord Est era di aiutarli a mantenere e far crescere in loro la fede e l’amore.

Lavorando in mezzo ai più po-veri, sentivo pure la necessità di stimolarli a chiedere i loro diritti, spesso calpestati da padroni senza scrupoli. Tanta gente senza casa, senza un pezzetto di terra, 90% analfabeti con una famiglia nume-rosa. Eppure c’era tanta serenità, soprattutto accoglienza e pazien-

za nelle avversità. Mi sono chiesto tante volte come il Buon Dio mi abbia dato questa grazia di vivere in mezzo a loro e imparare alcune virtù che forse non avrei acquisito rimanendo in Italia. Il non lamen-tarmi mai né del cibo, né del vesti-to, né del caldo, né del freddo, l’es-sere sobrio nello spendere, il non accumulare soldi o ricchezze, viver possibilmente guardando il bic-chiere mezzo pieno piuttosto che il mezzo vuoto e credere che la mi-sericordia vale più che la vendetta, come Gesù ha proclamato dalla croce: “Padre perdona loro, perché non sanno quello che fanno”.

Quante volte ho sentito gente maltrattata e trattata ingiustamen-te: “Mi appello alla giustizia di Dio: Dio sa come ho agito, la mia

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coscienza è tranquilla, non voglio odio, non mi va di vendicarmi.” Così si è forgiato il mio spirito alla scuola dei poveri, sotto la luce del-lo Spirito di Dio e dell’esempio di

Gesù Cristo.Ancor oggi la fede tramandata

dai primi emigranti sta reggendo nelle nuove generazioni, anche se non sappiamo fino a quando.

di Pedro

Mi chiamo Pedro, ho 29 anni e sono b r a s i l i a n o , del Paranà, regione sud del Brasile, sono sposato

con Joselaine dal 2007 e abitiamo in Italia dal 2008.

Quando sono arrivato qui è sta-to molto difficile: pur essendo di-scendenti da famiglie italiane, non conoscevo la lingua e ho dovuto affrontare tutto da solo, fino all’ar-rivo di Joselaine, nove mesi più tar-di. Nonostante tutte le difficoltà, abbiamo sempre avuto la certezza che avremmo raggiunto i nostri obiettivi, inoltre abbiamo sempre avuto molta fede in Dio.

Essendo di famiglia molto religio-sa, in Brasile, andavamo sempre a Messa, facevamo parte del gruppo dei giovani, partecipavamo ai ritiri spirituali, al “Carnevale di Cristo” (manifestazione religiosa dove si canta, si balla e si loda il Signore), alla novena di Natale… Con l’arri-

vo in Italia, abbiamo perso un po’ queste abitudini, però non abbia-mo mai abbandonato Dio.

Quando siamo arrivati a Belluno, grazie agli amici, abbiamo cono-sciuto Don Luigi, che avendo vis-suto in Brasile per oltre 30 anni, è il nostro appoggio qui in Italia, cono-sce le difficoltà che affrontiamo in Brasile, poiché anche lui ha vissuto situazioni simili: il doversi adattare a una terra straniera, di lingua, cul-tura e vita… diverse.

Lui celebra la Messa in porto-ghese, risuscitando in noi il ricor-do delle nostre origini, sempre ci dà forza, ed è sempre preoccupato per il nostro lavoro, pregando per ringraziare per chi lo ha e chieden-do sostegno a Dio per chi non ce l’ha.

Nonostante le difficoltà di riunir-si a fine anno, quando la maggior parte di noi torna in Brasile per le feste, due anni fa ci siamo organiz-zati e abbiamo realizzato la novena di Natale, in cui ogni sera una fami-glia offre la propria casa per incon-trarsi, si prega, si riflette e ci si pre-

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para per il Natale, proprio come si fa in Brasile. Alla fine della novena, abbiamo raccolto un po’ di cose da donare e ne abbiamo affidato a Don Luigi la consegna.

Nel nostro caso in particolare, Don Luigi ci ha dato tutto il suppor-to quando, tre anni fa, abbiamo fat-to la preparazione per battezzare la nostra nipote in Brasile, ha par-lato con il prete della parrocchia esponendo la situazione ed aiutan-doci nella preparazione e anche nella traduzione dei documenti. E, di nuovo, l’anno scorso ci ha gui-dato quando ci siamo preparati per

il nostro matrimonio religioso, che era rimasto in sospeso, essendoci sposati in comune prima di venire in Italia a causa dei documenti. Ci ha presentato a Don Angelo che ci ha preparato.

Oggi, quasi un anno dopo il no-stro matrimonio religioso, siamo molto felici, poiché ci stiamo pre-parando per un’altra tappa della nostra vita, forse, la più attesa e impegnativa di tutte, l’arrivo di un bebè, che viene per completare la nostra vita in una terra che era sco-nosciuta e ora con la grazia di Dio è anche casa nostra.

Brasile - Cascate di Iguazù nel Paranà.

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Testimonianza di Fabian Bran-dalise, nipote di immigrati feltrini in Argentina dopo la seconda guerra mondiale. Oggi i nonni sono morti,

il papà è Ministro della Comunione a S. Rafael e lui Insegnante di Religione nelle Scuole superiori a Mendoza.

Fede semplice…la fede dei nonni

Ecco come i miei nonni sono ar-rivati in Argentina: nell’anno 1948 è arrivato Gelindo Brandalise (se-condo il permesso di sbarco che conservo ancora) e l’anno seguen-te (secondo il biglietto che ancora conservo come tesoro familiare) Teresa Canal (Teresina) mia non-na e Primo Giovanni, mio papà. La famiglia si stabilì dopo un paio d’anni in una zona rurale chiamata “Colonia Tabanera”, a San Rafael, provincia di Mendoza.

Come hanno vissuto la fede a quell’epoca? Questo è soprattutto quanto scoprirò all’arrivo in Cielo. Per ora posso dire qualcosa che ri-cordo.

La Santa Messa

Da bambini, i fine settimana li tra-scorrevamo sempre a casa dei non-ni e mentre a casa nostra eravamo a 500 metri dalla Parrocchia, i miei nonni non avevano la chiesa vici-no, per cui, una volta al mese, un sacerdote andava per le confessio-ni e la celebrazione della Messa in una piccola scuola, molto povera, frequentata per la maggior parte dai figli degli immigrati del posto.

La messa del sabato pomeriggio era per un lato il momento dell’in-contro dei “paesani” e dall’altro lato occasione importante per non perdere il prezioso tesoro che ave-vano ricevuto pure loro dai loro padri: la fede e la vita sacramentale.

di FAbiAn brAndAliseArgentina

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Senza dubbio, nessuno di que-gli italiani rudi possedeva grandi nozioni di teologia, ma avevano certamente una chiara coscienza che l’uomo non nasce per restare in questa terra, ma, come diceva S. Teresina “Quien a Diòs tiene, nada le falta” (Chi ha Dio nel cuore, non gli manca nulla).Così queste cele-brazioni mensili diventarono un punto di riunione, ma anche di mutuo sostegno. Erano anni diffici-li, anni in cui Dio era spesso l’unico appoggio.

I Sacramenti per i figli

Vi racconto un fatto che ho sem-pre ricordato, sia per averlo ricevu-to oralmente, sia perché mi sem-bra sia quello che rivela meglio la responsabilità dei miei nonni ri-guardo alla fede.

Già dissi che nella zona dove vi-vevano i miei nonni non c’era una parrocchia vicina. Allora in quegli anni si organizzò in quell’area una Missione Popolare e questa fu l’oc-casione che diede opportunità a

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mio papà di fare la sua Prima Co-munione. Qualche anno più tardi, quando mio papà non aveva anco-ra 13 anni, mia nonna decise di por-tarlo alla chiesa Cattedrale, distan-te circa 20 km da casa, per parlare con il parroco e concordare come poter ricevere la Cresima. Fu così che il sacerdote le diede un bellis-simo libro sulla Storia della Salvez-za e subito dopo aver comprovato la “scienza teologica” del bambino, mio papà ha potuto concludere la Iniziazione Cristiana.

Cos’è che mi ha sempre impres-sionato di questo fatto? Fu la pre-occupazione di mia nonna che il suo unico figlio, superando le di-stanze, i tempi e gli inconvenienti, ricevesse una formazione sacra-mentale come ogni buon cristia-no. Ma quanti oggi giorno si sono allontanati dai Sacramenti, special-mente dall’Eucaristia e vivono lon-tani da Cristo per indifferenza!

Pregare a fine giornata

C’è poi anche mio nonno, lavo-ratore instancabile nella piccola te-nuta che aveva, che terminava tutte le sue giornate davanti alle imma-gini religiose della casa e, facendo un piccolo pellegrinaggio per le diverse “stazioni” pregava prima davanti all’immagine della Vergine di Lourdes che aveva esposta affin-

ché vigilasse sulle viti, subito dopo, davanti al Sacro Cuore e all’imman-cabile Santo Antonio di Padova che aveva segnato profondamente la fede di tutti e due.

Ogni volta che ricordo questa abitudine così tradizionale e così abbandonata oggi, penso ai miei nonni e al modo con cui si rappor-tavano a Dio e alla Santa Madre.

Verso la fine della vita, la nonna, ormai sola e accolta nella nostra casa, passava lunghi momenti con il “devozionario” in italiano, cer-cando così di dar senso alla sua solitudine di anziana vedova e allo stesso tempo preparandosi all’in-contro finale col Padre. Questo, purtroppo, l’ho scoperto più tardi, quando lei era già in cielo: aprendo il suo libro di preghiere ho potuto vedere quelle che lei segnava: fra esse una molto bella di preparazio-ne alla Buona Morte.

Certamente la testimonianza di fede va molto oltre questi pochi ricordi. Ci sono cose che si espri-mono con il silenzio di uno sguar-do (ricordo per es. con quale no-stalgia ci parlava delle feste del Corpus Domini nella sua Bella Ita-lia!)… Ma in conclusione, la fede è anche questo: un mistero che comprendiamo poco a poco fino ad arrivare in Cielo dove potremo contemplare faccia a faccia Colui che ci ha creato per Lui!

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Quel giovane nigeriano che staziona spesso all’ingresso di un supermercato cittadino, lo ab-biamo spesso in-contrato, anche lontano dal suo “posto di lavoro”

e subito si fermava a parlare. È in-negabile che tra noi, mia moglie ed io e lui, si sia instaurato un rap-porto di reciproca simpatia. Gior-ni fa sono andato a fare la spesa ed egli, vedendomi da solo, ha subi-to chiesto, con aria preoccupata: «Non c’è mamma?». L’ho subito rassicurato.

Domenica scorsa abbiamo avuto un’altra sorpresa.

Lo incontriamo nuovamente: è vestito con una camicia immacola-ta, sopra un paio di pantaloni scuri e tiene tra le mani una cartellina.

Ha l’aria molto allegra e ci co-munica che sta andando ad una funzione religiosa organizzata da un gruppo evangelico cristiano, presente in città. «È molto bello essere cristiani! - ci comunica, poi prosegue – il trovarsi tutti assieme per pregare e cantare è veramen-te una festa». Il suo entusiasmo è contagioso e ci sentiamo più alle-

gri anche noi.Quando se ne va, cominciamo

a porci nuovamente alcune do-mande che spesso ci siamo posti: perché qui da noi c’è tutto questo malanimo nei confronti di queste persone che vengono da lontano in cerca di lavoro e di un po’ di pace? La maggioranza delle per-sone che entrano in argomento si dimostrano, più che altro, disposti a mandare via, in malo modo, tut-ti questi, facendo d’ogni erba un fascio.

Eppure da questa nostra provin-cia sono sempre partite moltissi-me persone che, per sfuggire alla miseria si sono recate all’estero. Non credo ci sia famiglia, nel bel-lunese, che non abbia avuto alme-no un parente che si sia trovato nella condizione di emigrare e, quando se ne parla, non ce n’è uno

di MArio botteGAlNigeria

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Charles e il coraggiodi combattere le streghe

Charles viene a chiedermi, per l’ennesima volta, di partire a Ka-nawolo con lui. Vorrebbe che an-dassimo nel suo villaggio natale, al nord, in una regione più arida e più povera della nostra, per farmi conoscere i “suoi” centosettanta-cinque scout.

Un giorno Charles mi chiede il permesso di fondare un gruppo scout nel suo villaggio. Mi dice: «Sai, a Sakassou ho fatto l’espe-rienza del gruppo, ho gustato la gioia e l’armonia, ho visto l’impe-gno nel lavoro e nello spirito di servizio, nei gesti e nei progetti dei “tuoi” scout cattolici, ho scoperto uno scoutismo veramente bello e

grande, una vera e propria famiglia; direi che il Signore mi ha fatto arri-vare alle sorgenti dello scoutismo ivoriano per indicarmi il cammino del successo!

Da sempre avrei voluto diventa-re scout: da piccolo per “giocare a far il soldatino”; a sedici anni per

di don ezio del FAveroCosta d’Avorio

che non racconti storie di mala ac-coglienza. Sì, davano il lavoro ma non comprensione e tanto meno amicizia o simpatia. E allora? Per-ché non essere più disponibili nei confronti di questi nostri fratelli che non chiedono nulla di più di quanto chiedevano i nostri nonni o padri o parenti, in epoche non proprio lontanissime?

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fondare un gruppo scout a Ka-nawolo, ma senza cognizione di causa... Oggi, con i miei vent’anni, lo scoutismo è diventato realtà, un sogno in parte realizzato, un bene più importante del mio stesso “io”, una realtà magnifica, parte inte-grante di me stesso. So solo che, se non fossi scout, non sarei così a mio agio ovunque, anche quando ho fame. La mia storia è cambiata in meglio. Adesso mi sento riem-pito di fede, ho una grande voglia di scoprire, di lottare, di vivere... e grazie a voi, riesco finalmente a superare difficoltà prima insor-montabili, perché mi impongo di farcela.

Mia nonna è la strega del villag-gio... Quando abitavo con lei, ho visto ogni genere di stregoneria: la stregoneria incute paura, abitua alla falsità, rende schiavi.

Penso spesso ai giovani rimasti al villaggio, vittime dell’ignoran-za, della miseria, dei feticci e del-la stregoneria. E così mi metto a sognare. Vorrei che quei giovani vivessero liberi, che ritrovassero la dignità e la possibilità di uscire dalla miseria e dalle paure: che fos-sero felici! Mi sono allora chiesto: “Che cosa posso fare io?”.

Ho cercato possibili soluzioni, oggi penso proprio di averne tro-vata una, più forte della magia e delle paure: lo scoutismo, quello che avvicina al Dio che salva...

Lo scoutismo potrebbe infatti sconfiggere l’ignoranza, con i suoi corsi di alfabetizzazione e le aper-ture “senza frontiere”; potrebbe debellare i feticci, sinonimi di fal-sità e di ignoranza, proponendo il Dio buono dei cristiani; potreb-be aiutare a uscire dalla melma del sottosviluppo e della miseria, con le sue proposte concrete di sviluppo socio-sanitario; potreb-be sconfiggere paure attraverso il coraggio esplosivo del camminare insieme...».

Charles, per l’ennesima volta mi supplica di partire a Kanawolo per i suoi scout; mi aspettano per ripe-termi “dal vivo” quella splendida frase scrittami a Natale: “Grazie, fi-glio del Dio buono!”.

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Emile,il miracolo della rinascita

«Voglio risparmiare i soldi dei polli per il giorno del mio battesimo, per comprarmi un paio di pantaloni e una camicia...».

Avevo un vestito “giacca-pantalo-ni” col quale ero arrivato dall’Italia nel giugno del 1990. «Prendi, Emi-le... vai, prima che mi penta!».

Ero proprio fiero di lui... Con-tento di poter dare a quel giovane così caro un regalo importante per il giorno più significativo della sua vita.

Prima che Emile se ne vada, gli chiedo di raccontarmi ancora una volta la sua storia... Emile si mette a raccontare: «Ero uno dei tanti. Pie-no di sogni e una grande voglia di tentare la fortuna. Dopo la scuola, ho provato l’ebbrezza della città, lì ho imparato a fare il male e ho sperimentato momenti di grande delusione. Gli anni passavano ed io rimbambivo, ero sempre più po-vero, senza lavoro, senza neanche più sogni e prospettive. Rimasi or-fano. Decisi un giorno di ritornare al villaggio. La vita là era dura: la-voro nei campi, qualche partita di calcio la domenica, qualche festa popolare. Io mi sentivo profonda-mente scontento.

Un giorno “per caso”, Koffi mi parla della sua esperienza scout. Koffi, l’avevo conosciuto al mer-cato. Eravamo diventati amici per un piccione. La zia con cui abitavo non mi dava quasi nulla da mangia-

re ed io ero obbligato ad allevare piccioni e porcellini d’India per tacitare lo stomaco. Quel giorno avevo portato un paio di piccioni al mercato per venderli. Koffi, scher-zando, mi aveva chiesto di arrostir-li sul posto. Così feci; quel giorno diventammo amici e Koffì mi tra-smise il virus contagioso di nome “scoutismo”... Due giorni dopo sono venuto da voi...».

Insisto con Emile, che continui la storia... E lui, senza farsi pregare, racconta: «Ho avuto quasi subito dei posti di responsabilità nel vo-stro scoutismo, fino a diventare, un anno dopo, responsabile di zona per la branca esploratori. Ho cominciato nello stesso momento, il catecumenato. E pensare che ero riuscito per quasi trent’anni a sfug-gire ai preti e ai missionari! Poi, grazie a un pollaio, costruito insie-me a un gruppo di scout francesi, ho potuto trovare un po’ di lavoro alla Missione. Ho abbandonato la vita amorfa del villaggio, con le sue abitudini a volte selvagge, i suoi ritmi lenti sino a diventare insigni-ficanti, le stagioni con i loro magri raccolti, l’assenza d’interessi e di prospettive, per dedicarmi a tem-po pieno allo scoutismo. Ho aper-to nuovi gruppi scout: Awe Kansin, N’Gressan Pokoukro, Appiakro, Kpangbassou, Mandeké, Assrikro; ho cominciato a seguire, almeno una volta la settimana, gli scout di Andofué Bonou, Alloko Djekro, Andobo, Sakassou... e a insegnare il catechismo. In quel periodo ave-

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vo completamente cambiato le mie abitudini: mi sforzavo di mettere in pratica i valori dello scoutismo e di vivere i dieci comandamenti (...tutti e dieci!) e ho imparato ad accontentarmi, a condividere, a ri-spettare le ragazze, a controllarmi, a rendermi disponibile. Per la pri-ma volta in vita mia, mi sono sen-tito felice... Poi ho conosciuto una ragazza, una “vostra” guida, diversa da quelle di prima... Se Dio lo vuo-le, proveremo ad amarci in modo cristiano».

Emile ancora non sa che sto per

proporgli la direzione della nuova base scout di Yablassou, un centro di formazione capi e un laborato-rio di formazione professionale per insegnare a lavorare il legno, il ferro, il cuoio...

Sto per battezzare “chef” Emile... Il vestito e la cravatta parlano di di-gnità conquistata, gli occhi lucidi dicono gioia, la ragazza lì accan-to e i responsabili scout presenti aspettano solo di abbracciarlo e di far festa al loro caro Emile, rinato a trentatré anni per una sorta di mi-racolo...

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«Ma ogni volta deve fare questa stra-da?» penso tra me. Don Bru-no Soppelsa sta guidando il fuoristra-da, cercando

di evitare i punti più sconnessi, e individuando le zone con mag-gior aderenza. La destinazione è Maeme, un villaggio dei monti, nel nord della Thailandia, dove vivono un ventina di famiglie che vengo-no sostenute dal Centro Missiona-rio di Belluno-Feltre tramite alcune adozioni a distanza di benefattori bellunesi.

La cintura è allacciata, quindi non c’è la possibilità che io ven-ga disarcionato dal sedile e la mia fotocamera è bene stretta tra le mani. Don Bruno mi racconta, mi parla di questo villaggio, dell’im-pegno che comporta, ma anche della felicità che respira ogni volta che vi si reca.

Ascolto, imitando la sua tranquil-lità, come se la fossa di 40 cm appe-na superata fosse anche per me la quotidianità.

Tra le fronde della vegetazione intravedo alcuni tetti. Siamo arri-vati!

di Josè soccAlThailandia

MDon Bruno scende dall’auto e

corre incontro a dei bambini. Non è l’Africa dove ha vissuto per mol-ti anni. Qui le persone hanno una relazione interpersonale molto differente, anche nella forma. Una sorta di rispetto e di postura che crea una distanza tra le persone. Il contatto non è auspicabile, non è l’abbraccio brasiliano e non è nemmeno il tris di baci ivoriano, è solamente l’unione delle mani e un inchino verso le persone che incontri. Che difficile che dev’es-sere, penso. È vero che siamo bel-lunesi, e di noi dicono che siamo

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chiusi, ma quando vuoi bene a delle persone è naturale andare verso di loro con un contatto. Don Bruno poi… lo conosco da anni ed è esattamente il contrario del mo-dello thailandese, quando lo incontri dopo mesi di assen-za è una morsa, che si traduce tramite un bell’abbraccio che esprime tutto il suo affetto e la sua riconoscenza. Avrà dovuto rivedere il suo atteggiamento comportamentale, penso.

Una donna si av-vicina e don Bruno unisce le sue mani in segno di saluto, lei fa altrettanto. Un sorriso, che viene ricambiato, e una mano che si tende verso di lei. “No, no, don Bruno non farlo!” penso io, in Thailandia non fun-ziona così. La donna prende la sua mano e si mette a ridere. Io osser-vo da spettatore, dietro l’obiettivo della mia fotocamera, che un po’ mi nasconde e che mi permette di prendere tempo per decidere su come comportarmi.

In questi anni ho sentito mol-te volte parlare di inculturazione, di un modello di vita che sia ade-

rente alle tradizioni locali, e che non destabilizzi i valori presenti in ogni popolo. Ripenso anche però al modello dello scambio, dove culture differenti si incontrano e si arricchiscono. Che bello penso io, che bello pensare che i nostri missionari esprimano anche con piccoli gesti la loro storia, non la rinneghino perché inseriti in un contesto differente. Una condivi-sione di vite differenti.

Lo scambio diventa tale quando sappiamo individuare in esso il

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valore della differenza. Mi rendo conto che spesso però le diversità vengono ritenute come difficoltà e facciamo fatica a darne una con-notazione positiva. Per tutti noi, ogni giorno è più semplice acco-gliere ed apprezzare chi è simile a noi, proprio perché abbiamo il nostro naturale biso-gno di riconoscerci ed avere un’identità. Non c’è dubbio però che costruire legami con persone diverse da noi fa barcollare le nostre certezze. È difficile ascoltare una persona che ha una posizione politica di-versa dalla nostra, o che crede in un Dio che non è quello che noi preghia-mo, ma è solo aprendosi al dialo-go che si può scoprire la bellezza dello scambio di opinioni ed espe-rienze che permette di conoscere gli altri e averne rispetto.

La conversazione tra i due prose-gue e sembra che sia anche diver-

tente, perché continuano a ridere.Sono così felice di vedere che

don Bruno non solo sia in grado di esprimersi con la lingua Thai, ma riesca anche a tenere una conver-sazione che avvicina le persone.

Nell’obiettivo della fotocamera appare un’immagine, dentro di me

penso «su Josè muo-viti, metti a fuoco e scatta prima che que-sta cartolina svani-sca nei tuoi ricordi». L’immagine mi appa-re in anteprima è don Bruno e una donna dei monti che si dan-no la mano. Quando tornerò a casa do-vrò proprio spiegare questa situazione.

Don Bruno mi guarda e mi dice: “dai andiamo”.

Proseguo lungo il sentiero, e mi viene da ridere, immaginandomi don Bruno quando tornerà in Ita-lia se mi saluterà unendo le mani? Ma… speriamo che mi dia il solito affettuoso abbraccio!

Bello pensare che i nostri missionari esprimano anche con piccoli gesti la loro storia, non la rinneghino perché inseriti in un conte-sto differente.

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Io sono Gasper Gojcaj, sono albane-se, arrivato in Italia nel 1991.

In Albania sono stato ufficiale militare del si-stema comunista ditta-toriale.

Nella scuola mi han-no insegnato sempre che la fede e la religione sono l’oppio per i popoli e sono inventate per man-tenere il potere delle oligarchie e delle classi ricche e sono a danno delle classi povere e del proletaria-to.

Quando sono arrivato in Italia ho cominciato una vita normale da operaio con tutte le difficoltà che uno può trovare fuori dalla patria e lontano dai suoi parenti, prati-camente ho cominciato un’altra vita. Il mio lavoro era ed è ancora oggi rocciatore e disgaggiatore, che consiste nella protezione del-le strade dalle cadute delle frane o dei massi.

Non voglio dilungarmi tanto sul mio mestiere, ma voglio racconta-re come e quando ho incontrato Gesù, la Fede in Lui ed il suo Amo-re. Però, prima di questo evento, io ho sempre avuto il desiderio di conoscere il senso della vita, della morte, l’esistenza del bene e del

male, e la mia convinzione mi por-tava sempre a credere che c’è Dio, anche se mi avevano insegnato il contrario. Pensavo che Dio fosse in cielo, lontano da noi, che fosse un giudice invisibile.

In quei tempi io non ero ancora battezzato. Ero sposato in comune e non avevo ancora figli. Nel frat-tempo il sistema comunista in Al-bania era cambiato, e con questo anche la libertà religiosa.

Mi ricordo che quando sono andato in Albania a trovare i miei famigliari, in un discorso sulla reli-gione cattolica, mio fratello mi dis-se che sarebbe stato importante che io mi battezzassi in chiesa, e io

di GAsPer GoJcAJAlbania

I

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gli dissi come mai fosse stato così importante. Mi rispose: «Sì perché chi si battezza in chiesa diventa fi-glio di Dio».

Sono tornato in Italia con questo pensiero e anche un po’ di timore.

In quel tempo abitavo a Laste e come parroco c’era don Luigi Del Favero.

Io e il mio amico Marco (nean-che lui aveva ancora ricevuto il battesimo) gli chiedemmo se era possibile ricevere il battesimo da lui nella chiesa di Laste. Lui con-tento ci rispose di sì. Dopo un po’ di tempo di catechesi e di docu-menti che ci ha chiesto dall’Alba-nia, eravamo pronti per il battesi-mo. Così io e il mio amico Marco siamo stati battezzati nella Veglia

Pasquale del 1999, e nella stessa notte abbiamo fatto la Comunio-ne, e ci siamo sposati in chiesa con le nostre mogli.

Da quel momento la mia vita è cambiata e all’improvviso mi è arri-vata la fame per la Parola di Dio: ho cominciato a leggere il Vangelo, le scritture dei santi, ascoltare radio Maria e andare a Messa. Poi anche la paura per il futuro è cominciata a sparire. Però all’inizio ho avuto difficoltà a capire e concepire su-bito tutta la profondità della paro-la di Dio. Questa veniva radicata nel profondo del cuore con la pre-ghiera e con il passare del tempo. Dopo un po’, ho cominciato a par-lare anche con altri e ad esprimere la mia fede, tante volte anche con

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toni forti e magari inopportuni. Questo lo facevo perché mi trova-vo in una situazione spirituale che prima non avevo mai sperimenta-to.

La luce di Cristo aveva toccato anche me. Ero pronto a fare qual-siasi cosa per Lui. Però con il tem-po ho capito che Gesù non preten-de cose straordinarie da noi, Lui vuole solo che quan-do conosciamo il suo Amore, nel suo nome facciamo piccole cose fatte con il cuore aper-to verso Lui. Gesù ha un progetto d’amore su ognuno di noi.

Dopo tutte queste cose che mi stavano succedendo sono arrivati i grandi doni di Dio che sono i figli. Prima Silvia e dopo Matteo. Una grande gioia è scoppiata nel mio cuore. Guardavo e amavo il dono e pen-savo al Donatore. Tante volte chie-devo a Gesù, perché tutto questo privilegio a un peccatore?

Poi leggendo il Vangelo mi ri-spondeva: «ho dato il mio Corpo e il mio Sangue per la salvezza dei peccatori». Questo Amore di Gesù verso di me e verso tutti l’ho provato ancora di più quando ho cominciato a pregare con il cuore e in quel momento ho capito che lo Spirito Santo stava lavorando su di me. Guardavo Gesù crocefisso, piangevo e pregavo, trovavo da-vanti a me un Amore così grande che era inconcepibile per me e

rimanevo scioccato, mi rimaneva solo l’adorazione e la preghiera di ringraziamento. Adesso che sono genitore anch’io, mi succede spes-so quando arriva mio figlio Matteo e mi chiede qualche cosa da com-prargli o da fare per lui, però so che questa cosa non gli fa bene e gli dico di no. Lui mi risponde: da adesso in poi non ti voglio più

bene. Dopo un po’ di tempo dimentica quel che avevo detto prima e mi chiede di giocare con lui. In quel mo-mento il cuore mi si riapre e subito penso a Dio e prego: «Grazie Padre Santo che mi hai dato la possibilità

di essere padre, e io sono un pec-catore e sento una grande gioia quando mio figlio torna da me, quanto più grande è la tua gioia, “Tu che sei fonte di ogni Amore” quando i figli allontanati tornano a te. “Padre Santo fai in modo che quando ci allontaniamo da Te per i nostri capricci o desideri monda-ni, torniamo sempre da Te, Tu che sei solo nostra vera gioia e vera vita.”»

Io ho raccontato questa espe-rienza della mia fede; però questa esperienza non passa senza tenta-zioni, scoraggiamenti e difficoltà. In questo cammino ti trovi sempre nelle quotidiane, piccole o grandi sofferenze, nelle tentazioni del de-monio delle vanità mondane, delle tentazioni della carne, ma l’amore

L’amore di Gesù è più forte della nostra debolezza umana e ci da la forza per supera-re le difficoltà.

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di Gesù è più forte della nostra de-bolezza umana e ci da la forza per superarle. In questa esperienza di fede ci sono anche i momenti bui e in questi momenti Gesù lavo-ra ancora di più per farci alzare e camminare insieme a Lui. Mi ricor-do ancora una frase del Vangelo di Luca dove Gesù aveva guarito un malato un giorno di sabato che se-condo la Legge d’epoca era proi-bito. E dice ai dottori della legge e ai farisei: “chi di voi se ha un asino o un bue che cadono in un pozzo non va a tirarli fuori in un giorno di sabato?» Gesù ama tanto gli uo-mini che fa gli straordinari per farli alzare e camminare con Lui. Nella frase del Vangelo io mi paragono più come asino che come bue. E quando è capitato che sono cadu-to, vado in chiesa e dico: «Gesù, l’asino è caduto e solo tu lo puoi tirare fuori».

A proposito dei momenti bui o sofferenze chiediamo alla Santa Vergine Maria, Madre di Gesù e Madre nostra che in questi mo-menti ci faccia ricordare le soffe-renze sulla Croce e la sua soffe-renza sotto i piedi della Croce.

Tu Madre Santa che eri destinata a diventare Regina del Cielo, degli

Angeli e dei Santi, hai provato la sofferenza estrema di tuo figlio e la tua sofferenza, cosa possiamo dire noi poveri peccatori? Possiamo dire solo di pregare per noi, che questi momenti non ci separino dall’Amore del tuo Figlio e dall’a-more tuo. Insegnaci, Madre Santa, a rimanere fedeli a Tuo Figlio.

Tante volte provare il peso della Croce di Cristo non ci piace, però è l’unica via che ci porta all’amore divino, perché non saremo capaci di arrivare puri, se non ci liberiamo del tutto dell’uomo vecchio che è ancora in noi, che è la natura uma-na. Questo può farlo solo Dio, na-turalmente con un piccolo sforzo da parte nostra per amore Suo.

Adesso non voglio fare una fi-gura di santo, perché sono ancora lontano e, come ho detto prima, sono un asino, volevo solo dare una piccola testimonianza della mia fede.

Prima di concludere volevo rin-graziare don Luigi Del Favero che tramite lui ho avuto il primo incon-tro con Cristo e la sua Parola e pre-go Dio che ci dia sempre i pastori che rispecchiano il volto di Cristo in noi.

Grazie a Dio e grazie a voi.

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Le giornate iniziavano ad ac-corciarsi e fuori era ormai buio. Maruja stava ri-sistemando la cucina dopo la cena e con la coda dell’occhio

vigilava i due bambini che saltavano lungo i corridoi della casa.

Uno straccio le asciugava le mani. Quante volte, da adolescente, era dovuta andare al fiume per lavare i vestitini dei fratelli e delle sorelle minori. Un grande fiume, infatti, at-traversava la valle dove era nata, uno zona arida di per sé ma confortata da quel prezioso attraversamento che rendeva la terra fertile. La fatica di alzarsi all’alba e andare nei cam-pi con il papà. La fonte di sostenta-mento della popolazione era la bar-babietola di cui non gettavano nulla. Una piccola parte di questa era de-stinata anche alla loro famiglia.

Che felicità però quando tornava a casa, la mamma la accoglieva e, dopo averle lavato rigorosamente le mani, le consegnava i fratellini più piccoli con i quali avrebbe trascorso il pomeriggio. I bambini dove sono? Ah eccoli lì: «no, state lontani dalla stufa, va a finire che vi fate male…».

La quotidianità improvvisamente

riportò Maruja alla realtà: «su dai ve-nite qui che vi devo insegnare una cosa». Tutto era iniziato in seguito alla visita famigliare del parroco per benedire la casa, un santino le era stato lasciato, una rappresentazione dei Santi Quirico e Giulitta, e sul re-tro la preghiera del “Padre nostro”. Aveva avuto difficoltà durante l’ora-zione, non la conosceva in italiano e l’imbarazzo si era manifestato nel-la maniera più facile per lei con un rossore che le aveva invaso il viso e, per quanto cercasse di nasconderlo, era molto evidente. Il prete aveva tranquillizzato la donna e al mo-mento dell’offerta le aveva detto «li tenga per i suoi bambini».

La cosa l’aveva colpita molto e si era ripromessa che la volta seguen-te non avrebbe voluto deludere questo bravo prete. Per alcune sere si era esercitata nel pronunciare e

di Josè soccAlSpagna

L

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nel cercare di ricordare a memoria la preghiera. Era il momento giusto, i bambini erano tranquilli, ormai stanchi per la giornata trascorsa a correre e saltare. Prese la sedia e si avvicinò alla stufa, per approfitta-re del suo tepore. «Su, dai, uno per gamba». I due bambini entusiasti si erano seduti sulle ginocchia della mamma, la quale per evitare errori aveva preso con sé il santino. «Ora vi devo insegnare una preghiera, che mia mamma ha insegnato a me quando ero piccola, parla di Gesù e di suo papà. Sapete chi era Gesù? Allora…».

Così erano trascorsi molti minuti e i bambini erano affascinati dal rac-conto della mamma, che sembrava non ricordarsi più l’obiettivo che sia era prefisso. «E così Gesù ci ha detto che abbiamo lo stesso papà, e ci ha insegnato a rivolgersi a lui così: Pa-

dre nuestro, anzi Padre nostro, che estai, no… che stai…».

Tutte quelle sere trascorse nel cer-care di ricordarsi la versione italiana erano state vane, proprio adesso che avrebbe voluto trasmettere ai fi-gli la Preghiera! Maruja si fermò un attimo e guardando Robert e José, come solo una mamma può guarda-re i suoi figli disse: «va bene, ve la insegno come sono capace io: “Pa-dre nuestro, que estás en el cielo, santificado sea tu Nombre; venga a nosotros tu reino; hágase tu volun-tad en la tierra como en el cielo. Danos hoy nuestro pan de cada día; perdona nuestras ofensas, como también nosotros perdonamos a los que nos ofenden; no nos dejes caer en la tentación, y líbranos del mal. Amén”»

In fondo, cara mamma, era lo stes-so!

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Riflessioni e preghiereLa preghiera del migranteTomba acqua di mare

Madre acqua che ci hai generatoNon punirci per averti abbandonata ingrati miliardi d’anni faNuotavamo felici tra le tue acque trasparentima spinti dall’avventura siamo partitiper esplorare e popolare terre emerse.Ricordati che siamo sempre tuoi figli.Aiutaci ad attraversare le tue acque senza morireNon scatenare tempeste o giorni infuocatiAccompagnaci con un dolce ventoche ci porti salvi verso l’Europadove nessuno muore di fameNon farci vagare per giorni o mesisenza sapere più dove siamoAddolcisci le tue acque se abbiamo seteFai volare qualche pesce sul barcone se abbiamo fameRidai un po’ d’umanità a chi comanda le grandi naviche appena ci vedono si allontananoDai luce a chi ci odia senza motivoa chi scatena la paura contro di noie ci fa apparire mostri terribili.Siamo solo poveri disperatiin cerca di vita miglioreMa se proprio non vuoi far questocullaci con dolcezza tra le tue bracciaprendici quando stiamo dormendoo dilaniati da fame e stanchezza.Che almeno la morte ci sia umana.

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Preghiera di un missionarioRenato Zilio, Il vangelo dei migrantiOgni mattino,quando mi alzo, Signore,riprendo a respirare e ti dico graziedi avermi fatto missionario di un popolo che cammina.

Perché vivendo in emigrazionemi hai insegnato ad avere compassionedi uomini, di donne, di intere comunità che emigranocon i loro piedi, con la loro testa e il loro cuore,e con tutti i drammi che li inseguono ovunque,con una fede e un coraggio a volte ben più grandi dei miei.

Lungo i confini di culture, di lingue o di religioni differenti,mi hai insegnato ad avanzare con la tua stessa libertà,che relativizzava ogni cosa e ogni idea,anche la legge santa di Israele, perfino il giorno sacro a Dio.Perché uno solo per te era l’assoluto: Dio stesso e il suo misteroche segretamente accompagna la vita di ogni essere umanoa qualsiasi razza, cultura o lingua appartenga,ed era questo il tuo insegnamento più bello.

Così ho imparato a non dettare mai legge,a non impormi a nessuno, a non predicare alla gente,ma semplicemente a parlare al loro cuore.Perché è proprio là che tu ci attendiper trasformarci in tuoi veri discepoli,che ancora oggi sanno rifare la strada di Emmaus,dove lo straniero si aggiunge, come allora, per caso...

Ma, in fondo, Signore, sei sempre tu lo stranieroche i nostri passi accompagnano,ed è verso il tuo Regno che essi ci portanonel costruire un mondo più aperto, più grande e fraterno;è la fede di Abramo che viviamo in questo camminare infinito,che impedisce alle nostre dimore e alle nostre certezzedi farsi eterne come fortezze.Tutti siamo migranti e in cammino verso di te, Signore,che esisti nella meraviglia dei secoli. Amen!

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Fratello marocchino. Perdonami se ti chiamo così, anche se col Maroc-co non hai nulla da spartire. Ma tu sai che qui da noi, verniciandolo di disprezzo, diamo il nome di maroc-chino a tutti gli infelici come te, che vanno in giro per le strade, coperti di stuoie e di tappeti, lanciando ogni tanto quel grido, non si sa bene se di richiamo o di sofferenza: tapis!

La gente non conosce nulla della tua terra. Poco le importa se sei della Somalia o dell’Eritrea, dell’Etiopia o di Capo Verde. A che serve? Il mondo ti è indifferente.

Dimmi marocchino. Ma sotto quella pelle scura hai un’anima pure tu? Quando rannicchiato nella tua macchina consumi un pasto veloce, qualche volta versi anche tu lacrime amare nella scodella? Conti anche tu i soldi la sera come facevano un tem-po i nostri emigranti? E a fine mese mandi a casa pure tu i poveri rispar-mi, immaginandoti la gioia di chi li riceverà? È viva tua madre? La sera dice anche lei le orazioni per il figlio lontano e invoca Allah, guardando i minareti del villaggio addormenta-to? Scrivi anche tu lettere d’amore? Dici anche tu alla tua donna che sei stanco, ma che un giorno tornerai e le costruirai un tukul tutto per lei, ai margini del deserto o a ridosso della

brughiera?Mio caro fratello, perdonaci. Anche

a nome di tutti gli emigrati clandesti-ni come te, che sono penetrati in Ita-lia, con le astuzie della disperazione, e ora sopravvivono adattandosi ai lavo-ri più umili. Sfruttati, sottopagati, ri-cattati, sono costretti al silenzio sotto la minaccia di improvvise denunce, che farebbero immediatamente scat-tare il “foglio di via” obbligatorio.

Perdonaci, fratello marocchino, se noi cristiani non ti diamo neppure l’ospitalità della soglia. Se nei giorni di festa, non ti abbiamo braccato per condurti a mensa con noi. Se a mez-zogiorno ti abbiamo lasciato sulla piazza, deserta dopo la fiera, a man-giare in solitudine le olive nere della tua miseria.

Perdona soprattutto me che non ti ho fermato per chiederti come stai. Se leggi fedelmente il Corano. Se osservi scrupolosamente le norme di Maometto. Se hai bisogno di un luogo dove poter riassaporare, con i tuoi fratelli di fede e di sventura, i silenzi misteriosi della tua moschea. Perdonaci, fratello marocchino. Un giorno, quando nel cielo incontrere-mo il nostro Dio, questo infaticabile viandante sulle strade della terra, ci accorgeremo con sorpresa che egli ha... il colore della tua pelle.

Lettera al “fratello marocchino”tonino Bello

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Dal messaggio per la Giornata Migrantes 2014PaPa FRancesco

…Penso a come anche la Santa Fa-miglia di Nazaret abbia vissuto l’e-sperienza del rifiuto all’inizio del suo cammino: Maria «diede alla luce il suo primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2,7). Anzi, Gesù, Maria e Giu-seppe hanno sperimentato che cosa significhi lasciare la propria terra ed essere migranti: minacciati dalla sete di potere di Erode, furono costretti a fuggire e a rifugiarsi in Egitto (cfr Mt 2,13-14). Ma il cuore materno di Ma-ria e il cuore premuroso di Giuseppe, Custode della Santa Famiglia, hanno conservato sempre la fiducia che Dio mai abbandona. Per la loro interces-sione, sia sempre salda nel cuore del migrante e del rifugiato questa stessa certezza.

La Chiesa, rispondendo al manda-to di Cristo “Andate e fate discepoli tutti i popoli”, è chiamata ad essere il Popolo di Dio che abbraccia tutti i popoli, e porta a tutti i popoli l’an-nuncio del Vangelo, poiché nel volto di ogni persona è impresso il volto di Cristo! Qui si trova la radice più pro-fonda della dignità dell’essere uma-no, da rispettare e tutelare sempre. Non sono tanto i criteri di efficien-za, di produttività, di ceto sociale, di

appartenenza etnica o religiosa quelli che fondano la dignità della persona, ma l’essere creati a immagine e so-miglianza di Dio (cfr Gen 1,26-27) e, ancora di più, l’essere figli di Dio; ogni essere umano è figlio di Dio! In lui è impressa l’immagine di Cristo! Si tratta, allora, di vedere noi per pri-mi e di aiutare gli altri a vedere nel migrante e nel rifugiato non solo un problema da affrontare, ma un fratello e una sorella da accogliere, rispettare e amare, un’occasione che la Provvidenza ci offre per contribui-re alla costruzione di una società più giusta, una democrazia più compiuta, un Paese più solidale, un mondo più fraterno e una comunità cristiana più aperta, secondo il Vangelo.

Le migrazioni possono far nascere possibilità di nuova evangelizzazio-ne, aprire spazi alla crescita di una nuova umanità, preannunciata nel mistero pasquale: una umanità per cui ogni terra straniera è patria e ogni patria è terra straniera.

Cari migranti e rifugiati! Non per-dete la speranza che anche a voi sia riservato un futuro più sicuro, che sui vostri sentieri possiate incontrare una mano tesa, che vi sia dato di spe-rimentare la solidarietà fraterna e il calore dell’amicizia!

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Immigrati morti in mare, da quelle barche che invece di essere una via di spe-ranza sono state una via di morte. Così il titolo dei giornali. Quando alcune set-timane fa ho appreso questa notizia, che purtroppo tante volte si è ripetuta, il pen-siero vi è tornato continuamente come una spina nel cuore che porta sofferenza. E allora ho sentito che dovevo venire qui oggi a pregare, a compiere un gesto di vi-cinanza, ma anche a risvegliare le nostre coscienze perché ciò che è accaduto non si ripeta. Non si ripeta per favore. Prima però vorrei dire una parola di sincera gra-titudine e di incoraggiamento a voi, abi-tanti di Lampedusa e Linosa, alle associa-zioni, ai volontari e alle forze di sicurezza, che avete mostrato e mostrate attenzione a persone nel loro viaggio verso qualcosa di migliore. Voi siete una piccola realtà, ma offrite un esempio di solidarietà! Gra-zie! Grazie anche all’Arcivescovo Mons. Francesco Montenegro per il suo aiuto, il suo lavoro e la sua vicinanza pastora-le. Saluto cordialmente il sindaco signo-ra Giusi Nicolini, grazie tanto per quello che lei ha fatto e che fa. Un pensiero lo rivolgo ai cari immigrati musulmani che oggi, alla sera, stanno iniziando il digiuno di Ramadan, con l’augurio di abbondanti frutti spirituali. La Chiesa vi è vicina nella ricerca di una vita più dignitosa per voi e le vostre famiglie. A voi: o’scià!

Questa mattina, alla luce della Parola di Dio che abbiamo ascoltato, vorrei pro-porre alcune parole che soprattutto pro-vochino la coscienza di tutti, spingano a riflettere e a cambiare concretamente cer-ti atteggiamenti.

«Adamo, dove sei?»: è la prima domanda che Dio rivolge all’uomo dopo il peccato. «Dove sei Adamo?». E Adamo è un uomo disorientato che ha perso il suo posto nella creazione perché crede di diventare potente, di poter dominare tutto, di essere Dio. E l’armonia si rompe, l’uomo sbaglia e questo si ripete anche nella relazione con l’altro che non è più il fratello da amare, ma semplicemente l’altro che disturba la mia vita, il mio benessere. E Dio pone la seconda domanda: «Caino, dov’è tuo fratello?». Il sogno di essere potente, di essere grande come Dio, anzi di essere Dio, porta ad una catena di sbagli che è catena di morte, porta a versare il sangue del fratello!

Queste due domande di Dio risuonano anche oggi, con tutta la loro forza! Tanti di noi, mi includo anch’io, siamo diso-rientati, non siamo più attenti al mondo in cui viviamo, non curiamo, non custo-diamo quello che Dio ha creato per tutti e non siamo più capaci neppure di custo-dirci gli uni gli altri. E quando questo di-sorientamento assume le dimensioni del mondo, si giunge a tragedie come quella a cui abbiamo assistito.

«Dov’è il tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, non

Omelia Del Santo Padre FrancescoCampo sportivo “Arena” in Località Salina

Lunedì, 8 luglio 2013

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trovano accoglienza, non trovano solida-rietà! E le loro voci salgono fino a Dio! E una volta ancora ringrazio voi abitanti di Lampedusa per la solidarietà. Ho sen-tito, recentemente, uno di questi fratelli. Prima di arrivare qui sono passati per le mani dei trafficanti, coloro che sfruttano la povertà degli altri, queste persone per le quali la povertà degli altri è una fonte di guadagno. Quanto hanno sofferto! E alcuni non sono riusciti ad arrivare.

«Dov’è il tuo fratello?» Chi è il responsabile di questo sangue? Nella letteratura spagnola c’è una commedia di Lope de Vega che narra come gli abitan-ti della città di Fuente Ovejuna uccidono il Governatore perché è un tiranno, e lo fanno in modo che non si sappia chi ha compiuto l’esecuzione. E quando il giudice del re chiede: «Chi ha ucciso il Governatore?», tutti rispondono: «Fuen-te Ovejuna, Signore». Tutti e nessuno! Anche oggi questa domanda emerge con forza: Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tut-ti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: «Dov’è il sangue del tuo fratello che grida fino a me?».

Oggi nessuno nel mondo si sente re-sponsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna; sia-mo caduti nell’atteggiamento ipocrita del sacerdote e del servitore dell’altare, di cui parlava Gesù nella parabola del Buon Samaritano: guardiamo il fratello mezzo morto sul ciglio della strada, forse pen-siamo “poverino”, e continuiamo per la nostra strada, non è compito nostro; e con questo ci tranquillizziamo, ci sentiamo a posto. La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende in-sensibili alle grida degli altri, ci fa vive-re in bolle di sapone, che sono belle, ma

non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizza-zione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci sia-mo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro!

Ritorna la figura dell’Innominato di Manzoni. La globalizzazione dell’indif-ferenza ci rende tutti “innominati”, re-sponsabili senza nome e senza volto.

«Adamo dove sei?», «Dov’è il tuo fratello?», sono le due domande che Dio pone all’inizio della storia dell’umanità e che rivolge anche a tutti gli uomini del nostro tempo, anche a noi. Ma io vorrei che ci ponessimo una terza domanda: «Chi di noi ha pianto per questo fatto e per fatti come questo?», Chi ha pianto per la morte di questi fratelli e sorelle? Chi ha pianto per queste persone che erano sulla barca? Per le giovani mamme che portavano i loro bambini? Per questi uomini che desideravano qualcosa per sostenere le proprie famiglie? Siamo una società che ha dimenticato l’esperienza del piangere, del “patire con”: la globalizzazione dell’indifferenza ci ha tolto la capacità di piangere! Nel Vangelo abbiamo ascoltato il grido, il pianto, il grande lamento: «Rachele piange i suoi figli… perché non sono più». Erode ha seminato morte per difendere il proprio benessere, la propria bolla di sapone. E questo continua a ripetersi… Domandiamo al Signore che cancelli ciò che di Erode è rimasto anche nel nostro cuore; domandiamo al Signore la grazia di piangere sulla nostra indifferenza, di piangere sulla crudeltà che c’è nel mondo, in noi, anche in coloro che nell’anonimato prendono decisioni socio-economiche che aprono la strada ai drammi come questo. «Chi ha pianto?». Chi ha pianto oggi nel

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mondo?Signore, in questa Liturgia, che è una

Liturgia di penitenza, chiediamo perdono per l’indifferenza verso tanti fratelli e so-relle, ti chiediamo Padre perdono per chi si è accomodato e si è chiuso nel proprio benessere che porta all’anestesia del cuo-

re, ti chiediamo perdono per coloro che con le loro decisioni a livello mondiale hanno creato situazioni che conducono a questi drammi. Perdono Signore!

Signore, che sentiamo anche oggi le tue domande: «Adamo dove sei?», «Dov’è il sangue di tuo fratello?».

Celebrante: Il Signore ci dona il suo Spirito perché possiamo discernere la bontà, la ricchezza, la bellezza, l’armonia della diversità, come sorgente di comunione per il suo Regno.

Signore, trasforma la nostra vita.

- Perché la Chiesa, seguendo l’insegnamento di Gesù, attinga il vino della Parola e dell’Eucaristia e lo offra a tutte le genti nella sua missione universale, preghiamo:

Signore, trasforma la nostra vita.

- Perché le comunità cristiane, impegnate nella costruzione di una città accogliente, sappiano vivere il fenomeno delle migrazioni come occasione di conoscenza reciproca, di dialogo e di comunione, preghiamo:

Signore, trasforma la nostra vita.

- Perché le famiglie cristiane sperimentino i valori dell’ospitalità, della solidarietà e della condivisione verso le famiglie e i minori migranti, preghiamo:

Signore, trasforma la nostra vita.

- Perché con l’impegno di tutti, si facciano leggi che sappiamo coniugare legalità e sicurezza con solidarietà e accoglienza, preghiamo:

Signore, trasforma la nostra vita.

- Perché i rapporti fra le nazioni siano guidati dalla ricerca del bene comune e di uno sviluppo integrale dell’uomo, per dare forma di unità e di pace alla città dell’uomo come segno che anticipa la città di Dio, preghiamo:

Signore, trasforma la nostra vita.

Celebrante: I segni del tuo amore, Signore, scandiscono i nostri giorni. Donaci occhi nuovi perché sappiamo riconoscerli presenti nella quotidianità e nel dono della diversità. Perché le comunità cristiane vivano con gioia l’attesa dell’«ora» in cui manifesterai la pienezza della tua gloria e la scoprano nell’oggi della vita. Per Cristo nostro Signore.

Amen

Preghiere dei fedeli Migrantes

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Vi presentiamo la testimonianza sulla diffusione della fede operata da due figure agordine emigrate in Brasile: Mons. Giovanni Benvegnù, ori-ginario di Taibon e il chierichetto Adilio Da Ronch originario di Toccol (Agordo).

Essi sono l’iceberg di una moltitudine di famiglie di emigranti che han-no vissuto e diffuso la loro fede in quelle terre. Insieme a loro, ricor-diamo la figura di S. Paulina (Amabile) originaria di Vigolo Vattaro (TN) fondatrice di un Istituto Religioso a Nuova Trento e canonizzata nel 2002. Ma ricordiamo anche Mons. Luigi De Nadal, pure “Taiboner”, Vescovo di Uruguaiana in Brasile, morto in un incidente aereo nel 1963. E ricordiamo la Chiesa di S. Pellegrino, il santuario dell’emigrazione italiana a Caxias, nel Rio Grande do Sul, le cui porte scolpite da Augusto Murer raffigurano la storia dell’emigrazione italiana. Sono innumerevoli le vocazioni matu-rate da queste famiglie per il servizio missionario alla chiesa del Brasile: più di 20 sacerdoti e 15 suore!

Si è ripetuto quanto già successo ai primi tempi della Chiesa quando i cristiani dispersi per le persecuzioni, hanno diffuso la fede nel mondo, come narrano gli Atti degli Apostoli: “E quelli che erano stati dispersi anda-vano per il paese e diffondevano la parola di Dio”. (8,4)

Fede diffusadai nostri Migranti

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46EmigrazionE E FEdE

Mons. Gio-vanni Benve-gnù nacque il 12 agosto 1907 in Brasile, nel Rio Grande do Sul, da Fedele e Maria Mo-

retti, partiti nel 1888 da Prà (la fra-zione di Taibon che nel 1908 venne distrutta assieme a Lagunaz da una frana caduta dalla cima dell’Am-brosogn – Pale di S.Lucano).

Cresciuto in un clima di profon-da religiosità, fu ordinato sacerdo-te nel 1934 e un anno dopo fu in-viato come parroco di S. Domingos do Sul, dove rimase fino alla morte avvenuta il 3 gennaio 1986.

Si alzava alle quattro del mattino per pregare in pace prima della ce-lebrazione della Messa e trascor-reva lunghissime ore nel confes-sionale, perché, più passavano gli anni, più la gente accorreva nu-merosa per la sua fama di santità che via via andava diffondendosi ben oltre i confini della parrocchia. Viveva e vestiva con sobrietà te-

nendo per sé esclusivamente l’in-dispensabile: il resto era per i po-veri. Una sola cosa lo infastidiva e lo rattristava: la disonestà e l’ingra-titudine di coloro che approfittava-no della sua benevolenza e gene-rosità.

Nel 1957 fece visita ai suoi pa-renti di Taibon. Percorse la valle di S. Lucano e si soffermò in devoto raccoglimento davanti alle rovine di Prà e alla croce eretta in ricordo dei morti della frana che travolse anche la casa dei suoi nonni, da cui, molti anni prima, erano partiti i suoi genitori.

La sua vita fu una continua ed operosa preghiera per le vocazioni sacerdotali e religiose. Così, ebbe la grazia di vedere ben 15 giovani della sua parrocchia ordinati sacer-doti, tra cui otto nipoti. Ora, ogni anno i fedeli fanno un Pellegrinag-gio “vocazionale” alla sua tomba. Il grande numero di partecipanti

Mons.Giovanni Benvegnù

M

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(Brasile, Rio Grande do Sul: Dona Franci-sca 25.10.1908 – Très Passos + 21.05.1924)

Chi è Adilio da Ronch?

Era un ragazzo i cui nonni Seba-

stiano da Ronch e Francesca Sche-na erano partiti da Agordo per ar-rivare in Brasile il 1° dicembre del 1890. I suoi genitori, Pietro e Judite Segabinazzi, si sposarono in Bra-sile nel 1905 ed ebbero 8 figli, fra cui Adilio. Il papà Francesco faceva il fotografo, ma proponeva anche rimedi omeopatici ai sofferenti e

BeatoAdilio da Ronch

sta diventando un fenomeno ine-splicabile e tutti si chiedono quale misteriosa forza fa della tomba di questo umilissimo sacerdote un punto di convergenza per migliaia di persone.

“Su quella tomba non si piange, si prega” . Il Vescovo italo-brasi-liano, Mons. Luigi de Nadal, pure originario di Taibon, lo definì così: “Uomo di Dio, si rivelò con umiltà e costanza, pastore zelante, spinto dal solo desiderio che ogni famiglia della sua comunità di S. Domingos fosse centro di vita cristiana, vivaio di vocazioni sacerdotali e religio-se, piccola chiesa viva e sempre in cammino per garantire e indicare scelte sicure di vita cristiana ai suoi figli spirituali.

Morto in concetto di santità, al

suo funerale accorse una folla di 10.000 persone e da quel giorno la sua tomba cominciò ad essere meta di pellegrinaggi e di preghie-ra. Per il popolo è già “santo”. Per la Chiesa occorre celebrare un “pro-cesso canonico”, che fu sollecitato dal vescovo Vincenzo Savio, dopo la sua visita alla tomba in S. Domin-gos nel 2001. La causa di beatifica-zione fu introdotta nel 2009.

Le vecchie famiglie di Col dei Prà e di Taibon emigrate in Brasile, hanno eretto il più bel monumen-to alla memoria di don Giovanni con figli che nella società brasilia-na hanno onorato, ed ancor oggi onorano il loro paese di origine. Sono oltre 20 in Brasile i sacerdoti e 15 le suore nati da famiglie oriun-de di Taibon.

B

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48EmigrazionE E FEdE

la mamma era una brava ostetri-ca. Questi genitori erano molto disponibili nel servizio ai poveri e mantenevano grande amicizia e collaborazione con il parroco, Pe. Manuel. Pietro venne tragicamen-te assassinato da un bandito nel maggio del 1923, Judite passò a mi-glior vita in marzo 1932.

Adilio era “um bom menino” (un bravo ragazzo), dal temperamento pacato e ricevette una buona edu-cazione cristiana nella famiglia che aveva solidi principi di fede. Parte-cipava convinto alle preghiere di casa ed era sempre pronto a parte-cipare alla Messa in chiesa.

Fedele chierichetto, Adilio era anche alunno della scuola fondata dal missionario. Faceva parte del gruppo di adolescenti che accom-pagnava Pe. Manuel, il parroco, nei lunghi e faticosi viaggi pastora-li, fra cui quello presso gli indios Kaingang. Nell’anno 1924, dopo aver celebrato la Settimana San-ta, il parroco, su richiesta del ve-scovo di Santa Maria, programmò un viaggio di visita ai coloni nella foresta Très Passos e prese con sé Adilio, nonostante la regione fosse scossa da movimenti rivoluzionari. Pur essendo avvisati dagli indigeni del pericolo di inoltrarsi nella fore-

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Emigrazione e Fede

- La parola del direttore pag. 1

- Il fenomeno migratorio oggi pag. 3

- Migrazioni: nuove prospettive e istanze etiche pag. 10

- Gli immigrati, la religione e l’integrazione pag. 13

- Testimonianze dal mondo: pag. 16Brasile pag. 17Argentina pag. 21Nigeria pag. 24Costa d’Avorio pag. 25Thailandia pag. 29Albania pag. 32 Spagna pag. 36

- Riflessioni e preghiere pag. 38

- Fede diffusa dai nostri emigranti pag. 45

NotizieCentro Missionario di Belluno-Feltre

Hanno collaborato a questo numero: don Luigi Canal,don Ezio Del Favero, Mario Bottegal, Josè Soccal,Chiara Zavarise, Fabian Brandalise, don Aldo Giazzon,Gasper Gojcaj, Pedro

Foto a cura di Josè SoccalRedazione c/o: Centro Missionario Belluno-Feltre

Piazza Piloni, 11 - 32100 Belluno – Tel. 0437 940594centro.missionario@diocesi.itwww.centromissionario.diocesi.it

Direttore di redazione don Luigi CanalResponsabile ai sensi di legge don Lorenzo Dell’AndreaStampa Tipografia Piave Srl - BellunoIscrizione al Tribunale di Belluno n. 1/2009

sta, non desisterono dal viaggio. E fu proprio nella foresta che furono col-ti da un’imboscata da parte dei rivo-luzionari anticlericali. Il missionario ed il suo fedele ministrante furono condotti in una remota zona della foresta, vennero legati a due alberi e fucilati, sacrificati così in odio alla fede cristiana e alla Chiesa cattolica. Adilio non aveva ancora compiuto i 16 anni: era il 21 maggio 1924.

Si racconta che le bestie della fo-resta rispettarono quasi miracolo-samente i corpi dei due martiri e solo dopo quattro giorni i coloni di Très Passos riuscirono a dar loro sepoltura. Nel 1964 le loro spoglie, ormai considerate vere e proprie re-liquie, vennero traslate nella chiesa parrocchiale di Nonoai. I cristiani del luogo mai dimenticarono l’eroi-ca testimonianza del parroco e del

chierichetto, morti per amore del Vangelo, e numerosi devoti prese-ro ad accorrere sulle loro tombe ed invocare aiuto dal Signore per loro intercessione. Ogni anno si celebra il Pellegrinaggio Penitenziale al San-tuario Nostra Signora della Luce e dei Servi di Dio Pe. Manuel e Chie-richetto Adilio. Il 21 ottobre 2007, Papa Benedetto XVI proclamò Adilio Beato.

Il Beato Adilio è uno degli “intercessori”scelti dal papa per i giovani che hanno partecipato alla Giornata Mondiale della Gioven-tù a Rio de Janeiro nel luglio 2013. Adilio è il primo chierichetto del mondo a ricevere la beatificazione e per questo è considerato il patrono dei chierichetti. È anche “per ora”, il primo beato “bellunese”, almeno di origine!

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Novembre 2013 - N. 21