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Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN TEORIA E METODOLOGIA DELLA RICERCA ANTROPOLOGICA SULLA CONTEMPORANEITÀ FOLKLORE NUZIALE E IDENTITÀ SARDA L’ANTICO SPOSALIZIO SELARGINO Prova finale di Francesca Salis Relatore Prof. Fabio Viti Correlatore Prof. Gino Satta Anno Accademico 2005/2006

Folklore nuziale e identità sarda

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Lettura etnografica delle modalità diproduzione di una tradizione e di un’identità locali, all’interno di processistorici, politici, econonomici e sociali di portata più ampia. Analisi antropologica dell’organizzazione di manifestazioni folkloristiche relativealle locali usanze nuziali in Sardegna, con particolare riferimento all'Antico Sposalizio Selargino (Selargius, Cagliari).

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Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia

FACOLTÀ DI LETTERE E FILOSOFIA

CORSO DI LAUREA SPECIALISTICA IN

TEORIA E METODOLOGIA DELLA RICERCA ANTROPOLOGICA

SULLA CONTEMPORANEITÀ

FOLKLORE NUZIALE E IDENTITÀ SARDA L’ANTICO SPOSALIZIO SELARGINO

Prova finale di

Francesca Salis

Relatore

Prof. Fabio Viti

Correlatore

Prof. Gino Satta

Anno Accademico 2005/2006

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Indice

INTRODUZIONE 5 Tradizione e tradizionale 6 Dal dato folklorico al bene culturale attraverso la valorizzazione turistica 8 Identità, appartenenza. Il paese 10 Strategie e segni dell’appartenenza 14 Note sulla ricerca: posizione etnografica e metodologia della ricerca 15

1 “DELLE USANZE MARITALI” NEL CAMPIDANO DI CAGLIARI 21 1.1 Premessa 21 1.2 Su fastigiu - Il corteggiamento 25 1.3 La figura del paralimpu 27 1.4 Sa pregunta - La domanda della sposa 29 1.5 Fidanzamento o matrimonio? 30

1.5.1 La risposta della Chiesa romana 33 1.5.2 Le coabitazioni 35

1.6 L’esame dei contraenti 37 1.7 Su trasferimentu de is arrobas - Il trasporto del corredo 40 1.8 La benedizione degli sposi e il corteo nuziale 44 1.9 La cerimonia del matrimonio 45 1.10 Il ritorno del corteo nuziale. L’usanza detta s’arazza o de sa razia 48 1.11 Su cumbidu - Il banchetto nuziale 49

2 LA TRADIZIONE NELLA RAPPRESENTAZIONE DEI MATRIMONI ALLA SARDA 53 2.1 Le componenti tradizionali della festa 59

2.1.1 Il rituale della vestizione 59 2.1.2 Il commiato dai genitori 61 2.1.3 Il corteo nuziale 64 2.1.4 Dopo il rito ecclesiastico 67 2.1.5 La classificazione di Pirisinu 71 2.1.6 Il trasporto del corredo e Sa coja antiga ussassesa 72 2.1.7 Le particolarità di Su Hujviu Ulianesu - L'Antico Matrimonio Olianese 75

2.2 Le fonti etnografiche 77 2.3 Matrimonio tradizionale? 81

3 TRA FASCISMO E VALORIZZAZIONE TURISTICA REGIONALE 85 3.1 Il racconto degli informatori 86

3.1.1 Tasselli diversi di un unico mosaico? 88 3.2 Lo studio del folklore 89 3.3 Il foklorismo fascista 91

3.3.1 Analogie tra Matrimonio Selargino e foklorismo fascista 95 3.3.2 La festa dell’Uva 97

3.4 La valorizzazione turistica dell’isola 98

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4 ▪ Indice

4 LA MESSA IN SCENA DELLA “SELARGINITÀ” 105 4.1 Da borgo del contado a città dell’hinterland 105

4.1.1 L’economia selargina nell’Ottocento 105 4.1.2 Boom demografico e abbandono dei campi 106 4.1.3 L’abbandono delle feste tradizionali 112 4.1.4 Appendici di Cagliari? 115 4.1.5 La reazione selargina 116

4.2 Una tradizione “tipicamente selargina” 121 4.2.1 Lo spessore temporale della festa 122 4.2.2 Bistiri a sa sarda a Selargius 122 4.2.3 Sa cadena de anca, la catena rituale del Matrimonio Selargino 136

5 IL FOLKLORE COME RICHIAMO TURISTICO E IDENTITARIO 143 5.1 Finanziamenti e spese 145 5.2 Il tempo della festa 151 5.3 Lo spazio della tradizione 154

5.3.1 Percorrendo il passato 154 5.3.2 Sa domu cerexina – La casa selargina 161 5.3.3 E se si trasferisse tutto a San Lussorio? 165

5.4 La partecipazione di gruppi in costume 168 5.5 Quale lingua? 175

BIBLIOGRAFIA 185

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Introduzione

Sappiate adunque, ch' egli v'ha in Sardegna una quantità di costumi ricca di considerazioni, d'aspetti, e di riguardi, che non furono ancora posti sotto la speculazione della filosofia […]. Laonde i moderni Etnografi, che pei faticosi e incerti studi […] tanti rischi si mettono, e tante migliaia di leghe divorano, qui vicino nel seno del Mediterraneo, senza tanto travaglio, verrebbero al pienissimo loro intendimento. Ivi non molto discosto dalle marine d'Italia troverieno di che render paghi i desideri loro, meglio che nelle giogaie del monte Tauro, del Caucaso, e del Tibet […]. Bresciani, Dei costumi dell’isola di Sardegna, 1850

Il lavoro qui presentato intende proporre una lettura etnografica delle modalità di

produzione e costruzione di una tradizione e di un’identità locali all’interno di processi

storici e sociali di portata più ampia, messe in atto in un’area dell’hinterland del

capoluogo sardo attraverso l’organizzazione di una manifestazione folkloristica relativa

alle locali usanze nuziali.

I matrimoni folkloristici sono un fenomeno culturale sardo ancora inesplorato, di cui si

fornisce una prima contestualizzazione generale. La riproposta delle tradizioni sarde

relative alle usanze matrimoniali messe in scena in una manifestazione folkloristica

quale “L’Antico Sposalizio Selargino”, ma anche in altre simili manifestazioni

organizzate in altri paesi dell’isola, si presenta come oggetto di studio di particolare

interesse per analizzare e verificare sul campo alcuni dei temi dominanti della ricerca

antropologica: tradizione, identità, turismo.

La ricerca sul campo si sofferma in maniera prevalente su uno solo di questi

“matrimoni alla sarda”, attraverso il quale vengono mostrate le forme di produzione

della tradizionalità legate alla costruzione di un sentimento di appartenenza locale, a

loro volta connesse a processi intellettuali, politici, sociali ed economici di portata più

ampia. Uno studio che intende, da una parte, analizzare i modi di costruire un

sentimento di appartenenza comunitaria e dall’altra le dinamiche e gli effetti che tale

costruzione mette in atto.

Le interpretazione locali della tradizione rappresentano strategie di elaborazione di una

identità locale e nello stesso tempo della relazione di quest’ultima con i più ampi

contesti regionale, nazionale, europeo. Il doppio (se non triplo) piano interpretativo

secondo cui sono esaminati molti degli elementi che caratterizzano la manifestazione è

l’effetto più evidente della compresenza di locale e globale. Si interpreta per sé e per i

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6 ▪ Introduzione

propri fini, ma anche in base all’idea che ci si fa delle aspettative degli Altri, categoria

che include da una parte i sardi (esterni al paese), dall’altra i turisti (“continentali” o

stranieri).

Tradizione e tradizionale

In quanto evocazione del passato, la rappresentazione folkloristica, si pone non solo

come ricostruzione o riproposta autentica e fedele della tradizione, ma anche come

forma di “salvaguardia e difesa della tradizione”. Dagli anni ’80 del secolo scorso la

nozione di tradizione è stato oggetto di ampio dibattito antropologico il quale ha

determinato uno spostamento nell’orientamento teorico ed empirico della disciplina

folklorica o demologica, nella sua accezione di “studio della tradizione”. Attualmente la

nozione di tradizione non è più intesa come eredità culturale accettata passivamente

dai contemporanei per un suo valore intrinseco, quanto piuttosto

“a process of interpretation, attributing meaning in the present though making reference to the past” [Handler, Linnekin, 1984:287],

”un meccanismo di selezione, e anche di invenzione, proiettato verso il passato per legittimare il presente” [Canclini, trad. it. 1998:160],

“una strategia fondativa” [Ariño, 1997:14],

“un punto di vista che gli uomini del presente sviluppano su ciò che li ha preceduti, una interpretazione del passato condotta in funzione di criteri rigorosamente contemporanei […] un processo di riconoscimento di paternità” [Lenclud, 2001:131]

La disciplina non può allora limitarsi allo studio di ciò che preventivamente è stato

etichettato come tradizionale, bensì cogliere i processi attraverso cui si giunge alla

costruzione di oggetti che si pensano dotati di tale proprietà. L’obiettivo di questo

lavoro non è studiare la manifestazione folkloristica in quanto oggetto dotato di

tradizione, l’interesse non è rivolto ai comportamenti tradizionali come dati, quanto

piuttosto come prodotto finale di pratiche sociali e di strategie discorsive. Oggetto della

ricerca è la comprensione delle concrete modalità degli usi della tradizione, il come e il

perché della conservazione nel presente, nonché il senso e l’effetto sociale prodotto.

Attraverso quali strategie di valorizzazione e di attribuzione di senso la tradizione si

impone come insieme oggettivo di dati di fatto? Come viene utilizzata, da quali attori

sociali, in quali contesti? Per quali motivi?

In questo senso, si è cercato di andare oltre l’impostazione di Hobsbawm e Ranger

[1982]: sappiamo ormai che “tradizioni e identità, sentimenti nazionali e immaginari

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Introduzione ▪ 7

regionalisti, paesi e storie locali, pensieri e oggetti tipici sono invenzioni” [Palumbo,

2003:13]. Con il termine “invenzione” non si intende però implicare che la comunità

inventata sia falsa, l’antropologia sembra aver definitivamente chiarito che invenzione

non equivale a falsità1. È un dato acquisito che la forza della tradizione non si misuri

sulla base del criterio dell’esattezza della ricostruzione storica [Lenclud, 2001:132]. I

contenuti della memoria possono essere inventati, possono ignorare il passato o

negarne la complessità. Tale consapevolezza ha permesso di mettere in secondo

piano il problema dell’autenticità, quindi di aprire la ricerca ai fenomeni cosiddetti

folkloristici o di revival, che l’approccio classico escludeva o cercava di gestire

separando i tratti “autentici” da quelli “inventati” e ricorrendo a categorie sfuggenti

come quelle di relitto, persistenza, recupero2.

La dimensione fittizia delle appartenenze non va vista in termini di verità o falsità

[Gallini (a cura di), 2003:19; Anderson, trad. it. 1996:25]. L’attenzione degli studiosi

dovrebbe piuttosto concentrarsi sulla capacità di dire ”il vero anche quando dice il

falso”, non “di corrispondere a dei fatti reali, o di riflettere ciò che è stato, quanto di

enunciare delle proposizioni assunte, in definitiva, in anticipo come consensualmente

vere” [Lenclud, 2001:132]. Se l’appartenenza, come nel caso studiato, si costruisce

come forma di riferimento a un passato comune, trasmesso attraverso la modalità

esplicita della rappresentazione pubblica, il suo punto nevralgico è la forza

dell’interpretazione del passato proposta. Qual è dunque l’immaginario di cui si nutre

un fenomeno come il Matrimonio Selargino? Quali sono le proposizioni assunte come

vere? Su quali discorsi, oggetti, gesti, basa la sua capacità di essere accettata e

vissuta come emotivamente coinvolgente, incorporata, vera?

Poiché “non è tuttavia mai inutile saperne un po’ di più sui materiali di cui il presente si

impadronisce per costituirne una tradizione” [Lenclud, 2001:132] e poiché un

sostanziale accordo presenta tali manifestazioni come fedeli rappresentazioni di un

modo tradizionale di fare le cose di cui si conservano dei frammenti, il primo capitolo

getta uno sguardo sul tradizionale prototipo cui fanno riferimento i matrimoni

folkloristici. In particolare, ho cercato di restringere lo studio alle usanze relative al

Campidano di Cagliari, per tentare un’analisi più specifica della rassegna selargina,

senz’altro la più significativa.

1 Si vedano a questo proposito gli articoli di Handler, Linnekin, 1984 e Hanson 1989 e 1991 2 Una definizione di queste categorie si trova in Delitala,1992

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8 ▪ Introduzione

Nel secondo capitolo vengono invece descritti i tratti tradizionali che costituiscono il

Matrimonio Selargino nella sua concretezza. Non si tratta tanto di un tentativo di

descrizione della festa quanto di analisi degli elementi messi in scena. Da una parte

questi sono stati messi a confronto con la tradizione nuziale in area campidanese,

dall’altra con gli altri matrimoni folkloristici presenti in Sardegna. Tale strategia ha

permesso di far emergere l’arbitrarietà nella scelta operata dai costruttori della

tradizione, per cui sulla base di un canovaccio simile si ottengono messe in scena

differenti, a seconda degli aspetti che si decide di privilegiare in termini di tempo e

spazio.

Dal dato folklorico al bene culturale attraverso la valorizzazione turistica

Non tutto ciò che viene dal passato è considerato degno di essere conservato,

trasmesso culturalmente o valorizzato come tradizionale. La nozione di tradizione

rimanda piuttosto all’idea di un ambito determinato di fatti, un deposito culturale

selezionato.

Alcuni studiosi, ad esempio Lenclud, hanno visto nel processo di tradizionalizzazione la

scelta consapevole, arbitraria e strumentale per cui “ogni gruppo, ogni entità sociale si

procura la propria tradizione, andando ad attingere dal passato il vessillo che più gli

conviene” [Lenclud, 2001:133]. Altri, come Dei, hanno criticato questa impostazione,

mettendo in dubbio la consapevolezza della strumentalità del processo, nonché

l’arbitrarietà della scelta, che “non tutte le tradizioni, in un certo contesto storico-

sociale, sono ugualmente suscettibili di essere inventate” [Dei, 2002:87].

Nel caso in questione, le motivazioni emerse a livello locale non appaiono sufficienti a

spiegare la nascita di una festa come il Matrimonio Selargino. La manifestazione è uno

dei primissimi esempi di valorizzazione del folklore sardo, sorta in un periodo, gli anni

’60 del secolo scorso, in cui il richiamo alla tradizione stentava ancora ad acquisire

quella connotazione positiva che costituisce il requisito fondamentale del suo costituirsi

come bene culturale etnografico. Solo inserendo la manifestazione nel più ampio

contesto delle politiche culturali intraprese durante il fascismo prima e di quelle

adottate dalla Sardegna in seguito all’istituzione quale regione autonoma poi, è

possibile comprendere le motivazioni che inizialmente portarono alla proposta di una

manifestazione di questo tipo.

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Introduzione ▪ 9

Nel terzo capitolo ho quindi cercato di dare conto, almeno in parte, delle dinamiche

storiche e culturali che hanno dato luogo al processo di “turisticizzazione del dato

folklorico”, segnalato, forse per la prima volta, da Gallini nel 1971, cioè al recupero in

un contesto diverso degli elementi della tradizione, trasformati in spettacolo per i turisti.

Si noti che se molti aspetti del folklore sardo sono sopravvissuti sino ad oggi, la ragione

va ricercata anche nell’aver concepito il folklore come un’importante risorsa fonte di

richiamo turistico. Non è un caso dunque, che la valorizzazione delle tradizioni si

presenti storicamente in strettissima connessione con la promozione turistica. La

stessa gestione del folklore è stata affidata agli enti di promozione turistica. Da una

parte la Regione, che si è preoccupata di stabilire leggi apposite di salvaguardia

istituzionale e finanziamento pubblico, dall’altra i vari enti, a tutti i livelli istituzionali

(dall’Esit alle Pro Loco, passando per Ept e Aziende di Soggiorno), che si occupano

della distribuzione dei finanziamenti, gestendo, patrocinando, reinventando feste e

sagre “tradizionali”.

In generale sono state quelle feste a carattere devozionale che ancora resistevano,

con difficoltà, nei vari centri, le prime espressioni di folklore valorizzate e finanziate dai

vari enti regionali. Ma sin dall’inizio, si è cercato anche di incoraggiare la creazione di

nuove feste che potessero essere oggetto di interesse turistico. Un esempio è appunto

il Matrimonio Selargino, una manifestazione folkloristica che nasce come

rappresentazione di aspetti di vita tradizionale per l’intrattenimento dei turisti.

“Spettacolo folkloristico”, “rievocazione”, “ricostruzione storica” “rassegna”, “sagra”,

“kermesse”, “festa”: l’assenza stessa di un’unica espressione per designare questi

eventi è un sintomo del loro non essere facilmente riconducibili a un’unica categoria di

analisi e di comprensione. Una precisazione terminologica: come si vedrà, ho scelto di

indicare le feste oggetto di studio con gli stessi nomi con cui sono indicate dal pubblico

e dagli organizzatori, lasciando cadere la distinzione tra folklore e folklorismo. La

decisione è stata presa sulla base di due motivazioni principali. La prima è che il

fenomeno Matrimonio Selargino - ma il discorso mi sembra possa essere esteso anche

agli altri “matrimoni alla sarda” - non mi pare possa essere analizzato efficacemente se

studiato come esempio di folklore trasformatosi in folklorismo. Non si tratterebbe cioè

della trasposizione dal piano della realtà vissuta a quello della rappresentazione

spettacolare, una consapevole manipolazione, una trasformazione strumentale del

materiale folklorico per scopi diversi da quello per cui è stato creato. Il Matrimonio

Selargino è piuttosto un prodotto pensato sin dall’inizio per la fruizione da parte di un

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10 ▪ Introduzione

osservatore esterno, che riprende gli elementi del folklore (balli, canti, musiche,

vestiario) che si pensa possano incuriosirlo maggiormente. Non solo vengono ripresi

elementi caduti in disuso o abbandonati completamente da tempo, ma il cui

accostamento simultaneo sulla scena non ha riscontro con una ricostruzione verosimile

del passato. Non si dovrebbe guardare alla manifestazione come un caso di messa in

spettacolo di ciò che prima spettacolo non era, quanto piuttosto come un caso di

spettacolarizzazione tout court, cioè come scelta e realizzazione di qualcosa

appositamente per essere esibito, per attrarre l’attenzione su di sé. La

rappresentazione non evoca la realtà passata che si dice rappresentare, evoca

piuttosto un’immaginaria realtà passata mai esistita, ma che appare verosimile per la

presenza dei simboli (attuali) dell’identità. La seconda motivazione è che nei discorsi

degli informatori i termini folklore e folkloristico sono usati alla stregua di sinonimi, il

termine folkloristico non ha quella valenza negativa e svalutante assegnatagli da

Cirese [1974:63], così come neppure mi è sembrato averla il termine turistico. La

distinzione è stata avanzata solo da parte di alcuni informatori locali “colti”, per

suggerirmi di distogliere l‘attenzione da un oggetto di ricerca non degno di seria

attenzione. I termini folkloristico e turistico, utilizzati per segnalare i prodotti culturali

non autentici, appaiono in questo contesto i referenti di una demarcazione accademica

per ciò che merita di essere preso in considerazione dagli scienziati sociali.

Identità, appartenenza. Il paese

Nata come festa per i turisti, col tempo la manifestazione si radica nel paese e ne

modella l’autorappresentazione secondo i dettami dello sguardo turistico. Il paese è la

prima dimensione di appartenenza a cui ora fa riferimento la festa, ma non è l’unica,

poiché inserita in quella più ampia dell’identità isolana.

Con i termini identità e appartenenza, si intende fare riferimento alle strategie di

identificazione (o di differenziazione) di individui e gruppi. Prendendo a prestito le

parole di Gallini, il termine appartenenza rinvia ”alla dimensione soggettiva dei

costruttori, in quanto attori sociali, e alle diverse, concrete situazioni al cui interno si

mettono in atto procedure di condivisione o di competizione per definire appartenenze,

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Introduzione ▪ 11

esclusioni, inclusioni”3. Anche Clemente, scrivendo dell’identità locale, ne mette in luce

la connessione con la dimensione dell’individuo, più che con quella del gruppo

[Clemente, 1997:22]. Entrambi fanno riferimento all’espressione demartiniana di patria

culturale, un “prodotto culturale mai definito una volta per tutte” che rinvia, sul piano

soggettivo, “al duplice ordine delle fedeltà e delle scelte” [Gallini (a cura di), 2003:7],

alla “possibilità paradossale di scegliersi le radici” [Clemente, 1997:23].

La prima e principale forma di appartenenza indagata in questo lavoro è quella di

paese. “L’Isola ha una capitale che possiede un suo contado e poi, lontani, ci sono

tanti piccoli regni disuniti, trecentosessanta comuni”, scrive Todde [2006:30]. Selargius

è uno dei paesi del “contado”, la cui politica culturale può essere letta come tentativo di

resistenza e salvaguardia della propria autonomia e identità dall’inglobamento da parte

della “capitale”. La prima parte del quarto capitolo fornisce i dati sui notevoli

cambiamenti subiti dal paese nel giro di pochissimi decenni, i quali potrebbero

spiegare l’attaccamento a una manifestazione che si caratterizza anche come ricerca

di un passato perduto, un recupero nostalgico di memorie che dia il senso di una

continuità culturale là dove al contrario si è vissuta una profonda discontinuità.

Nella sua ripetizione annuale l’evento si traduce in atto simbolico che operando una

congiunzione di passato e presente fonda la comunità di paese definendola nei suoi

termini sociali, politici e religiosi. Selargius è un paese non in ragione delle dimensioni

dell’abitato (che allora sarebbe più giusto definirla città) quanto piuttosto in riferimento

agli sforzi compiuti per definirsi come “primo centro di riferimento e relazione a una

cultura ibrida e molteplice” [Clemente, 1997:39], quindi in sintonia con l’analisi di

Clemente del concetto di paese nel nostro Paese, “un mondo della memoria e

dell’identità comune” [ivi:24], nonché “una realtà dell’immaginazione” [ibidem].

Il richiamo alla dimensione immaginativa è piuttosto frequente nei lavori che si

interessano dei processi di costruzione delle appartenenze. Il concetto di comunità

immaginate è di Anderson, che lo applica all’idea di nazione mentre sembra negarne

l’applicazione a quelle entità più piccole dove tutti i membri si conoscono tra di loro4.

Messa da parte questa distinzione, oggi prevale l’impostazione che ritiene che ogni

appartenenza, a qualsiasi livello, contenga un’importante dimensione immaginativa. “Di

3 Presentazione di Gallini in id. (a cura di), 2003:12. In questo lavoro i termini identità e appartenenza sono usati per lo più in modo interscambiabile, mentre per Gallini il primo si distingue dal secondo per “le eventuali implicazioni psicologiche”.

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12 ▪ Introduzione

fatto, ogni appartenenza esiste e si manifesta attraverso un lavoro sociale di

produzione dell’identità e della differenza, cioè attraverso l’attivazione di modalità –

immaginarie e pratiche – atte a indicare che questo o quello è un gruppo, e come tale è

dotato di determinate caratteristiche che lo rendono differente da un altro” [Gallini (a

cura di), 2003:7].

L’immagine costruita attraverso il Matrimonio Selargino si inserisce pienamente nel

discorso tracciato da Palumbo sulla “produzione di spazi culturali autentici, oggettivati

all'interno del mercato delle identità turistiche: una comunità, una storia, un'identità, un

patrimonio” [Palumbo, 2003:285]. Un’immagine turistico –commerciale capace di agire

in scenari ben più ampi di quello locale, una risorsa di cui si è capito quasi subito il

potenziale economico e di prestigio sociale.

Ed ecco che, appena è stato possibile, la festa, riguardante una tradizione

genericamente “sarda”, organizzata inizialmente dalla sezione provinciale dell’Enal,

diventa la “nostra” festa, la festa delle tradizioni selargine, il cui controllo viene assunto

interamente dalle organizzazioni del paese (a questo scopo si provvede a fondare la

Pro Loco). Se uno dei problemi fondamentali per la costruzione delle appartenenze è la

necessità di autenticarsi mediante un’interpretazione del passato che sia accettata dai

membri della comunità, l’abilità dei selargini è stata quella di appropriarsi di una festa i

cui contenuti erano stati già da tempo oggettivizzati da diversi, importanti intellettuali

(Marcello Serra, Francesco Alziator5). Una festa quindi che non poneva i soliti problemi

di acquisizione del consenso, già stabilito, permettendo ampia libertà di movimento in

uno spazio da tempo condiviso, familiare.

Qui il Matrimonio Selargino diventa oggetto di competizione ai fini del relativo controllo.

La manifestazione dà la possibilità di sfruttare risorse economiche e simboliche legata

alla costruzione di mondi tipici, provenienti dalle istituzioni regionali nonché

dall’inserimento nei mercati internazionali (per fare un esempio, la manifestazione è

regolarmente presente alla Bit, la Borsa Internazionale del Turismo che si tiene

annualmente a Milano). L’evento è connesso, inoltre, alle logiche e all'immaginazione

dei media (tv locali e nazionali, quotidiani e riviste), capaci d'inscrivere rapidamente

4 Anderson, trad. it. 1996:25 e ivi, prefazione a cura di D’Eramo, p. 10 5 Il coinvolgimento di Serra verrà esaminato nel secondo capitolo. Per quanto riguarda Alziator, alcuni informatori mi hanno fatto notare, quale motivo di vanto e di legittimazione, che l’importante studioso ha assistito di persona alla festa e ha usato le foto scattate durante la manifestazione per illustrare quanto scritto nella sezione “Amoreggiamento e nozze” in La città del sole [1963]

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Introduzione ▪ 13

universi locali in contesti comunicativi globali, fornendo ai protagonisti del conflittuale

campo politico locale nuovi motivi di competizione e di legittimazione.

Nella complessa macchina organizzativa messa in moto dalla festa è possibile

scorgere l'attivazione di reti clientelari; la determinazione del ruolo riservato a ciascuno

fornisce informazioni importanti sul paese e sul gioco delle alleanze in esso presenti. Si

tratta di un aspetto delicato della ricerca che si è preferito in gran parte non esplicitare

ma di cui si è ovviamente tenuto conto. In generale, si può affermare che la gestione

della festa è oggetto di contesa tra i membri di un notabilato locale che non può essere

inquadrato facilmente se studiato in termini di appartenenza politica, posizione

occupazione, grado di istruzione. Non pare neppure particolarmente utile, in questo

contesto, poiché rischia di poter essere applicata praticamente a tutti, la categoria di

pendolarismo, sviluppata da Gian Luigi Bravo e approfondita nei lavori di Piercarlo e

Renato Grimaldi, per la quale si ipotizza che i membri della comunità più interessati e

attivi nella riproposta, ma anche nella conservazione, delle feste e cerimonie

tradizionali, sono le persone che quotidianamente o comunque frequentemente, per

lavoro, per studio, per attività politiche o associative, si spostano tra formazioni sociali

differenti. Ciò che accomuna gli organizzatori della festa sembra piuttosto il loro

identificarsi primariamente come “selargini”. Si tratta in netta prevalenza di uomini, oggi

tutti sulla sessantina, che gestiscono attivamente la vita politica e culturale del paese

sia attraverso le posizioni occupate in consiglio comunale, sia occupando le posizioni

più importanti in associazioni culturali quali Pro Loco, gruppo folkloristico, coro,

confraternite, ecc.

Un’altra osservazione che mi pare importante mettere qui in evidenza è l’idea condivisa

da tutte queste persone e vissuta come ovvia, naturale, per cui la manifestazione è da

considerarsi una risorsa fondamentale per lo sviluppo dell’economia locale.

L’assessorato alla cultura si confonde con quello al turismo e la cultura popolare è

classificata sotto la voce di patrimonio, valorizzata principalmente in relazione al suo

ritorno turistico. Anche qui, come praticamente in tutta l’isola, tutto ciò che si pensa

possa favorire il turismo è oggetto di cure particolari6.

6 Il ruolo del turismo come mezzo di sviluppo è un tema molto sentito in Sardegna. A questo proposito, una voce fuori dal coro è quella dell’intellettuale cagliaritano Giorgio Todde [2006:30] che si scaglia contro la politica prevalente per cui “l’unica crescita desiderata, progettata e accettata è quella turistica. Il turismo violento e nevrastenico dei due mesi anfetaminizzati durante i quali organismi semplificati - i turisti – confondono la vacanza (il vuoto nobile dei pensieri) con la vacuità (il pieno di pensieri vuoti)”

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14 ▪ Introduzione

Strategie e segni dell’appartenenza

Quali sono gli strumenti messi in campo dai soggetti per costruire una versione

celebrativa della propria storia, del proprio patrimonio culturale, di una propria singolare

appartenenza comunitaria?

Per Palumbo è necessario concentrarsi sul ruolo centrale e attivo (performativo)

giocato da simboli e oggetti, dai modi di dire e dai modi di fare, nel realizzare la

naturalizzazione dell’evento presentato. Anche per Gallini [(a cura di), 2003:12] parole,

oggetti, gesti, azioni sono il modo attraverso cui si riproducono nell’immaginario sociale

i segni dell’appartenenza, gli strumenti con cui si è capaci sia di intervenire sul reale sia

di rappresentarlo. Costumi, oggetti, gesti della tradizione veicolano un messaggio che

è tanto più forte quanto riesce a sfruttare un terreno narrativo e ideologico comune sia,

e in primo luogo, al singolo paese contesto della manifestazione, sia a tutti i sardi in

generale. Per ognuno di questi elementi si è constatata la maggiore e minore efficacia

simbolica sulla base dei discorsi che scaturiscono intorno alla manifestazione.

L’obiettivo della seconda parte del quarto e del quinto capitolo è appunto quello di

esaminare il ruolo giocato da specifici elementi nel contesto del Matrimonio Selargino.

Nel quarto capitolo vengono esaminati in particolare i discorsi intorno agli elementi

chiamati a mostrare la selarginità della festa: l’abbigliamento tradizionale, la catena, la

riproduzione di una tavola del 1800 scelta come logo dell’evento. Nel quinto capitolo

sono esaminati altri elementi quali la questione dell’uso della lingua sarda, le

motivazioni sottese all’uso dello spazio, quale la scelta di ambientare parte della

rappresentazione in tipiche case campidanesi e la scelta del percorso del corteo

nuziale, le motivazioni che hanno spinto a situare la festa in settembre, le voci di spesa

e gli enti finanziatori dell’evento.

La rappresentazione folkloristica è per certi aspetti assimilabile a una rappresentazione

metonimica per cui una parte rappresenta il tutto. Da questo punto di vista viene

esaminato il ruolo dei gruppi folkloristici, in cui una parte della comunità rappresenta

l’intera comunità. Se per Clemente “l’asse del mondo paesano laica e moderna è

rappresentata piuttosto dalla banda municipale che non dalla chiesa e dal campanile”

[Clemente, 1997:38], nel contesto sardo il ruolo di “ibrido societario” e “perno della vita

paesana di oggi”, di associazione “laica e regolamentata, interclassista, disponibile per

le circostanze istituzionali politiche, civili e religiose, per quelle del ciclo della vita, e per

il ballo” mi sembra piuttosto attribuibile alle associazioni folkloristiche locali.

Page 15: Folklore nuziale e identità sarda

Introduzione ▪ 15

Nella costruzione del prodotto “matrimonio tradizionale” si nota una continua

manipolazione degli assi cronologici e degli ordini di antecedenza -successione, causa-

effetto. Inoltre, in tutti i matrimoni folkloristici è presente la tendenza alla ritualizzazione

di ogni oggetto e gesto. Particolarmente evidente nei casi in cui è la “tradizione” a

prescrivere una certa formalità (ad esempio per la benedizione materna), si parla di

comportamento rituale anche per ogni altro elemento che presenti una certa regolarità

nelle sequenza delle azioni. La vestizione degli sposi si trasforma così in “rituale della

vestizione”, la consegna delle chiavi in “rituale della consegna delle chiavi”, ecc. Anche

senza arrivare agli eccessi del caso olianese, in cui ogni cosa, oltre ad essere

ritualizzata, è dotata di un preciso significato simbolico, l’effetto ricercato è

l’attribuzione di una certa solennità e gravità all’evento, un modo per affermare la

fierezza e l’orgoglio che sembra debba caratterizzare ogni rappresentazione identitaria

sarda.

Note sulla ricerca: posizione etnografica e metodologia della ricerca

Ho sempre partecipato al Matrimonio Selargino, sin da piccola. Era emozionante venire

svegliati la domenica presto dall’allegro frastuono dei tamburini di Oristano, in giro per

le vie del paese a ricordare alla “comunità” selargina il grande evento (ora i tamburini

non ci sono più: la pro loco ha scoperto che non sono “filologicamente” corretti). Quei

colori, quelle forme, un costume per ogni paese, uno più bello dell’altro, il suono delle

launeddas, i buoi inghirlandati, i balli improvvisati durante le pause del corteo, poi

quelle anziane donne che fermavano la sfilata per rompere dei piatti mentre

formulavano oscure benedizioni: tutto mi pareva così ricco di fascino, così suggestivo.

Ho sempre trovato la manifestazione suggestiva e affascinante, è vero, ma anche,

come per tutti quelli della mia età, così ridicola, di cattivo gusto, in qualche modo

umiliante. Si era orgogliosi di non conoscere il sardo, di non aver nulla a cha fare con

balli e canti sardi, ed era difficile comprendere le ragioni per le quali ci fossero sardi

che insistessero nell’esaltare figure “ridicole” come quella del pastore in mastruca col

viso deformato dallo sforzo di suonare sa launeddas. La sardità era qualcosa che si

lasciava volentieri venisse attribuito agli abitanti di Orgosolo o ai Nuoresi, in ogni modo

agli abitanti di un interno arretrato e isolato.

E allora perché una tesi su questo argomento? “Un altro sardo che scrive di Sardegna”

mi sono sentita ripetere più e più volte, scoprendo di far parte di una numerosa

compagnia. Perché gli studiosi sardi di antropologia tendono a confinare le proprie

Page 16: Folklore nuziale e identità sarda

16 ▪ Introduzione

ricerche nell’ambito dell’Isola? Se i casi fossero in numero limitato si potrebbe parlare

di coincidenza, di comodità o comunque si potrebbe cercare una risposta

personalizzata per ogni caso, ma quando si ha di fronte un comportamento

generalizzato la questione diventa complessa. A parte il mito persistente di una terra

ancora in gran parte da scoprire, a parte la conclamata predilezione di settore per le

isole, è difficile trovare una risposta. Sospetto però che abbia in qualche modo a che

fare con un certo senso di inferiorità culturale che serpeggia tra i sardi, i quali, stanchi

di venir derisi con le solite battute sulla dizione o sulle pecore, reagiscono rinnegando

qualsiasi legame con l’isola oppure, al contrario, approfondendone la conoscenza. Nel

mio caso penso sia stata fatale la combinazione di amore-odio resa affascinante dallo

“sguardo antropologico” e amplificata dallo scoprirmi improvvisamente identificata

come “sarda” dagli amici “continentali”, oggetto di quegli stessi pregiudizi e stereotipi

con cui i cagliaritani si fanno beffe degli abitanti del nuorese.

Il luogo di partenza di questa ricerca non è semplicemente situato in Sardegna, è il

paese in cui sono cresciuta e ho vissuto la maggior parte del tempo. Ero informata

delle difficoltà di fare ricerca sul campo, avevo letto degli svantaggi dell’essere un

estraneo per il gruppo che si studia, ma non ero preparata alle difficoltà dell’essere

identificata come “membro del gruppo”.

Sin dall’inizio, sapendo di non poter prevedere le conseguenze, la mia idea è stata

quella di evitare il più possibile ogni riferimento alla mia famiglia e al mio parentado.

L’obiettivo era quello di passare inosservata, cercando di lavorare nel modo più

autonomo possibile, rimanendo estranea a tutte le eventuali reti di relazioni in cui sarei

stata inserita mio malgrado. Ma il tentativo di presentarmi solamente come studentessa

di antropologia culturale a Modena, è caduto quasi sempre nel vuoto. Oltre una certa

fascia di età, questo tipo di presentazione non è mai stato accettato come valido: la

reazione era invariabilmente “Ah… E fill’e di chini sesi?” da parte degli interlocutori più

anziani o l’equivalente in italiano (“Chi sono i tuoi genitori?”) da parte degli altri. Se il

riferimento al nome, poi alla professione, poi al luogo di nascita dei miei genitori non

era sufficiente, si passava alle stesse domande per i nonni, e se questo non bastava si

passava agli zii. Solo al termine di un più o meno lungo processo di inquadramento, mi

veniva chiesto quale fosse l’oggetto delle domande che intendevo rivolgere. Seppure

continui a non sopportare l’idea che il giudizio sulla mia persona e la disponibilità nei

miei confronti possa dipendere, almeno in una prima fase, da questioni su cui non ho il

minimo controllo, quali l’essere la figlia o la nipote di, è giocoforza ammettere che in

certi contesti sia stato così.

Page 17: Folklore nuziale e identità sarda

Introduzione ▪ 17

Un aspetto interessante della mia posizione sul campo è stata quella di essere

identificata come selargina, ma non al 100%. Per essere una selargina doc mio padre,

mia madre e i miei nonni sarebbero dovuti nascere e vivere a Selargius, ma solo mio

padre e la sua famiglia sono di Selargius, mentre mia madre e la sua famiglia di

Quartucciu, per cui, nonostante abbia sempre vissuto a Selargius, non faccio parte

della ristretta cerchia dei selargini a tutti gli effetti. Ma se fossi stata completamente di

un altro paese, per quanto confinante, molte cose non mi sarebbero state dette perché

non sarebbe sembrato opportuno rivelarle a un estraneo e comunque non avrei potuto

capirle. Mi è stato riferito cosa è stato raccontato ad altre due ragazze, entrambe di

Cagliari, che quest’anno si sono presentate a Selargius interessate a scrivere la tesi

sul Matrimonio Selargino (anche loro!): niente, niente di più di quello che è riportato sul

dépliant della manifestazione. Probabilmente, se non si fossero accontentate di quelle

informazioni, col tempo avrebbero anche potuto superare l’iniziale diffidenza e

raccogliere, in molto più tempo e con molta più fatica, le mie stesse informazioni. Se

invece fossi stata una selargina doc molte cose non mi sarebbero state dette per due

motivi: uno, perché ovvio che le sapessi già e comunque non sarebbe stato affar loro,

ma della mia famiglia, mettermene al corrente, due, perché avrei potuto usarle

impropriamente, e nessuno vuole essere accusato di aver messo in giro pettegolezzi e

voci sul conto di qualcun altro. E in effetti molte domande sono rimaste a lungo senza

risposta (molte lo sono ancora), in alcuni casi non mi è stato permesso di registrare, in

altri casi qualcuno è stato zittito in mia presenza con eloquenti segni non verbali. Alcuni

però, di fronte alla disarmante ingenuità delle domande e all’evidente completa

ignoranza dei giochi di potere e del sistema delle alleanze selargine, si sono assunti la

responsabilità di spiegarmi il non-detto di molti discorsi, giustificando la mia

disinformazione col fatto che, dopotutto, mia madre è di Quartucciu.

Una delle principali difficoltà della ricerca sul campo nel proprio paese è stata quella di

mantenere le distanze dalle categorie del discorso locale, cercando di mantenere una

posizione equidistante dalle parti. Ma è davvero possibile parlare di un evento pubblico

così importante per il paese senza entrare nel gioco politico locale? In alcuni casi è

stato esplicito che la franchezza con la quale si rispondeva alle mie domande era

motivata dalla possibilità di convincermi a sostenere un punto di vista piuttosto che un

altro, e di inserirmi, in quanto selargina, nel proprio sistema di alleanze. Ad esempio mi

è stata proposta una candidatura per le prossime elezioni amministrative, ma anche un

lavoro da “antropologa” in un museo etnografico di prossima (?) apertura.

Page 18: Folklore nuziale e identità sarda

18 ▪ Introduzione

Da questo punto di vista, il risultato proposto non accontenterà nessuno dei miei

informatori, ma d’altronde neppure me, a cui dispiace dover omettere una parte

consistente del mio lavoro. La conoscenza pregressa della manifestazione mi ha

aiutato a superare ben presto la facciata della festa per scoprirne il dietro le quinte, ma

purtroppo il risultato sono aneddoti, voci, affermazioni sospese tra il detto e il non-detto

il cui status di dichiarazioni appare troppo fragile per essere inserite in questo lavoro.

Mi rendo conto che molte considerazioni non verrebbero mai ripetute in pubblico e che

di molte altre si negherebbe la paternità, inoltre sono consapevole del fatto che alcune

mi sono state riferite perché gli interlocutori non si sarebbero mai immaginati che

potessero entrare a far parte di un lavoro di tesi, così come altre mi sono state riferite

sulla base di un rapporto reciprocamente fiduciatario tra informatore e ricercatore, che

preferisco non mettere in crisi. Per tutti questi motivi ho deciso di inserire solo le

considerazioni che sono state avanzate da più parti e quelle il cui autore non è

immediatamente riconoscibile. Inoltre ho cercato di bilanciare lo status incerto delle

prime ricorrendo alle fonti scritte.

Buona parte del tempo di ricerca è stata dedicata proprio al reperimento e all’analisi

delle fonti scritte, soprattutto dei documenti contenuti nell’archivio comunale e gli

articoli di giornali e riviste, sebbene debba ammettere di aver constatato più volte che

le informazioni contenute negli articoli di giornale sono soggette a errori, falsità,

approssimazioni, tanto quanto le fonti orali. Inoltre, nonostante si dedichi ampio spazio

alla descrizione della manifestazione, il materiale utile ai fini di un’indagine

approfondita è scarso. I mass media tendono a restare prigionieri dei propri stereotipi:

troviamo sempre le stesse foto (solitamente i due sposi “incatenati”) e gli stessi tipi di

descrizione con pochissimi cambiamenti (in alcuni casi il taglia e incolla da un anno

all’altro è palese).

La ricerca empirica si basa dunque su interviste e osservazioni informali (spesso a più

voci), ma anche su scambi di e-mail e conversazioni telefoniche, l’esame di collezioni

fotografiche e video. Per quanto riguarda il Matrimonio Selargino e il Matrimonio

Mauritano si aggiunge l’osservazione diretta. In particolare, per quanto riguarda il

primo, si sono rivelati preziosi i ricordi personali delle numerose angolazioni dalle quali

ho partecipato alla festa negli anni passati: in alcuni come addetta al servizio d’ordine,

in altri alla distribuzione dei dépliant e ancora come punto di riferimento locale per i

gruppi folkloristici ospiti. La decisione di affrontare l’argomento dal punto di vista

antropologico è del 2004, anno in cui, basandomi sul classico metodo

dell’osservazione partecipante, mi sono inserita nell’attività oggetto di ricerca

Page 19: Folklore nuziale e identità sarda

Introduzione ▪ 19

indossando l’abito tradizionale. Durante l’edizione del 2005 ho raccolto i commenti e le

osservazioni del pubblico, estendendo i rilievi non solo alla giornata principale

dell’evento, ma anche agli eventi collaterali organizzati nei giorni precedenti. Nel 2006

sono riuscita infine ad avere accesso a momenti più privati, tra cui il banchetto nuziale.

Come hanno affermato ironicamente alcuni miei amici, ora manca solo che mi sposi

anch’io in questo modo…

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Page 21: Folklore nuziale e identità sarda

1 “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari

Dal che voi vedete quanto degli antichissimi riti abbiano custodito i Sardi nella solennità de' maritaggi: riti che contengono la storia non solo della divina istituzione, ma degli esordi altresì della prima civiltà delle genti occidentali. Tradizioni importantissime, che i Sardi senza punto conoscerlo, ci conservarono inviolate. [Bresciani, Dei costumi dell’Isola di Sardegna]

1.1 Premessa

L’area denominata

Campidano di Cagliari

corrisponde

approssimativamente

ai territori dell’area

cagliaritana, cioè di

quell’area che può

essere identificata “nel

territorio compreso nei

limiti di una

circonferenza che, con

centro in Cagliari, si stenda per un raggio di una ventina di chilometri” [Alziator,

1984:15].

È un’estensione che si presta facilmente ad essere delimitata come unità di ricerca, in

quanto relativamente omogenea dal punto di vista geografico, storico, linguistico,

economico e delle tradizioni culturali. Fin dalle origini tale estensione è stata sottoposta

alle medesime influenze culturali, derivanti dalla sudditanza a uno stesso centro

politico e ecclesiastico e favorite dalla presenza di una vasta area pianeggiante che ha

consentito scambi relativamente facili e frequenti tra i vari paesi della zona, come pure

una medesima lingua, la variante campidanese della lingua sarda. Alziator propone

alcuni esempi a dimostrazione di questa uniformità:

il tipo della casa a pianta rettangolare che gravita sul cortile interno, il tipo del vestiario, sia maschile che femminile, i motivi dell’oreficeria popolare, i motivi del patrimonio leggendario tradizionale, la diffusione e la persistenza della launedda nella musica popolare, una sostanziale unità nella paremiologia, nella

1.1 Comuni del Campidano di Cagliari

Page 22: Folklore nuziale e identità sarda

22 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari

religiosità popolare, nella gastronomia ed in non poche manifestazioni del ciclo dell’uomo e dell’anno [Alziator, 1984:32]

Non esistono al momento studi che si occupino in modo specifico delle usanze

matrimoniali nell’isola. Affrontarne lo studio significa dunque fare i conti con una

documentazione scarsa e lacunosa, per di più prodotta con fini e metodologie

eterogenei. Inoltre, la scelta di circoscrivere l’ambito di approfondimento a una

specifica zona complica ulteriormente la ricerca. Gli studi concernenti l’area

campidanese sono senza dubbio pochi, specialmente se si prendono in considerazione

i lavori dedicati alla raccolta e all’analisi delle tradizioni popolari, fatto tra l’altro

costantemente evidenziato dagli autori presi in esame.

È opinione diffusa che la “vera” Sardegna sia altrove, la “sardità” viene presentata - nei

dépliant turistici, alla televisione, nei discorsi quotidiani - come una qualità localizzata

per lo più nel nuorese e specie tra i pastori (cfr. Satta 2003). Tendenza che coinvolge

anche gli studiosi; basterebbe una rapida occhiata nelle biblioteche sarde per

accorgersi della netta predilezione per lo studio delle zone più interne dell’isola, più

“tradizionali”1. Il Campidano appare, al confronto, un’area poco conservativa, da

sempre soggetta alle mode “continentali” del momento, per cui l’attenzione a esso

rivolta è di natura per lo più storica e sociologica, mentre l’elemento folklorico è

trascurato.

Nel tentare una ricostruzione il materiale utilizzabile è essenzialmente di tre tipi

differenti: i resoconti dei viaggiatori dell’Ottocento in Sardegna, il diritto ecclesiastico

locale, i saggi storici e antropologici pubblicati a partire dagli anni ’70.

Il primo tipo di fonti ha il vantaggio di fornire una testimonianza diretta, di prima mano,

su realtà culturali ormai scomparse, la cui descrizione è spesso molto dettagliata. Tale

materiale ha però tutti i limiti della tradizione della letteratura esotica e di viaggio a cui

appartiene di diritto: è costituito da resoconti di politici, uomini di chiesa, esploratori,

geografi, che non possiedono un’adeguata preparazione di tipo antropologico e non

sono guidati da un progetto scientifico esplicito e coerente. L’attenzione tende a

concentrarsi sulla diversità, sulla raccolta di curiosità folkloriche di tipo aneddotico,

1 Angioni è stato uno dei primi antropologi a riequilibrare il quadro degli studi sulla Sardegna, pubblicando diversi importanti lavori sul lavoro contadino, per di più su aree sarde sino a quel momento poco studiate, tra cui ad esempio Rapporti di produzione e culture subalterne. Contadini in Sardegna, Edes, Cagliari, 1974 e Sa Laurera. Il lavoro contadino in Sardegna, Edes, Cagliari, 1975.

Page 23: Folklore nuziale e identità sarda

“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 23

espressione di una realtà selvaggia nei cui confronti l’atteggiamento varia dalla

condanna morale, alla spiegazione tramite pregiudizi, allo stupore divertito. La cautela

nell’utilizzo di questo materiale è quindi d’obbligo: si rischia di attribuire ai più il

comportamento di una minoranza, di estendere a tutte le classi sociali il

comportamento di una sola, a tutta un’area un’usanza di paese. Da questo punto di

vista tale letteratura offre un’immagine omogenea di cultura che non soddisfa la ricerca

di una verosimiglianza storica: è un’impresa riuscire a determinare l’estensione di

un’attività o di un’usanza in termini di spazio, di tempo, di classe sociale. Inoltre,

spesso le osservazioni contenute in questi lavori non derivano da osservazione diretta,

bensì dal plagio, dal riassunto spesso erroneo, e altrettanto spesso non dichiarato, di

passaggi di opere di viaggiatori precedenti2.

Una grande quantità di notizie sulle usanze relative al matrimonio si ricava in maniera

indiretta dalle fonti ecclesiastiche: documenti di diritto ecclesiastico locale, annotazioni

nei Quinque Libri3, atti matrimoniali, manuali di catechismo. I divieti, le prescrizioni e le

punizioni con cui la Chiesa tendeva a regolamentare la condotta dei fedeli svelano

quale fosse il reale comportamento delle persone registrando con estrema precisione

le circostanze dell’evento da sanzionare e i dati delle persone coinvolte. Sempre a

differenza dei resoconti di viaggio, l’analisi dei documenti della Chiesa richiede una

discreta preparazione, che consenta di attivare la giusta chiave di lettura del testo,

eliminare le considerazioni negative espresse da parte dei redattori, capire il significato

nascosto dietro le circonlocuzioni e le formule utilizzate. Da tale documentazione

possiamo ricavare ciò che si dovrebbe fare (e con quali modalità) e ciò che non si

dovrebbe fare ma si fa lo stesso (con quali sanzioni), ma ben poco possiamo

conoscere a proposito di quei comportamenti ritenuti talmente normali, ovvi, tali da non

aver bisogno di essere prescritti esplicitamente, o al contrario di essere vietati in

quanto accettati anche dalla Chiesa.

È solo a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, che la ricerca storica e antropologica

si mostra più attenta nei confronti di questioni quali il matrimonio e la famiglia nella

2 A questo riguardo si veda Delitala, 1981 3 Sono così chiamati i registri parrocchiali che in seguito alle normative emanate dal Concilio di Trento ogni parroco era tenuto a compilare e aggiornare costantemente. I registri parrocchiali erano composti da cinque libri (da cui il nome): il libro dei battesimi, delle cresime, dei matrimoni, dei defunti, dei confessati e comunicati (il quale era suddiviso in stati d’anime, elenchi nominativi, dichiarazioni generiche del parroco). Fonte: Anatra, Puggioni, 1983

Page 24: Folklore nuziale e identità sarda

24 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari

Sardegna “tradizionale”. Rispetto ai lavori precedenti, di carattere prevalentemente

descrittivo e documentario, questi cercano di stabilire il senso delle regolarità

statistiche: le strategie matrimoniali, la struttura delle famiglie, il ruolo della parentela, in

contesti ben delimitati in termini di spazio e di tempo. Il più utile in questo caso è

sicuramente Famiglia e matrimonio nella società sarda tradizionale a cura di Anna

Oppo, raccolta di saggi scaturiti da un convegno dallo stesso titolo tenutosi a Cagliari

nel 1988. Purtroppo, però, per ovvie ragioni, le testimonianze degli informatori sono

limitate temporalmente al XX, o, al massimo, alla seconda metà del XIX secolo.

Per limitare i possibili errori di fraintendimento del testo, legati alla natura e

all’eterogeneità del materiale di ricerca, si è privilegiato un approccio di tipo selettivo

nella lettura dei documenti. Partendo dalle informazioni ricavate dal lavoro di ricerca sul

campo, su ciò che sanno o ricordano le generazioni viventi a proposito delle

consuetudini relative a nozze e fidanzamento, si è proceduto all’analisi della letteratura

di viaggio, dando la precedenza al materiale che facesse esplicito riferimento a paesi

del Campidano di Cagliari, ma utilizzando anche quanto riferito alla Sardegna in

generale, in cui fosse possibile riconoscere elementi della tradizione campidanese. Per

quanto riguarda il resto delle fonti, la cui contestualizzazione è stata meno

problematica, mi sono limitata a una selezione sulla base del criterio geografico.

Ciò premesso, si può ora passare ad esaminare il contenuto delle opere che si

occupano di fidanzamento e matrimonio in area cagliaritana.

Page 25: Folklore nuziale e identità sarda

“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 25

1.2 Su fastigiu - Il corteggiamento

Come è noto, la letteratura antropologica sul matrimonio è vastissima. A seconda della

prospettiva con la quale si è affrontato il tema, l’istituzione matrimoniale risulta essere

uno dei mezzi privilegiati per sanare conflitti diversamente non sanabili tra famiglie

rivali, un modo per spartirsi il potere con un accordo anziché con una lotta aperta, un

espediente per non frammentare il patrimonio economico familiare. La scelta del

coniuge non appare mai totalmente libera, in quanto ampiamente condizionata da

elementi quali la difesa di posizioni sociali, le norme morali vigenti, la salvaguardia del

patrimonio economico4. Nella Sardegna tradizionale la questione coinvolgeva

solitamente il parentado, impegnato al fine di conseguire il risultato più soddisfacente

dal punto di vista della posizione sociale e del vantaggio economico, ma coinvolgeva

anche la comunità che poteva stigmatizzare la scelta con più o meno pesanti sanzioni

sociali5. Lascerei dunque da parte le questioni relative al grado di libertà individuale

nella scelta dei pretendenti, poiché difficilmente le questioni relative al fidanzamento e

al matrimonio erano decise unicamente dai diretti interessati. Va comunque precisato

che vere e proprie forme di strategie matrimoniali erano per lo più limitate ai “ceti

proprietari”.

“Calidadi cun calidadi”6, come si sente ripetere ancora, ossia l’endogamia sociale prima

di tutto. Anche quando si diffonde la moda del corteggiamento - una pratica sociale che

si afferma in Sardegna, come nel resto d’Europa, a partire dal XVIII secolo - questo è

rigidamente sottoposto al rispetto della separazione tra le classi. Gli incontri tra i

giovani dei due sessi sono sottoposti a un severo controllo affinché avvengano

4 Per un approfondimento di queste tematiche si rimanda a Zonabend, 1988. 5 Un esempio concreto di come le questioni relative alla fondazione di una nuova famiglia non riguardassero solo i diretti interessati e le loro famiglie, ma l’intera comunità, deriva dalla disamina di Gallini (1977, secondo capitolo) delle forme di charivari in Sardegna. L’infrazione della norma che prevedeva che la famiglia fosse monogamica oltre la stessa morte di uno dei partner e che la sessualità fosse finalizzata alla procreazione legittima, era oggetto di una plateale disapprovazione pubblica che prendeva il nome di sa coredda (o suo equivalente linguistico). Nei casi di seconde nozze di un vedovo o una vedova, nozze di un anziano con una giovane, cambiamento di fidanzato di una ragazza, gravidanza illegittima, cioè nei casi di famiglia “rotta” (per morte di uno dei due membri o per abbandono di uno dei due fidanzati) ricomposta su altre alleanze, e nei casi di famiglia incompleta (perchè formata solo di madre e di figlio), veniva organizzata una chiassata satirico-ingiuriosa davanti alla casa dei colpevoli di infrazione delle norme morali, della durata di alcuni giorni. 6 Nel vocabolario del Canonico Giovani Spano il termine sardo calidadi è tradotto come “qualità, stato, condizione”.

Page 26: Folklore nuziale e identità sarda

26 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari

nell’ambito di famiglie dello stesso ceto7. Pillai [1991:44] rileva forme di endogamia

tecnica, per cui i vignaioli sposano figlie di vignaioli, i muratori figlie di muratori, mentre

Alziator [1963:65], accenna a una forma di endogamia non di paese, ma di rione,

diffusa a Cagliari “a tal punto da stabilizzare, anche fisiognomicamente, il tipo di ogni

quartiere”.

Purché sia rispettata questa condizione, si può far posto anche all’amore romantico:

Già nel XVIII secolo, similmente a quanto accadeva in altre parti d’Europa “anche tra il popolo si diffonde il linguaggio dell’amore-passione” e sempre più spazio si riserva agli slanci del cuore, alle passioni travolgenti, il tutto unito alla superstizione che i figli dell’amore nascano più belli degli altri. [Pillai, 1991:46-47]

La lunga dominazione spagnola in Sardegna ha fatto sì che soprattutto nell’area

cagliaritana l’amore sia stato concepito alla maniera del galanteo spagnolo. Il carattere

tipicamente spagnolo dell’amoreggiare in area cagliaritana sarebbe testimoniato da

molteplici termini e espressioni: primo fra tutti il termine fastigiu (da cui il verbo

fastigiai). Il sostantivo fastigiu deriva dallo spagnolo fasteig o dal catalano festej, che

indica il “far festa, rendere omaggio, fare la corte, galanteggiare” [Alziator, 1963:65;

Caredda, 1993:33].

Sino alla metà del secolo scorso, il termine fastigiu è servito a indicare le forme

attraverso cui poteva esprimersi il corteggiamento cagliaritano: solitamente tra strada e

balcone, poteva essere del tutto muto, fatto di soli sguardi, oppure per cenni e

attraverso il linguaggio dei gesti, i più intraprendenti si servivano di un rudimentale

telefono, costruito con dei barattoli uniti da spaghi tesi. Alziator sottolinea come la

distanza tra i due giovani sia una discriminante di classe: a classe più elevata

corrisponde una maggiore e più rigida distanza. Il fastigiu si esprime anche attraverso

le serenate che il giovane, accompagnato da chitarra, mandolino o mandola, dedica

alla sua bella. Alcune di queste serenate di corteggiamento sono giunte sino a noi,

raccolte da scrittori italiani e stranieri.

Saper gestire i propri spasimanti è una questione di abilità e intelligenza. Le donne che

si espongono troppo rischiano di essere occasione di critiche e di scherzi da parte della

7 A questo proposito ci si potrebbe chiedere, con Angioni (1990:18) se l’endogamia di ceto vada intesa come una “una forma di dominanza delle esigenze della famiglia, della parentela” o invece come “una forma di dominanza, di ingerenza, dei rapporti di produzione, di proprietà, anche all’interno dei rapporti di parentela”.

Page 27: Folklore nuziale e identità sarda

“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 27

comunità, fatto che può pregiudicare l’onore di una donna e quindi ogni sua possibilità

di accasarsi. In ogni modo, dal XVIII secolo, la diffusione di alcuni modi di dire mostra

che le donne non sono più disposte ad accettare passivamente le imposizioni dei

genitori o le pretese degli spasimanti, come nei secoli precedenti; la donna si appropria

della libertà di donai crocoriga8, donai ciascus9, donai su pagliettu10, tutte espressioni

per indicare che la ragazza respinge il corteggiamento. Si dice che le forbicine appese

nella cintola di ogni donna, oltre alla funzione di tagliare i fili del cucito, avessero anche

un significato simbolico: ai corteggiatori non graditi venivano mostrate nell’atto di

tagliare11. I pretendenti respinti si vendicavano con canzoni infamatorie (cantai de

malas), imbrattando le porte, sparando schioppettate in direzione della casa della

donna.

All’irrompere di una maggiore libertà nei rapporti tra i due sessi, una lunga serie di

disposizioni normative tenta di ristabilire la sottomissione all’autorità familiare. Si

rafforza la consuetudine per la quale è consentito al padre rinchiudere in convento i figli

che si fossero messi a corteggiare donne di condizione sociale diversa dalla propria,

oppure che volessero sposarsi senza il loro permesso. Si aggrava la condanna per le

canzoni infamatorie, punite con mesi di carcere. Baci e abbracci in pubblico continuano

a non essere permessi né dal costume, né dalle leggi [Pillai, 1991:47].

1.3 La figura del paralimpu

Quando un giovane proprietario del Campidano vuole sposare una ragazza d’un paese vicino e di condizione pari alla sua, cerca prima di tutto di avere il consenso del proprio padre12

8 Dal greco korkoros, crocoriga o corcoriga è il termine campidanese con il quale si indica la zucca; donai, pigai c. significa “dare (o prendere) un rifiuto” (in amore), calco sullo spagnolo dar calabazag. Vedi Spano, 1972:171 e Wagner, 1989:380. 9 Il termine ciàscu è tradotto sia da Spano [1972:157] sia da Wagner [1989:445] come “scherzo, burla, dispetto”. Secondo Alziator [1963:65] l’espressione donai ciascus deriva dall’espressione spagnola dar chasque, “disingannare”. 10 Wagner [1989:208] assegna un senso dispregiativo all’espressione campidanese donai su paliéttu che traduce con “mandar via, dar la gambata (specialmente in fatto di amore)”. 11 Puxeddu in Camboni (a cura di), 2000:154 12 Della Marmora 1826, ediz. 1995:105. Alberto Ferrero conte di La Marmora (Torino 1789- ivi 1863). Generale piemontese, il La Marmora trascorse lunghi periodi della sua vita in Sardegna come comandane militare. Alle sue eccelenti capacità di studioso si devono il Voyage e l’Itinéraire, e inoltre la costruzione di una carta della Sardegna (1845) che è stata per oltre mezzo secolo la più perfetta rappresentazione cartografica della Sardegna. Il nome di Alberto Ferrero conte di La Marmora si trova citato a volte come

Page 28: Folklore nuziale e identità sarda

28 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari

Questi, se ritiene che la ragazza sia degna dell’attenzione del ragazzo, chiama una

persona di fiducia che si presti a saggiare il parere della famiglia di lei. Alziator [1963]

sostiene che sia il padre o il tutore di lui a recarsi direttamente a casa della famiglia di

lei, ma probabilmente questo avveniva solo quando si era già sicuri dell’esito positivo

della richiesta; il rischio di subire un rifiuto fungeva da deterrente nei casi incerti. Un

rifiuto esplicito e diretto sarebbe stato un affronto imperdonabile, cui ovviava la figura

dell’intermediario (di cui si poteva disconoscere l’operato).

Tutta la letteratura in materia tende a soffermarsi sulla figura degli intermediari. Alziator

scrive di “comari compiacenti, vere professioniste in materia, precisa edizione

cagliaritana delle casamenteras spagnole” cui si ricorreva in contesti urbani, mentre

nell’area non urbana “esisteva il paralimpu, che a nozze concluse riceveva in dono un

paio di scarpe” [Alziator, 1963:67]. Lai Roggero [1995:63] ne descrive le caratteristiche:

la paraninfa doveva possedere la parlantina facile ed essere dotata di una certa dose di diplomazia e di molta discrezione.

Nonostante le proibizioni ecclesiastiche, su cui ci soffermeremo più avanti, questa

funzione era spesso assegnata ai sacerdoti: come esempio si può citare quanto

affermato nel sinodo celebrato nel 1576-77 a Cagliari in cui si impone tassativamente

ai curati

sotto pena di dieci denari a non immischiarsi in nessun modo nella trattazione dei matrimoni come intermediari […], a non intromettersi in alcuna maniera e a non portare dall’una all’altra parte nessun segno d’oro o d’argento o qualunque altro dono13

Uomo o donna, si trattava comunque di una figura che doveva aver facile accesso alla

casa della donna, per non destare sospetti sul vero oggetto della sua visita. Questi,

ricevuto l’incarico, si recava a casa della giovane prescelta, di preferenza a sera

inoltrata, per dare meno nell’occhio. Dopo i “necessari” convenevoli,

entrava subito in argomento, e con molta abilità metteva in evidenza le doti del richiedente, sottolineando in particolare i suoi pregi e le sue qualità [Lai Roggero, 1995:63]

La risposta alla richiesta era solitamente differita nel tempo (Lai Ruggero precisa: non

prima di “due settimane”) anche in caso di risposta affermativa, affinché il parentado

La Marmora, altre come Lamarmora oppure Della Marmora; in questo lavoro si è scelto di usare l’ultimo tipo di trascrizione. 13 Synodus Diocesana Calaritana, (D.F.Perez, 1576-77), Decretum II (De requisitis ad matrimonium certe contrahendum), cap.V, citato in Pala, 1985:67

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“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 29

potesse accertare l’assenza di impedimenti di alcuna sorta all’unione dei due giovani.

Una frase è rivelatrice della posizione della donna in tutta la vicenda:

alla giovane interessata non era consentito mostrare un eccessivo compiacimento [Lai Roggero, 1995:63]

1.4 Sa pregunta - La domanda della sposa

Se la famiglia di lei si mostrava favorevole all’unione dei due ragazzi, il passo

successivo era la visita ufficiale da parte dei genitori di lui in casa della ragazza, per

regolare le questioni relative a eredità e proprietà destinate ai futuri sposi. Giunti a un

accordo, si stabiliva il giorno per la richiesta ufficiale di matrimonio, chiamata sa

pregunta (o precunta), dal verbo spagnolo “preguntar”, cioè chiedere.

Il giorno fissato, parenti e amici dello sposo si recano in abito di festa a casa della

futura sposa. Giunti sulla soglia della casa, ci si accorge che il portone è sbarrato e

nessuno risponde al ripetuto bussare,

da dentro la casa s’inizia a dare una qualche risposta ai pretendenti solo quando questi, dopo aver bussato ripetutamente, fanno finta di spazientirsi. Gli si chiede che cosa vogliano e che cosa portino e la risposta è: “Onore e virtù”. A questo punto la porta viene aperta e il padrone di casa, facendo credere di non sapere di averli fatti attendere, li accoglie nella stanza degli ospiti dove è riunita tutta la famiglia in abito da festa [Della Marmora 1826, ediz. 1995:105]

Nel resoconto di Smyth, questo momento è seguito da

un profondo silenzio finché uno dei più anziani, di provata onestà, invitato espressamente, chiede la ragione per la quale c’è tanta buona gente in casa dell’amico [Smyth in Boscolo (a cura di), 2003:92]

La persona incaricata, che può essere il padre dello sposo, lo sposo stesso o un altro

uomo, risponde affermando di avere bisogno di aiuto per ritrovare un animale perduto

(o rubato? 14) che ritengono si sia nascosto nella casa.

La richiesta ufficiale di matrimonio collega la tradizione popolare sarda alla tradizione di

buona parte dell’Europa. Il rito della fidanzata nascosta è conosciuto in Francia come

fiancée cachée o substituée, in Inghilterra come mock bride, nel mondo germanico con

14 In Animali perduti. Abigeato e scambio sociale in Barbagia (1989:129 e sgg.) Caltagirone mette in evidenza come questa fase della cerimonia del fidanzamento possa essere descritta come una vera e propria azione di abigeato. Tra le diverse similitudini si nota ad esempio che la dichiarazione riguardante l’aver perduto del bestiame è la stessa che si usa per la ricerca del bestiame rubato (“in circa ‘e perdimentu” nel dialetto barbaricino)

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30 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari

la falsche braut; si tratta in sostanza di un dialogo nel quale la richiesta di matrimonio è

trasfigurata nella scusa della ricerca di un animale smarrito [Alziator, 2005:41]. In

alcuni casi, l’animale che simboleggia metaforicamente la donna è un’agnella, altre

volte una colombella, una pecora o una giovenca; ciò che accomuna questi animali è il

fatto di essere di sesso femminile e di essere solitamente bianchi, per evidenti ragioni

simboliche legate all’idea di purezza, castità, ecc..

Un esempio del discorso dell’uomo è il seguente:

Siamo venuti per chiedere il vostro aiuto, affinché possiamo ritrovare la colombella smarrita che cerchiamo da lungo tempo. Essa è così bella, così modesta, così dolce ed unica, che la vita senza di lei non ha più senso. Siamo sicuri che si trova in questa casa, perciò non andremo via se prima non la consegnerete a noi [Lai Roggero, 1995:64]

Il padrone di casa può far finta di non capire, e presentare uno alla volta i propri figli

maschi e poi le figlie femmine dicendo “Cercate questo?” finché nella stanza viene

portata la futura sposa, tenuta nascosta fino a quel momento, accolta dalle

esclamazioni di gioia di amici e parenti del fidanzato.

1.5 Fidanzamento o matrimonio?

Secondo i resoconti di alcuni viaggiatori dell’800, la domanda della sposa ha luogo in

un giorno diverso da quello del fidanzamento ufficiale, mentre per altri ne costituirebbe

parte integrante. Nel primo caso, il cerimoniale prevede che si fissi il valore dei

rispettivi doni e il giorno in cui si farà lo scambio, nell’altro si procede direttamente al

reciproco scambio.

Tali doni sono chiamati segnali, dal latino “signa”, “senyals” in catalano. La ragazza,

invitata dal padre, consegnava al futuro suocero il dono destinato al fidanzato; il

suocero ricambiava con un altro dono. Il dono per la ragazza consisteva generalmente

in elementi del vestiario oppure gioielli.

Un tipo di anello di fidanzamento molto diffuso era il maninfide, di origine bizantina, il

cui nome significherebbe “le mani (strette) in (atto di) fede”, dal fatto che sulla lamina

sono incise due mani che si stringono; la stretta di mano simboleggia il patto d’amore

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“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 31

suggellato15. Pare che nella Sardegna tradizionale gli uomini non usassero anelli, per

cui, all’atto di ufficializzazione del fidanzamento, la promessa sposa donava non un

anello, bensì oggetti quali elementi del vestiario, gioielli o anche un coltello finemente

lavorato. Secondo Gometz [1995:63] la donna metteva nella mani dell’uomo il coltello,

cioè un’arma di difesa (oltre che strumento di lavoro quotidiano), “quasi a pretendere

dal futuro sposo protezione e difesa”.

Ciò che segue è di grande interesse perché è stato frainteso dalla stragrande

maggioranza degli studiosi. Viene detto che

durante il pranzo che segue, i due giovani mangiano nello stesso piatto e, da questo momento, si considerano come uniti da un vincolo indissolubile [Bottiglioni, 2001:29], mutavano di abito, mettendo alcuni capi di abbigliamento propri degli sposati [Loi S., 1988:133], il fidanzamento ha luogo generalmente in presenza del rettore o di un altro sacerdote, per conferirgli maggiore validità [Smyth in Boscolo (a cura di), 2003:92], il fidanzamento veniva festeggiato quasi al pari di un matrimonio [Lai Roggero, 1995:65],

inoltre viene riferito che al fidanzamento segue

spesso una lunga convivenza dei fidanzati more uxorio avanti il matrimonio, senza che la coscienza comune trovi alcunché da riprovare […] Quello che avviene durante questo periodo non è più fatto della comunità, ma rientra negli affari personali dei due [Alziator 2005:38 e sgg.] la donna iurata era già considerata come appartenente allo sposo. Dada sa paraula, questi poteva anche possederla senza riprovazione salvo a subire le conseguenze della vendetta se fosse venuto al suo impegno: la violenza usata da altri sulla sposa fu pareggiata a quella usata sulla donna maritata.16

Detto questo, viene da chiedersi: non sarà che quello che gli studiosi chiamano

fidanzamento o “sponsali” sia piuttosto da intendere come un vero e proprio

matrimonio?

15 Gometz, 1995:61. Nella stessa pagina aggiunge che “un tempo, in quasi tutti i paesi dell’isola, non era consentito alle donne non maritate o non fidanzate portare l’anello, che era il simbolo esteriore della donna che aveva contratto un patto di fede o il vincolo matrimoniale”. 16 Citazione di Besta, La Sardegna medievale, Palermo, Reber, 1908:171, in Murru Corriga [in Oppo (a cura di), 1990:237]

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32 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari

Di Tucci [1922:13-17] si interroga sulla questione, avanzando delle ipotesi che però

non lo convincono del tutto. Gli sponsali sardi sarebbero costituiti da una combinazione

di elementi: su di un fondo romano si innesterebbero consuetudini germaniche con

altre di incerta provenienza, nel dubbio attribuite all’inventiva dei sardi. Come gli

sponsalia romani, si tratterebbe di una promessa di matrimonio, ma diversamente dalla

tradizione romana, richiede una forma speciale e un tipo di contratto particolare. Il

contratto stabilisce il periodo approssimativo delle nozze, ma non prevede un limite

massimo di tempo, a differenza dei due anni contemplati sia dal diritto romano, sia dal

diritto longobardo; fissa il regime economico dei coniugi: “la dote”, per il sistema dotale,

la comunione generale per i matrimoni a ladus a pare, quella degli utili per i matrimoni

assa sardisca”; impone una sanzione in caso di scioglimento della promessa, per cui, a

differenza del fidanzamento romano, ma similmente alle usanze longobarde, ha

carattere di obbligazione. Non è stipulato direttamente dalle parti, ma dai genitori, che

assumono la posizione di fideiussori rispetto alle future nozze dei figli; la figura dei

genitori è quindi equiparata a quella dei “mundualdi” del diritto germanico, piuttosto che

a quella di “paterfamilias” romani, anche se poi è difficile spiegare come mai, a

differenza degli sponsali “barbarici”, è completamente sconosciuto il prezzo del

mundio, vero o simbolico, termine col quale, nell’antico diritto germanico, si definiva la

signoria esercitata dal capofamiglia su tutte le persone e cose componenti il gruppo

familiare.

Alziator, nel 1957, accenna al problema, ammettendo la difficoltà di individuare le

origini di tale situazione. Non trovando di meglio, si appella a quella che

tradizionalmente è considerata la causa prima di ogni problema sardo, cioè

l’isolamento, il quale avrebbe reso lenta e difficoltosa l’assimilazione delle istituzioni

cristiane, favorendo il persistere di antiche usanze. Gli effetti determinati dagli sponsali,

prima di tutto la coabitazione all’infuori del matrimonio, potrebbero essere la traccia di

un periodo precristiano in cui

l’istituto del matrimonio era considerato nella coniunctio maris et foeminae e nulla più, all’infuori di ogni diritto positivo o di ogni norma morale o religiosa [Alziator, 2005:38]

La realtà sembra molto diversa. Nel rituale bizantino la celebrazione del matrimonio

prevede due momenti distinti: nel primo i fidanzati, interrogati dal sacerdote, esprimono

il loro consenso con decisione irrevocabile, nel secondo si celebra il sacramento in

chiesa in modo solenne, senza replicare il consenso [Pala, 1985:102]. A seguito della

totale affermazione degli usi bizantini da parte della Chiesa sarda [Pala, 1985:61], la

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“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 33

celebrazione tradizionale in casa, preceduta, come abbiamo visto, dal contratto

familiare, era considerata un vero e proprio matrimonio, mentre la celebrazione in

chiesa una semplice formalità.

Si noti che nella lingua sarda mancano i termini “fidanzamento” e “fidanzata/o” così

come li intendiamo attualmente, mentre sono presenti i termini mulleri (dallo spagnolo

“mujer”) e sposa. È plausibile avanzare l’ipotesi del mutamento semantico dei termini in

seguito al Concilio di Trento? La mia ipotesi (tutta da verificare) è che in seguito al

Concilio il primo termine - mulleri - prese a significare che quest’ultima era riconosciuta

come tale anche dalla Chiesa e dallo Stato (in quanto la cerimonia nuziale si era

celebrata seguendo le prescrizioni canoniche), mentre il secondo termine - sposa -

cominciò ad essere utilizzato per la donna sposata agli occhi della comunità, ma che

Chiesa e Stato consideravano solo come ufficialmente fidanzata.

1.5.1 La risposta della Chiesa romana

La Chiesa Romana interviene in Sardegna per disciplinare le usanze matrimoniali sin

dal sec. IX; ma è con il Concilio Lateranense IV del 1235 che vengono sancite nello

specifico le formalità per il matrimonio: accertamento della mancanza di impedimenti,

obbligo delle tre pubblicazioni, scambio del consenso di fronte al sacerdote,

benedizione nuziale. Celebrare il matrimonio senza osservare tali norme comportava il

rischio di sanzioni molto severe, tuttavia, sebbene la celebrazione nuziale familiare non

fosse ritenuta “lecita”, era comunque considerata “valida” [vedi Loi 1988 e Pala 1985].

Le cose cambiano radicalmente con il Concilio di Trento, durante il quale, nella VII

Sessione del 3 marzo 1547 e nella XXIV Sessione dell’11 novembre 1563, si riformula

la dottrina sul matrimonio. Viene stabilito che il matrimonio, per essere valido (non più

solo per essere lecito), deve essere celebrato di fronte al parroco o a un suo delegato,

alla presenza di almeno due testimoni. Contemporaneamente si vieta ai parroci di

prendere parte alle celebrazioni in famiglia. La Chiesa romana tende dunque a limitare

l’ambito di partecipazione del sacerdote - prima indispensabile sia nella formulazione

degli sponsali che nella celebrazione del matrimonio - soprattutto per non avallare

l’equivoco che la conclusione degli sponsali, presente il parroco, dovesse ritenersi vero

matrimonio. Nonostante queste prescrizioni, il basso clero continua a intervenire alla

celebrazione familiare del rito nuziale, creando in tal modo una divaricazione tra base e

vertice che confonde i fedeli. A Selargius, ancora nel 1849, Angius scrive nel dizionario

del Casalis che “quando si contraggono gli sponsali, il prete assiste alle consuete

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34 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari

cerimonie ed è testimone della parola di uno all’altra” [Angius, Casalis 1849:794, voce

Selargius]

Con il Concilio di Trento, il tradizionale rito familiare assume per la Chiesa il valore di

promessa matrimoniale, ma tra il basso clero e la popolazione la confusione è tale che

ancora nel sinodo del Cariñena - tenutosi a Cagliari circa due secoli dopo il Concilio - si

ritiene necessario precisare in modo esplicito e chiaro la differenza tra sponsali e

matrimonio:

Gli sponsali consistono in una promessa legittima e mutua di accasarsi, fatta tra i contraenti e anteriore al matrimonio che intendono contrarre, ma non sono il matrimonio, poiché questo si contrae solo con parole al presente e con l’immediata consegna e accettazione17

La differenza tra sponsali e matrimonio è dunque che nel primo si parla al futuro,

mentre nel secondo i verbi sono al presente e il proposito espresso ha validità

immediata.

Da questo momento la celebrazione domestica assume valore di matrimonio solo se:

1) viene consentita dal vescovo tramite dispensa, 2) si svolge alla presenza di

sacerdote e testimoni, 3) si segue scrupolosamente il rituale ecclesiastico, evitando

ogni intromissione legata ai riti tradizionali.

La frequenza con la quale si concede la dispensa è inizialmente molto alta, ma scema

progressivamente nei secoli, sino ad arrestarsi: il matrimonio deve essere celebrato

interamente in chiesa per evidenziare che è questa a detenere il potere sulla

giurisdizione matrimoniale, in contrapposizione coi principi illuministici tendenti a

trasferire tale giurisdizione allo Stato. La cerimonia domestica non è comunque

completa senza la ricezione della benedizione nuziale, questa volta obbligatoriamente

e senza eccezioni in chiesa. In caso contrario, agli sposi non è consentita la

coabitazione.

Non concludere tutte le formalità ecclesiastiche e vivere comunque come marito e

moglie, è una pratica comune a molte parti d’Italia prima del Concilio, ed è un

comportamento che persiste in Sardegna addirittura sino al XX secolo, nonostante le

pesanti multe e le pubbliche pene comminate ai trasgressori. La Chiesa, come

apprendiamo dai sinodi, continua per secoli a non comprendere le tradizioni locali e le

17 Constituciones Synodales del Arzobispado de Caller, Caller-S.Domingo 1715, pp. 74 -75, traduzione di Pala, 1985:68, nota 8.

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“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 35

motivazioni che portano all’inosservanza delle norme, attribuendo gli abusi a lussuria e

superstizione. Secondo studiosi come Turtas, Loi e Pala, la tradizione culturale sarda

sul matrimonio resistette per secoli rifiutando quegli elementi imposti “per legge”, ma

mancanti di un radicamento nella realtà locale.

1.5.2 Le coabitazioni

In particolare, la condanna della Chiesa si rivolge contro la coabitazione - sia dei

fidanzati, sia degli sposi che non abbiano ricevuto la benedizione nuziale - terminologia

ecclesiastica colla quale non si indica necessariamente che i due abitino insieme,

quanto il sospetto che siano colpevoli di avere rapporti carnali [Loi S., 1988:133, nota

83].

La pratica delle coabitazioni è un fenomeno diffuso che persiste non solo nelle zone

più interne e isolate, ma anche nel Campidano di Cagliari, come rileva Pillai

analizzando le fonti archivistiche e segnalando casi a Selargius nel 1808, a Sinnai nel

1817, a Quartu Sant’Elena nel 1844, a Settimo San Pietro nel 1851. A Maracalagonis,

nel 1828, si arriva addirittura a ritenere lo “scandalo delle coabitazioni” causa di siccità,

castigo inviato da Dio per punire tali peccatori [Pillai, 1992:443]. Angius annota per

Selargius una media di 20 matrimoni l’anno, con punte che sorpassano i 30

quando per ordine superiore furono obbligati a contrarlo quelli che erano fidanzati da qualche anno e anche evatitavano [abitavano?!] [Angius, Casalis 1849:793, voce Selargius]

Simile offesa a Dio veniva punita tramite multa e penitenza pubblica. Le multe

dovevano essere pagate più o meno da tutti, perché il significato della coabitazione

poteva essere esteso sino a includervi qualunque frequentazione dei due fidanzati.

Così, denuncia l’arcivescovo de la Cabra nel 1647, i più ritenevano, avendo pagato la

pena imposta, di aver provveduto all’espiazione della propria colpa e continuavano a

coabitare. Le sanzioni erano estese a tutti quelli che sapevano, ma non denunciavano

immediatamente la situazione, compreso il prete.

Se la multa poteva essere evitata a causa delle misere condizioni economiche, la

penitenza era d’obbligo. Il sinodo del Cariñena (1715) è estremamente chiaro al

riguardo:

Quando lo stato di povertà sia tale, da costringere la nostra pietà a condonare la multa pecuniaria, in nessun caso verrà perdonata la penitenza pubblica da compiersi in un giorno di precetto nel corso della Messa Maggiore stando in piedi, tenendo ciascuno in mano una candela accesa scalzo l’uomo, e la donna unita a

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36 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari

lui, scarmigliata con i capelli sciolti, e tale penitenza vogliamo sia compiuta prima di sposarsi da tutti i colpevoli di coabitazione, qualunque sia il grado e la condizione cui appartengono18

Più avanti nello stesso testo si legge che tutta la comunità parrocchiale è tenuta a

vigilare sui comportamenti dei promessi sposi e a denunciarne la coabitazione al

parroco, che, da parte sua, sotto pena di scomunica, è obbligato a tentare di separare i

due fidanzati; se al terzo tentativo non ottiene risultati può vietarne l’ingresso in chiesa.

Come è possibile spiegare questa contrapposizione tra Chiesa e popolazione? Quali

sono le motivazioni che spingevano le persone a incorrere nelle pesanti sanzioni della

Chiesa piuttosto che rinunciare alle pratiche tradizionali?

Una prima risposta attribuisce l’inosservanza delle leggi a ignoranza e superstizione.

L’ignoranza, l’abbiamo visto, è dovuta al repentino cambiamento della legislazione

matrimoniale, che lo stesso clero fatica ad accettare. Per quanto riguarda la

superstizione, il sinodo cagliaritano del 1651 riporta quanto già affermato nel sinodo del

1586, la credenza secondo cui gli sposi dovevano avere rapporti sessuali prima del

matrimonio ecclesiastico, altrimenti sarebbero morti entro l’anno. La chiesa sarda, nello

stesso sinodo, si oppone a questa superstizione accrescendo, sulla base di alcuni

racconti biblici, le considerazioni negative sulla sessualità e consigliando l’astensione

dai rapporti sessuali ancora per tre giorni dopo aver ricevuto la benedizione nuziale

[Loi S., 1988:125].

Ma la motivazione più importante, probabilmente, è un’altra, legata alle spese

necessarie per pagare le pratiche della celebrazione ecclesiastica. Loi Salvatore riporta

la situazione del XVI secolo in cui la sola lletra de sposar, la licenza di matrimonio,

costava 12 lire; poiché la paga di un lavoratore dipendente di basso livello era di circa

25 lire l’anno, si può ben capire la difficoltà di affrontare simili spese [Loi S., 1988:135,

nota 90]. Alle spese si aggiunga il tempo necessario a ottenere le dispense, specie

quelle per cui era necessario il ricorso alla Santa Sede, come nel caso dei matrimoni

tra consanguinei. La dispensa poteva essere concessa gratuitamente solo se i

contraenti non possedevano beni di alcun tipo, dietro richiesta della curia;

diversamente, erano costretti a vendere tutti i loro beni al fine di racimolare il

quantitativo richiesto.

18 Constitutiones Synodales del Arzobispado de Caller, Caller-S.Domingo 1715, p. 180, citazione e traduzione in Pala, 1985:69 nota 12

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“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 37

Nel Campidano, a queste motivazioni, si deve aggiungere la consuetudine (talmente

radicata da essere valida tutt’oggi), che vuole che il matrimonio sia celebrato solo dopo

che l’uomo abbia procurato la casa e la donna il necessario per viverci: “non ci si sposa

se non ci sono le condizioni dell’autonomia” [Ortu in Oppo (a cura di), 1990:39]. Nella

stragrande maggioranza dei casi, la struttura familiare era ed è caratterizzata dalla

mononuclearità, rafforzata dalla regola della neolocalità: questo significa che la coppia

si trasferisce in una nuova casa, in cui risiede coi propri figli. A conferma di quanto

affermato, riporto i risultati della ricerca condotta da Anna Oppo [in id. (a cura di),

1990:101] sulla struttura delle famiglie in alcuni paesi del Campidano di Cagliari fra

Ottocento e Novecento. Soddisfare questa esigenza comportava lunghi anni di

sacrifici, lunghi anni di fidanzamento che le famiglie tendevano ad alleviare

concedendo ai futuri sposi la possibilità di frequentarsi senza troppi controlli.

1.2 Tabella tratta da Oppo in id. (a cura di), 1990:101

1.6 L’esame dei contraenti

Il matrimonio in Chiesa era reso problematico anche dalle condizioni poste affinché

fosse riconosciuto come valido. La dottrina dogmatica della Chiesa cattolica sviluppata

nel Concilio di Trento, concepiva il matrimonio come sacramento e contratto

indissolubile, unione di un uomo con una donna. Affinché tale contratto fosse valido, i

contraenti dovevano rispettare questi presupposti [Pala, 1985:68 nota 4]:

1. aver raggiunto l’età legittima ;

2. non essere parenti entro il quarto grado;

3. non aver fatto voto solenne di castità;

4. non essere incorsi in nessuno dei 15 impedimenti;

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38 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari

5. esprimere il consenso di fronte a un sacerdote e dei testimoni;

6. esprimere il consenso in modo libero e non estorto, in modo esplicito con parole o

segnali equivalenti.

L’età minima per convolare a nozze era di 14 anni per l’uomo e di 12 per la donna; la

Chiesa, da un certo momento, stabilisce anche l’età minima perché si potesse essere

coinvolti in contratti sposalizi, sette anni per entrambi [Atzori, 1997:34]. Effettivamente,

l’età non è mai stata un grosso problema: per le motivazioni descritte precedentemente

(preparazione del corredo, spese per la celebrazione), era molto più frequente che gli

sposi si sposassero tardi, causando tassi di fecondità ridotti rispetto alla media

europea. Da una ricerca condotta da Anna Oppo in alcuni paesi del Campidano di

Cagliari sull’età del primo matrimonio di piccoli e medi proprietari coltivatori (nati prima

del 1910), si ricava che l’età media degli uomini è di 29 anni, mentre per le donne di

24,7 [vedi sotto].

1.3 Tavola tratta da Oppo, in id. (a cura di), 1990:108 Per quanto riguarda la posizione della Chiesa nei confronti dei vincoli parentali, sembra

che il comportamento fosse differente a seconda che la richiesta provenisse

dall’ambiente popolare o da quello nobiliare [Atzori, 1997:25]. Nei confronti dei nobili, la

dispensa veniva concessa più facilmente, mentre i ceti popolari, di fronte al rifiuto della

Chiesa, erano costretti a subire l’infamia di autodenunciare la consumazione di rapporti

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“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 39

carnali, anche quando questo non era vero, extrema ratio per ottenere la dispensa in

questi casi.

Gli impedimenti al matrimonio, così come fissati dal Concilio di Trento, si dividevano in

dirimenti e impedienti: i primi (sono 15) rendevano nullo il matrimonio, i secondi (sono

4) lo rendevano illecito; mi sembra necessario, per l’importanza che ad essi veniva

attribuita, riportare integralmente, almeno in nota, la spiegazione di Pala per ognuno di

essi19.

19 Pala, 1985:56-57 1) ERROR: l'errore di persona ha luogo quando si contrae matrimonio con persona diversa da quella con la quale si voleva contrarre; 2) CONDITIO: si verifica quando si contrae matrimonio con persona che appartenga a condizione totalmente diversa da quella dichiarata; 3) VOTUM: l'emissione del voto di castità perpetua rende nullo il successivo matrimonio sia per l'uomo che per la donna; 4) COGNATIO: la parentela, che può essere di ordine spirituale, ed è quella che ha origine dal battesimo e dalla cresima tra padrini e i figliocci; di ordine legale, che si stabilisce tra l'adottante e l'adottato; di ordine naturale ed è la vera consanguineità. Quest'ultima, in linea retta invalida qualunque matrimonio, in linea collaterale fino al quarto grado compreso; 5) CRIMEN: in quattro modi si configura questo impedimento: a) quando si uccide il coniuge con la collaborazione o consenso del coniuge dell'ucciso; b) quando l'uccisione del coniuge è stata preceduta dall'adulterio consumato con il coniuge superstite; c) quando l'adulterio è accompagnato dalla promessa di contrarre matrimonio dopo la morte del coniuge; d) quando, vivendo la legittima consorte, si contrae e si consuma il matrimonio con altra persona, consapevole dell'esistenza del vincolo precedente. 6) CULTUS DISPARITAS: quando il matrimonio viene contratto tra persone di diversa religione, p.e. tra un cristiano e un giudeo, un pagano, un maomettano; 7) VIS: è la violenza morale esercitata sulla volontà di uno dei contraenti con castighi, vessazioni o minacce, per indurlo a contrarre matrimonio senza la necessaria libertà. Deve essere esercitata in forma grave ed ingiusta. 8) ORDO: è l'impedimento derivante dall'aver ricevuto uno degli ordini maggiori; suddiaconato, diaconato o sacerdozio, che comporta l'obbligo del celibato permanente. 9) LIGAMEN: è dato dal vincolo matrimoniale validamente contratto e non sciolto legittimamente, che vieta di stringere matrimonio con altri. 10) HONESTAS: detto anche di quasi-affinità, esiste tra l'uomo e i consanguinei in linea retta della donna con la quale ha celebrato valido fidanzamento o contratto matrimonio non consumato; nel primo caso si ferma al primo grado, nel secondo caso si estende fino al quarto grado compreso. 11) AMENTIA: la pazzia nella forma che privi l'individuo della ragione e, conseguentemente, della possibilità di emettere valido senso. 12) AFFINITAS: nasce dal vincolo tra uno dei coniugi e i parenti dell’altro coniuge a seguito di matrimonio valido, anche se non consumato. Circa il grado di estensione del divieto, bisogna distinguere: se nasce da copula lecita, si estende fino al quarto grado compreso, se illecita, fino al secondo grado. I gradi dell'affinità vanno computati con quelli della consanguineità. 13) CLANDESTINITAS: si verifica quando il matrimonio viene celebrato in assenza del Parroco proprio, o di due o tre testi. 14) IMPOTENTIA: consiste nell'incapacità al compimento della copula matrimoniale, antecedente al matrimonio e perpetua, cioè inguaribile; 15) RAPTUS: ha luogo con il sequestro violento della donna per scopo di matrimonio. Può effettuarsi o in forma violenta o con lusinghe e seduzione. 1) TEMPUS: riguardava il tempo della celebrazione che restava interdetto in due periodi dell'anno

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40 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari

Nulla sfuggiva alle strette maglie della Chiesa, che predisponeva nel dettaglio le

modalità di esame non solo dei contraenti, ma anche dei loro testimoni.

L’interrogatorio, che si svolgeva sotto giuramento, prevedeva che i testimoni

rispondessero in modo convincente e preciso riguardo alla possibilità che fossero stati

pagati per testimoniare il falso, le basi sulle quali si fondava la sicurezza della

mancanza di impedimenti, le circostanze dell’avvenuta conoscenza dei fidanzati [Pala,

1985:58-59].

Se si superava il controllo, nella parrocchia dei due fidanzati, per tre settimane di

seguito, veniva pubblicizzato il futuro matrimonio durante la messa maggiore, per dare

la possibilità a quanti ne fossero a conoscenza, di rivelare eventuali impedimenti di cui

non si fosse ancora accertata l’esistenza.

1.7 Su trasferimentu de is arrobas - Il trasporto del corredo

Con il matrimonio si voleva costituire un nuovo nucleo familiare che fosse autonomo e

autosufficiente. Perché questo fosse possibile, occorreva disporre dei beni e dei mezzi

che consentissero un’attività remunerativa e le attività quotidiane da svolgersi in casa.

Nel caso di famiglie contadine - la maggioranza nel Campidano - il minimo

indispensabile per cominciare una vita a due, consisteva di un posto dove stare,

dell’essenziale per la cucina e la camera da letto, biancheria, un minimo di provviste e

di sementi, e possibilmente una coppia di buoi da giogo [Ortu e Angioni in Oppo (a

cura di), 1990].

Tutti i cultori di tradizioni popolari si trovano d'accordo su quanto spetti all’uomo e alla

donna nel provvedere al necessario per la casa. L’uomo deve provvedere alla casa,

che deve essere nuova o almeno accuratamente ripulita e re-imbiancata, e deve inoltre

provvedere a tutto ciò che attiene al proprio lavoro20; mentre alla donna spetta

liturgico: dall'avvento all'epifania; dal mercoledì delle ceneri all'ottava di Pasqua inclusa; 2) VOTUM: il voto semplice di entrare in religione o il voto di castità, di non sposarsi, il voto di accedere agli ordini sacri rendevano illecito il matrimonio anche se tale voto fosse stato emesso privatamente; 3) SPONSALIA: gli sponsali contratti validamente e non sciolti con atto legale; 4) ECCLESIAE VETITUM: il divieto apposto dalla Chiesa a contrarre matrimonio fino a che non venisse chiarita l'esistenza o meno di un impedimento di legge. 20 Per un’analisi approfondita della divisione sessuale del lavoro nella Sardegna tradizionale si veda Da Re, 1990. In generale, rispetto al resto d’Europa, per la Sardegna tradizionale gli studiosi hanno notato “una più marcata specializzazione maschile in uno dei tre grandi mestieri tradizionali: contadino, pastore, artigiano, da una parte; e dall’altra, una più marcata specializzazione genericamente femminile nell’essere e nel dover essere donna di casa, cioè addetta ai lavori domestici connessi con l’alimentazione, il vestiario

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“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 41

l’incombenza del mobilio e della biancheria. Una consuetudine nota almeno dal XVIII

secolo, se l’anonimo piemontese in visita in Sardegna tra il 1755 e il 1759, può

annotare che

fra gli Villani di campagna, che si maritano, richiedesi che l’uomo abbia la Casa, il Carro, o Cavallo secondo è il Paese, o di pianura o di Montagna, e che la Donna porti il letto compito li utensili di Cucina, e venghi in casa proveduta di Vestimenta [Anonimo piemontese, 1985:51]

La quantità e la qualità del corredo varia enormemente a seconda del ceto sociale.

Questa considerazione, di per sé banale, non è più tale se si considera che il corredo

viene trasportato per le vie del paese, esposto alla curiosità della comunità, che ne fa il

parametro più significativo per determinare la posizione sociale e il prestigio della

nuova famiglia21. Il trasporto del corredo nella nuova casa è dunque una gara a chi

riesce a mostrare di avere di più e della qualità migliore, il pretesto per fare sfoggio

della propria ricchezza, e nulla nell’organizzazione dell’evento viene lasciato al caso.

Più la famiglia è ricca, maggiore è lo sfarzo e la solennità con cui avviene il

trasferimento, e l’occasione diventa una vera e propria festa, tale che nessuno studioso

resiste alla tentazione di descriverne i particolari.

Nel Campidano il trasporto avveniva per mezzo di carri trainati da buoi, di due tipi: un

tipo serviva per il trasporto delle masserizie, mentre l’altro, le famose traccas, erano

adibite al trasporto di persone e riccamente adornati con drappi di seta e di raso, nastri

colorati e fiori di carta. Della Marmora descrive le traccas come normali carri, “su cui

però si mettono dei materassi e che si copre con una tenda” [Della Marmora 1826,

ediz. 1995:108], mentre Joseph Fuos, nel 1779, lo descrive come un mezzo piuttosto

primitivo: corti e stretti, questi carri

hanno due ruote basse, le quali sono tagliate in cerchio da parecchi assi insieme incastrati, e non girano all’asse, ma fissate con questo girano fra due cavicchi di legno attaccati al di sotto del carro. I due buoi aggiogati, sono guidati colla fune legata alle orecchie. Il contadino si mette sul carro, tiene le redini nelle mani, punge col suo stimolo i buoi, grida il suo ci ei ià, e guida colla presunzione di guidare la più ingegnosa macchina che sia possibile in quel genere [Fuos in Boscolo (a cura di), 2003:60]

e la manutenzione della casa, il riordino e la pulizia di ciò che giornalmente si consuma e si sporca” [Angioni in Oppo (a cura di), 1990:19]. 21 Sul corredo-arredo come oggetto simbolo di status e sulla sua quantità e qualità si veda Da Re, 1990:129 e sgg.

Page 42: Folklore nuziale e identità sarda

42 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari

1.4 Sagra di Sant’Efisio, Cagliari, 1 Maggio 2006 [foto Francesca Salis]

1.5 Antico Sposalizio Selargino, Selargius, 10/09/2006 [foto Francesca Salis]

Page 43: Folklore nuziale e identità sarda

“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 43

Neanche i buoi sfuggivano al delirio di decorazioni, per cui si provvedeva a lucidarne le

corna e a decorarle con nastri colorati, grandi mazzi di fiori o arance infilzate; al collo

venivano poste grandi collane di velluto, raso o seta, e campanelle dal suono gioioso e

squillante. La vistosità, la grandezza e la ricchezza degli addobbi costituiva un altro

indicatore della ricchezza delle famiglie, e si faceva a gara a chi ne possedeva di più

belli, tanto che, ci informa Cabiddu [1965:33], facevano essi stessi parte del corredo, e

si tramandavano in eredità da madre in figlia.

Della Marmora [1826, ediz. 1995:105] ci informa innanzitutto che il trasporto non

avviene un giorno qualsiasi, bensì 8 giorni prima della celebrazione del matrimonio in

chiesa. Giunto il giorno designato, dalla casa dello sposo parte la comitiva che si reca

a casa della sposa per la consegna del corredo, seguita dai carri necessari per il

trasporto. Alla cerimonia del trasporto del corredo nuziale partecipa lo sposo, i suoi

parenti, gli amici, il paralimpu: chi a piedi, chi a cavallo, chi sulle traccas. Tutti sono

vestiti con gli abiti più belli, quelli della festa. Aprono il corteo i suonatori di launeddas,

che con la loro musica amplificano i canti allegri di tutta la comitiva e il chiasso gioioso

prodotto dai cigolii dei carri e dai campanelli degli animali, richiamando l’attenzione di

tutta la comunità che si affaccia alle porte per vederli passare. Fanno seguito i ragazzi

e le ragazze cui è affidato il compito di portare gli oggetti che non trovano posto sui

carri, perché troppo fragili e delicati: vasi, specchi, servizi in porcellana, piatti, bicchieri,

bottiglie. Insieme a loro, altre ragazze trasportano guanciali ornati con nastri colorati e

fiori.

La profusione di nastri colorati è tale (sugli animali, sulle cose, sui carri) che il Bresciani

[1850] è costretto a interrogarsi sul loro significato e la loro origine, ma una volta

informatici dello stesso uso presso tanti antichi popoli, non riesce a dirci granché,

poiché nessuno ne ricorda il significato.

Seguono i carri, in fila uno dietro l’altro; se la sposa è ricca, ci informa Nurra [1894:4],

si adoperano persino sette od otto carri. Sul primo carro c’è sempre il letto

matrimoniale, o le tavole di legno che lo compongono insieme a materasso e accessori

vari, segue il carro con le casse di legno intagliato, nel quale sono conservate la

biancheria per la casa e quella per la sposa; su un altro sono ammucchiate le sedie,

quindi altri carri contenenti sa mesa (il tavolo) con ceste coperte da tovagliette bianche

ricamate, ornate di pizzi, cosparse di chicchi di grano, petali di rose e di gerani in

segno di buon augurio, gli utensili da cucina, il telaio, il fuso e la rocca col lino, tutto

quanto serve per fare il pane, provviste di grano, orzo e fave. L’ultimo carro è quello

Page 44: Folklore nuziale e identità sarda

44 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari

che porta la macina, sa mola, cui segue a breve distanza un asinello, detto molenti,

perché il suo compito è quello di far girare la mola. L’asinello, per un giorno incoronato

di foglie e di fiori, porta al campanello un enorme pezzo di lardo e un pane nero (detto

cifraxiu) attaccato al collo [Nurra,1894:4]. Dietro al corteo vero e proprio stanno le

traccas con le donne e la ragazze che si occuperanno di sistemare ogni cosa nella

nuova casa.

È lo sposo che ha il compito di iniziare il lavoro di arredamento, mettendosi sulle spalle

il materasso del letto nuziale. Ma durante questa operazione, come raccontano Della

Marmora, Cabiddu e Bresciani:

il giovane veniva spinto dagli amici, travolto e fatto cadere malamente a terra, tra materasso e materasso, e pestato – s’accraccangiu – senza misericordia, quasi con barbara furia, fino ad esser quasi stordito, fra la gioia, le allusioni, i frizzi e i lazzi di tutti i presenti e il beffardo, ironico sorriso delle fanciulle e di tutte le donne. […] Avveniva anche che lo sposo, dopo essersi avvicinato ai carri dei materassi, se la desse a gambe levate, allontanandosi di corsa. Ma gli amici lo rincorrevano, lo raggiungevano, obbligandolo a ritornare accanto ai carri e prendere in ispalle i materassi [Cabiddu, 1965:41]

Per Bresciani si tratterebbe di finzione, di “lotta cortese”, per Cabiddu ammaccature e

dolori sono reali, per entrambi il “gioco” preannuncia al futuro sposo il peso che graverà

sulle sue spalle una volta sposato.

Sempre nella stessa casa, successivamente si svolge la cerimonia della filatura della

lana. Una donna, o più di una (in alcuni casi la madre dello sposo, o la donna più

anziana presente al trasloco, in altri paesi alcune fanciulle), sale su un tavolo

appositamente sistemato nel cortile (se il tempo lo permette) e inizia a filare la lana

cantando muttetus beneauguranti per gli sposi, mentre le altre ragazze si preoccupano

di adornare ogni mobilio sistemato con fiori e ramoscelli, che saranno conservati dopo

averli lasciati seccare e cadere da sé.

1.8 La benedizione degli sposi e il corteo nuziale

E finalmente giunge il giorno del matrimonio in chiesa, lo sposalizio vero e proprio,

detto su sposoriu (dallo spagnolo desposorios ) o sa coja (dal latino coniugium). Nel

Campidano, afferma Nurra [1894:5], si preferisce il sabato per la cerimonia nuziale

mentre la domenica è riservata al banchetto.

Lo sposo, ricevuta la benedizione dalla propria madre, si reca a casa della sposa,

accompagnato dal paralimpu, parenti, amici e in qualche caso anche da un prete

Page 45: Folklore nuziale e identità sarda

“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 45

(quando lo sposo non è dello stesso paese o quartiere della sposa? O nel caso sia

stato il paralimpu?).

Secondo alcuni, quando la ragazza sente giungere il corteo, si getta ai piedi della

madre piangendo, invocando perdono per le colpe commesse, e chiedendone la

benedizione. La madre, allora, tiene un piccolo discorso sui suoi nuovi doveri di moglie

e donna di casa, la benedice e l’affida al prete che ha accompagnato lo sposo, mentre

a questi è dato un altro prete della parte della sposa.

Il corteo dello sposo si ferma sulla soglia della casa, ma non entra; oppure entrano tutti

tranne lo sposo; il compito di chiamare la sposa sembra affidato a un’altra persona.

Sarebbe interessante avere maggiori informazioni sull’organizzazione del corteo

nuziale. È sicuro che questo fosse composto da due gruppi separati, quello dello sposo

e quello della sposa, prima l’uno e poi l’altro, ma non è altrettanto chiaro se il percorso

fosse lo stesso o facessero due tragitti diversi. Non disponiamo di dati certi per il

Campidano, mentre sappiamo che nel Sarrabus si procedeva su strade diverse,

probabilmente, spiega Cabiddu [1965:44], un rito scaramantico con il quale si sperava

di sfuggire all’attenzione del Male. Nello stesso modo può essere spiegato l’assoluto

silenzio raccomandato da altri.

Sembra che le madri non accompagnassero i propri figli in chiesa, ma ne aspettassero

il ritorno a casa, forse perché indaffarate con gli ultimi preparativi per il banchetto

nuziale.

Il corteo procedeva per coppie, con la sposa a braccetto del padre, verso la parrocchia

della sposa, dove, per consuetudine, si celebrava e si celebra tutt’ora il matrimonio.

1.9 La cerimonia del matrimonio

Per quanto riguarda la cerimonia del sacramento

fassi nell’Isola né più né meno che il cerimoniale cattolico della Chiesa [Bresciani 1850, ediz. 2001:377]

Ma in cosa consisteva il cerimoniale cattolico? La celebrazione ecclesiastica, in

ottemperanza al decreto tridentino, seguiva nella sostanza il Rituale romano, che

contemplava la formula di consenso da parte degli sposi, la benedizione dell’anello, la

conclusione del sacerdote che dichiarava i due uniti in matrimonio.

Il Rituale Romanum del 1614 costituisce lo standard sul quale si basano tutte le

successive edizioni. Ultimo fra i libri liturgici pubblicati sulla scia del Concilio di Trento,

Page 46: Folklore nuziale e identità sarda

46 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari

mantiene pressoché immutata la sua fisionomia originaria sino al XX secolo,

nonostante le modifiche apportate nel 1752 con Benedetto XIV, nel 1872 con Pio IX,

nel 1884 con Leone XIII e nel 1913 con Paolo V; solo la pubblicazione del Codex Iuris

Canonici del 1917, rese necessaria una completa revisione del Rituale nel 1925 (vedi

Sodi, Javier Flores Arcas, (a cura di), 2004: LVII e sgg.).

Prima del 1614, i parroci, per l’attività liturgica ordinaria, dovevano basarsi su una

moltitudine di sussidi di ogni dimensione e tipo, che nella forma e nella sostanza

variavano considerevolmente da luogo a luogo, costituendo motivo di preoccupazione

da parte della gerarchia ecclesiastica che vedeva minacciata l’ortodossia liturgica, o

quantomeno il decoro e la dignità della funzione religiosa. Sulla base di queste

considerazioni, riproduco parte del rituale (scambio del consenso e benedizione

dell’anello) nella pagina seguente, non solo per mostrare i dettagli delle formule

utilizzate, ma anche perché è molto probabile che questo testo abbia costituito la base

delle successive traduzioni in lingua sarda.

Il rito era in latino, ad eccezione delle domande e delle risposte dei contraenti, in lingua

sarda22.

Altro elemento significativo della cerimonia era il rituale di inanellamento, mediante il

quale la donna acquisiva l’honor matrimonii. Nel Rituale romano citato si parla solo

dell’anello che lo sposo riceve dal sacerdote e dà alla sposa - “Deinde Sacerdos

aspergat annulum aqua benedicta in modum crucis, & sponsus acceptum annulum de

manu Sacerdotis imponit in […] manus sponsae” - perciò non è chiaro se lo scambio

fosse reciproco. Inoltre sappiamo che il dito e la mano prescelta poteva variare: a volte

si inanellavano più dita, cominciando dal pollice fino all’anulare, passandolo dall’uno

all’altro della mano destra. In seguito prevalse la consuetudine di inanellare il penultimo

dito della mano sinistra, qualificato come “anulare” (“in digito annulari sinistrae”), per il

valore simbolico che questo assunse dal momento in cui S. Isidoro di Siviglia ritenne

fosse irrigato dalla vena cordialis, la vena del cuore, simbolo dell’amore.

22 Loi Salvatore, comunicazione personale.

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“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 47

1.6 Tratto da Sodi Manlio, Javier Flores Arcas Juan (a cura di), 2004:147

Page 48: Folklore nuziale e identità sarda

48 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari

Oltre all’anello, molti altri erano i simboli del nuovo legame, ma la Chiesa della

Controriforma scelse la strada della cancellazione di qualsiasi residuo vagamente

paganeggiante, imponendo dall’alto un modello uniforme valido per tutti. Della grande

varietà di simboli nuziali, si è conservato sino ai nostri giorni solo l’usanza del bacio - il

classico “e ora può baciare la sposa” dei film americani - che la Chiesa cattolica

proibisce all’interno della chiesa, ma ammette sul sagrato. Richiesto a gran voce dalla

folla in attesa fuori dalla chiesa, il bacio rappresenta simbolicamente la consumazione

del matrimonio.

1.10 Il ritorno del corteo nuziale. L’usanza detta s’arazza o de sa razia

All’uscita dalla chiesa la folla festante accoglie la nuova coppia:

Lungo la strada è una vera festa: le amiche attendono gli sposi con un piatto colmo di grano, sale e fiori, ed anche confetti, ed appena la coppia nuziale si avvicina, le buttano quasi addosso il contenuto, gridando: Buona Fortuna! [Nurra, 1894:6]

Il ritorno del corteo nuziale (solo Lai

Ruggero afferma che ciò avvenisse

anche all’andata) è caratterizzato

dall’usanza di s’arazza o de sa razia

(la grazia). Con questo termine si

indica il contenuto di un piatto colmo di

grano, sale grosso, fiori, o anche di

pezzettini di carta colorata, confetti,

monetine.

L’usanza - che mi sembra di capire

coinvolga solo le donne - prevede che

s’arazza venga gettata in forma

propiziatoria sopra gli sposi e che, esauritone il contenuto, il piatto venga rotto ai loro

piedi. Questo viene scagliato con forza, perché è necessario che si rompa, affinché il

tutto sia di buon auspicio per gli sposi. Dando credito alle affermazioni di Nurra, il piatto

si deve rompere per un altro motivo: la rottura del piatto potrebbe essere un’allusione

alla verginità della donna; intuizione plausibile, se si considera che

difatti non si fracassano punto allorché la sposa passa a seconde nozze o si dubiti della sua verginità [Nurra, 1894:6]

Per Cabiddu, un’usanza pansarda vuole che il corteo nuziale proceda con lo sposo alla

destra, per ricordare che l’uomo è l’essere umano preferito da Dio, che lo ha creato per

1.7 Il piatto de s’arazza esposto nel 2006 alla Mostra Fotografico - Documentaria sullo Sposalizio [foto Francesca Salis]

Page 49: Folklore nuziale e identità sarda

“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 49

primo a sua immagine e somiglianza. Usanza smentita dal Bresciani e da Della

Marmora, che affermano che il corteo nuziale sia composto da uomini e donne in fila,

le donne a destra, gli uomini a sinistra, e dall’incisione di Cominotti, di cui si discuterà

in seguito.

Giunti a destinazione, alla madre dello sposo spettano i cerimoniali per l’accoglienza

dei due nella loro casa. La suocera, sentendo avvicinarsi il chiassoso corteo preceduto

dal suono delle launeddas, li attende sulla soglia di casa, tenendo in una mano il piatto

con s’arazza e nell’altra un bicchiere d’acqua. Il rituale con l’acqua prevede che i

novelli sposi ne bevano un po’, mentre la restante parte, dopo aver asperso gli sposi,

viene versata davanti alla sposa nel momento in cui questa attraversa la soglia della

camera nuziale, chiamata sa dom’e lettu.

1.11 Su cumbidu - Il banchetto nuziale

Dove si tiene il banchetto nuziale? Prima a casa della sposa e poi nella loro nuova

casa oppure direttamente nella residenza dei neo sposi? Chi partecipa? La divergenza

delle fonti non permette di risalire a informazioni certe per l’area campidanese,

diversamente da altre zone dell’isola in cui un resoconto dettagliato ha permesso di

mettere in evidenza un cerimoniale dalle regole rigide e complesse23.

In ogni caso, giunto il momento del ricevimento (su cumbidu), gli sposi si siedono vicini

e

v’ha luogo la singolar cerimonia di mangiare non solo la minestra ad una scodella, ma prestandosi il cucchiaio a vicenda; così mangiano il restante allo stesso piattello, e beono allo stesso nappo, come se l’un fosse nella persona dell’altro [Bresciani 1850, ediz. 2001:378]24

Le portate del banchetto di nozze sono regolate da consuetudini che variano a

seconda della zona geografica. Nel Campidano, ci informa Nurra, si

usa della carne di montone (pezza de mascu), maccheroni in gran quantità ed una minestra cucinata col brodo del montone e condita con zafferano e formaggio fresco; dolci poi, specialmente bianco mangiare (papai biancu) [Nurra 1894:6]

23 Per quanto riguarda la Barbagia si veda ad esempio Murru Corriga in Oppo (a cura di), 1990 24Si veda anche Della Marmora 1826, ediz. 1995:108

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50 ▪ “Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari

mentre per Lai Roggero

era in uso presentare is mallureddos (gli gnocchi). Facevano seguito le varie pietanze a base di porcetto e di agnello arrosto, accompagnati da un’infinità di verdure [Lai Roggero, 1995:73]

La sola preparazione del

pane per il banchetto

meriterebbe una trattazione a

parte per la cura e l’abilità

richiesta25. Il pane degli sposi

doveva essere confezionato

esclusivamente con la

semola: la pasta,

bianchissima, veniva lavorata

a lungo, e da essa si

creavano piccole sculture

dalla forma di colombe, cuori,

ghirlande, con l’aiuto di

coltello e forbici.

Per l’occasione venivano poi preparati con cura i dolci26, soprattutto biscotti e amaretti,

e i liquori, primo fra tutti il rosolio, liquore dal sapore dolce, preparato in casa almeno

tre giorni prima con alcool, zucchero e un’essenza in polvere che dà il caratteristico

colore. La “torta” nuziale era costituita da un altro tipo di dolce chiamato gattou, un

croccante confezionato con mandorle tostate e zucchero, di varie forme (castelli,

chiese, case, ecc.).

25 Sull’arte della panificazione nella società tradizionale sarda esiste una vastissima bibliografia, per maggiori informazioni si rimanda ai seguenti testi e alle relative bibliografie: Cirese (a cura di) Pani tradizionali. Arte effimera in Sardegna, Edes, Cagliari, 1977 (in particolare Schirru, “La preparazione tradizionale del pane nel Campidano di Cagliari”, pp. 41-44), AA. VV., In nome del pane. Forme, tecniche, occasioni della panificazione tradizionale in Sardegna, Carlo Delfino, Roma, 1991, (in particolare “I pani nuziali”, pp. 73-77), e AA. VV., Pani: tradizione e prospettive della panificazione in Sardegna, Nuoro, Ilisso, 2005 (il volume è corredato da un vastissimo repertorio di foto relative a ogni tipologia di pane presente in Sardegna). 26A differenza di quelli sul pane, gli studi sui dolci sardi tradizionali sono scarsi e non altrettanto approfonditi. Per un primo inquadramento di carattere generale si rimanda a : Atzori M., Dal grano al miele: la tradizione dei dolci in Sardegna in “S'ischiglia: rivista mensile di poesia e letteratura sarda”, Vol. 15, A. 1994 , N. 1; Pinna “Panificazione e pasticceria in Sardegna alla metà dell’Ottocento: saggio di repertorio”, Cossu - Calvia - Deledda “I pani e i dolci sardi nella Rivista delle Tradizioni popolari italiane”, Bottiglioni “Pani e dolci tradizionali in Sardegna da Vita Sarda” (tutti e tre in: Cirese (a cura di) Pani tradizionali. Arte effimera in Sardegna, Edes, Cagliari, 1977)

1.8 Pani nuziali presenti alla Mostra Fotografico - Documentaria sullo Sposalizio, Selargius 2006 [foto F. Salis]

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“Delle usanze maritali” nel Campidano di Cagliari ▪ 51

La lunga giornata aveva termine, ma non è certo una caratteristica solo campidanese,

con grandi festeggiamenti, canti e balli27 che proseguivano sino a notte inoltrata.

27 Canti e balli suona come un’espressione piuttosto generica, ma la mancanza di informazioni dettagliate impedisce di precisare ulteriormente l’argomento.

1.9 Torta gattou per il banchetto nuziale dell’edizione 2006 del Matrimonio Selargino [foto F. Salis]

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2 La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda

Prima a Selargius nel 1962, poi a Santadi1 nel 1968, ad Assemini2 nel 1973. Negli anni

’60 si afferma in Sardegna una moda che nei decenni si propaga per tutta l’isola: la

moda dei matrimoni tradizionali, manifestazioni folkloristiche che si propongono di

rappresentare fedelmente la tradizione sarda relativa al matrimonio.

Il successo spinge altri paesi a imitare l’iniziativa. A Cagliari, nel 1979, si propone sa

coja casteddaia, col matrimonio in costume del presidente del gruppo folk del quartiere

di Villanova Antonio Piras. Alcuni ricordano un tentativo simile nel Sarrabus, in cui

vennero coinvolti i militari di stanza a Muravera. Nel 1983 è la volta di Monastir

[Caredda, 1983:41]. Negli anni ’80 si arrivò al punto che la Regione dovette intervenire

per frenarne la proliferazione, rifiutandosi di finanziare altre manifestazioni che

avessero per tema il matrimonio tradizionale. Nonostante ciò, la tendenza non accenna

ad arrestarsi e nel 1994 si celebra per la prima volta Sa coja antiga di Ussassai3. Nuovi

casi, recentissimi, si registrano con il “Matrimonio Tradizionale a sa ittiresa”, celebrato

nell’omonimo centro sassarese il 18 giugno 20054 e infine, tra le iniziative per la

manifestazione “Autunno in Barbagia – Cortes Apertas”5, l’”Antico Matrimonio Olianese

- Su Hujviu Ulianesu”, nel 2006 alla seconda edizione.

1 Su internet si trovano informazioni interessanti su Santadi e il matrimonio mauritano in: www.comune.santadi.ca.it/web_pages/turismo/matrimonio_mauritano.htm, Comune di Santadi, Matrimonio mauritano (ultima visita 22-04-06) e www.prolocosantadi.altervista.org, Associazione Pro-Loco di Santadi, Programma manifestazioni estate 2005 (ultima visita 22-04-06). Devo molte informazioni sulla manifestazione alla cortesia della presidente della pro-loco Denise Usai. 2 Sul sito internet www.assemini.net/Manifestazioni/Matrimonio/Video_01_02 è possibile accedere a un breve filmato nel quale viene mostrato il momento centrale della messa di matrimonio della coppia in costume. Il sito è curato da Salvatore Amisani, giornalista e presidente della pro-loco di Assemini, che qui ringrazio per le informazioni sulla rassegna e per avermi messo a disposizione tutti gli articoli da lui scritti in proposito su quotidiani e riviste. Per le informazioni generali su Assemini: www.isolasarda.com/assemini.htm, Isola Sarda. Sito dedicato alla cultura, alla natura ed alla gente di Sardegna, Assemini. Sintesi storica del paese dell’hinterland cagliaritano, di Atzori Emanuele; www.comuni-italiani.it/092/003/index.html, Informazioni e dati statistici sui comuni in Italia, Comune di Assemini (CA). 3 Le informazioni in merito sono tratte dall’intervista alla presidente della pro-loco Maria Serrau. 4 www.bogheseammentos.org/appuntamenti.shtml, Associazione culturale “Boghes e Ammentos” di Ittiri (SS), Appuntamenti (ultima visita 22-04-06). Ringrazio il presidente dell’associazione Salvatore Scanu per gli approfondimenti al riguardo. 5 www.nu.camcom.it/agenda/0157/index.asp, Camera di Commercio Industria Artigianato e Agricoltura di Nuoro, Agenda manifestazione Autunno in Barbagia – Oliena “Cortes Apertas” (ultima visita 22-10-

Page 54: Folklore nuziale e identità sarda

54 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda

Ittiri

Oliena

Ussassai

Muravera Monastir Assemini Selargius

Santadi

06). Le informazioni sul Matrimonio Olianese sono ricavate dall’intervista ad alcuni membri del “Gruppo 53” : Cenceddu, Catte Nina, Mastroni Ignazia, Palimodde Antioca, che qui ringrazio. Ringrazio inoltre la prof. Turchi Dolores per gli utili riferimenti bibliografici.

2.1 Collocazione geografica di alcuni dei paesi in cui si registrano (o si sono registrati) esempi di “matrimonio alla sarda”

Page 55: Folklore nuziale e identità sarda

La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 55

Nonostante il successo di queste iniziative, la produzione di materiale informativo

specifico è praticamente inesistente e quanto già è stato scritto è di difficile

individuazione o di scarsa reperibilità: qualche pagina all’interno di monografie ormai

fuori catalogo su specifici paesi, un articolo all’interno di una rivista turistica, poche

righe di descrizione in qualche guida alle feste, pubblicità a pagamento sui quotidiani.

A complicarne ulteriormente lo studio, il problema dell’inadeguatezza della descrizione

etnografica nello studio della festa. Nel saggio Il tramonto del totem, Apolito [1993],

analizzando il problema della descrivibilità di una festa contemporanea, si sofferma

sull’inadeguatezza delle teorie tradizionali, mettendo in dubbio la possibilità stessa di

una teoria che riesca a fornire strumenti per una lettura che non sia solo parziale. Se

si affronta la festa sul piano degli eventi - cercando un ordine di successione delle

azioni festive che permetta di raccontarla - quello che si è scelto di indicare come

inizio, svolgimento e fine, potrebbe non essere tale per gli attori della festa. Se si

decide di identificare un senso unitario della festa, si dovrà escludere tutto ciò che non

combacia con l’identificazione operata. Se si osserva la festa dal punto di vista degli

attori, si scopriranno una moltitudine di narrazioni che in qualche modo si discostano

dalla narrazione “ufficiale” della festa, significati diversi piuttosto che uno specifico e

differenziale.

In questo capitolo, messa da parte ogni pretesa di esaustività, la selezione operata

sulla realtà oggetto di indagine è in qualche modo ancora più mutilante, in quanto si

selezionano i tratti della festa riconducibili alla tradizione nuziale che si intende

riproporre, mentre non viene analizzato il contenitore festivo e le caratteristiche del

paese che le comprende.

Si può giusto notare come non sembri presente una qualche forma di correlazione tra

le caratteristiche del paese e la proposta di iniziative di questo genere. Santadi, ad

esempio, è un piccolo centro del basso Sulcis, a sud-ovest del capoluogo sardo (dal

quale dista circa 54 km) abitato da meno di 4000 persone (3758 per l’esattezza,

secondo i dati forniti dall’Istat nel 20016), che attualmente basa la propria economia

sull’agricoltura, sulla pastorizia e su una produzione vinicola di tutto rispetto (il cui

prodotto più rinomato è sicuramente il Carignano), mentre in passato ha conosciuto

anche l’attività estrattiva del carbone vegetale prodotto in loco. Assemini, invece, è un

6 www.comuni-italiani.it/092/060/index.html, Informazioni e dati statistici sui comuni in Italia ,Comune di Santadi, ultima visita 22-04-06.

Page 56: Folklore nuziale e identità sarda

56 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda

grosso centro industriale del Campidano di Cagliari (da cui dista circa 12 Km), con

23.251 abitanti all’indagine Istat del 2001, cresciuto rapidamente negli ultimi trenta anni

per l’afflusso degli immigrati provenienti da altri comuni dell’isola, attirati dalla

prospettiva di lavoro nella vicina zona industriale di Macchiareddu, la cui crisi, negli

ultimi anni, ha provocato la crisi della cittadina, la quale tenta di risollevarsi cercando

nuove prospettive di sviluppo nel turismo. Ussassai è un piccolissimo (circa 700

abitanti) paese di montagna nel cuore dell’Ogliastra, colpito profondamente dal calo

demografico con una perdita di quasi 400 abitanti negli ultimi vent'anni.

Ciò che questi paesi condividono tra loro sono i discorsi attorno a queste feste, i quali,

da un capo all’altro della Sardegna, hanno in comune un’incrollabile certezza: si tratta

sempre di “riproposizioni vere e genuine delle antiche tradizioni”.

Tra gli innumerevoli esempi che si potrebbero citare: sui quotidiani,

Rievocheranno per S.Lussorio l’antico Matrimonio Selargino. Saranno seguite le regole di un cerimoniale che affonda le sue radici nella più remota tradizione [“L’unione Sarda”, 25/10/1962, p. 6]

All’altare come cento anni fa […] una delle più antiche e suggestive cerimonie del suo millenario folklore [“L’Informatore del Lunedì”, 29/10/1962, p. 9] Un antico rito ripropone i segni magici di secoli fa [“L’Unione Sarda”, 13/09/1997];

nelle guide alle feste sarde,

È una festa comunitaria, vera e autentica […] Rappresenta il matrimonio secondo il rito degli antenati […] [Spanu, 1987:120]

Il matrimonio sardo viene riproposto nel pieno rispetto della tradizione a Assemini, a Santadi e a Selargius […] L’origine della tradizione è antichissima […] [Caredda, 1981:60]

Una festa di matrimonio, come ogni festa, è formata da un insieme di elementi che

significano, cioè si struttura secondo un proprio codice comunicativo. Gli elementi

costitutivi sono relativamente fissi e standardizzati, fanno parte delle cose che per

tradizione, “si devono fare” per quella determinata festa. O meglio, in questo caso,

delle cose che si crede si dovessero fare in quelle circostanze.

Perciò è interessante esaminare la scelta operata: nelle rappresentazioni di

“matrimonio alla sarda” quali elementi sono stati scelti come rappresentativi e degni di

essere messi in scena? sulla base di quali fonti etnografiche? Perché, nella

presentazione di queste manifestazioni, si mette sempre ben in evidenza la fedeltà

della riproposizione, ma non si spiega mai in cosa esattamente consista questa

Page 57: Folklore nuziale e identità sarda

La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 57

fedeltà? In che misura il fenomeno culturale della riproposta del folklore nuziale può

essere legittimamente messo in relazione col suo tradizionale prototipo?

2.2 Immagine tratta dal dépliant Antico Sposalizio Selargino del 25 ottobre 1964

Page 58: Folklore nuziale e identità sarda

58 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda

Page 59: Folklore nuziale e identità sarda

La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 59

2.1 Le componenti tradizionali della festa

2.1.1 Il rituale della vestizione

La condizione minima realmente indispensabile perché

si possa parlare di “matrimonio alla sarda” è che un

certo numero di persone indossino il costume

tradizionale, quantomeno gli sposi, i loro genitori e i

testimoni. Più è alto il numero dei partecipanti in

costume, più è grande il successo della

manifestazione. Per questo motivo molto spesso le

rassegne di questo tipo vengono dette del “matrimonio

in costume”: in questi casi è l’abito che fa il monaco, è

l’abito indossato dai partecipanti a fare la differenza,

specie in alcuni casi, in cui, se non fosse per questo

particolare, pochi noterebbero la differenza con un

“normale” matrimonio.

Giudici e detentori dell’ortodossia vestimentaria sono

solitamente i membri delle associazioni folkloristiche

locali, che si pongono come fine il recupero e la

conservazione del patrimonio tradizionale, soprattutto

costumi e balli. Per queste associazioni costituisce motivo di grande vanto il saper

vestire “correttamente” (beni cuncodrausu) sulla base delle norme vestimentarie del

posto, specie quando per la loro ricostruzione sono stati necessari lunghi studi su fonti

iconografiche e documentarie scarse e lacunose.

Le differenze tra paese e paese possono essere minime, ma sono queste a fare la

differenza. Ne ho avvertito tutta l’importanza per la prima volta nel 2004 quando,

applicando il metodo dell’osservazione partecipante, mi sono presentata a un’edizione

del Matrimonio Selargino vestita in costume. Per essere sicura di non sbagliare, mi ero

prima rivolta alla Pro - Loco, dove mi avevano raccomandato due cose: calze bianche

e niente trucco, poiché “prima” non ci si truccava, per il resto era facile, avrei capito da

sola come assemblare i vari pezzi. Ma appena arrivata, le ragazze del gruppo

folkloristico mi hanno fatto subito capire che ai loro occhi rasentavo il ridicolo: il numero

di spille con cui avevo fermato il velo era sbagliato, come pure il modo in cui l’avevo

sistemato (avrei dovuto lasciar intravedere una parte della capigliatura), la camicia

2.3 Cabras Cesare, La sposa, 1923, olio su tela

Page 60: Folklore nuziale e identità sarda

60 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda

troppo inamidata (si usa a Quartucciu, non a Selargius), il panno che sta davanti alla

camicia non era stato fermato nel modo canonico. Questi i difetti più evidenti, per il

resto non c’era abbastanza tempo per porvi rimedio!

Si capirà ora perché gli organizzatori parlino di “rito della vestizione”. Vestirsi

correttamente non è un’impresa semplice, specie per una persona che non ha mai

indossato il costume sardo in precedenza. La parola rito non deve ingannare: significa

semplicemente che qualche esperto/a si assume il compito di aiutare gli sposi a

vestirsi, soprattutto la sposa che deve affrontare l’ulteriore problema di come sistemare

i numerosi gioielli.

Nel Matrimonio Selargino la vestizione ha luogo in due case campidanesi7 messe a

disposizione (dietro compenso) dai legittimi residenti per ambientarvi alcuni momenti

della sagra. Gli spettatori che di buon mattino decidono di assistere alla vestizione

dello sposo, si raccolgono nel cortile di quella che dovrebbe essere la casa di

quest’ultimo. Qui lo sposo, in calzoni bianchi e camicia, sotto lo sguardo attento dei

curiosi, completa la vestizione, pezzo per pezzo. Molti più visitatori si affollano

solitamente nella “casa della sposa”, dove questa si presenta nel cortile quasi

completamente vestita. Le manca solo il velo, il giubbetto e il panno sopra la camicia,

che due ragazze del gruppo folkloristico si apprestano a sistemarle, insieme ai gioielli -

sotto lo sguardo di spettatori e fotografi - mentre i suonatori di launeddas segnalano ai

distratti l’importanza del momento iniziando a suonare.

A Santadi l’abito tradizionale indossato dagli sposi è il dono di nozze della Pro Loco,

che organizza la manifestazione; mentre negli altri paesi il costume degli sposi è in

genere preso in prestito per la durata della manifestazione. A Ittiri, nel 2005, il

matrimonio della figlia di Salvatore Scanu - presidente dell’associazione culturale

“Boghes e Ammentos” - è stato l’occasione per mostrare una nuova tipologia di abito

femminile, riesumata sulla base degli studi dell’associazione.

7 La scelta di ambientare alcune fasi del Matrimonio Selargino in case “tipiche” verrà discussa più avanti (cap. 5.3)

Page 61: Folklore nuziale e identità sarda

La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 61

2.1.2 Il commiato dai genitori

A Selargius, dopo la vestizione nelle

rispettive case, la sposa attende che

lo sposo giunga a prenderla. Intanto

lo sposo, prima di lasciare

definitivamente la casa paterna,

riceve nella sua casa la benedizione

dei genitori8. Successivamente lo

sposo, insieme al corteo preceduto

dai suonatori di launeddas, si reca a

casa della sposa, dove, inginocchiati

su due cuscini sistemati

appositamente al centro del cortile9,

entrambe gli sposi ricevono la

benedizione dei genitori di lei. La

rievocazione di Ittiri è stata molto simile: anche lì lo sposo è arrivato a casa della

ragazza a piedi scortato da parenti ed amici, e ha ricevuto insieme a lei la benedizione

nuziale inginocchiato sui cuscini sistemati nel soggiorno.

Non occorre ricorrere ai libri o ai ricordi di tanti anni fa per attestare la presenza e la

diffusione capillare della cerimonia di benedizione a Selargius. Le interviste ne

confermano l’esistenza almeno sino agli anni ’80 del secolo scorso, ma probabilmente

se ne potrebbero documentare casi in tempi ancora più recenti. Viene raccontato come

un momento molto intimo - presenti solo i parenti più stretti, genitori e figli - che vede

come protagonisti assoluti la madre e il figlio/a pronto a uscire per andare a sposarsi.

La madre può limitarsi a benedire il proprio figlio/a o tenere anche un piccolo discorso.

Le parole di benedizione sono accompagnate dall’aspersione di grano, sale, carta

colorata, sul capo del figlio inginocchiato; è il rito di s’aratza, di cui ho parlato

precedentemente, che si conclude con la rottura del piatto. La riproposizione in chiave

folkloristica delle usanze matrimoniali, non ha dunque riportato in vita un’usanza ormai

scomparsa, ma ha trasformato un evento privato - ancora presente nei primi decenni

8 Per un esempio di benedizione si veda il discorso tenuto dalla madre dello sposo nell’edizione 2005 del Matrimonio Selargino riportata nelle pagine successive. 9 La cerimonia si celebra nel cortile, invece che in casa, affinché un numero maggiore di spettatori possa assistervi.

2.4 Benedizione della sposa, Antico Sposalizio Selargino, 1963

Page 62: Folklore nuziale e identità sarda

62 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda

della manifestazione - in un momento di spettacolo. Nel Matrimonio Selargino, inoltre,

si ha la trasformazione del ruolo del padre: da spettatore passivo, come raccontano gli

informatori, diventa attore co-protagonista, spargendo sa gratzia sul capo del proprio

figlio/a.

_____________________________________

Benedizione dello sposo Efisio Secci da parte della madre Leonzia Ida Pibiri, Selargius, 10 settembre 200510 Sa beneditzioni po Efisiu Secci sa dì chi s'est cojau [La benedizione per Efisio Secci nel giorno del matrimonio]

In nomini de su Babu, de su Fillu e de su Spiritu Santu [In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.]

A tui, fillu amau e caru, deu ghetu cust'àratzia. [A te, figlio amato e caro, aspergo con questa "aratzia"]

Impàri a babu Tuu, torraus gratzias a Deus e a sa Madonna [Assieme a tuo padre rendiamo grazie a Dio e alla Madonna ]

de s'essi fatu custa grandu gratzia. [per averci fatto questa grazia.]

Gratzia de t'essi donau sa vida, [Grazia per averti donato la vita,]

de t'essi imparau s'educatzioni e su rispètu [d'averti insegnato l'educazione e il rispetto]

po chini t'hat connòtu e t'hat donau tanti afétu. [verso chi t'ha conosciuto e t'ha donato tanto affetto]

T'heus crèsciu onèstu, bellu e traballànti [Ti abbiamo cresciuto onesto, bello e lavoratore]

e auguraus a tui e a sa sposa tua, [e auguriamo a te e alla tua sposa,]

po is fillus chi hant arribai, chi fatzàis atèretanti. [per i figli che metterete al mondo, che facciate altrettanto.]

Sa domu e sa famillia chi t'hant biu [La casa e la famiglia che t'hanno visto]

pipiu, piciochéddu e bagadiu,[bimbo, fanciullo e celibe,]

tui hoi dd' has làssas [oggi hai lasciato]

po andai un' àtera a 'ndi formai cun sa sposa tua stimàda. [per andare a costituirne un'altra con la tua sposa onorata.]

Efisiu, custu coru 'e mama milli augurius imoi ti fàit.

Est stètiu bellu candu t'hapu santziau, [È stato bello quando t'ho cullato,]

ma medas bortas t'hapu puru stratallau. [tante volte t'ho anche redarguito.]

Una mama pònit a su mundu unu fillu, [Una madre mette al mondo un figlio]

dd'anninnìat, dd'incùrat, ddu crèscit, dd'ampàrat [lo vezzeggia, lo cura, lo cresce, lo protegge]

10 Trascrizione e traduzione a cura del poeta sardo Raffaele Piras, che ringrazio per la collaborazione

Page 63: Folklore nuziale e identità sarda

La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 63

m'apoi su tempus 'nei pàssat e arrìbat s'ora, [ma poi il tempo passa e giunge l'ora,]

cument' i a tui hoi, [come per te oggi,]

de ddu lassai andai po su caminu suu. [di lasciarlo andare per la propria strada.]

Ma in totu custa bella storia [Ma in tutta questa bella storia]

una cosa solu gei ti dda potzu assigurai: [una cosa posso assicurartela:]

po cantu hap'a bivi "Fillu miu" [per quanto vivrò "Figlio mio"]

s'afétu miu po tui no hat a teni fini mai. [il mio affetto per te non avrà fine.]

Tengu meda cuntentesa e cumotzioni, [Sono molto contenta e commossa,]

e cun sa manu tremi tremi, in nomini de Deus [e con mano tremante, in nome di Dio,]

ti 'ongu benedizioni [ti do la benedizione]

e t'intregu a sa Madonna Divina cun fervori [e ti affido alla Madonna Divina con fervore]

po chi ti 'onghit saludi, bundàdi [affinché ti dia salute, bontà]

e tanti e tanti amori. [e tanto tanto amore.]

In nomini de su Babu, de su Fillu e de su Spitu Santu [In nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo]

2.5 Benedizione degli sposi, Antico Sposalizio Selargino, 10/09/2006 [foto Francesca Salis].Tra il pubblico, il presidente della Pro Loco Gianni Frau e il sindaco di Selargius Mario Sau. Si noti l’assembramento di fotografi e telecamere di tv locali e nazionali pronte a immortalare l’aspersione del contenuto di s’aratzia.

Page 64: Folklore nuziale e identità sarda

64 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda

2.1.3 Il corteo nuziale

2.6 Un momento della sfilata del corteo a Selargius, fine anni ’60. Foto tratta dalla brochure illustrativa Antico Sposalizio Selargino del 1970

La manifestazione folkloristica santadese ha inizio con l’avanzare di due gruppi di

traccas e gruppi folkloristici provenienti da tutta l’isola dalla periferia della città, che

prelevano i due sposi dalle rispettive case e li accompagnano, per percorsi diversi, fino

alla piazza centrale del paese; la tracca più bella è destinata alla sposa, insieme col

padre, la madre e i testimoni. Ad Assemini un corteo di giovani donne in costume

raggiunge la casa della sposa, mentre un corteo di uomini andrà presso la casa dello

sposo, accompagnandolo in chiesa; i due si incontreranno solamente di fronte

all’altare. Nei primi anni della kermesse selargina, si formavano due scorte nuziali che,

partite rispettivamente dalla casa dello sposo e da quella della sposa, avanzavano

separatamente, da due direzioni diverse, per incontrarsi in Chiesa.

Page 65: Folklore nuziale e identità sarda

La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 65

In tutti e tre i casi si potrebbe motivare la scelta ricollegandosi alla tradizione che vuole

che gli sposi procedano da due direzioni diverse per scaramanzia (a Oliena, per questo

motivo, il tragitto nuziale non deve mai passare due volte nella stessa via), ma

potrebbe anche essere un segno della scarsa importanza attribuita al percorso dalla

casa alla chiesa, esattamente come avviene nei matrimoni di oggi. Da un certo punto

in poi, per i motivi esposti di seguito, a Selargius si decide che lo sposo vada a

prendere la sposa nella casa di lei e si rechino in chiesa in un unico corteo. Così come

avviene a Ittiri, ma anche a Ussassai e Oliena. In quest’ultimo paese i parenti della

sposa vanno a prendere lo sposo, il quale attende circondato dai parenti più stretti e da

due bambini che tengono in mano le candele adornate con nastri bianchi e su giarminu

(piccoli fiori gialli di elicriso); insieme vanno a prendere la sposa e tutti insieme si

recano in chiesa.

Il fatto che a Selargius si sia potuto giustificare come tradizionali entrambi le varianti,

mi pare un’ulteriore conferma che almeno in questo paese il tragitto casa-chiesa non

fosse sottoposto al rispetto di regole fisse. Si racconta che per la prima edizione del

Matrimonio Selargino il comitato organizzativo avesse deciso che i due cortei

dovessero procedere più o meno silenziosamente verso la chiesa, e comunque

separatamente, come descrive il Serra11, e sia stato l’entusiasmo degli spettatori a far

cambiare idea agli organizzatori. Durante la prima edizione una folla di gente si è

riversata lungo il percorso dei due sposi, benedicendo gli sposi, lanciando sale e

grano, gridando ad medas annos cun saludi e cun trigu, ossia “per molti anni con

salute e con grano”, rompendo il piatto beneaugurante contenente s’arazza. In seguito

alle manifestazioni di partecipazione entusiasta del pubblico, la sagra settembrina ha

dedicato una sempre maggiore attenzione al percorso dei due cortei, anno dopo anno

sempre più lungo e tortuoso, con sempre più partecipanti. Dopo vari tentativi - in cui i

due cortei procedono separatamente ma si incontrano nell’ultima parte del percorso - si

rinuncia definitivamente all’idea dei due cortei, che vengono fusi in uno solo. La sfilata

del corteo nuziale, che comprende la partecipazione di gruppi in costume provenienti

da tutta l’isola, passa progressivamente dalla mezz’oretta del 1962 alle due ore e

mezzo di oggi. Quello che in teoria sarebbe dovuto essere il momento meno

11 Serra M., all’interno del pieghevole Antico Sposalizio Selargino del 1962 e anni successivi

Page 66: Folklore nuziale e identità sarda

66 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda

importante, il tragitto casa-chiesa, si trasforma imprevedibilmente in uno dei maggiori

motivi di attrazione turistica12.

Nel Matrimonio Selargino la disposizione nel corteo prevede in testa il gruppo di

suonatori, tra cui i suonatori di launeddas, che, scrive Serra, “con la melopea assillante

del loro strumento arcaico imprimono alla schiera una cadenza grave e solenne” [Serra

M., dépliant Antico Sposalizio Selargino 1962]. Altri elementi fissi del corteo - la cui

disposizione e quantità è piuttosto variabile - sono le traccas, i gruppi in costume di

altre parti dell’isola e del mondo, il gruppo con i cestini contenenti pane, dolci, ecc. che

costituiscono i doni offerti per il banchetto nuziale.

Giunti di fronte alla chiesa da ogni gruppo si stacca una coppia, scelta

precedentemente, che va a seguire la messa nuziale, mentre il resto del loro gruppo si

disperde. Per ultimo avanza il gruppo folk selargino con gli sposi.

Seguendo la tradizione, sposa e sposo procedono a braccetto dei rispettivi padri,

mentre le madri non accompagnano il corteo e non vanno a sentire la messa, ma

attendono a casa il rientro dei loro figli. Così anche a Oliena, dove solo il padre

accompagna gli sposi in tutte le varie fasi della cerimonia. Almeno in teoria, perché

intervistando le madri si scopre che ritengono ormai inspiegabili i motivi per cui non

dovrebbero partecipare a un momento così importante nella vita dei loro figli, cosicché

non sempre accettano questa imposizione e si recano ugualmente in chiesa, ma si

siedono in posizione defilata (non per rispetto della tradizione, quanto degli

organizzatori).

12 La questione sarà approfondita nel cap. 5

Page 67: Folklore nuziale e identità sarda

La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 67

2.1.4 Dopo il rito ecclesiastico

2.7 Brochure illustrativa Comune di Santadi, sezione Tradizione e cultura

Per quanto riguarda il rito ecclesiastico, la questione dell’uso del sardo nella liturgia e

l’incatenamento dei due sposi, rimando ai capitoli successivi, dove verranno trattati

estensivamente per l’importanza assunta in alcune di queste manifestazioni. A

proposito della catena con la quale vengono legati marito e moglie al termine della

celebrazione religiosa, vorrei qui rimarcare che la presenza dello stesso atto in due

distinte manifestazioni, quella asseminese e quella selargina, non è da considerarsi

come una prova del recupero di una tradizione preesistente nel Campidano, come si

vedrà più avanti.

All’uscita dalla chiesa, marito e moglie ricevono gli applausi della folla. Gli asseminesi

aspettano questo momento per rompere il piatto di s’arazza, lo stesso gli olianesi che

lo chiamano su prattu de sos granos e lo scagliano a terra dopo aver lanciato il grano

in esso contenuto e aver augurato agli sposi ogni bene con la frase hin bona sorte e in

bona fortuna. Secondo uno degli asseminesi intervistati, è solo alla fine del rito

ecclesiastico che qualcuno, che non sia la madre degli sposi, può rompere

legittimamente il piatto, per questo motivo ritiene che l’uso selargino di rompere piatti

dall’inizio alla fine della festa, deve essere considerato un errore nella ripresa delle

tradizioni.

Page 68: Folklore nuziale e identità sarda

68 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda

Gli sposi selargini, ora incatenati, oltre agli applausi, ricevono una coppia di colombe

bianche che dopo aver tenuto un poco in mano, lasciano volare libere in cielo.

Sospetto che questa usanza, presente solo in questo paese, non sia realmente

tradizionale, bensì la conseguenza della passione degli organizzatori per il resoconto di

padre Bresciani. Molto probabilmente è stato il seguente passo a suggerire l’idea per

l’introduzione di un altro momento di spettacolo nel Matrimonio Selargino:

In alcune provincie però innanzi che la sposa monti a cavallo, due garzonetti le presentano una corbella piena di colombe, che essa accetta amorevolmente; e presele ad una ad una, e careggiatele con molti vezzi, apre la mano e dà loro il volo e la libertà; plaudendo gli spettatori, mentre le amorose colombe con larghissimi cerchi e velocissime penne s’aggiran per l’aere […] [Bresciani 1850, ediz. 2001:379 ]

2.8 Santadi 06.08.2006, 38°edizione del Matrimonio Mauritano [foto Francesca Salis]

A Santadi, la cerimonia religiosa si celebra nella piazza antistante la chiesa

parrocchiale, su un palco allestito per l’occasione. Subito dopo ha luogo il rito

propriamente tradizionale dell’intera festa: la benedizione materna. La benedizione, in

dialetto sulcitano, vede protagonista la madre della sposa, poi la madre dello sposo,

prima al proprio figlio, poi all’altro, in una sorta di incrocio. Così Maria Paola Pinna, che

si occupa del Matrimonio Mauritano da molti anni, descrive il “rito dell’acqua”:

[…] gli sposi si inginocchiano su un cuscino bianco e la madre della sposa, quasi con dignità sacerdotale, fa il segno della croce con un bicchiere d’acqua (acqua

Page 69: Folklore nuziale e identità sarda

La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 69

che contiene in sé gli arcani elementi della vita stessa, sacra ai nuragici, che la custodivano nei pozzi e costruivano i templi al Dio Padre e alla dea Madre presso le sorgenti: sono gli auguri più belli, più commoventi e più puri che le madri esternano con gesti semplici ai propri figli), benedice prima la figlia alla quale dà poi l’acqua da bere quindi impartisce la benedizione al genero e gli offre l’acqua da bere; ripete la stessa cerimonia la madre dello sposo: col bicchiere colmo d’acqua fa il segno della croce prima al figlio, e gli dà l’acqua da bere, benedice poi la nuora e le offre l’acqua da bere; la madre della sposa prima, la madre dello sposo poi, cospargono il capo dei figli con “sa Gratzia”, chicchi di grano, petali di rose, granellini di sale, alcune monetine: sinonimi rispettivamente di abbondanza, felicità, saggezza, ricchezza, dopo di che rompono il piatto che ha contenuto la grazia, quasi per scaramanzia, per augurare lunga vita, serenità, prosperità, felicità alla nuova famiglia. [Pinna, 2002:13]

Nella descrizione è di particolare interesse l’accostamento tra il rito e il culto dell’acqua

delle popolazioni nuragiche. A questo proposito è interessante notare che il rito è

presentato in continuità con una tradizione millenaria che si tramanda addirittura dai

tempi delle popolazioni nuragiche (come a dire da sempre). Il fatto in sé non sarebbe

sorprendente - l’antichità delle tradizioni è una strategia retorica piuttosto inflazionata -

se non fosse che le stesse persone, contemporaneamente, spieghino questi riti come

residui delle usanze introdotte dalle popolazioni della Mauritania, insediatesi nel Sulcis

attorno al 455 d.C. Da qui il nome di is maurredus attribuito tuttora alla popolazione,

nonché la denominazione di Matrimonio Mauritano. Una contraddizione così evidente

non ha mancato di scatenare polemiche tra quanti sostengono che le cerimonie in

questione non possono essere considerate di importazione, perché presenti in tutta la

Sardegna con caratteristiche simili, e quanti invece continuano a vedere in Santadi

un’isola nell’isola. Nel dubbio, anziché far prevalere l’una o l’altra tesi, si è scelto di

presentarle in contemporanea, insistendo sulla continuità di una tradizione comunque

molto antica.

In tutti i matrimoni in cui si tenta una qualche ripresa delle tradizioni è presente la

benedizione materna dopo il rito ecclesiastico. A Selargius e a Assemini gli sposi

aspettano questo momento per sciogliere la catena che li unisce nel tragitto dalla

chiesa alla casa in cui li aspettano le madri. Peculiarità della sagra asseminese, la

coppia è preceduta dai gruppi in costume e dal consueto suonatore di launeddas, il

quale però porta appeso al fianco un pane lavorato, su coccoi de sa sposa, che si dice

verrà conservato dalla coppia per tutta la vita.

Page 70: Folklore nuziale e identità sarda

70 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda

A questo punto del Matrimonio Selargino turisti e curiosi si sono ormai dileguati (sono

circa le 14, è ora di pranzo), ma anche se fossero voluti restare a seguire la sorte degli

sposi, non avrebbero potuto. Tutto ciò che avviene all’interno della “casa degli sposi”

(consegna delle chiavi, benedizione materna, rituale dell’acqua) è visibile unicamente

agli sposi, ai loro parenti, ai fotografi e agli organizzatori. Non si tratta cioè di momenti

accessibili a chiunque, ma solo a quanti in possesso dell’invito a partecipare al

banchetto, dono di nozze della Pro Loco agli sposi. Ma prima che il personale addetto

riesca a verificare gli inviti di tutti, all’interno della casa le cerimonie sono concluse da

un bel pezzo. Al banchetto sono invitati, oltre ai parenti degli sposi, gli organizzatori

dell’evento, sindaco, assessori, consiglieri comunali, ecc. L’invito è bilingue, sardo e

italiano.

Appena varcata la soglia di casa,

gli sposi vengono raggiunti da

una donna sposata (mi è stato

detto che una nubile o una

vedova non può essere scelta

per questa cerimonia), la quale

versa in terra una coppa piena

d’acqua, simbolo di purezza.

Anche in questo caso, sospetto

si sia adattato un passaggio del

Bresciani, più specificatamente

quello in cui racconta della suocera che conduce la nuora nella camera da letto degli

sposi e nel momento in cui la sposa varca la soglia, le versa davanti, per terra, una

coppa d’acqua [Bresciani 1850, ediz. 2001:380]. Nella ripresa la sposa non viene

condotta nella camera da letto - ma d’altronde non vi è una camera da letto in quella

che nella finzione funge da “casa degli sposi” - e il compito della cerimonia non è

affidato alla suocera. A quest’ultima spetta però il compito di consegnare la chiave di

casa alla nuora, un gesto col quale la suocera comunicherebbe il suo “mettersi da

parte”, la delega alla nuora della cura del proprio figlio. Subito dopo, le due madri

benedicono nuovamente i propri figli:

Sul limitare di questa casa, destinata ad ospitare gli sposi, questi ricevono l'ultima benedizione: la più fervida, la più commossa: perché è quella materna. Le due madri la impartiscono con voce trepida, aspergendo ancora di sale e di grano, con un gesto pio ed antico, il capo dei propri figli genuflessi, affinché da quei frutti

2.9 Rituale dell’acqua [foto Pino Piras]

Page 71: Folklore nuziale e identità sarda

La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 71

della natura germogli un avvenire propizio per la nuova famiglia, che crescerà sotto questo tetto [Serra M., dépliant Antico Matrimonio Selargino, 1962]

2.1.5 La classificazione di Pirisinu

Nella guida alle feste e alle sagre della Sardegna di Pirisinu [1999], Matrimonio

Selargino, Matrimonio Asseminese e Matrimonio Mauritano, sono classificate in modo

identico. Tutte e tre durerebbero un giorno, tutte e tre condividono gli stessi quattro

simboli, che stanno a significare la presenza dei seguenti elementi:

Sfilata di costumi tradizionali sardi e/o di cavalieri

Traccas, cioè i carri addobbati e i gioghi di buoi inghirlandati

Canti sacri in sardo

Musica tradizionale sarda e spettacoli folkloristici in genere: balli in costume, canti a tenore, canti a chitarra, ecc.

Evidenziando più nel dettaglio quanto indicato da Pirisinu si potrebbe aggiungere che

la sfilata è un elemento costante, presente in tutte le sagre indicate, sempre inserito nel

contesto del tragitto casa-chiesa del corteo nuziale in cui i gruppi folkloristici assumono

il ruolo - un po’ forzatamente - degli invitati dei due sposi. I gruppi procedono compatti,

a una distanza di circa dieci metri l’uno dall’altro, evidenziando in questo modo l’inizio

di un nuovo gruppo, segnalato in genere anche dalla scritta del nome del paese e del

gruppo folkloristico su un arazzo (a Selargius questo compito è affidato a un bambino

del locale gruppo scout che tiene in mano un cartello con il nome del paese). Questo

modo di procedere non dà certo l’impressione di un insieme di persone in festa che

accompagna gli sposi in chiesa, come ha notato anche Salvatore Scanu, padre della

sposa di Ittiri. Quest’ultimo, per il matrimonio della figlia, ha voluto che gli invitati (circa

200-250), ognuno nel costume del proprio paese, accompagnassero il corteo senza

restrizioni, liberi di mescolarsi tra loro, “proprio come nei matrimoni di una volta”.

Sempre presenti a Santadi, negli altri paesi la partecipazione delle traccas è

subordinata a tre condizioni: disponibilità finanziaria degli organizzatori (per l’affitto dei

carri, degli animali e per il lavoro di addobbo), presenza di persone che ricordino come

allestire in modo tradizionale i carri, reperibilità degli animali. La difficoltà di

reperimento dei buoi e di persone in grado di abbellirli per la festa, è un indice

significativo della scomparsa di un mondo contadino tradizionale che queste feste

tentano di ricordare.

Page 72: Folklore nuziale e identità sarda

72 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda

I canti sacri in sardo sono quelli cantati durante la messa nuziale. A Selargius, per

esempio, sono proposte sotto forma di canti alcune preghiere scritte nel diciottesimo

secolo da monsignor Giovanni Maria e musicate dal maestro Marco Pibiri, direttore del

coro polifonico della pro-loco.

Quanto al quarto punto, gli spettacoli folkloristici sono un altro degli elementi sempre

presenti in queste feste. Sono collocati generalmente in tarda serata e costituiscono

una sorta di collegamento con i festeggiamenti del passato che prevedevano canti e

balli. La grandissima differenza con il passato, come molti studiosi hanno rilevato, è

nella trasformazione dei festeggiamenti da momenti di partecipazione collettiva, di tutti

per tutti, a momenti spettacolari, di pochi per le masse.13

Nel contesto di intrattenimenti di tipo tradizionale sono inseribili anche le gare poetiche,

che Gallini definisce “tenzoni a più voci su un argomento proposto dal Comitato, la [cui]

origine non va forse oltre il secolo passato, in una forma che peraltro recupera e

riplasma antichissimi certami poetici”14. Questo tipo di gara è presente a Selargius,

dove viene organizzata come momento a sé stante alcuni giorni prima della domenica

del Matrimonio Selargino; il suo rapporto con la tradizione viene giustificato affermando

che sempre, in passato, le famiglie più ricche ingaggiavano dei poeti esperti perché

intrattenessero il pubblico degli invitati alle nozze.

2.1.6 Il trasporto del corredo e Sa coja antiga ussassesa

Se è vero per Santadi e Assemini, quanto scrive Pirisinu sulla durata della festa è

quantomeno riduttivo per Selargius: ben prima del 1999 (data di pubblicazione della

guida), la sagra selargina si era estesa temporalmente, collocando nei giorni

precedenti il matrimonio alcuni elementi che - per l’importanza a essi attribuita dagli

organizzatori e per la loro presenza pluriannuale (se non quando pluridecennale) -

ritengo debbano essere considerati come elementi fissi: il “trasporto del corredo” e la

“gara poetica dialettale”.

13 Su questo punto rimando al lavoro (e alla bibliografia in esso indicata) di Alessandro Deiana, che analizza la trasformazione del ballo tradizionale sardo e il ruolo dei gruppi folkloristici in tale cambiamento. 14 Prefazione di Gallini in Pirisinu 1999:6. In alcuni casi gli interventi dei vari improvvisatori sono stati trascritti e pubblicati: nella “Biblioteca Interdipartimentale Area Umanistica” dell’Università di Cagliari è possibile consultare i testi di alcune gare poetiche tenutasi in vari paesi del campidano, tra cui il testo di una Gara poetica tenutasi a Selargius la sera del 22.10.1949 per la festività di San Lussorio.

Page 73: Folklore nuziale e identità sarda

La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 73

Nel 1968 per la prima volta, gli organizzatori del Matrimonio Selargino decidono di

abbinare al corteo nuziale una sfilata di carri che trasportano il corredo nuziale:

“montati sui carri, sfileranno il telaio, la macina con l’asinello, il torchio, il letto, la biancheria della casa, il corredo personale, i preziosi gioielli d’oro, antico artigianato sardo, il corredo personale dello sposo, gli arredi della cucina, i famosi e variopinti cestini sardi, le cassapanche e tanti altri mobili” [“L’Unione Sarda”, 06/10/72, Domani a Selargius lo sposalizio sardo]

2.10 Trasporto del corredo, Antico Sposalizio Selargino, 10.09.2006 [Foto F. Salis]

Page 74: Folklore nuziale e identità sarda

74 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda

Niente a che vedere con la ricchezza, lo sfarzo e la quantità di oggetti elencati dal

Bresciani, ma comunque un ulteriore elemento di attrattiva turistica, un modo nuovo e

spettacolare per suscitare interesse mostrando oggetti che diversamente potrebbero

essere visti solo in qualche museo etnografico. L’iniziativa fu immediatamente criticata

da quanti non volevano permettere che le tradizioni fossero subordinate e addirittura

modificate “per esigenze di spettacolo”, motivazione riconosciuta anche dall’articolo

precedentemente citato. Per tradizione il trasporto del corredo era un momento di festa

a sé stante, che aveva luogo almeno una settimana prima del matrimonio a cura di

amici e parenti degli sposi, i quali aiutavano sia nel trasporto della mobilia, sia nel

preparare la nuova casa. La polemica sul rispetto della tradizione non cessò

nonostante il grandissimo successo ottenuto. La soluzione fu allora un compromesso:

negli anni successivi (ancora adesso) il trasporto del corredo acquistò uno spazio

proprio, non un settimana prima, ma il sabato precedente la cerimonia nuziale,

attirando però ben pochi spettatori, al contrario di quanto si scrive nel maggiore

quotidiano sardo.

Da elemento secondario a elemento di primaria importanza: a Ussassai il trasporto del

corredo costituisce il momento centrale nella riproposizione del matrimonio

tradizionale. In un paese così piccolo, in cui tutti erano parenti - racconta Maria Serrau,

presidente della pro-loco - tutti si riversavano nelle strade per "currere sa pandela"

dietro il corteo guidato dalla madrina della sposa, che ha il compito di offrire, in un

simbolico baratto, il corredo della sposa in cambio dello sposo.

"De annue 'eneis?" chiede per tre volte una voce seminascosta nella penombra dietro l'uscio della casa in pietra. "De su mari prenu" è la risposta che la madrina, giunta insieme alla folla, dà per altrettante volte. Segue l'invito ad entrare: "Incui nc'intreis". La formula di rito non è ancora completa perché la madrina esponendo dote e corredo chiede: " 'Os i bastat?". La risposta è laconica: "Custu est nudda, su meglius nei mancat", riferendosi alla donna che di lì a poco diverrà sua moglie. La voce prende forma, il "ratto" si compie. Prelevato lo sposo, la comitiva si reca verso la casa della futura moglie [Loi A. 2004:17]

Nel frattempo la sposa riceve la benedizione della madre che lancia il riso (e non il

grano, il sale e quanto detto in precedenza) e rompe il piatto. Giunto lo sposo, la donna

prende il bouquet di spighe di grano e fiori di campo, e scortata da una bambina col

ruolo di damigella (s'anguria 'e sposa) si pone alla testa del corteo, dirigendosi verso la

chiesa. Lo sposo segue a distanza, anch'egli accompagnato da s'angurios. Solo una

volta giunti a destinazione, i due sposi possono prendersi a braccetto e entrare insieme

Page 75: Folklore nuziale e identità sarda

La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 75

in chiesa. Dopo la messa, la “rappresentazione per i turisti” si conclude con la

benedizione dei due da parte dei genitori di lui.

2.1.7 Le particolarità di Su Hujviu Ulianesu - L'Antico Matrimonio Olianese

La riproposta della tradizione nuziale a Oliena richiede una trattazione a parte in

quanto presenta delle peculiarità che mal si prestano a essere evidenziate in un

approccio comparativo. Si tratta di una manifestazione recente (tuttavia l’idea non è

nuova in paese, già in passato erano state messe in scena rappresentazioni del

matrimonio tradizionale), organizzata per il secondo anno consecutivo nel 2006 da

parte del gruppo “53 Amici per Oliena”, con il patrocinio dell'amministrazione comunale

e della cantina sociale Nepente, all’interno di quel grande contenitore di eventi

finalizzati alla valorizzazione e alla riscoperta delle tradizioni nel nuorese che è “Cortes

Apertas”. Oliena si inserisce in questo contesto proponendo diverse iniziative, tra cui

appunto la rappresentazione dell' Antico Matrimonio Olianese.

È forse il contesto di riscoperta delle tradizioni in cui si inserisce l’iniziativa a renderla

diversa da tutte le manifestazioni folkloristiche che abbiamo visto precedentemente. Al

contrario di queste, si caratterizza infatti non tanto come festa, quanto come una

dimostrazione didattica delle tradizioni popolari. Il matrimonio è finto, i protagonisti

sono attori, l’accento è posto sulla comprensione dei rituali come quello del porgere il

miele e della filatura della lana caduti in disuso da circa un secolo, di cui si svela il

significato nascosto. Tutto nella cerimonia tradizionale, si dice, era simbolico, perciò lo

spettatore deve essere guidato nella comprensione di quanto gli viene mostrato

spiegando la corretta interpretazione di ogni gesto. Tengo a precisare che l’enfasi sul

simbolismo della tradizione non è la conseguenza di una qualche speciale peculiarità

del folklore olianese, ma dell’approccio col quale è stato studiato in questo paese, in

particolare dall’antropologa Dolores Turchi, residente a Oliena, notissima studiosa di

tradizioni popolari sarde. La corretta interpretazione del rituale è dunque quella fornita

nei lavori della studiosa, la quale è tutt’ora la massima auctorictas nella ratificazione di

una certa associazione semantica come legittima.

La rappresentazione olianese è una sintesi di tutta la cerimonia tradizionale del

passato, la quale si svolgeva nell’arco di due giorni con feste separate, un giorno nella

casa della famiglia della sposa, il giorno successivo in quella dello sposo. Riepilogando

quanto accennato in precedenza, i parenti della sposa vanno a prendere lo sposo che

Page 76: Folklore nuziale e identità sarda

76 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda

attende circondato dai parenti più stretti e da due bambini che tengono in mano le

candele adornate con nastri bianchi e su giarminu, contro il malocchio. Le madri,

abbiamo detto, sono assenti dal corteo, mentre sono presenti i padri. All’uscita dalla

chiesa, gli sposi percorrono la strada che li porta a casa della sposa, investiti

continuamente dal lancio di manciate di grano augurali da parte di amici e parenti che

attendono lungo il tragitto. Sulla soglia di casa li attende la madre della sposa, che li

benedice e scaglia a terra il piatto.

Il momento centrale della rappresentazione si ha nel momento in cui la madre dello

sposo sale su un tavolino o su una sedia (l’importante è che i piedi non tocchino per

terra) e da questa posizione porge alla nuora un po’ di miele pronunciando la frase

rituale:

"Nen tottu mele.. .Nen tottu ele. . ." [che tu sia “né tutta miele, né tutta fiele”]

Le presentava poi il fuso e la conocchia perché la nuora dimostrasse di saper filare tre

capi di lino senza spezzarli. Il filo sarebbe servito per legare l'ombelico dei primi figli.

La rappresentazione termina con il corteo nuziale che torna a casa della sposa

portando i doni della suocera:

un anello d'oro, per lo più fra quelli posseduti dalla suocera stessa,

sos pilos e granos, un misto di lana rigorosamente bianca, grano e mandorle

raccolti in un fazzoletto bianco di stoffa pregiata,

un cesto nuziale contenente 2 piatti fondi, 2 piani, 2 forchette, 2 cucchiai, lo

zucchero, il caffè, la lana, il grano e una forma di formaggio (da notare l'assenza

del coltello),

una torta di mandorle e miele con la quale la madre dello sposo ricambia alla

famiglia della sposa il regalo omologo donatole il giorno precedente

unico regalo vivente, una bella gallina bianca infiocchettata con un nastro di

broccato e adornata con pezzi di panno rosso, sa pudda hin sa vetta

Tutti i doni sono portati da bambine e ragazze mentre uno speaker spiega il significato

simbolico di ognuno, che è sempre a livello generale un augurio di fertilità, abbondanza

e lunga vita.

Page 77: Folklore nuziale e identità sarda

La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 77

2.2 Le fonti etnografiche

Il matrimonio degli sposi incatenati non è solo foklore ma è anche l’espressione di una cultura storica che anno dopo anno si riavvicina sempre più alle origini grazie anche ad una paziente ricostruzione dei riti e delle simbologie fatta sulle testimonianze degli anziani e dei documenti.

Così scrive un ex presidente della pro-loco selargina su “L’Unione Sarda” [13.09.92, p.

17, Selargius, un sì in catene, di Franco Camba]. Il Matrimonio Selargino, spiegano gli

organizzatori, è la “semplice” riproposta di quello che, negli anni ’60, i più anziani

ricordavano di quanto avevano visto o sentito raccontare; descrizioni con le quali si

riuscirebbe a risalire sino agli inizi del XIX secolo. A queste, è ammesso aggiungere

solo quanto scritto da Marcello Serra e le molte pagine dedicate da padre Bresciani

alle usanze matrimoniali “de’ Sardi” in Dei costumi dell’isola di Sardegna.

L’opera del Bresciani è sicuramente una tra le meglio conosciute tra le opere dei

viaggiatori dell’800 in Sardegna. Pubblicata nel 1850 a Napoli, ebbe grande fortuna,

tanto da venire successivamente pubblicata anche a Roma nel 1861, a Torino nel

1867, a Milano nel 1864, 1872 e 1890. Padre Antonio Bresciani (1798 -1862), ordinato

sacerdote nel 1821, entrò a far parte della Compagnia di Gesù e diventò rettore di vari

collegi (Genova, Torino, Modena), per poi essere trasferito in Sardegna come

Provinciale15. Sappiamo dall’autore stesso che arrivò per la prima volta nell’isola nel

1843, visitando la Trexenta e l’Ogliastra nel 1844, la Barbagia nel 1845 e la zona

occidentale nel 1846, e che si dedicò alla stesura della sua opera tra il 1846 e il 1849,

in seguito all’espulsione dei Gesuiti dai vari Stati Italiani. Del Bresciani, redattore della

rivista “Civiltà Cattolica” e autore di numerosi romanzi e saggi, l’opera ritenuta più

importante e valida è senz’altro Dei Costumi dell’Isola di Sardegna. Nel secondo dei

due volumi, quello in cui tratta anche delle “usanze maritali de’ Sardi”, il Bresciani

immagina di conversare su quanto ha visto in Sardegna con quattro confratelli nel

castello di Montalto, nel quale erano soliti villeggiare gli alunni del collegio dei nobili di

Torino. Tralasciando le comparazioni dei costumi sardi con quelli degli antichi popoli

orientali, riconosciute successivamente come prive di ogni valore scientifico, l’opera è

molto utile alla conoscenza dell’Isola poiché la descrizione delle consuetudini e delle

usanze isolane si basa sull’osservazione diretta.

15 Tali informazioni sulla vita e le opere di Antonio Bresciani sono tratte da Boscolo, 2003:18 e sgg.

Page 78: Folklore nuziale e identità sarda

78 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda

L’opera del Bresciani ci interessa poiché a Selargius si vocifera che lo sposalizio da lui

descritto sarebbe tale e quale al resoconto dell’attuale cerimonia di Selargius: non

sarebbero dunque gli organizzatori del Matrimonio Selargino a basarsi sul Bresciani,

ma il Bresciani a prendere ispirazione da quanto osservato nel Campidano di Cagliari.

Non sono riuscita a sapere su quali prove si basino queste affermazioni, anche perché

nella parte dell’opera in questione non si fa mai esplicito riferimento né al Campidano

né tantomeno a Selargius, al contrario di quanto avviene per altre zone quali Gallura e

Logudoro.

Marcello Serra è una figura di spicco nel panorama culturale sardo. Dando un’occhiata

alla sua biografia, si comprende immediatamente il motivo della sua grande notorietà:

sin da giovanissimo pubblica liriche e saggi critici; fonda, dirige e/o collabora con

diverse riviste; nel 1946 gli viene assegnato il Premio Poesia G. Deledda, nel 1947

inizia la collaborazione con la Rai; dal 1954 insegna Letteratura Italiana all’Università di

Cagliari e Letteratura Poetica e Drammatica nel Conservatorio di Musica; nel 1959

pubblica Sardegna quasi un continente, dal quale trae un documentario di quattro

puntate per la TV; nel 1961 e nel 1972 la Presidenza del Consiglio dei Ministri gli

assegna il Premio Cultura. Tra le altre opere, tutte inerenti la Sardegna: nel 1960 la

guida Vacanze in Sardegna (tradotta in cinque lingue), nel 1964 Il mondo dei Sardi,

nel 1968 Sardegna favolosa, nel 1970 L’aurora sui graniti è rossoblu, nel 1978,

L’enciclopedia della Sardegna, ecc. ecc.16

Tra le altre cose, Marcello Serra ha scritto anche un breve brano sulle usanze nuziali

selargine. Quello che sorprende è il modo in cui tale brano sia attualmente utilizzato

come fonte di legittimazione del Matrimonio Selargino. Viene infatti detto che questi

avrebbe avuto modo di osservare le antiche usanze durante alcune visite giovanili a

Selargius, trovandole così significative da descriverne i tratti salienti nella sua opera

Mal di Sardegna (alla voce Selargius). Facendo riferimento all’anno di pubblicazione di

Mal di Sardegna, il 1955, si lascia intendere implicitamente che il Serra racconti di

tradizioni nuziali tipicamente selargine prima della loro riproposta in chiave folkloristica,

fungendo così in qualche modo da ispiratore nella riproposta delle antiche usanze. Si

vorrebbe far credere, cioè, a una precedenza temporale dello scritto di Serra rispetto

alla prima edizione del Matrimonio Selargino. In realtà, per quel che ho potuto

16 Queste, e molte altre informazioni, sono contenute nel risvolto di copertina dell’edizione del 1989 di Sardegna quasi un continente

Page 79: Folklore nuziale e identità sarda

La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 79

verificare confrontando le edizioni del 1955, 1963 e 1977 per quanto riguarda la voce

Selargius, nell’edizione del 1955 non vi è alcun accenno a tradizioni nuziali selargine,

mentre le ultime due sono identiche e comprendono tali riferimenti. Si dirà di più: lo

scrittore non descrive le usanze selargine spontaneamente, ma su richiesta dell’Enal

provinciale17, che inserirà il testo nel primo dépliant del Matrimonio Selargino [1962]18.

Se il Matrimonio Selargino è la semplice riproposta di quanto osservato direttamente

dai più anziani, da Marcello Serra e dal Bresciani, lo spazio per la critica, la

contestazione o le semplici osservazioni è piuttosto ridotto. Ci si potrebbe chiedere, ad

esempio, perché non si faccia uso della descrizione riportata dal Della Marmora

nell’opera Viaggio in Sardegna, che avrebbe il merito di essere precedente a quella del

Bresciani (la prima edizione è del 1826) e di contenere riferimenti espliciti al

Campidano. Dallo stesso Bresciani apprendiamo che conosceva di persona il generale

e la sua opera, che apprezzava moltissimo19, lasciando il dubbio che alcuni parti (mi

riferisco alle parti riguardanti le usanze nuziali) le abbia copiate20, tanto si assomigliano

i due testi messi a confronto21. Ci si potrebbe anche chiedere: perché, se il Bresciani

descrive un matrimonio nel Campidano, si utilizzano solo certe parti e non altre del suo

resoconto?

La risposta degli organizzatori a qualsiasi osservazione è più o meno sempre la stessa:

si utilizza solo quanto concorde con le testimonianze degli anziani. Risposta che mette

fine a qualsiasi obiezione, poiché a Selargius non sono più presenti persone che

possano smentire o approvare, sulla base dei propri ricordi, quanto proposto dagli

17 Del ruolo dell’Enal nel Matrimonio Selargino si discuterà successivamente 18 La descrizione dello scrittore delle principali fasi del Matrimonio Selargino sarà inserita in quasi tutti i dépliant stampati annualmente in occasione della festa 19 “Conciossiacché Egli abbia già pubblicato la storia naturale dell’Isola, e fattone lo stato e descrittine i costumi, le arti, i monumenti antichi e moderni con tale una diligenza e un amore, con tanta sapienza ed erudizione che vince ogni desiderio e toglie altrui la speranza di vantaggiarlo”, Bresciani in Boscolo (a cura di) 2003:213 20 Non sarebbe l’unico caso: nella prefazione al testo (2001:19, nota 8) il prof. Caltagirone cita altri esempi “in cui il plagio è più che rasentato”. Il plagio di interi brani di opere altrui era d’altra parte una pratica corrente nella letteratura di viaggio, molto diffusa ancora per tutto l’Ottocento. 21 La scelta di utilizzare il resoconto del Bresciani piuttosto che quello di Della Marmora è probabilmente legata alla ricchezza dei particolari del primo. Ciò che ad alcuni è parso un difetto definibile come “delirio da descrizione”, “esasperato descrittivismo” (per questi giudizi sullo stile del Bresciani rimando alla prefazione di Caltagirone al testo, p. 14 e sgg.), è al contrario un pregio inestimabile per quanti abbiano in mente di mettere in scena un evento come il Matrimonio Selargino: maggiore è l’attenzione al dettaglio, minore il rischio di commettere errori legati all’ignoranza di quello che “realmente” avveniva in passato. Inoltre, l’ampio uso della figura retorica dell’ipotiposi è una strategia discorsiva che consente a Bresciani di rappresentare in modo vivido, non noioso, ciò che descrive, quasi da offrirne l’immagine visiva: un’ulteriore possibile spiegazione della predilezione verso questo testo.

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80 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda

organizzatori. Questi, da parte loro, affermano di poter ricostruire l’evento tradizionale

per aver fatto tesoro dei racconti dei propri ascendenti. Dietro questa posizione si

intuisce chiaramente il tentativo, neanche troppo velato, di legittimare la propria

posizione di unici depositari del sapere sulla tradizione a Selargius, posizione che molti

selargini sono invece ben lungi dal riconoscere. E se in generale la testimonianza degli

anziani non è più verificabile - e quindi indiscutibile - esiste almeno un documento

scritto che riporta il parere sul Matrimonio Selargino di uno di questi anziani, sul quale

mi soffermerò alla fine di questo capitolo.

Il problema delle fonti non riguarda solo Selargius, ma in questo paese la situazione è

più difficile poiché l’abbandono del costume e delle “antiche” usanze è iniziata piuttosto

presto, agli inizi del XX secolo. A Ittiri, per esempio, Salvatore Scanu rileva la quasi

totale assenza di fonti attendibili, nonché l’ignoranza degli studiosi interpellati per

quanto riguarda la materia in esame, che non gli ha permesso di organizzare un

matrimonio in cui fossero presenti elementi tradizionali oltre il costume e poco altro.

In altri paesi, specialmente quelli più piccoli e isolati, il folklore locale è durato più a

lungo, cosicché il tempo intercorso dall’abbandono come “vecchiume di altri tempi” al

recupero in quanto “bene” è stato talmente breve da non aver permesso l’oblio. Nel

piccolo centro ogliastrino di Ussassai l’arco temporale di questo passaggio è stato

inferiore a quello di una generazione: la presidente della Pro Loco Maria Serrau può

così curare la riproposizione del matrimonio tradizionale sulla base della propria

esperienza personale, essendo stata lei l’ultima, nel 1956, a sposarsi in questo modo.

Gli organizzatori della rassegna asseminese hanno risolto subito, e in maniera

originale, il problema delle fonti. Su “L’Unione Sarda” del 26 ottobre 1973, compare la

notizia del “ritrovamento di un vecchio manoscritto di un anonimo asseminese scoperto

da alcuni studiosi di storia sarda” contenente la descrizione delle fasi degli antichi riti

nuziali. In poche parole si mette a tacere ogni possibile obiezione sulla manifestazione

folkloristica che si sta per riproporre; il significato del messaggio sembra suonare più o

meno: quello che vi stiamo proponendo non è il frutto di una nostra invenzione, ma

della descrizione riportata in un testo scritto da uno di noi (asseminese), che dunque

conosce le nostre tradizioni e ci rappresenta tutti (è anonimo, quindi non riconducibile a

una famiglia, un ceto sociale, una fazione riconoscibile), in un passato non meglio

precisabile (vecchio), ma comunque abbastanza indietro nel tempo poiché il testo è

scritto a mano (manoscritto), la cui importanza è stata riconosciuta da persone

competenti in materia (studiosi di storia sarda). Il fatto poi che il ritrovamento sia stato

Page 81: Folklore nuziale e identità sarda

La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 81

casuale (scoperto) e che la fonte sia scritta e quindi non più modificabile, allontana

ulteriormente ogni sospetto sugli scopi della pro-loco, che si limiterà a rappresentare

quanto si trova descritto nel testo.

Spanu Luigi, nel suo libro sulle sagre e le feste popolari dell’87, tiene a precisare che la

veridicità della fonte non è stata ancora verificata, mentre un articolo promozionale,

pubblicato sempre su “L’Unione Sarda” (01-09-90, p. 15, Un amore legato con catene

d’oro), svela i dettagli della leggenda riportata nell’antico testo. Racconto di

antiche invasioni, di armate crudeli che insanguinavano i villaggi, disperdendo la gente. Racconto di morti orrende, di crudeltà, di violenze, di tesori nascosti nella fuga, di olle piene di oro, sotterrate in grotte profonde per essere poi ritrovate, passata la furia dei predoni venuti dal mare. Ed ecco le “janas” le fate profetiche, guizzare dai ceppi ardenti del focolare ed indicare i luoghi in cui le olle zeppe di oro erano nascoste. Due giovani fidanzati, fra i tanti ricercatori di fantasiosi tesori, inseguendo la suggestione delle fate finirono in un antro profondo nel quale pensavano di trovare la pentola ricolma di monete d’oro. Languirono a lungo nel freddo della voragine, si ferirono con i rovi e con i sassi, furono legati in catene dagli spiriti maligni che custodivano il tesoro. Li salvò una fata, riportandoli alla luce e dicendo loro che l’unico vero tesoro sarebbero stati una vita in comune, l’amore reciproco, l’affetto dei figli

Il resto della storia si può immaginare e infatti, sfortunatamente, l’articolo ci lascia solo

presumere il matrimonio che segue e la descrizione delle sue fasi, rassicurandoci,

però, sulla fedeltà della loro riproduzione nella rappresentazione asseminese.

2.3 Matrimonio tradizionale?

Quale è dunque il tradizionale prototipo di cui la manifestazione di folklore sarebbe la

copia fedele? Dico sarebbe, perché ritengo che il rapporto tra la tradizione e il

fenomeno folkloristico attuale non debba essere inteso in termini di continuità: non si

tratta di una stessa cosa che sparisce per poi tornare, ma di due cose diverse che

hanno tra loro un rapporto problematico, un rapporto indiretto e mediato. Non si tratta

tanto di ritrovare, ricordare, riportare in vita, come appare dai discorsi degli informatori,

ma di reinventare e risemantizzare. Da questo punto di vista non mi pare condivisibile

la prospettiva emica, tuttavia mi pare interessante precisare che cosa effettivamente

abbiano in mente gli interlocutori quando parlano di tradizione (nuziale) e come questo

concetto venga usato per collegare passato e presente in un rapporto di continuità.

La tradizione è sempre e solo l’unico fattore invocato a giustificazione di tutte le

pratiche sociali riproposte nei matrimoni “in costume”. Nei discorsi degli informatori i

Page 82: Folklore nuziale e identità sarda

82 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda

termini tradizione, tradizionale sono di gran lunga i più ricorrenti, ed appaiono per

spiegare ciò che “si dice” “si faceva” o “doveva” esser fatto in determinate circostanze,

secondo quanto raccontato dalle generazioni passate. Nella prospettiva emica il

significato del termine “tradizione” è sinonimo di “folklore” (un altro termine molto usato)

inteso nella concezione essenzialista e pre-gramsciana di “usi e costumi dei vecchi

tempi”, qualcosa la cui datità non è oggetto di discussione.

Nessuna colombella smarrita da cercare, nessun paralimpu, nessun accenno a una

forma di matrimonio che non prevedeva necessariamente il coinvolgimento della

Chiesa. Di quanto abbiamo visto nel capitolo precedente, la manifestazione selargina,

così come quella asseminese, mauritana, ecc., tralascia completamente le

consuetudini relative agli sponsali. La riproposizione dei matrimoni prevede la

rievocazione dei soli riti legati al giorno del matrimonio in Chiesa; qualche eccezione a

Selargius, come si è visto descrivendo i tratti “tradizionali” della rassegna. Mi sembra

una considerazione su cui riflettere: la totale assenza di riferimenti alla tematica degli

sponsali dovrebbe insospettire. Quella che potrebbe essere spiegata come la scelta

consapevole di privarsi di una fonte preziosa di materia “teatrabile”, pare in realtà la

conseguenza di una limitatissima profondità storica. “Tradizionale” e “antico” sono

termini che nei discorsi emici vanno a braccetto, sono cioè usati in maniera

interscambiabile (per cui tutto ciò che è tradizionale è anche antico) ma anche in questi

casi, come in altri studi sulle “feste tradizionali”, le pratiche sociali riproposte sembrano

piuttosto appartenere a un periodo ben definito e recente. Un periodo situabile a grandi

linee tra l’oblio della memoria storica legata alla celebrazione degli sponsali e

l’abbandono del costume tradizionale, dunque nei primi decenni del XX secolo. È lo

stesso risultato dell’inchiesta sulle fonti, che rivela come la riproposta si basi sul

resoconto di ascendenti o comunque di anziani presenti in paese, se non quando

addirittura sulla propria esperienza personale.

Situato il periodo storico di riferimento e limitando il discorso a Selargius, si noterà

anche che il termine tradizionale non è usato per indicare elementi che segnalano una

netta cesura tra Tradizione e Modernità, tra ciò che si faceva in passato e ciò che nel

momento in cui nasce la manifestazione folkloristica non si fa più da tempo. Un

esempio potrebbe essere la benedizione materna: la riproposizione in chiave

folkloristica non ha riportato in vita un’usanza ormai scomparsa: a una donna sposatasi

nel contesto del “matrimonio in costume” negli anni ‘80, a cui avevo chiesto perché nel

suo album fotografico ci fossero così tante foto della benedizione, mi ha spiegato che

le prime riguardavano la benedizione “vera”, mentre le altre quella pronunciata per il

Page 83: Folklore nuziale e identità sarda

La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda ▪ 83

pubblico. Anche il rito ecclesiastico viene sempre indicato come tradizionale, eppure

non lo è né per una sua qualche peculiarità - in quanto uguale in tutto il mondo

cattolico - né per la sua antichità, poiché è piuttosto recente, se si considerano le

modifiche apportate negli anni ’60 con le riforme approvate dal Concilio Vaticano II. È

sorprendente il gran parlare di ripresa di tratti tradizionali, che sicuramente non può

essere riferito alle azioni: di per sé non c’è nulla di particolarmente tradizionale o rituale

nella vestizione, così come neppure nel recarsi in chiesa, o festeggiare con banchetto,

balli e canti. Non sono presenti neppure gesti o simboli il cui significato è andato

perduto per cui qualcuno debba intervenire a darne l’interpretazione corretta.

Ciò che emerge da un’analisi delle dichiarazioni degli informatori che vada oltre

l’indicazione superficiale di questo o quell’altro elemento come specificatamente

tradizionale, è piuttosto il riferimento a una partecipazione comunitaria ora assente. Le

consuetudini relative alle nozze non subiscono negli anni modifiche radicali mentre ciò

che si ritiene andato perduto è il coinvolgimento del vicinato, del paese nelle vicende

dei singoli, l’identità stessa del paese. È un discorso che vale a Selargius, ma che può

essere esteso con le dovute cautele anche agli altri paesi, anche se per opposte o

differenti ragioni: ad esempio a Selargius viene chiamata in causa l’espansione

demografica eccezionale dal secondo dopoguerra a oggi, mentre a Ussassai al

contrario la massiccia emigrazione. Non sono dunque tradizionali le azioni di per sé,

quanto invece la forma in cui sono presentate (l’abito tradizionale al posto dell’abito

bianco, le traccas al posto delle macchine, ecc.), che rimanda a un passato idealizzato

nel quale l’insieme degli abitanti costituiva “ancora” una comunità.

La riproposizione delle “antiche usanze” è allora un’autorappresentazione del tipo

“come eravamo” in forma di spettacolo, di festa per tutto il paese, chiamato, come un

tempo, a una partecipazione collettiva. Tuttavia, anche questa idea della comunità,

dovrebbe essere oggetto di un’indagine critica. Davvero si tratta di un “recupero”, come

affermano gli informatori o piuttosto si tratta di una creazione? E se la “comunità

mitizzata” fosse la proiezione di ciò che gli informatori vorrebbero che fosse stata,

piuttosto che ciò che è stata realmente?

L’unica vera differenza tra la manifestazione folkloristica e il suo tradizionale prototipo,

secondo un’opinione ampiamente diffusa sia tra gli organizzatori sia tra il pubblico, è

che la fedele riproposta della tradizione relativa al matrimonio è inserita all’interno di

un’altra festa, più ampia, pensata per coinvolgere tutto il paese e attrarre visitatori e

turisti (per questo motivo, ogni anno vengono inclusi elementi attinti dal mondo dello

Page 84: Folklore nuziale e identità sarda

84 ▪ La tradizione nella rappresentazione dei matrimoni alla sarda

spettacolo e dello sport che ampliano l’offerta di divertimento e di attrattiva). In altre

parole, un qualcosa pensato per essere sia una dimostrazione pratica di storia delle

tradizioni popolari sia una festa turistica e commerciale. Il problema (per le esigenze

dello studioso, non per il pubblico e gli organizzatori) consiste nel fatto che è entrambe

le cose nello stesso momento, una festa dentro la festa, talmente ben amalgamate tra

loro che nessuno sa dire con certezza dove finisca l’una e inizi l’altra, un’inestricabile

commistione di pseudoantico e moderno.

La tradizione è assunta come una sorta di canovaccio, una traccia schematica i cui

elementi vengono ampiamente manipolati da parte degli organizzatori al fine di creare

un momento di partecipazione collettiva. Questi possono dunque subire un dilatamento

o un restringimento temporale, possono acquistare una visibilità che precedentemente

non avevano, possono essere prelevati dal loro contesto e spostati in un altro.

La riproposizione della tradizione sembra allora il mezzo piuttosto che il fine dell’intera

manifestazione. Di questo si era reso conto con sorprendente chiarezza anche Efisio

Salis, l’ex delegato podestarile di Selargius, principale promotore e uomo-chiave del

Matrimonio Selargino, che in una lettera spedita al sindaco di Selargius, esprimeva

tutta la sua delusione per una iniziativa che sente sua, ma la cui organizzazione gli era

completamente sfuggita di mano:

Io che ho riportato in vita lo Sposazio [sic] in questione, desidero prima di morire, vedere sistemato questo Antico ricordo, e non lasciarlo in mano di gente incompetente che ne fanno investimenti e spese inutili di quanto offre ogni anno la Reggione [sic], non posso precisare sia 4 o 5 milioni per formare il carnevalone [sic] e non le precise consuetudini antiche da me dettate da quanto vidi 80/85 anni fa.

Efisio Salis si mostra consapevole del fatto che - nonostante si affermi sempre il

contrario - non sono le “consuetudini antiche” il centro della manifestazione, non è su

queste che si concentra l’attenzione degli organizzatori e del pubblico.

Page 85: Folklore nuziale e identità sarda

3 Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale

Per capire un fenomeno come il Matrimonio Selargino, è necessario precisare i

contorni del contesto storico e culturale in cui ha avuto origine. Un’indagine che renda

conto della mera messa in scena, della fenomenologia della festa, non appare

sufficiente a una realistica interpretazione della stessa. Scrive Faeta:

senza contesto locale, senza radicamento spaziale e sociale […] la festa è realmente inconoscibile e la sua lettura oscilla tra esercizio classificatorio, astrazione filosofica, metafisica dei sentimenti per poi approdare sul solido terreno della rimasticazione neofunzionalista [Faeta, 2005:160]

Una storicizzazione, o almeno un tentativo in tal senso, è necessaria, non fosse altro

che per sottrarre l’oggetto in questione a quell’astrattezza e a quella naturalità cui va

incontro qualunque fenomeno umano che venga dato per scontato o per inevitabile, e

quindi considerato acriticamente.

Non si tratta di un’operazione semplice, perché una delle strategie retoriche della

promozione del prodotto “matrimonio tipico” è quella di insistere sulla continuità della

manifestazione con una tradizione che si vuole antichissima. L’antico sposalizio

selargino si celebra per la prima volta a Selargius il 28 ottobre 1962, domenica

conclusiva della festa patronale di S. Lussorio. Sembrerebbe un punto di partenza, e

invece è già un punto di arrivo: il Matrimonio Selargino non nasce, “esiste da sempre”.

La reazione alle mie domande sull’origine della manifestazione è stata nella

maggioranza dei casi la sorpresa, poi l’insofferenza e infine la noia1. Quando anni, anzi

decenni di promozione turistica, riescono nell’intento di trasmettere l’idea che la

manifestazione sia il fedele proseguimento di antichissime usanze, che sempre si sono

svolte nel modo che ancora oggi possiamo ammirare, il problema di chi l’abbia

organizzata e per quali motivi, semplicemente, non si pone. È una questione di poca

importanza, dal momento che ci si è limitati a riprendere qualcosa di già bell’e pronto.

1 Si noti l’analogia tra le reazioni emerse nella ricerca sul campo e le osservazioni di D’Eramo (nella presentazione al testo di Anderson Comunità immaginate, 1996:7) a proposito del rapporto patriota-nazione: “Già la domanda sul quando suona blasfema a un patriota. Per lui la nazione è qualcosa di originario, un retaggio primordiale che forse era stato dimenticato, sepolto nella memoria e solo di recente è affiorato, identità ritrovata. Siamo di fronte a una duplicità: la nazione è stata pensata, creata di recente, ma essa pensa se stessa come antichissima”.

Page 86: Folklore nuziale e identità sarda

86 ▪ Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale

Se la maggioranza degli intervistati non si è mai interessata al problema, la restante

parte sembra voler mantenere lo status quo, rispondendo evasivamente o non

rispondendo affatto; tuttavia, insistendo, è stato possibile raccogliere alcune teorie in

proposito.

3.1 Il racconto degli informatori

Una di queste teorie sostiene che l’idea del Matrimonio Selargino sia maturata a

Quartucciu, paese confinante con Selargius, per iniziativa personale di un giovane

organizzatore di manifestazioni culturali paesane, che voleva tradurre in qualcosa di

concreto quanto andava ricostruendo dai racconti degli anziani. Il protagonista della

vicenda, quartuccese [“Mi raccomando, si dice quartuccese, quartucciai è il termine

dispregiativo che usano a Selargius”] è L.S.2, giornalista, direttore responsabile della tv

locale Videolina dal 1975 al 1983, realizzatore di una serie di documentari sulle sagre

sarde. Oramai in pensione, sebbene continui ogni anno a prestarsi come

commentatore televisivo della sagra selargina, tale giornalista non riesce ancora a

capacitarsi della scarsa lungimiranza dei politici di allora, che accolsero con freddezza

la sua proposta, rifiutandosi di finanziare nel paese una di quelle - secondo tali politici -

“pagliacciate in costume” che andavano diffondendosi in tutta l’isola. L’idea giunse a

Selargius per un puro caso: vi abitava la fidanzata e attuale moglie, a pochi passi dalla

sede dell’Enal locale, e così un giorno si decise a riproporre il suo progetto, sperando

che fosse accolto in modo più favorevole; l’idea piacque molto ai selargini, che la

accolsero con entusiasmo e si organizzarono immediatamente per metterla in pratica.

Il passo successivo fu il coinvolgimento di Marcello Serra, di cui a quei tempi Spiga era

un giovane allievo, a cui si richiese di dare autorevolezza scientifica a quella che

doveva essere una rievocazione storica, concedendo la firma per il primo dépliant, che

scrissero insieme.

2 Dalla biografia sul retro di copertina dell’edizione del 1996 del suo libro Il mio paese: “Opera da anni nel mondo della comunicazione e della telecomunicazioni. Tra i pionieri della radio e della televisione privata in Sardegna, è stato dal 1975 al 1983 direttore responsabile di videolina. Ha realizzato una serie di documentari sulle sagre sarde ed ha raccolto una vasta documentazione in Italia e all’estero sui temi dell’emigrazione. Esperto di storia e problemi sardi, è laureato in Materie letterarie e pedagogia. Nel 1982 una commissione composta da Indro Montanelli, Luca Goldoni e Ruggero Orlando gli ha assegnato il Premio di giornalismo televisivo per i documentari realizzati in Germania, Svizzera e Belgio per il Natale con gli emigrati sardi. Vincitore del Premio internazionale di giornalismo televisivo Città di Castelsardo. Scrive per “L’Unione Sarda” dal 1962. È stato dirigente dell’Associazione della stampa sarda. Esperto in relazioni istituzionali. Docente di comunicazione e immagine a Roma”.

Page 87: Folklore nuziale e identità sarda

Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale ▪ 87

Sempre secondo il giornalista, questa sarebbe la vera versione dei fatti, quindi la

ragione per cui a Selargius si tende a divagare sull’origine del Matrimonio Selargino. A

rinforzare tale versione mi mostra una medaglia d’oro regalatagli dal comune di

Selargius per i suoi contributi alla festa:

Come possono ammettere che sia stato un quartuccese a dar loro l’idea per la festa selargina più importante?

Un’altra versione la fornisce una signora responsabile di uno dei tanti gruppi folk

presenti a Quartu Sant’Elena, un altro paese nelle immediate vicinanze di Selargius. La

signora I. sostiene che l’idea del matrimonio “tipico” è un’idea partita dall’alto, dai vertici

turistici regionali, che si erano proposti di finanziare un’iniziativa del genere in uno dei

paesi del Campidano di Cagliari. Ricorda di aver sentito parlare di una specie di bando,

una richiesta da parte di qualche ente regionale per la formazione di una graduatoria

dei paesi più adatti a ospitare un evento simile, ma Quartu Sant’Elena, il paese che

sarebbe stato di gran lunga il più favorito (a suo giudizio), si era lasciato sfuggire

l’occasione sottovalutandone l’importanza, cosicché se lo aggiudicò Selargius.

La terza versione è raccontata dalla prima coppia che partecipò al Matrimonio

Selargino. A quell’epoca erano solo due giovani fidanzati, entrambi facenti parte del

locale gruppo folk “San Lussorio”, che il fidanzato stesso aveva provveduto a fondare

nel 1954:

Prima si sfilava con il gruppo di Quartu Sant’Elena, ma poi, visto che nel gruppo c’erano molti selargini abbiamo pensato di sfilare per conto nostro, anche per una sorta di campanilismo….

Il Matrimonio Selargino sarebbe nato quasi per caso, durante l’organizzazione dei

festeggiamenti per San Lussorio:

[…] Il comitato di san Lussorio in quegli anni era costituito dagli amministratori comunali in cui erano presenti persone appassionate di queste cose tradizionali. Una sera uno di questi, Efisio Salis, dice: “Ma perché non riproponiamo il matrimonio come si faceva una volta?”, hanno proposto questa cosa in giunta e il sindaco ha accolto l’idea. […] Questo matrimonio si è potuto fare, ha facilitato un po’ tutto che a Selargius c’era il gruppo folkloristico e io ne ero capoccino. Quelli che hanno organizzato il tutto era il dopolavoro provinciale e siccome a Selargius esisteva il gruppo folkloristico e esisteva frequentatissimo anche il dopo lavoro… il gruppo dopolavoro provinciale è riuscito ad avere i finanziamenti dalla regione e si è fatto tutto. Di sicuro c’è stato un collegamento tra il comitato dei festeggiamenti di San Lussorio e… poi questo Efisio Salis era anche socio dell’Enal. È nato così, per uno scherzo, noi eravamo solo fidanzati in quel periodo; l’abbiamo fatto per riempire una serata…

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88 ▪ Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale

E poi c’è la versione ufficiale. Raccontata nel libro Cent’anni, scritto da Gianni Orrù e

Carlo Desogus, e nella relazione presentata dal primo a un convegno organizzato nel

2003, nell’ambito delle attività promosse per il Matrimonio Selargino. Tale versione

fornisce nome e cognome dei personaggi coinvolti, ma non ne chiarisce le dinamiche.

È presente il Comune di Selargius, l’Assessorato Regionale al Turismo, l’Enal

provinciale e quello locale, Efisio Salis e Marcello Serra. Allo spettacolo in questione

non “si arrivò certo sulle ali dell’improvvisazione”, ci vollero “decenni” perché si

arrivasse a tradurre in realtà un “desiderio vivo tra il popolo”:

Una triade patrocinatrice, composta dal Comune, dall'Assessorato Regionale al Turismo e dall’Enal Provinciale riuscì finalmente a far tradurre un sogno cullato da alcuni decenni, un desiderio vivo tra il popolo di far rinascere in forma di spettacolo lo sfarzo delle inobliate usanze nuziali di Selargius e del Campidano. Un gruppo folkloristico locale, il “San Lussorio”, primo del dopoguerra, guidato da Olinda Melis che continuava una passione, assai viva soprattutto nel periodo fascista, […] si mise a disposizione dell’organizzazione per individuare i necessari supporti logistici […]. A quella storica data di nascita dello sposalizio non si arrivò certo sulle ali dell’improvvisazione. Ci furono validi presupposti culturali ed una seria messa a punto delle conoscenze della ritualità matrimoniale del passato. Ma due persone soprattutto furono le principali ispiratrici della grande manifestazione culturale: il cav. Efisino Salis, gia vice podestà di Selargius, facoltoso commerciante di pellami, personaggio assai noto nel paese per il suo passato di animatore culturale e inimitabile promotore d’iniziative di svago popolare, e del poeta e scrittore Marcello Serra, letterato di spicco nella fervida stagione culturale del dopoguerra cagliaritano. […] Lo scrittore, assieme al Salis, partecipò alle sedute organizzative della cerimonia del 1962, concesse la sua firma per raccontare le magie dello sposalizio nel dépliant illustrativo. Il Salis fu in pratica il primo cerimoniere, poiché offri i necessari consigli pratici sui rituali e sulle movenze dei principali “attori”, a colui che doveva guidare la fase realizzativa del tutto: il dottor Gavino Manca, direttore dell’Enal provinciale di Cagliari3

3.1.1 Tasselli diversi di un unico mosaico?

I diversi resoconti, confrontati tra loro, presentano numerose incongruenze e sembrano

escludersi a vicenda. Il Matrimonio Selargino è un’iniziativa partita dall’alto o dal

basso? Nasce così per caso o è il risultato di un “sogno cullato da alcuni decenni”?

3 Orrù, 2003. Relazione presentata al convegno sulle tradizioni nuziali, organizzata a Selargius nel contesto delle iniziative per l’edizione del 2003 del Matrimonio Selargino. Ringrazio il signor Orrù per avermi fornito una copia del suo intervento.

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Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale ▪ 89

L’idea è di Quartucciu, Selargius o di Cagliari? Impossibile deciderlo sulla base di

queste testimonianze.

Ma forse il problema è la distanza da cui si affronta l’analisi del fenomeno, una visione

così ravvicinata potrebbe non consentire di studiare il fenomeno nella giusta

prospettiva. Forse i singoli resoconti non vanno analizzate in sé stesse o nel confronto

con le altre, ma sulla base degli elementi deittici presenti nel discorso, cioè di quegli

elementi che costituiscono degli indizi per capire il contesto culturale di riferimento. I

diversi riferimenti a un rinnovato interesse nei confronti delle proprie tradizioni,

l’interesse a livello regionale al finanziamento di manifestazioni folkloristiche, i

riferimenti al fascismo, la scelta di un tema quale il matrimonio, potrebbero essere

tasselli diversi di un unico mosaico. Prendiamo, per esempio, la costante del

riferimento al diffuso interesse a valorizzare le tradizioni locali, sia da parte dei singoli,

sia da parte di enti regionali e provinciali. Si può partire da queste considerazioni per

chiedersi quando nasce questo interesse, la sua storia, le motivazioni.

3.2 Lo studio del folklore

Perché si organizzi uno spettacolo folkloristico, prima ancora dell’interesse delle

persone a partecipare a manifestazioni di questo genere, è necessario disporre di dati

folklorici, veri o presunti tali. Il dato folklorico è la conseguenza di un’operazione di

oggettivazione, che seleziona una parte del reale sulla base di criteri definiti dalla

comunità scientifica e lo trasforma in dato. Le domande in questa direzione saranno

pertanto: quando si comincia a disporre di dati folklorici in Sardegna? quali sono i criteri

che guidano la ricerca? quali gruppi sociali coinvolge?

Non è il caso qui di ricordare il clima culturale che spinse studiosi di tutto il continente a

interessarsi allo studio delle tradizioni popolari, fatto sta che l’interesse crescente in

questa direzione portò a definirne in modo sempre più specifico l’oggetto di studio e il

campo intellettuale. Tra fine Ottocento e inizio Novecento, forse per recuperare il

ritardo accumulato nei confronti degli altri paesi europei, si assiste a un rapido sviluppo

della disciplina anche in Italia: nel 1893 nasce la “Società per le tradizioni popolari”, nel

1910 la “Società di Etnografia Italiana”, dal 1911 al 1914 si pubblica la prima serie della

rivista “Lares”. Nel 1911, nel cinquantenario dell’unità, la consacrazione ufficiale con il

“I Congresso di Etnografia Italiana” e l’allestimento della mostra etnografica.

L’interesse per la lingua e la cultura della Sardegna inizia alla fine del XVIII secolo,

quando l’isola è meta di sempre più studiosi attratti dal miraggio di un’isola ancora

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90 ▪ Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale

sconosciuta. Ma a parte rare eccezioni (ad esempio i lavori del Della Marmora) è solo

nei primi decenni del ‘900 che il lavoro degli studiosi produce i primi risultati “scientifici”

anche in Sardegna, come nel caso delle ricerche sul campo condotte da Wagner e

Bottiglioni.

La tradizione disciplinare italiana, scrive Cirese [1974:62], recepisce il termine folklore

come l’equivalente di tradizioni popolari,

che è a sua volta l’espressione con cui si designa il complesso dei fatti culturali che appaiono “popolarmente connotati”, e cioè propri dei volghi o degli strati subalterni dei popoli civili

senza fare distinzioni, come invece avviene in altre parti d’Europa, tra fatti materiali e

fatti spirituali, trasmessi oralmente o in altri modi. Oggetto di studio è il modo di vivere e

di pensare del popolo, cioè dei ceti inferiori.

Nella ricostruzione di Dei [2002], tale oggetto di studio conosce nel Novecento due

principali tipi di lettura. Da una parte, il discorso sulla cultura popolare tradizionale

continua l’impostazione ottocentesca, che concepisce il folklore come lo studio delle

usanze e delle abitudini dei vecchi tempi, “manners, custom, observances,

superstitions, ballads, proverbs etc of the olden time”, nella definizione classica del

1846 di William John Thoms. Il folklore è l’espressione di una “differenza culturale di

tipo verticale”, in senso contemporaneamente sociale e cronologico, perché distanza di

classe e di velocità evolutiva. L’attività del folklorista consiste nel ricercare le

testimonianze del passato che ancora sopravvivono nella cultura popolare:

il suo sogno è imbattersi, in qualche sperduta campagna, in un’isola culturale in cui si parla ancora così e così, in cui si fanno ancora certi riti – in cui, cioè, si è fermato il tempo [Dei, 2002, pp. 21-22]

L’altro tipo di discorso che si afferma nel Novecento deriva dalla trasformazione del

concetto di cultura da processo unitario universale a concetto pluralistico e relativistico

che descrive entità sostantive. Il folklore è lo studio di una differenza culturale di tipo

“orizzontale” presente all’interno della società occidentale. Prendiamo ad esempio le

“Osservazioni sul folclore” scritte dal sardo Gramsci negli anni ’30: rifiutando

esplicitamente l’impostazione di quegli studi che si occupano del folclore come

elemento “pittoresco”, spiega che

occorrerebbe studiarlo invece come “concezione del mondo e della vita”, implicita in grande misura, di determinati strati (determinati nel tempo e nello spazio) della società, in contrapposizione (anch’essa per lo più implicita, meccanica, oggettiva) con le concezioni del mondo “ufficiale” (o in senso più largo delle parti colte della società storicamente determinate) che si sono successe nello sviluppo storico [Gramsci, 2000: 261-262]

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Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale ▪ 91

Il folclore, dunque, come concezione del mondo e della vita del popolo, “l’insieme delle

classi subalterne e strumentali di ogni forma di società sinora esistita” [Gramsci, 2000:

261-262], Vale a dire, nella spiegazione che fornisce Dei, di quei gruppi che “non

hanno accesso al potere politico ed economico e di conseguenza sono escluse dai

meccanismi di elaborazione e trasmissione dell’alta cultura” [Dei, 2002:66].

Il folklore equivale, in entrambi i casi, allo studio di una cultura “altra”, poiché la

distanza sociale rimane invariata: sono sempre gli appartenenti a quelle che Gramsci

definirebbe classi egemoniche a studiare le classi subalterne. E ciò che per gli uni si

configurava come qualcosa da studiare, salvare dall’oblio, per gli altri spesso era il

distintivo di uno status di subalternità, di una condizione esistenziale negativa, che si

tentava piuttosto di abbandonare. Basti pensare all’abbigliamento popolare,

abbandonato in tutta fretta nei primi decenni di questo secolo da quanti potevano

permettersi gli abiti “moderni”. Ancora oggi, nonostante un abito tradizionale originale

abbia assunto un valore inestimabile, le signore più anziane - almeno nei dintorni di

Cagliari - possono offendersi se chiedi loro se da giovani lo indossassero:

Non eravamo certo a quel livello [di povertà]. Lo mettevo a Carnevale, così, per ridere…4

L’interesse per il folklore rimane a lungo una caratteristica esclusiva di una certa classe

dominante, che si occupava del popolo come oggetto di studio, senza condividerne la

condizione. Oppure ne riprendeva dei tratti, come si racconta a Selargius di una certa

Maria Zucca Coj, figlia dell’alta società, che agli inizi del secolo scorso,

sfidando le mode italianizzanti […], si presentava alle feste danzanti nel tradizionale costume sardo [Orrù, 2003:1, nota 2],

la sua posizione sociale le consentiva queste stravaganze, ponendola al di sopra del

senso del ridicolo che avrebbe colpito una donna di ceto inferiore.

3.3 Il foklorismo fascista

Devono passare ancora alcuni decenni affinché il patrimonio culturale regionale diventi

tale, cioè si affermi quale bene collettivamente connotato da una valutazione estetica

4 Intervista a E. C. (nata a Selargius nel 1911), marzo 2006. Stesse considerazioni per Maria Laura Corona (nata a Quartucciu nel 1921), la quale indicava il non aver mai indossato (né lei, né la propria madre) l’abito tradizionale quale segno evidente dell’agiatezza della propria famiglia.

Page 92: Folklore nuziale e identità sarda

92 ▪ Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale

positiva, spendibile sul piano dell’attrazione turistica e dell’orgoglio identitario. A questo

contribuì indubbiamente la svolta ruralista del regime fascista.

Nell’ambito di una concezione economica che si basava soprattutto sull’autarchia e sul

protezionismo della produzione nazionale, il fascismo dimostrò un grande interesse per

le realtà culturali popolari e per le tradizioni e le usanze folkloriche delle regioni italiane.

In connessione con le manifestazioni del regime, dovevano essere coltivate le

tradizioni popolari come sagre, feste e mostre di prodotti dell’artigianato domestico e

delle piccole industrie locali. L’obiettivo era quello di giungere alla perfetta unità

nazionale attraverso la fusione delle singole realtà regionali, accomunate dalla

prospettiva fascista di riconquistare la comune matrice latina ed italica.

3.1 1929, Visita di Vittorio Emanuele III a Cagliari [collezione Olinda Melis]. Nella foto alcuni selargini “in costume” accorsi a rendere omaggio al re. Si noti l’abbigliamento differente delle tre donne: nel secondo dopoguerra solo il secondo modello diventerà identificativo del costume di gala “tipicamente” selargino.

Dettata dalle scelte autartiche del regime, antidoto contro la degenerazione culturale

prodotta dalla civiltà moderna, la politica ruralista comportò l’esaltazione ideologica

delle virtù rurali e della provincia, spinse all’idealizzazione del mondo contadino

preindustriale, dipinto come la sintesi delle migliori virtù umane, depositario di valori

sani e morali. Per rendere verosimile questa rappresentazione, il regime fascista si

affidò alla vasta e capillare opera che poteva essere condotta tramite l’OND. L’Opera

Nazionale Dopolavoro, fondata con regio decreto legge il 1 maggio 1925, rientrava

Page 93: Folklore nuziale e identità sarda

Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale ▪ 93

nella strategia di controllo politico-sociale dei ceti popolari: era un ente voluto dal

regime fascista per tenere sotto controllo il tempo libero dei lavoratori, la cui

diminuzione degli orari di lavoro concedeva maggiori occasioni di svago.

All’interno dell’Ond, nella sezione cultura popolare (il C.N.I.A.P., Comitato Nazionale

Italiano per le Arti Popolari), venne istituito nel 1928 un apposito ufficio per sviluppare

l’azione folkloristica, avente come obiettivo la realizzazione di iniziative che

valorizzassero le tradizioni popolari in generale, quindi sagre, cerimonie, usanze locali,

canti e danze folkloristiche, il costume tradizionale. Fu all’epoca e nell’ambito dell’Ond

che sorsero i primi gruppi folkloristici; in Sardegna il primo si formò a Quartu S. Elena

lo stesso anno in cui furono istituite le sezioni di folklore, è il “Città di Quarto” [vedi

Deiana, 2003/2004].

Il saggio di Cavazza [2003] sulle feste popolari durante il fascismo, si rivela

particolarmente utile per ricavare un’idea precisa delle caratteristiche del folklorismo

fascista. Lo storico ne evidenzia tre funzioni principali: ludica, ideologica, turistica.

Poiché il folklorismo era inserito tra le attività ricreative proprie della sfera del tempo

libero, quindi non obbligatorie, la prima funzione, essenziale, era quella di fornire un

mezzo di svago che attirasse la maggior quantità possibile di popolazione. Al contrario

di quanto sostengono i nostalgici delle tradizioni, il lavoro di Cavazza afferma

attraverso diversi esempi che la domanda di svago non si traduceva di per sé nella

richiesta di folklore, per cui le attività dovevano essere programmate con molta

attenzione, cercando quanto potesse andare incontro ai gusti del pubblico. Col tempo,

le iniziative del Dopolavoro si concentrarono intorno ad alcune tipologie principali, che

configurarono precisi modelli festivi:

a) feste progettate dall’alto e diffuse poi a livello locale, in cui il ruolo della propaganda

era più evidente;

b) feste caratterizzate dall’appropriazione di passatempi e forme di socialità di ambito

locale;

c) sempre a livello locale, l’invenzione o la riesumazione di feste collegate alla cultura

municipale o regionale.

L’obiettivo era quello di rievocare tradizioni che mettessero in rilievo le caratteristiche

popolari di una città o di un’intera regione. Non potendo contrastare le trasformazioni in

atto, si cercava di proporre un’alternativa ideologica, assegnando al foklore la funzione

di antitesi del mondo reale, di negazione transitoria del presente, esaltando modelli

Page 94: Folklore nuziale e identità sarda

94 ▪ Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale

antichi o pseudoantichi. Il fascismo vide nel folklorismo il modo per coniugare il

soddisfacimento dei bisogni ludici con l’esigenza di comunicare ed educare i ceti

inferiori. La tradizione popolare, opportunamente edulcorata, poteva trasmettere valori

interclassisti e di pacificazione sociale, nonché esprimere la coesione sociale di gruppi

e comunità. Per riuscire a trasmettere questo messaggio, era necessario che quanto

veniva rappresentato fosse credibile, le feste dovevano essere “documenti di vita”,

“piccole manifestazioni d’arte fondate sul ricordo di una realtà precisa”. Questo richiese

l’utilizzo degli studi di demologia italiana, di cui il folklorismo fascista enfatizzò le

componenti populiste: si auspicava il ritorno alla cultura tradizionale del popolo, termine

col quale si faceva riferimento esclusivamente alle componenti contadine, in cui si

intravedeva il modello societario perfetto. Molti folkloristi italiani furono attivamente

coinvolti, sia a livello di studio e di ricerca, sia nella concreta programmazione degli

eventi festivi; sfruttando le competenze esistenti non solo a livello accademico, ma

anche a livello locale, tra notabilato e ceti medi. Il connubio tra sapere centrale e

sapere locale si rivelò vincente: assegnando, nel 1933, ai demologi il ruolo di unici

esperti nel campo della riesumazione di tradizioni popolari si riusciva a tenere sotto

controllo il contenuto trasmesso nelle feste, e nello stesso tempo, servendosi della

conoscenza degli intellettuali locali, si creavano delle manifestazioni profondamente

radicate nel territorio, assicurando la riuscita delle iniziative.

Un’altra funzione del folklorismo fascista era la promozione del turismo, motivata da

ragioni di tipo economico e di immagine. La prima e più importante ragione economica,

la mancanza di materie prime e di ricchezze coloniali, convinse il regime fascista a

cogliere l’opportunità economica offerta dal turismo straniero, che cercò di incentivare

mediante una più efficiente e valida organizzazione dei comitati turistici locali, il

miglioramento della rete alberghiera e di quella ferroviaria. L’Enit, Ente Nazionale

Industrie Turistiche, aveva, tra gli altri, il compito di valorizzare l’immagine turistica

dell’Italia, attraverso l’acquisto di pagine di pubblicità sui giornali stranieri. Ma il turismo

diventava sempre più un settore economico rilevante grazie anche allo sviluppo del

turismo interno che coinvolgeva ceti medio e piccolo borghesi nella ricerca di vacanze

ed evasione. L’organizzazione di festeggiamenti era lo strumento attraverso il quale

pubblicizzare le piccole località e i centri periferici, che attirando spettatori dai paesi

vicini riuscivano a stimolare i piccoli commerci. Di ogni centro, si cercava di esaltare la

tipicità, le caratteristiche che lo rendevano diverso dai centri vicini; una strategia

pubblicitaria che esaltava l’identificazione locale, l’amore per il proprio paese.

Page 95: Folklore nuziale e identità sarda

Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale ▪ 95

3.3.1 Analogie tra Matrimonio Selargino e foklorismo fascista

La comparazione tra l’Antico Sposalizio Selargino e le caratteristiche del folklorismo

fascista delineate da Cavazza, sembra evidenziare analogie consistenti.

Innanzitutto, quale migliore occasione di un matrimonio per mettere in scena

l’esaltazione ideologica dei valori del mondo rurale tradizionale? Si sfila sulle traccas, si

presentano come in trofeo gli attrezzi del mestiere e i prodotti della terra, ci si veste con

l’abito dei propri avi. Un mondo contraddistinto dalla continuità con la tradizione, in cui

ognuno conosce il suo ruolo e lo accetta: i figli sono subordinati ai genitori, ai quali si

devono inchinare per ricevere la benedizione, il lasciapassare che li autorizza ad

allontanarsi dalla casa paterna per fondare una nuova famiglia; la nuora è subordinata

alla suocera, dalla quale deve aspettare di ricevere le chiavi della nuova casa; la donna

sposata è padrona assoluta della propria casa, come dimostrano le chiavi sempre ben

in evidenza appese all’altezza della cintola; l’unione matrimoniale è indissolubile, lo

simboleggia la catena con la quale vengono uniti marito e moglie, ma la moglie è

subordinata al marito, per la disparità nel modo di tenere la catena: lui ne infila un

anello nel mignolo della mano destra, lei è cinta dalla catena all’altezza della vita.

Altra caratteristica condivisa col modello festivo dopolavoristico fascista, la

strumentalizzazione della componente religiosa. Il folklorismo fascista prevedeva che i

popolani fossero dipinti come spiccatamente religiosi e che si mettessero in secondo

piano gli elementi paganeggianti delle tradizioni popolari. L’evento folkloristico sembra

raggiungere il suo culmine nella celebrazione ecclesiastica, posta anche

temporalmente al centro della manifestazione. Difficilmente comprensibile, se si tiene

conto del carattere di pura formalità attribuito allo sposarsi in chiesa - evidenziato dagli

studi sulle coabitazioni nel Campidano e sulle usanze matrimoniali - ma ancor più

incomprensibile a Selargius, “forse il paese più laico del campidano cagliaritano”, come

si evince anche dalla scarsa presenza di preti selargini per tutto il Novecento [Orrù,

Desogus, 2001:30].

Il Matrimonio Selargino permette inoltre di venire incontro alle esigenze di istituire una

festa che rafforzasse l’identificazione locale, ma senza eccessi. Il matrimonio è

selargino in quanto si celebra a Selargius e perché sono presenti alcuni elementi che

vengono presentati come tipicamente selargini, ma è giocoforza ammettere che le

usanze nuziali selargine sono le stesse di tutto il Campidano e quindi lo stesso evento

poteva essere rappresentativo del matrimonio tipico di tanti altri paesi.

Page 96: Folklore nuziale e identità sarda

96 ▪ Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale

Nelle feste fasciste viene concesso uno spazio limitato alla spontaneità dei soggetti

perché si temono problemi sul piano dell’ordine pubblico e su quello dell’immagine che

si cerca di offrire ai turisti. La celebrazione di un matrimonio vero, che ha validità

sacramentale e giuridica, permette di non preoccuparsi del comportamento degli attori

principali della rappresentazione, appunto perché non dovranno recitare ma esprimere

i loro “veri” sentimenti. Le madri si mostreranno commosse senza che nessuno chieda

loro di esserlo, gli sposi saranno seri e composti, più o meno preoccupati del passo

che stanno per compiere, gli amici tra la folla grideranno auguri sinceri; insomma,

ognuno saprà cosa fare, senza bisogno di tante raccomandazioni. Si pensi a quanto

costerebbe ingaggiare degli attori professionisti, impedire di ironizzare sulle lacrime

delle finte madri e dei finti figli, tenere a freno l’ilarità della folla su un evento come il

matrimonio che di per sé è facile fonte di doppi sensi e battute oscene. Con un

matrimonio vero, in ottemperanza delle disposizioni fasciste, si minimizza il senso del

gioco insito nella possibilità di giudicare della correttezza filologica della

rappresentazione, mentre si enfatizza il senso di immedesimazione nel ruolo di padre,

madre, sposa. Si elimina in questo modo buona parte dell’artificiosità della

rappresentazione e a bassissimo costo, a tutto vantaggio della credibilità dell’evento,

anche per i turisti, che intuendo la veridicità delle emozioni manifestate, potranno

godersi la sensazione di assistere a un vero matrimonio del tempo che fu, e non a una

manifestazione creata ad hoc anche per loro.

Non appare un caso che il Matrimonio Selargino presenti parte dei requisiti richiesti dal

modello festivo fascista. Efisio Salis era un’autorità fascista, che tra il 1928 e il 1929

ricopre il delicato incarico di delegato podestarile a Selargius, ma era anche un

appassionato organizzatore di eventi di svago e di spettacolo, ricordato ancora oggi

per una famosissima gara di ostentazione di ricchezza a base di fuochi artificiali, in

occasione di una festa paesana negli anni Cinquanta. È perciò ragionevole supporre

che avesse in mente di accrescere il prestigio del suo paese per mezzo di una festa

capace di richiamare curiosi da tutto il circondario, ed è altrettanto ragionevole

supporre che conoscesse le direttive inviate ai dopolavoro locali sui modi e gli obiettivi

delle iniziative festive: un’iniziativa come il Matrimonio Selargino può benissimo essere

stata incubata per anni, in attesa dell’occasione più propizia per venire alla luce. Si

ricordi tra l’altro che Selargius durante il fascismo e poco oltre, più esattamente dal

1928 al 1947, aveva perso la possibilità di decidere autonomamente della propria

politica culturale, poiché subordinata alle decisioni del comune di Cagliari.

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Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale ▪ 97

Un altro argomento che rende plausibile ricondurre la manifestazione nel solco della

continuità con l’opera di valorizzazione folkloristica di epoca fascista è il fatto che sia

stata inizialmente gestita e finanziata dall’Enal, l’ente che nel 1945 prende il posto

dell’Ond5, soprattutto se si considera lo scarso ricambio nei vertici dell’organizzazione

(segnalato in Deiana, 2003-2004).

3.3.2 La festa dell’Uva

D’altronde il racconto degli informatori conferma l’impressione che la passione per il

folklore nasca a Selargius proprio nel periodo fascista. Alcune iniziative contribuirono

senz’altro a catalizzare l’entusiasmo in questa direzione, ad esempio la “Festa

dell’Uva”. L’iniziativa non era la conseguenza di una scelta paesana, al contrario

rientrava nella tipologia di feste progettate al centro del sistema e diffuse poi

capillarmente in periferia. Fu ideata agli inizi degli anni ’30, non tanto per rispondere a

esigenze di svago dopolavoristico, quanto per fornire pubblicità e sostegno al settore

vitivinicolo, allora in crisi.

Con una produzione ai massimi vertici sardi sia per quanto riguarda il vino comune sia

per il vino fino, il settore vitivinicolo rimase per tutto l’Ottocento il settore trainante

dell’economia selargina. Nel 1865 raggiunse addirittura il primato sardo assoluto con

25000 hl, primato detenuto sino alla fine del 1800. Ma nel 1881 e 1889 le alluvioni

distrussero gli orti, nel 1898 una disastrosa grandinata annientò l’intera produzione

agricola (tanto che “fu sospesa la riscossione delle imposte e delle tasse per un giusto

riguardo ai contribuenti colpiti dal grave infortunio [Camboni, 1997:125]), agli inizi del

1900 arrivò la filossera, una malattia causata da un afide infestante che distrusse i

vigneti; il 23 settembre 1921 una terribile grandinata distrusse tutti i vigneti di Selargius.

L’economia selargina, in gran parte dipendente da questo prodotto, crolla; molti sono

costretti a emigrare, altri a dipendere dai sussidi comunali.

5 L’Ond si trasforma in Enal, Ente Nazionale Assistenza Lavoratori, col decreto legge n. 604 del 22 settembre 1945. I compiti rimangono sostanzialmente gli stessi. “L’ente si proponeva di promuovere il sano e proficuo impiego delle ore libere dei lavoratori intellettuali e manuali, con istituzioni ed iniziative dirette a sviluppare le loro capacità morali, fisiche, intellettuali. In particolare l’E.N.A.L. si distinse nell’organizzare mense, spacci di generi alimentari, soggiorni per lavoratori e colonie per i loro figli, facilitazioni commerciali, sanitarie, termali, cinematografiche, assicurazioni extra lavoro, buoni acquisto. Vanno inoltre ricordate le iniziative culturali, come la promozione di feste folkloristiche, campionati sportivi, concorsi canori e musicali. L’ente è stato soppresso con la legge 23 dicembre 1978, n. 833 […]” Informazioni tratte dal sito internet: http://xoomer.virgilio.it/miovac/Istituti_beneficenza/enal.html, (ultima visita 22/04/06)

Page 98: Folklore nuziale e identità sarda

98 ▪ Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale

La propaganda fascista a favore della produzione e del consumo del vino non poteva

che attirare l’attenzione e dare forza alle aspettative di quanti non avevano ancora

perduto il ricordo della ricchezza ricavabile dalla produzione vinicola. La festa dell’Uva,

ripetuta più volte, fu un grandissimo successo.

Il successo di questa iniziativa ci interessa non tanto per le implicazioni politiche ed

economiche di un evento di questo genere a Selargius, quanto per il ruolo assunto dal

folklore. Per l’edizione del 1936, Selargius, forse per la prima volta, vide sfilare lungo le

sue strade “un lungo corteo folkloristico con le traccas vendemmiali, a guisa della

spettacolare sfilata dall’Antico Sposalizio di oggi” [Orrù, Desogus, 2001:83]. Il folklore

era parte integrante della promozione, assumendo la funzione di vetrina della ruralità e

di garanzia di tipicità. La componente folkloristica della festa dell’Uva era costituita

prima di tutto dai costumi tradizionali e poi dai carri vendemmiali, che questa occasione

contribuì a mostrare come potessero essere visti in chiave diversa da quella di

indicatori di subalternità. Si noti nella citazione il parallelo tra il Matrimonio Selargino e

la festa dell’Uva, come pure il ravviso in quest’ultima della “anteprima di una lunga

stagione di passione per il folklore”6.

3.4 La valorizzazione turistica dell’isola

Tra le conseguenze delle scelte autartiche del regime fascista, l’ampliamento

dell’interesse per il patrimonio etnografico della Sardegna dette il via alla

valorizzazione delle risorse locali. Ma è con l’avvio del turismo, agli inizi degli anni ’50,

dopo la ricostruzione e in stretta connessione con l’istituzione della Sardegna come

regione autonoma a statuto speciale, che il processo acquista consistenza [Atzori

1997]. Con il primo Piano di Rinascita, varato in questi anni, viene predisposta la

costituzione di appositi enti di sviluppo, stimoli e incentivi sia sul piano promozionale

che su quello gestionale per la crescita in campo turistico. La prima Azienda Autonoma

di Soggiorno e Turismo (AAST) sorge nel 1957 ad Alghero; esempi successivi sono

Olbia nel 1968, Santa Teresa di Gallura nel 1972, Sassari nel 1974, Arzachena nel

19757. L’Esit, Ente Sardo Industrie Turistiche (soppresso nel 2006), finanzia la

6 Orrù, Desogus, 2001:83. Dopo quanto detto, appare una coincidenza da approfondire trovare il nome del commerciante di vini Benedetto Meloni tra i dirigenti dell’Enal di Selargius nei primi anni del secondo dopoguerra. 7 Paolinelli, Salierno, La carcassa del tempo. Inchiesta sul turismo in Sardegna, Roma, Antonio Pellicani Editore, 1988 citato in Deiana, 2003/2004

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Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale ▪ 99

costruzione dei servizi turistici essenziali, quali alberghi e ristoranti8. Prima degli anni

’60, Alghero era l’unica meta turistica della Sardegna, ma nel giro di una decina di anni

sorgono poli turistici praticamente dal nulla, grazie anche all’intervento di finanziatori

stranieri, come l’Aga Kan Karim in Costa Smeralda9.

3.2 Primi anni ’60, Hotel Capo Sant’Elia, località Calamosca (Ca) [collezione Olinda Melis]. Il direttore dell’Esit Loi Giuseppe spiega all’Aga Khan in visita a Cagliari la funzione della catena. La donna in costume selargino è Licia, sorella di Fedora.

8 Nel giro di pochissimi anni furono costruiti “Alberghi Esit” un po’ in tutta la Sardegna; tra quelli già presenti nei primi anni ’60: San Leonardo (Santu Lussurgiu), Grande Hotel (Alghero), La Spendula (Villacidro), Il Gabbiano (La Maddalena), Miramonti (Tempio), Miramare (Santa Teresa di Gallura), “Albergo Esit” a Nuoro (sul Monte Ortobene). Fonte: L’Italia in automobile, Sardegna, Touring Club Italiano, 1963 9 Riporto a questo proposito uno stralcio dell’articolo sulla visita del presidente della Sardegna Corrias e dell’Aga Kan Karim in Costa Smeralda, apparso su “L’Informatore del Lunedì” del 29/10/62 a p. 9, esattamente sopra l’articolo sulla prima edizione del Matrimonio Selargino: “Si può dire che il nobile rampollo ismailita vive di speranza nell’orrido dominante alle spalle del primo albergo che va sorgendo […]. La Costa Smeralda, per il momento, è lui: si identifica in lui e nei suoi coraggiosi progetti. Per il resto, è mare aperto e vergine, lentischio, roccia che pare fatta come l’involucro dei canoli: a strati, a fasce”

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100 ▪ Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale

La legge più importante in materia, cui ancora oggi si fa riferimento, è del 1955:

“Provvedimenti per manifestazioni, propaganda e opere turistiche”. All’articolo 3 si

legge che

L’Amministrazione regionale è autorizzata ad eseguire opere anche non permanenti atte a valorizzare le località di particolare interesse turistico della Sardegna, promuovendo, incrementando ed attuando tutte le iniziative che a tale scopo possono concorrere, come strade di accesso e panoramiche, scavi, sistemazioni speleologiche, alberature e rimboschimenti, servizi igienici, impianti elettrici di trasporto e di distribuzione, autostazioni, impianti sportivi e per pubblici spettacoli, piazzali belvedere, posti ristoro, rifugi, ostelli per la gioventù, campeggi, villaggi turistici ed altri stabilimenti ricettivi [...].

Tali opere sono dichiarate urgenti e indifferibili a tutti gli effetti della legge sulle espropriazioni per cause di pubblica utilità. […]10

Per quanto riguarda la politica culturale inerente il patrimonio etnografico - che qui

interessa maggiormente - il merito della classe politica regionale, sollecitata dagli

intellettuali locali, fu quello di intervenire concretamente per arginare la crisi delle

tradizioni folkloriche. In quest’ottica si registra nel 1957 l’istituzione dell’I.S.O.L.A.,

Istituto Sardo Organizzazione Lavoro Artigiano, con la quale la Sardegna tutela e

valorizza i propri prodotti artigianali inserendoli nel quadro del mercato turistico; ma

anche l’attivazione di fondi destinati agli studi demoetnoantropologici. All’articolo 2

della legge citata in precedenza si afferma che:

L’amministrazione regionale è autorizzata ad effettuare le spese necessarie, per promuovere con pubblicazioni, documentari cinematografici e radiofonici, riproduzioni fotografiche, manifesti, indicatori stradali, o con altri mezzi di propaganda, la conoscenza delle bellezze naturali ed artistiche della Sardegna.

Tra gli eventi più importanti, sostenuti da questi contributi: nel 1956 la Sardegna ospita

il VI “Congresso nazionale delle arti e tradizioni popolari”, nel 1957 viene istituito a

Nuoro il “Museo del Costume e delle arti popolari” che nel 1961 ospiterà la “1° Mostra

etnografica sarda”, nel 1972 si crea l’Isre, Istituto Superiore Regionale Etnografico,

tutt’ora in prima linea nell’organizzazione di eventi attinenti alla sfera

demoetnoantropologica sarda.

Per quanto riguarda le feste e le antiche sagre, che venivano rapidamente

abbandonate nei centri urbani più grossi, in favore di attività ricreative più “moderne”, si

10 Legge Regionale n. 7 del 21 aprile 1955 tratta dal sito internet www.regionesardegna.it

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Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale ▪ 101

cercò, dove possibile, di intervenire per adattarle al mercato turistico, finanziando le

iniziative più interessanti in questa direzione (articolo 1 della legge del 1955):

Allo scopo di incrementare lo sviluppo del turismo nel territorio della Regione, l’Amministrazione regionale è autorizzata ad erogare contributi e sussidi per:

a) turismo scolastico, […];

b) turismo sociale […];

c) manifestazioni pubbliche di grande interesse turistico, che determinano particolare afflusso di turisti nelle località ove la manifestazione ha luogo.

L’ammontare della concessione può estendersi all’intera spesa. [corsivo mio]

Si puntò alla spettacolarizzazione, ad esempio invitando a partecipare rappresentanze

in abito tradizionale del maggior numero possibile di località isolane. È in qualche

misura il caso tutte le feste sarde, e in particolare della “Cavalcata Sarda” (a Sassari),

che non è sorretta da motivazioni di carattere religioso, devozionale, o di

rappresentazione di modi di vita tradizionali: è “semplicemente” la sfilata di un numero

ragguardevole di persone in costume tradizionale. È durante il fascismo, fa notare

Deiana [2003/04], che si consolida e si perfeziona l’uso di impiegare gruppi in costume

per cerimonie in onore di alte cariche dello Stato, come pure di personaggi illustri e

importanti, che aveva avuto inizio nel 1899, in occasione della visita in Sardegna di

Umberto I e di Margherita di Savoia. La “Cavalcata Sarda” appare in questo senso un

modo per non mettere fine a una prassi consolidata e sfruttare al meglio le potenzialità

turistiche offerte dalla competizione artistica e estetica tra i gruppi. Proposta per la

prima volta nel 1951, in concomitanza con l’organizzazione del XV Congresso

Nazionale Rotariano, passerà alla storia come l’evento che segna il lancio turistico

dell’isola.

Un altro esempio: la sagra di Sant’Efisio a Cagliari. La festa, che si celebra dal 1657, è

la perpetuazione del voto fatto dai cagliaritani al santo come ringraziamento per aver

liberato la città dalla peste. Prendendo a prestito le parole di Gallini per sintetizzare il

nucleo della festa:

centro di ogni interesse è la processione del santo, che si svolge secondo un itinerario ben preciso, dalla sua chiesa a quella di Pula, un paesetto a una trentina di chilometri da Cagliari, sul mare. Qui il santo, che si è trasferito su una portantina dorata e in una sosta intermedia si era messo un abito da viaggio, si cambia vestito, fa tre giorni di vacanza, per poi tornare indietro al suo domicilio abituale e rimettersi, alle porte di Cagliari, l'abito cittadino [Gallini, 2003:47]

Dagli anni ’60, la promozione turistica trasforma la processione in sfilata, un’altra

grande occasione per mostrarsi ai turisti in abito tradizionale, cavallo e traccas:

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102 ▪ Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale

S. Efisio è diventato uno dei più grossi richiami turistici, per sardi e stranieri, su cui puntano città e regione, che lo reclamizzano su tutti i dépliant invitanti a visitare la Sardegna. Un tempo, alla processione partecipavano i diversi gruppi di paese, ciascuno contraddistinto secondo i propri costumi da festa: e questo costituiva un solenne momento di riconoscimento, mediato dalla città, delle diverse comunità di paese. Ora, la processione è uno spettacolo organizzato dall'ESIT (Ente Sardo Industrie Turistiche), che sovvenziona i vari gruppi folklorici di paese, perché vengano a sfilare come gli elefanti dell'Aida. Qui, è l'orgia del "pittoresco". Costumi sgargianti, ori, belle donne, maschi a cavallo, la guardia del santo in rossi moreschi costumi, un illividito consiglio comunale costretto a mettersi in frac e tubino […] [Gallini, 2003:48]

Le possibilità di ritorno economico e di immagine spinge ogni paese a organizzare un

proprio gruppo folkloristico, che rappresenti il paese e le sue tradizioni (di canto e ballo)

nelle maggiori feste sarde, ma anche in quelle nazionali e internazionali. Si assiste a

un vero e proprio boom dei gruppi folk ovunque in Sardegna11.

Le grandi città sono le prime che avviano un discorso di turisticizzazione delle feste:

Cagliari con Sant’Efisio, Oristano con la Sartiglia (“una specie di palio che si vince

quando il cavaliere infilza con l'asta un anello” [Gallini, 2003:48]) tradizione

carnevalesca di cui l’Esit finanzia il recupero a metà degli anni ’50, Sassari con la

Cavalcata Sarda, Nuoro con la Sagra del Redentore.

Dai centri più grandi a quelli più piccoli: ogni paese aveva almeno una festa che

attendeva di essere revitalizzata e/o potenziata. “È raro che un comune, o un centro

dell’isola non abbia, nel suo ricordo, un grande santo, o per lo meno, qualche santo

medio e piccolo, del quale parlare e fare festa” conferma Spanu [1987:6], ricordando

come tra il 1965 e il 1973, molte feste religiose andavano perdendosi “per mancanza di

persone che si interessassero alla loro organizzazione”. Certo, la motivazione

espressa da Spanu appare piuttosto semplicistica: le feste tradizionali venivano

trascurate perché, grazie al “periodo di benessere” di quegli anni, “non si aveva il

bisogno dell’aiuto del cielo”. E infatti, spiega, non appena giunta la crisi economica

della metà degli anni ’70, “resuscitano le sagre, riportando i fedeli attorno ai templi, che

si rianimano, perché sono crollati lo star bene e il mangiar meglio” [Spanu, ibidem]. Di

parere contrapposto molti altri studiosi, tra cui Gallini e Atzori, che riconoscono nella

11 Nell’Archivio Storico Comunale di Selargius sono conservate diverse lettere di presentazione di gruppi folk di nuova formazione che chiedono, per farsi conoscere, di poter partecipare al Matrimonio Selargino anche a titolo gratuito.

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Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale ▪ 103

scomparsa delle feste un segno della crisi delle campagne: mancano sì le persone che

si occupino della loro organizzazione, ma non per il troppo benessere, bensì perché

costrette a emigrare verso le città industrializzate in cerca di lavoro. Dai paesi è

emigrata la generazione di mezzo, cui era affidato il compito di tener viva una

tradizione produttiva e culturale, nei paesi rimangono vecchi e bambini, le vecchie feste

vengono abbandonate. Secondo questi studiosi, i vari enti turistici e culturali si

inseriscono nel vuoto organizzativo creato dalla mancanza di persone e di fondi.

Quando le feste vengono riprese, almeno un decennio di silenzio separa la festa come

risultato di una cultura contadina 'viva' dal suo recupero. Il folk-revival non si

caratterizza quindi come un fenomeno di continuità: le feste attuali sono altro da quello

che erano in passato. È cambiata la condizione sociale dei partecipanti, sono cambiate

le finalità per cui si opera la festa, sono cambiati i finanziatori. La festa si trasforma in

folk-revival, in spettacolo per il divertimento dei turisti. Come direbbe Angioni, “lo

spettacolo ha costruito il suo impero sulle rovine della festa”12.

Tornando al Matrimonio Selargino, negli anni ’60 l’Enal provinciale di Cagliari decide di

puntare (di sua iniziativa o su suggerimento) sulla suggestione che può nascere dalla

riproposizione di un ricco matrimonio tradizionale. In questo contesto di rilancio turistico

delle tradizioni, non è fuori luogo immaginare che, come mi raccontava la signora di

Quartu, l’ente decidesse di indire un bando di finanziamento per la proposta festiva che

meglio aderiva ai propri obiettivi in materia di turismo. A questo punto si può anche

ipotizzare che un giovane quartuccese risvegliasse in Efisio Salis l’idea di riproporre

sotto forma di spettacolo il ricordo dei ricchi matrimoni da cui era rimasto impressionato

nei tempi della sua infanzia. Ma appunto, si tratta di supposizioni: per avere delle

risposte certe bisognerebbe trovare informatori più “informati" oppure rovistare tra le

carte dell’Enal, se non fosse che neppure l’Assessorato Regionale al Turismo e l’Ente

Provinciale per il Turismo di Cagliari sappiano dove si trovano13. Nell’archivio comunale

di Selargius si trovano diverse lettere dell’Enal indirizzate al Comune, e relativamente

12 Introduzione di Angioni in Deidda, Della Maria, 1987 13 Le persone interpellate al numero verde non hanno saputo fornirmi indicazioni riguardanti se e dove sia conservata la documentazione prodotta dall’ente. In effetti, però, non avevano idea neppure di cosa fosse l’Enal.

Page 104: Folklore nuziale e identità sarda

104 ▪ Tra fascismo e valorizzazione turistica regionale

al 1962 la segnalazione di una lettera con data 25 ottobre, il cui oggetto è indicato

come “Festeggiamenti patronali San Lussorio”, ma della lettera non c’è traccia14.

3.3 Il gruppo folk selargino a Roma, primi anni ‘60 [collezione Olinda Melis]. Tra gli altri la capogruppo Olinda Melis (terza in piedi da sinistra) con alla sua destra Gianni Orrù (primo in piedi a sinistra) e alla sua sinistra il direttore dell’Enal di Cagliari dottor Gavino Manca, Mariolina Cannuli (quarta in piedi da destra) e Renato Tagliani (sesto in piedi da destra), presentatori Rai.

14 Della lettera è stata reperita data e numero di protocollo, per cui non dispero possa essere rintracciata una volta completato il riordino dell’archivio.

Page 105: Folklore nuziale e identità sarda

4 La messa in scena della “selarginità”1

L’Antico Matrimonio Selargino:“una giornata speciale per tutti i Selargini chiamati a diventare protagonisti di una così importante ricostruzione storica. E Selargius, divenuta ormai centro residenziale per i cagliaritani, torna ad essere la Selargius dei Selargini autentici, con i loro riti e i loro costumi carichi di oro e di ricami.” [commento di Salvatore Sardu nel documentario “Antico Matrimonio Selargino”]

4.1 Da borgo del contado a città dell’hinterland

4.1.1 L’economia selargina nell’Ottocento Poco prima della metà del XIX sec., quando l’Angius visita Selargius, 2658 persone,

distribuite in 644 gruppi familiari, si occupavano prevalentemente di orticoltura,

agricoltura e commercio:

la massima parte dei selargini sono dediti all’agricoltura, gli altri, che saranno una cinquantina al più, sono applicati a vari mestieri. I pastori sono non sono più di dieci o quindici che pascolano pochi branchi di pecore2

È sempre l’Angius a rilevare che i terreni “sono molto idonei alla coltura de’ cereali”, “le

specie ortensi sono coltivate con cura, perché producono assai vendute nella città

[Cagliari], si seminano soprattutto grano, ma anche orzo, fave, legumi e, in minore

quantità, lino”. Un’altra fonte di reddito è data dalla coltura “estesa e fatta con

diligenza” degli alberi da frutto, mandorli, peri, albicocchi, susini, peschi, da cui si

guadagna molto “o affittando il prodotto ai rigattieri cagliaritani, o vendendolo essi

stessi nella città”. “La vigna è prosperissima e le vendemmie sono abbondantissime”: si

contavano circa “40.000 filari di viti” che arrivavano a produrre circa “4.500.000 litri di

mosto”; la quantità dei “vini gentili, moscato, cannonau, malvasia, ecc.” era stimata

intorno ai 40.000 litri. I campi e i poderi erano circondati dalle siepi di fichi d’india, la

cui abbondante produzione spontanea costituiva “parte del vitto ai poveri per due o tre

mesi”, un’altra entrata “per quella parte che si può vendere nella città, dove trasportasi

in grandi cestoni sul basto de’ cavalli”, cibo destinato all’ingrasso dei maiali, tenuti nei

1 “Selarginità” è un termine che compare più volte nei discorsi degli informatori per indicare l’insieme delle qualità, l’essenza dell’essere selargini. 2 Angius, Casalis 1849: 793. Le citazioni immediatamente successive, quando non specificato altrimenti, sono sempre tratte dalla stessa voce (Selargius) del dizionario.

Page 106: Folklore nuziale e identità sarda

106 ▪ La messa in scena della “selarginità”

cortili e poi venduti. La quantità di formaggio prodotta dalle poche pecore era minima e

consumata in loco, così come la produzione di miele.

La ricchezza del paese era dovuta alla fertilità dei campi, che tuttavia necessitavano di

una cura continua a causa dell’aridità del suolo. Di passaggio a Selargius negli anni ’30

del XIX sec., Valery [1837, ediz. 1996:165] definisce i selargini “ortolani intelligenti”

poiché riescono a ottenere frutta e ortaggi tanto “saporiti” e “apprezzati” quanto quelli

che si ottengono da terreni migliori.

I prodotti della terra venivano rivenduti a Cagliari, con alti margini di profitto, cosicché

“sono moltissimi quelli che vivono in qualche agiatezza”. I paesi del Campidano

rappresentavano per Cagliari le principali fonti di rifornimento agricolo: Quartu

Sant’Elena era specializzata nelle colture viticole, così come Monserrato e Pirri (dalla

seconda metà dell’800 anche Selargius), Sinnai nella produzione del mandorlo,

Settimo nella coltura del grano.

Alcuni anni più tardi, nel 1858, Della Marmora conferma Selargius come il centro

orticolo più importante del Campidano: “gli abitanti si dedicano in particolar modo

all’orticoltura; sono loro che forniscono al mercato di Cagliari la maggiore quantità di

legumi e di verdura” [Della Marmora 1860, ediz. 1995:187].

4.1.2 Boom demografico e abbandono dei campi Agli inizi del Novecento la popolazione di Selargius era stimata sui 3000 abitanti, che

raddoppiano negli anni ’40, triplicano alla fine degli anni ‘60, quadruplicano nei ‘70,

quintuplicano pochi anni più tardi. L’aumento della popolazione tra il 1971 e il 1981 è,

in termini percentuali, un record in Sardegna e uno dei valori più alti in Italia. Nel 2006

si è giunti alla soglia dei 30000 abitanti, il che significa che la popolazione è

decuplicata nel giro di soli cento anni. Analizzando i dati si nota che la crescita della

popolazione non è stata costante durante il secolo: nei primi 50 anni la popolazione

“semplicemente” raddoppia, passando dalle 3393 unità del 1901 alle 6916 del 1951,

nella seconda metà del secolo cresce a ritmi esponenziali. La causa della abnorme

crescita sono i flussi migratori convergenti verso Cagliari.

Negli anni del boom economico gli abitanti dei paesi limitrofi presero ad abbandonare

le loro terre per andare a trovar fortuna nelle città, soprattutto Cagliari, in forte sviluppo.

Il forte aumento della popolazione di Cagliari cominciò ad interessare anche i centri del

suo circondario, Quartu, Assemini, Capoterra.

Page 107: Folklore nuziale e identità sarda

La messa in scena della “selarginità” ▪ 107

Selargius, in particolare, come detto in precedenza, era dotata di ampie superfici di

campagna fertile, abbandonate da contadini e ortolani, che diventarono presto grandi

spazi edificabili.

4.1 Elaborazione grafica dell’autrice sulla base della “Carta del territorio” in Camboni (a cura di), 2000:6

Nero - Delimitazione estensione comune di Selargius Verde - Delimitazione estensione abitato agli inizi del Novecento Giallo - “ “ “ negli anni ‘30 Blu - “ “ “ agli inizi anni ‘60 Rosso - “ “ “ attuale

Page 108: Folklore nuziale e identità sarda

108 ▪ La messa in scena della “selarginità”

982

986

994

1003

1005

998

1011

1020

1028

1037

1046

1063

1072

1094

1080

1163

1195

1228

1256

1264

1305

1347

1352

1436

1536

1849

1643

1758

0 5000 10000 15000 20000 25000 30000

15751580159016001605160616101620163016401650166016701680

16881700171017201728173017401750175117601770177517801790

Popolazione

4.2 Elaborazione dell’autrice sulla base dei dati contenuti in: Camboni (a cura di) 2000; Orrù, Desogus, 2001; Cordeddu, 2002

Page 109: Folklore nuziale e identità sarda

La messa in scena della “selarginità” ▪ 109

2658

3215

3125

2834

2900

3099

3393

3370

3782

3780

3856

4000

4351

4668

6916

8768

8074

8768

12110

18950

20429

22000

23356

26000

27000

28100

0 5000 10000 15000 20000 25000 30000

1845

1861

1863

1870

1871

1881

1901

1903

1908

1911

1921

1929

1931

1936

1951

1961

1963

1965

1971

1982

1985

1989

1991

1995

1996

2001

2005

Popolazione

4.3 Elaborazione dell’autrice sulla base dei dati contenuti in: Camboni (a cura di) 2000; Orrù, Desogus, 2001; Cordeddu, 2002

Page 110: Folklore nuziale e identità sarda

110 ▪ La messa in scena della “selarginità”

Nel 1961, un secolo dopo le osservazioni dell’Angius e un anno prima della nascita del

Matrimonio Selargino, i dati sulle famiglie residenti, divise per ramo di attività

economica del capofamiglia, mostrano come l’agricoltura avesse perso il suo primato

storico nell’economia selargina. Il settore economico principale è ora quello edilizio. Le

motivazioni: le opere di ricostruzione postbellica, la fuga dalle campagne, l’inurbamento

di massa che coinvolgevano Cagliari e il suo hinterland, richiedendo manodopera

continua.

Nel giro di quarant’anni, tutto il Campidano di Cagliari è sconvolto dalla crescita

demografica e dalla cementificazione selvaggia. Sinnai, Maracalagonis, Settimo San

Pietro, Quartu, Quartucciu, avevano negli anni ’60 una popolazione che oscillava dai

duemilacinquecento abitanti ai seimila, con l’eccezione di Quartu Sant’Elena che ne

censiva venticinquemila. A distanza di soli venticinque anni, il censimento del 1985

mostra un divario che cresce in modo non fisiologico perché si passa dai 5.192 abitanti

di Settimo San Pietro ai 60.185 di Quartu Sant’Elena. I fattori economici e demografici

modificano profondamente il tessuto originario, l’antropizzazione massiccia stravolge il

litorale di Quartu così come le aree marittime di Maracalagonis e di Sinnai. Sin

dall’immediato dopoguerra si scorge un’evoluzione che subisce gli influssi

dell’accentramento degli agglomerati urbani, seguendo un processo massificatorio ed

espansivo che gravita attorno al capoluogo senza un progetto unitario ed organico.

Dati del 1961 sulle famiglie residenti, divise per ramo di attività economica del capofamiglia

Numero famiglie Totale persone

Costruzioni 563 3187

Industrie estrattive e manifatturiere 211 1129

Agricoltura, foreste, caccia, pesca 183 789

Commercio 133 618

Trasporti e comunicazioni 108 575

Pubblica amministrazione 107 499

Servizi 73 324

Altro 25 105

4.4 Dati tratti da Orrù, Desogus, 2001:162

Page 111: Folklore nuziale e identità sarda

La messa in scena della “selarginità” ▪ 111

Recentemente lo scrittore cagliaritano Giorgio Todde [2006:30] ha così scritto su

questo fenomeno:

Il fenomeno dell’inurbamento feroce diventa, dopo la guerra, una causa decisiva nelle scelte quasi involontarie degli amministratori di allora. Occorreva accogliere e, per conseguenza, occorreva costruire. E per costruire si sono distrutti e consumati i luoghi. Occorreva collegare, non importa che ci fosse uno stagno immenso di mezzo. Occorreva costruire, non c’era il tempo di formulare un disegno, un’idea.

[…] Ed ecco, un po’ più in là, l’hinterland che ha sfigurato un piccolo mondo di paeselli. Quartu paga la violenza della necessità più di ogni altro borgo del contado e crea le premesse per un deterioramento oggi irrimediabile. Pirri e Monserrato perdono in poche decine d’anni ogni traccia dell’origine rurale e si trasformano in un alterato e nuovo tessuto urbano e sociale. I paesi vicini vengono coinvolti in questo processo espansivo ed incontrollato. E una metastatica bruttezza ricopre ogni cosa. In poche diecine d’anni si crea un brodo urbanistico di depressivo degrado.

Lentamente, in sordina, si abbandonano gli antichi mestieri del fabbro (su ferreri), il

costruttore di carri (su maist’e garru), il sarto (su maist’e pannu), il ciabattino (su

sabatteri), il pellaio (su peddaiu). Spariscono o non vengono valorizzate in modo

adeguato le attività produttive legate alla tradizione della tessitura e alla produzione

delle salsicce.

Dal 1971 al 1991, raddoppiano i lavoratori nei settori industriali, rimanendo però quasi

stabili in termini percentuali perché anche la popolazione era raddoppiata. Diminuisce,

all’interno della categoria, la percentuale degli operatori edili: 1005 nel ’71, 1228 nel

’91, poiché “il vigore costruttivo si andava indebolendo in relazione alla esaurita fase di

costruzione post-bellica di Cagliari” [Orrù, Desogus, 2001:216]. Ma il dato più notevole

è l’esplosione, nel giro di vent’anni, delle attività della pubblica amministrazione, del

commercio e dei servizi, che trasformano Selargius in una piccola città a prevalente

economia terziaria.

4.5 Dati contenuti in Orrù, Desogus, 2001:217

Data del censimento

Num. addetti agricoltura

Num. addetti industria

Num. addetti commercio

Num. addetti pubblica amministrazione

1971 137 1633 599 326

1981 134 1943 1115 1907

1991 97 3700 1445 3177

Page 112: Folklore nuziale e identità sarda

112 ▪ La messa in scena della “selarginità”

Della Selargius ortofrutticola non rimane più niente. La funzione di rifornimento agricolo

è ora assolta dai paesi dell’entroterra campidanese: Monastir, San Sperate, Decimo,

Villasor. Gli ultimi orti a nord-est del paese, nelle zone di Santu Nigola e Bi’e Settimu,

sono spariti per la scelta di attuare un piano industriale nella zona agricola più

specializzata del paese o perché diventati aree edificabili. Il forte exploit della

popolazione è anche il risultato dell’estendersi dell’abitato alle borgate di Paluna-San

Lussorio, Cannelles, Su Coddu, Santa Lucia, che perdono del tutto la loro precedente

funzione di porzioni di fertile agro. I campi rimasti sono per lo più incolti oppure seguiti

nel tempo lasciato libero dalle altre attività lavorative.

4.1.3 L’abbandono delle feste tradizionali3 Un altro segno importante del mutamento dei tempi è il graduale ma inesorabile

abbandono delle feste comunitarie, feste per lo più di natura religiosa. Oltre alle feste

per le ricorrenze liturgiche tradizionali, come il Natale, la Pasqua e Pentecoste, c’erano

le feste dei santi patroni, l’Assunta, la Madonna d’Itria, San Lussorio, S. Antonio e S.

Giuliano. Con il passare del tempo le processioni si fanno sempre più corte, la

partecipazione di folla minore, si eliminano elementi prima indispensabili quali palii,

canti, balli, gare poetiche.

La prima in ordine temporale era la festa di S. Antonio Abate, Sant’Antoni de su fogu, il

prometeo cristiano che scese all’inferno per rubare il fuoco nascondendolo nel bastone

di ferula. La sera del 16 gennaio ci si raccoglieva intorno a un grande falò purificatore

nel sagrato prospiciente la chiesetta dedicata al santo, e si distribuivano le arance

benedette.

I fogaronis, i falò, venivano preparati anche per la festa di San Giovanni (23 giugno),

per quella di San Pietro e quella di San Giuliano. I falò prima di essere accesi

dovevano essere benedetti da un sacerdote. Per i falò di Santuànni, il combustile

selargino era composto da ramadùra, cioè un composto di fieno, foglie di vite e fiori

secchi, soprattutto rose e garofani. I falò potevano essere saltati, diversamente dagli

altri paesi del circondario, da uomini, donne (coi capelli sciolti) e bambini, sollevati da

quest’ultime, allo scopo di allontanare le malattie. Sempre a scopo protettivo veniva

3 Testi consultati a cui si rimanda per maggiori approfondimenti sulle feste selargine del passato: Agus, 1994; Camboni V. in Camboni G. (a cura di), 2000; Orrù, 1984; s.a. Guida illustrata turistica - commerciale di Selargius, 2002

Page 113: Folklore nuziale e identità sarda

La messa in scena della “selarginità” ▪ 113

esposto di fronte al fuoco il corredo. I falò erano presenti anche alla vigilia di San

Giuliano, Sanctu Iulianu conti, cavaliere e cacciatore. La festa era organizzata da due

obrieri, eletti annualmente, che avevano il compito di accompagnare la processione,

organizzare i divertimenti e il rinfresco.

La festa per San Antonio Abate dava inizio al Carnevale. La sera del martedì grasso,

martis de agoa, si celebrava il funerale del Carnevale, un fantoccio che veniva portato

su un carretto funebre trainato da un asinello e che a differenza di altri paesi, non

veniva bruciato o distrutto. La particolarità di Selargius era costituita dal corteo

composto da una folla di uomini tutti vestiti di bianco e col capo incappucciato, recanti

in mano candele adornate con carta variopinta. Il carnevale terminava con la

Quaresima, rappresentata da un fantoccio dalle sembianze di donna vestito di viola,

trasportata per il paese il mercoledì delle ceneri, merculis de cinixu, in assoluto

silenzio. Venti giorni prima della Pasqua si preparava su nenniri, semi di grano fatti

crescere nel cotone imbevuto d’acqua e lasciati al buio per mantenere il colore bianco

dorato, che venivano benedetti in chiesa il giorno della Resurrezione.

Legata in modo particolare al mondo contadino la festa del 2 febbraio per sa

Candelora, che consisteva essenzialmente in una processione e in una benedizione in

chiesa. La cerimonia era uno dei tanti esempi di sincretismi cristiani: l’elemento

pagano, legato alla previsioni circa la fertilità della terra, era stato incorporato nel

richiamo cristiano all’ingresso nel tempio della Madonna dopo il parto. La cerimonia

ricordava questo avvenimento con una processione in cui sfilava il simulacro del

bambin Gesù e nel quale erano presenti due donne preposte al compito di recare una

in mano una coppia di tortorelle e l’altra una candela bianca. La candela, offerta alla

Madonna, indicava la futura buona o cattiva annata a seconda che rimanesse o meno

accesa.

La festa per S. Lussorio, Santu Lusciori, era in passato una delle sagre più importanti

del Campidano perché richiamava un gran numero di fedeli attirati dall’indulgenza

concessa nel 1619 da Paolo V a chiunque nel 21 agosto (anniversario del martirio del

santo) si fosse recato presso questa chiesa a pregare. Era una festa di campagna,

perché sino a pochi anni fa la chiesa si trovava in periferia, lontana dal centro abitato,

mentre adesso ne è stata quasi inglobata: i fedeli vi si recavano sulle traccas, si

cucinava all’aperto, si dormiva nel porticato davanti alla chiesa. Dopo un periodo di

abbandono e il restauro dell’antica chiesetta, la festa è stata recuperata negli anni ’90

con l’organizzazione del gremio di San Lussorio, che l’ha spostata dall’ultima domenica

Page 114: Folklore nuziale e identità sarda

114 ▪ La messa in scena della “selarginità”

di ottobre al 21 settembre. Nel giorno della festa il simulacro del santo, insieme a quelli

dei santi Cesello e Camerino, vengono portati in processione dalla chiesa dell’Assunta

su un ottocentesco cocchio dorato, seguito da un gran numero di cavalieri su cavalli

bardati a festa e di affiliati delle confraternite paesane, vestiti con tonache bianche e

mantelline nere.

Un’altra festa che ha perduto la ricchezza di un tempo, ma che è diventata la festa

religiosa più importante, è la celebrazione del 15 agosto per Maria Vergine Assunta. La

statua della vergine dormiente, reminescenza degli influssi della chiesa bizantina sulla

religiosità sarda, viene adagiata sul suo lettino su un carro a buoi oppure portata a

spalla dagli obreri, avvolta da un velo bianco ornato di pizzi, che una volta veniva

impreziosito coi gioielli offerti dai più ricchi. Durante la processione si recitava il rosario

in sardo e si cantavano i canti sacri. Per la festa si correva il palio.

La festa di S. Isidoro celebrata da is messaius, i contadini, il lunedì dopo Pentecoste, è

ridotta ormai a semplice rito religioso. Il giorno seguente, il martedì dopo Pentecoste, si

festeggiava la Madonna d’Itria nella chiesa dell’Assunta dove si conserva un’icona del

1768 a lei dedicata. Valery [ediz. 1996:165-166], partecipando alla festa nella prima

metà dell’Ottocento, così la descrive:

Al posto del solito orpello delle chiese italiane, la chiesa, tutta addobbata, mandava il profumo dei grandi rami di mirto oltreché delle foglie di menta e delle erbe aromatiche di cui era rivestita.

[…] Nella piazza della chiesa i buoi adorni di immaginette, di canne, di nastri e con arance e mazzolini di fiori piantati sulle corna in gran parte dorate, formavano una pesante fila che doveva precedere la processione. Quest’ultima fu straordinaria: al seguito dei buoi scortati dai bambini che portavano fronde c’erano, davanti alla croce, due cavalieri che tenevano la bandiera e camminavano con molta abilità a ritroso, allo scopo di non dare le spalle alla croce. Le donne, che seguivano, cantavano alternandosi con gli uomini i pater e le ave in dialetto sardo al suono della nazionale launedda.

[…] Subito dopo l’uscita dalla messa, come si usa nelle feste sarde, sulla piazza cominciò un gioioso e immenso ballo tondo.

Di questa festa resta solo la celebrazione sacra voluta dalla famiglia Putzu, a cui

partecipa una ristretta cerchia di fedeli, anche se negli ultimi anni la Confraternita della

Madonna d’Itria si sta impegnando per il suo ripristino.

Page 115: Folklore nuziale e identità sarda

La messa in scena della “selarginità” ▪ 115

4.1.4 Appendici di Cagliari?

È nel pieno di questi stravolgimenti che emerge, prima silenziosamente, poi sempre più

prepotentemente, il dubbio: se i paesi del Campidano esistano ancora come realtà

sociali a sé stanti o siano diventate tante appendici di Cagliari.

Da una parte, per indicare i paesi limitrofi alla capitale si diffonde l’espressione

hinterland, circondario di Cagliari, dall’altra si comincia a parlare di identità, di difesa

delle tradizioni, di resistenza all’omologazione. Uccia Agus, pubblicando negli anni ’90

i risultati della ricerca sul campo da lei condotta negli anni ’60, per documentare le

tradizioni popolari campidanesi, si rammarica della scomparsa quasi completa di tutto

ciò che era riuscita a registrare:

il processo di massificazione e dell’irrazionale antropizzazione ha prodotto, come fenomeno indotto, la omologazione del costume. Un fattore comune a tutte le aree urbane, ma che si sottolinea perché le usanze dei nostri centri sono oramai scomparse o, se pur qualche traccia sopravvive, è frutto non più di un vissuto etnico, ma di sopravissuto per scopi folkloristici e turistici [Agus, 1994:9-10]

Dello stesso parere Antonio Romagnino, che presenta la ristampa del libro di Lucio

Spiga sulla storia e le tradizioni di Quartucciu come “il racconto di una resistenza”, un

invito a non dimenticare:

non basta fermarci agli aspetti esteriori, a fermarsi lì, alla constatazione che le lolle sono sparite o quasi. E che gli orti e i giardini che pausavano l’abitato hanno ceduto al cemento o al mattone. Importa di più, superare il cancelletto […] ed entrare risoluti nelle case. […] Che cosa avverrà di Quartucciu, ma anche di Pirri, Monserrato, Selargius? […] è in agguato un’omologazione di Fatto. È come se il Campidano ricevesse il colpo di grazia, rimanesse ancora solo come una pianura fra i monti e il mare, ma senza la gente specifica che l’ha abitata nei secoli ed ancora la abita4

L’analogia più appropriata per descrivere Cagliari nella mente degli intellettuali locali - o

perlomeno di quelli identificati come tali - è paragonarla a una piovra che allunga i suoi

tentacoli per inglobare i paesi circostanti, alla ricerca soprattutto di spazi per la sua

popolazione.

Riappare lo spettro della perdita dell’autonomia. Nel 1928, un decreto legge voluto da

Mussolini al fine di creare la grande Cagliari, stabiliva la fine dell’autonomia del

comune di Selargius, così come dei comuni di Pirri, Monserrato e Quartucciu, tutti

4 Presentazione di Romagnino in Spiga, 1996:7-8

Page 116: Folklore nuziale e identità sarda

116 ▪ La messa in scena della “selarginità”

aggregati a Cagliari, che aggiunse alla propria popolazione circa 20000 abitanti,

diventando così artificiosamente una città di 100.000 persone [vedi Dentoni, Serreli,

2005]. Già nel 1934 e nel 1935 vennero presentati degli esposti che richiedevano la

ricostituzione del Comune e immediatamente dopo la caduta del fascismo, nel 1945,

Selargius fu il primo centro del gruppo di comuni aggregati a Cagliari a riproporre la

sua richiesta di autonomia, che venne approvata solo nel 1947.

Selargius recupera la sua autonomia amministrativa, ma nel giro di pochi anni rischia di

perdere quella culturale. Orrù [1984] identifica nella scomparsa del gioco di sa

reinedda, gioco di squadra soprattutto selargino, “il netto trapasso di una civiltà,

verificatosi a cavallo tra gli anni ’50 e ’60”; sa reinedda è il simbolo della vita vissuta

all’interno del paese, la sua scomparsa trasforma gli ultimi giocatori in testimoni della

fine di un’epoca:

Quella che io chiamo la cultura della Reinedda fu l’ultimo colpo d’ali di una comunità morente, comunità che, intesa come entità particolare, celebra, oggi anni ‘80, la sua quasi totale estinzione

Selargius è minacciata anche della perdita dei propri confini, si teme che il capoluogo

finisca per incorporare nella sua giurisdizione il quartiere di Su Planu, a causa della

presenza di una serie di condizioni, tra cui la continuità territoriale e la tipologia

costruttiva, che indirizzerebbero in questa direzione. Uno degli aspetti che più colpisce

in questa rivoluzione nelle forme di lavoro e nella popolazione, è infatti la continuità

territoriale creatasi tra Cagliari e Selargius. Ciò è dovuto da una parte alla strana forma

dell’area comunale, il cui incunearsi nell’area cagliaritana è l’esito storico

dell’appartenenza alla baronia di San Michele, dall’altra alla decisione del coniglio

comunale, nel 1974, di trasformare una zona agricola dell’estrema periferia del paese

in area edificabile. Il quartiere di Su Planu, nato a ridosso del colle di San Michele e

dell’ospedale Brotzu di Cagliari, è oggi una borgata di oltre 6000 abitanti.

4.1.5 La reazione selargina

Probabilmente senza questa coscienza del nostro essere selargini […] la nostra comunità morirà in quel suburbio cagliaritano, che sta disanimando le antiche e nobili popolazioni del Campidano [Orrù, Desogus, 2001:197]

È difficile comprendere se i discorsi sull’identità locale in ambito selargino vadano

analizzati criticamente in quanto discorsi che legittimano delle pratiche sociali

ricorrendo a una retorica abbastanza stereotipa oppure, al contrario, se siano state le

pratiche sociali a produrre tale discorsi. In altre parole, è difficile comprendere se i

Page 117: Folklore nuziale e identità sarda

La messa in scena della “selarginità” ▪ 117

discorsi sull’identità locale siano il movente oppure il risultato delle iniziative in campo

politico e culturale. Attualmente è certamente indubbio che il linguaggio e gli argomenti

dell’identità hanno assunto la forza di Verità, ovvie e incontrovertibili, un insieme di

luoghi comuni talmente abusato da essersi trasformato in discorso standard buono per

tutti gli usi, dalla presentazione di una mostra alla legittimazione della gestione della

spesa pubblica.

Ma era così anche negli anni ’70? Quanti parlavano di interessi selargini, quanti

sostenevano l’importanza di tramandare le tradizioni locali, non erano piuttosto

accusati di voler soffocare lo sviluppo del paese? Mi sembra che l’uso come arma

politica del tema della salvaguardia dell’identità locale sia una scoperta piuttosto

recente, la cui forza deriva, da una parte, dall’essere un tema “alla moda” a livello

mondiale (per cui il sindaco può citare “Bauman” e “difesa della selarginità” nello

stesso discorso), dall’altra dalle passate scelte politiche e culturali del paese, una

solida base d’appoggio per le rivendicazioni identitarie attuali. Se Selargius può ancora

considerarsi un’unità politica e culturale autonoma - al contrario per esempio di Pirri,

diventata a tutti gli effetti frazione di Cagliari - è perché ha alle sue spalle iniziative che

l’hanno immessa (quanto consapevolmente?) nella direzione, che in seguito si è

rivelata vincente, della valorizzazione del locale.

Sin dagli anni ’70 tale politica, è portata avanti da un preciso gruppo di selargini,

costantemente attivi in tutte le più importanti associazioni culturali del paese. Dai

riferimenti indiretti raccolti sul campo, mi sembra di poter interpretare la storia selargina

come se - di fronte all’inarrestabile numero di immigrati sardi che si stanziavano in

cerchi concentrici intorno al paese, occupando tutte le aree a mano a mano che

venivano dichiarate edificabili - i selargini residenti in quello che prima era l’intero

paese (e improvvisamente si svelava essere diventato il centro storico), scoprissero la

necessità di riunirsi tra loro, impegnandosi attivamente, sia direttamente in politica, sia

indirettamente tramite le associazioni culturali, per cercare di limitare le possibili

conseguenze negative delle trasformazioni vissute dal paese.

Rispetto ad altre distinzioni, come quella di condizione sociale e grado di istruzione, la

tradizionale distinzione tra selargini e non-selargini, è andata rafforzandosi sempre più,

diventando uno dei criteri imprescindibili di selezione per le cariche più importanti.

Durante la ricerca è capitato spesso che mi fosse suggerito di non “perdere tempo

inutilmente” andando a parlare con delle persone che, nonostante risiedano a

Selargius da oltre vent’anni e abbiano dimostrato concretamente il loro attaccamento al

Page 118: Folklore nuziale e identità sarda

118 ▪ La messa in scena della “selarginità”

paese, “non possono capirne la realtà in quanto non selargine”. È particolarmente

sconcertante sentire queste osservazioni a proposito della persona che meglio

dovrebbe conoscere il paese, il sindaco, ma lo è altrettanto scoprire che i destinatari di

queste osservazioni non mettano in discussione la validità della distinzione, anzi la

accettino, dichiarando esplicitamente la loro (presunta) inadeguatezza nel parlare di

cose selargine.

Mi sembra dunque verosimile parlare di reazione selargina riferendomi a un ristretto

gruppo di selargini, che dagli anni ’70 in poi, hanno più o meno consapevolmente

cercato di mantenere vivo quel sentimento di selarginità messo in crisi dalla prossimità

con Cagliari. Si reagisce, in primo luogo, cercando di attenuare la ineliminabile

dipendenza dal capoluogo, creando i presupposti per attività economiche in loco e

strutture protettive e di difesa come i piani urbanistici in grado di prevenire gli scempi

della costruzione disorganizzata. A metà degli anni ’80 viene varato un piano di

valorizzazione agraria e di sistemazione urbanistica, per utilizzare al meglio le restanti

aree di campagna5. Qualche anno più tardi si realizza un polo industriale per

investimenti produttivi (P.I.P.), di circa 70 ettari, destinati in maggioranza alla piccola

industria e il restante ai laboratori artigiani, in cui sorgono aziende che producono

mobili e infissi, marmi e mattonelle, lavorano l’alluminio e il ferro, carne e latticini,

lavorano nel settore dei trasporti.

Dal punto di vista culturale, un’ottima giustificazione per esaltare le proprie peculiarità

deriva dall’importante scoperta, nel 1981, di un insediamento prenuragico risalente alla

fine del IV millennio a.C. nell’area di Su Coddu. L’occasione per inserire il paese nel

circuito dell’interesse internazionale viene sapientemente sfruttata, organizzando, tra il

1985 e il 1987, diversi convegni in cui parteciparono prestigiosi nomi della cultura

sarda, tra cui l’Accademico dei Lincei prof. Lilliu e ospiti internazionali. Viene fondato il

Gruppo Archeologico Selargino.

Tra le altre forme di associazionismo culturale il Circolo Culturale Selargius, il Centro

culturale Sa Domu. Nel 1984 la dottoressa Olga Deiana fonda la Luc, la Libera

5 Per quanto riguarda la prima, l’iniziativa non ottiene però il successo sperato a causa dell’eccessivo frazionamento della proprietà, mai risolto. Si è parlato a lungo della nascita dell’impresa agricola in forma associativa, in grado di accorpare le aree per unità aziendali economicamente gestibili, ma non si è mai andati molto oltre le parole. La decisione di svendere all’Enel 11 ettari di ottima campagna per la costruzione di una centrale elettrica è stato un altro segnale della debole volontà politica di investire seriamente nel ritorno a una produzione agricola di forte rilevanza economica.

Page 119: Folklore nuziale e identità sarda

La messa in scena della “selarginità” ▪ 119

università del Campidano. Si portarono avanti diversi tentativi di creare una rivista

mensile di paese (ad esempio, “Il Selargino” nel 1985). Negli anni ’90 viene fondata

l’associazione la Sel&Sar (Selargius & Sardegna) che fu promotrice di incontri su temi

riguardanti la storia, la lingua e la cultura sarda e organizza il concorso di poesia in

lingua sarda “Campidanu”.

Si moltiplicano gli studiosi locali, si comincia a pubblicare testi dedicati esclusivamente

alle peculiarità del paese; prima piccole ricerche, portate avanti dalle scuole o da

studiosi sovvenzionati dalle associazioni locali, poi ricerche sempre più vaste e

approfondite che sfociano nella pubblicazione del 1997 del volume collettaneo

Selargius, l’antica Kellarious, seguito nel 2001 da Cent’anni, storia di Selargius nel

‘900, nel 2002 da Ceraxus (Selargius).Identità,memoria,progetto, nel 2005 Selargius

nella storia. Proteste amministrative e sociali della prima metà del XX secolo. Dalla

metà degli anni ’70 (con la fondazione della Pro Loco) a oggi è tutto un pullulare di

mostre, convegni, concerti, il cui obbiettivo dichiarato è “recuperare i valori perduti,

riscoprire la propria identità come popolo e come paese, conoscere la propria storia”

[Orrù, Desogus, 2001:146].

Come gli ultimi studi antropologici relativi al patrimonio culturale (vedi Palumbo 2003)

hanno messo in evidenza, la storia locale, il folklore, la tradizione, costituiscono una

delle risorse più importanti ai fini della definizione di una identità collettiva. Il patrimonio

culturale starebbe alla definizione di una identità collettiva nazionale, di paese,

regionale, ecc., così come il possesso inalienabile di sé sta alla definizione del

soggetto occidentale. La tradizione costituirebbe la risorsa meno sospetta per garantire

la complicità sociale, in quanto “insieme di beni e di pratiche” la cui “apparente”

perennità lo fa immaginare dotato di un valore indiscutibile, e quindi fonte di consenso

collettivo, al di là delle divisioni. La scelta di cosa sia tradizionale in un luogo o in una

comunità dipende dal contesto, in quanto la scelta dei referenti per la rappresentazione

di sé è frequentemente di natura oppositiva o reattiva; l’idea di una comunità non può

esistere in assenza di una qualche differenza, identità e tradizioni non sono

semplicemente diverse, ma costruite in opposizione alle altre.

Nel caso di Selargius, in cui il fine è quello di distinguersi come unità a sé stante,

mantenere un’identità culturale distinta (sia nei confronti sia di Cagliari, sia dei paesi

del circondario) per conservare la propria autonomia politica e amministrativa, questo

significa puntare su quelle risorse che consentano di riconoscere una località come

comunità. Un luogo, cioè, in cui le persone non siano accomunate solamente dal fatto

Page 120: Folklore nuziale e identità sarda

120 ▪ La messa in scena della “selarginità”

di abitare nella stessa area, ma in cui la realtà culturale e sociale, sia in qualche modo

compresa all’interno dei limiti della partecipazione a un processo di costruzione

collettiva di norme comuni, edificazione e mantenimento dei confini [Barth 2004].

Page 121: Folklore nuziale e identità sarda

La messa in scena della “selarginità” ▪ 121

4.2 Una tradizione “tipicamente selargina”

In questo contesto, si può comprendere senza difficoltà il valore assunto dal

Matrimonio Selargino, una festa in cui “Selargius, divenuta ormai centro residenziale

per i cagliaritani, torna ad essere la Selargius dei Selargini autentici, con i loro riti e i

loro costumi carichi di oro e di ricami”, come intuisce Salvatore Sardu mettendo a nudo

il problema centrale attorno a cui ruota la manifestazione. Tuttavia, non voglio

affermare un relazione univoca A->B, per cui la crisi di identità avvertita dagli

intellettuali locali dovesse per forza di cose sfociare nel Matrimonio Selargino. Ci sono

voluti anni e anni perchè si intuissero le potenzialità della festa e altrettanti prima che si

iniziasse a valorizzarla in senso identitario. Inoltre, tale mutamento di prospettiva non è

imputabile unicamente a un mutamento nella politica culturale selargina, un peso

notevole deve senz’altro essere attribuito alla concorrenza delle manifestazioni simili.

Il Matrimonio Selargino era inizialmente una festa tra le altre, gestita quasi interamente

dall’Enal che chiedeva al Comune il solo sforzo di trovare una coppia di sposi selargini.

Eppure, come si evince dalla corrispondenza Enal-Comune reperita in archivio, spesso

l’Enal si è vista costretta a posticipare la data della festa per la mancanza di

collaborazione del Comune. Il tono delle missive dell’ente è molto chiaro a proposito, e

si intuisce un certo rammarico per l’indifferenza del Comune nei confronti della

manifestazione folkloristica. È solo col tempo, dopo la creazione della Pro Loco -

scomparse le altre feste o non adatte a esprimere una unicità locale - che si decide di

puntare sul Matrimonio Selargino, il quale, da prodotto “tipicamente sardo” o, al limite,

campidanese, si trasforma in prodotto “tipicamente” selargino.

Come mostra chiaramente anche l’analisi diacronica degli articoli di giornale, è solo

dalla metà degli anni ’80 che si comincia a valorizzare il Matrimonio Selargino in chiave

identitaria. Nei primi due decenni della manifestazione, l’attenzione degli articoli di

giornale è focalizzata sulla “bontà” della decisione di riproporre, a Selargius, la

tradizione sarda; il matrimonio è selargino in quanto si tiene a Selargius, non in quanto

abbia in sé delle caratteristiche che lo differenzino in modo specifico dalla tradizione

sarda in generale. A metà degli anni ’80 aumenta considerevolmente lo spazio

dedicato all’avvenimento, che non si limita più alle indicazioni dei giorni prima sugli

orari e i luoghi delle attività in programma e a qualche riflessione più generale sul

valore della rassegna folkloristica, bensì - anche con l’aiuto di pagine a pagamento - si

sofferma sui singoli elementi che rendono “unica” la sagra, per almeno tutta la

settimana antecedente l’evento.

Page 122: Folklore nuziale e identità sarda

122 ▪ La messa in scena della “selarginità”

4.2.1 Lo spessore temporale della festa Perché, in un contesto locale come quello selargino (ma lo stesso discorso vale anche

per Santadi e Assemini), si gioca così insistentemente la carta della tradizionalità della

festa? “Perché l'allargamento dello spessore temporale della festa”, risponde Faeta,

“significa ampliamento della sua densità e stratificazione simbolica, e questo consente

maggiori possibilità di gioco e un più ampio numero di giocatori” [Faeta, 2005:163].

Tradizionale non significa necessariamente antico; tuttavia, parlando del Matrimonio

Selargino, si tende spesso ad allargare oltre misura l’arco temporale in cui possono

essere collocati gli elementi che lo caratterizzano.

Il costume tradizionale diventa l’abbigliamento con il quale ci si veste in Sardegna “da

sempre”, così come “da sempre” la cerimonia del matrimonio ripete quei gesti e quei riti

che caratterizzano il Matrimonio Selargino. Tra i numerosi esempi che si possono

citare, il commento di Salvatore Sardu al documentario sulla festa, che stabilisce una

correlazione tra antichità del paese e antichità dei rituali messi in scena: i cambiamenti

stagionali e dei periodi della vita (nascita, morte, matrimonio)

sono sempre stati occasione per solenni celebrazioni che interessavano l’intero villaggio. Innestati in seguito con la liturgia cattolica questi riti hanno finito col produrre manifestazioni originali in cui il sacro e il profano si mescolano in continuazione. […] L’antico sposalizio selargino […] in quanto frutto di una millenaria società agricolo-pastorale non può non racchiudere in sé tutto il fascino e la suggestione delle antiche consuetudini tramandate fino ai nostri giorni.

Correlazione ancora più arbitraria in un articolo del ’90 [“L’Unione Sarda”, Un “sì” con le

catene, 15-09-90, p. 16]:

Per l’assessore alla cultura Carlo Desogus, il Matrimonio Selargino rappresenta uno dei momenti più importanti delle tradizioni locali. “Non vi sono dubbi” ha detto Desogus “Selargius ha una storia che affonda le radici nei millenni. Ricerche archeologiche hanno dimostrato una forte presenza umana a partire dal terzo millennio avanti Cristo”.

4.2.2 Bistiri a sa sarda a Selargius Un elemento che caratterizza fortemente la selarginità e di cui si fa sfoggio in modo

particolare nel Matrimonio Selargino, è l’insieme vestimentario sardo declinato nella

variante selargina. Perché, se a livello nazionale e internazionale il “costume” qualifica i

portatori come “sardi”, a livello regionale è simbolo immediatamente riconoscibile

dell’appartenenza locale. Ogni paese ha il suo costume, riferimento immediato ad una

Page 123: Folklore nuziale e identità sarda

La messa in scena della “selarginità” ▪ 123

“piccola patria”, che come tale è percepito sia da chi lo indossa sia da chi lo osserva,

sulla base della presenza di alcuni elementi definibili come “individuanti”.

L’abbigliamento tradizionale permetteva di riconoscere immediatamente non solo

l’appartenenza ad una comunità, ma anche ad uno stato civile, a una fascia di età e a

una classe sociale. Il processo di recupero di un costume identificabile come tipico di

una determinata località ha determinato una iper semplificazione dei diversi tipi di

abbigliamento tradizionale, artificiosamente ricondotti a due modelli fondamentali.

Semplificazione sostenuta ampiamente a livello di senso comune, ma anche in testi

come quello di Colomo e Speziale [1983], dove viene esaminato il vestiario tradizionale

di 108 comuni dell’isola, distinguendo, nella maggior parte dei casi, due varianti per

quello femminile (della “sposa” e di “tutti i giorni”) e una per quello maschile.

Anche l’abito selargino tradizionale, così come è stato recepito dal locale gruppo folk, è

costituito da due varianti per il costume femminile e una per quello maschile. Non

intendo qui descrivere ognuno di essi, ma concentrarmi sul cosiddetto “abito femminile

da sposa”, per far emergere la rappresentazione trasmessa attraverso la costruzione di

un modo selargino di “vestire alla sarda” e le idee che circolano al riguardo.

4.2.2.1 Folklore d’elite

L’ortodossia vestimentaria selargina prevede su bistiri de abodrau e is pannus

arrubius. Se una donna decide di vestire l’abito tradizionale, magari per sfilare insieme

al “gruppo spontaneo”6 durante il Matrimonio Selargino, le viene chiesto di scegliere tra

l’indossare il “costume femminile di tutti i giorni” o il “costume di gala (o della sposa)”,

trasmettendo così artificiosamente l’idea che ogni donna, nel passato, vestisse su

bistiri de abodrau nella quotidianità e is pannus arrubius nei giorni di festa. In realtà -

ed è il primo equivoco da chiarire - la stragrande maggioranza delle donne non

possedeva in modo completo né l’uno né tantomeno l’altro.

La tipicità del costume è stata costruita sulla base delle regole vestimentarie delle vesti

festive e di gala delle classi più abbienti. Solo sa meri, la moglie del ricco proprietario

agricolo, indossava in occasioni meno importanti e nei giorni feriali su bistiri de

abodrau, caratterizzato dalla gonna di bordato a strisce rosse e blu, di cotone,

raramente di seta. Quello che viene presentato come abito “giornaliero” era tale solo

6 È chiamato “gruppo spontaneo” l’insieme delle persone non facenti parte del locale gruppo folk che si presentano in costume per sfilare nel corteo nuziale la domenica del Matrimonio Selargino.

Page 124: Folklore nuziale e identità sarda

124 ▪ La messa in scena della “selarginità”

per le più ricche, mentre costituiva l’abito da sposa e festivo del ceto medio e un sogno

per tutte le altre. Non esiste nella tradizione sarda l’abito da sposa come abito a sé

stante: con questa espressione si deve intendere piuttosto l’insieme più ricercato

possibile di elementi - per qualità della stoffa, per la ricchezza di decorazioni, ecc. - che

una donna riusciva a mettere insieme, indossato la prima volta per il matrimonio e

successivamente in tutte le occasioni di festa. Di conseguenza il cosiddetto “abito da

sposa” è in realtà la ricostruzione dell’esemplare in assoluto più lussuoso ricordato o

conservato in paese.

La scelta di indossare o meno su bistiri de abodrau o su bistiri de pannus arrubius non

era una questione puramente economica. Si è detto in precedenza che l’abito

indossato consentiva di identificare la località di residenza, lo stato civile ma anche lo

stato sociale. Spesso nei resoconti dei viaggiatori si descrive la bellezza dell’abito delle

donne usando per tutte il termine “contadine” (come sinonimico di paesane) non

rilevando l’ampia variabilità interna determinata dalla piramide sociale. William Henry

Smyth nel suo Sketch of the present state of the island of Sardinia pubblicato a Londra

nel 1828, fornisce una panoramica della divisione in ceti sociali riscontrabile anche nei

paesi:

dama – gentildonna di primo rango; signora – gentildonna di secondo rango; nostrana – moglie di uomo di legge o medico; contadina principale – moglie di un agricoltore; arteggiana – moglie di un artigiano; contadina rustica – moglie di un contadino [Smyth in Boscolo (a cura di), 2003:66-68]

Alcuni particolari del vestiario erano esclusivi di una certa classe sociale e

assolutamente proibiti a tutte le altre. Ad esempio Valery [1837, ediz. 1996:165-166], in

visita a Selargius, scrive che:

Le contadine più distinte, dette principali, vestite più riccamente e alcune con le dita cariche di anelli, quelle che, sole, hanno il privilegio di portare certi ricami proibiti alle loro compagne, queste duchesse di paese, chiudevano la processione di cui formavano come il fior fiore.

A Oliena mi è stato raccontato che sino a pochi anni fa le donne più anziane si

recavano in chiesa con le forbici per ristabilire il giusto ordine nella gerarchia sociale, e

tagliando un particolare tipo di frange dagli scialli delle donne che “osavano” una

decorazione non corrispondente alla loro posizione sociale.

Gli abiti utilizzati dai gruppi folk sono nella maggior parte dei casi produzioni industriali

di bassa qualità, in altri copie accurate nella forma ma nondimeno scadenti a causa

delle stoffe utilizzate. Non è dunque possibile condurre un’indagine sull’abito

tradizionale basandosi sulla riproduzioni usate dai gruppi folk. A questo proposito

Page 125: Folklore nuziale e identità sarda

La messa in scena della “selarginità” ▪ 125

risulta prezioso l’ampio lavoro comparativo sull’intero patrimonio vestimentario sardo

condotto da Contu [2003] su esemplari originali, da cui si possono trarre le informazioni

inerenti le sole parti che compongono il costume selargino.

Il tipo di abito in esame è costituito da: copricapo, camicia, corpetto, casacchino,

cintura, gonna, grembiule, scarpe. Ciò che caratterizza questo modello è la tipologia di

gonna e grembiule, di casacchino e di cintura, il cui uso pare attestato solo nel

Campidano di Cagliari.

La gonna è in damasco di seta broccato e laminato [fig. 4.6], tanto più lussuosa quanto

più è alta la balza della gonna, cioè con quanto più tessuto prezioso è confezionato il

bordo inferiore ornamentale. Il grembiule [foto 4.10] abbinato è detto a ventaglio,

perché caratterizzato “da un gruppo centrale di pieghe in cui si raccoglie l’ampiezza del

tessuto che si allarga verso il basso appunto come un ventaglio” [Contu, 2003:214]. La

parte centrale è in velluto di seta o panno in varie gradazioni di rosso. Le parti laterali

sono confezionate “in panno o altro tessuto di media qualità dato che vengono

ricoperte con un alto bordo in lampasso broccato e laminato o broccatello a motivi

floreali policromi su fondo color avorio o giallo” [Contu, 2003:216]. A impreziosire

ulteriormente il capo contribuiscono le bordure in gallone d’oro e le trine lavorate a

fuselli con filati d’oro caratterizzate dal motivo a ventaglietti.

Insieme a questo tipo di gonna e grembiule si utilizza sa velada [nella foto 4.7], una

giacchetta corta indossata sopra camicia e corpetto. Non oltrepassa i fianchi, è resa

rigida da inserti all’interno della fodera, è piuttosto aderente e lascia scoperto il petto. Il

casacchino è confezionato in velluto di seta nero, interamente profilato con galloni

d’oro. Se ne distinguono due tipi a seconda che le maniche, sempre a tre quarti,

terminino con volant arricciato o risvolto “a scure”. La versione con maniche a scure si

indossa lasciando in vista le maniche della camicia.

La cintura, fasc’ ‘e cintroxu, [foto 4.9] non ha scopo pratico, ma solo ornamentale,

copre l’area del punto vita compresa tra l’orlo inferiore del corpetto e la gonna. È

confezionata con un “nastro di gallone in filato metallico, dorato o argentato, largo cm

5-10, lungo fino a cm350, con le estremità in lampasso di seta o altri tessuti a righe o

ricamati”, e viene indossato avvolgendolo “attorno al punto vita, falsando i giri per

aumentare la parte coperta, il lembo in lampasso viene rimboccato per tenere fermo

l’indumento” [Contu, 2003:185].

Broccato, seta, damasco, inserti d’oro: la documentazione raccolta sinora [Piquereddu

2003] smentisce la convinzione, molto diffusa anche in ambito etnografico, della

Page 126: Folklore nuziale e identità sarda

126 ▪ La messa in scena della “selarginità”

produzione di abiti come parte dell’ordinario lavoro domestico, limitata, invece, almeno

nell’800, ai ceti più poveri, impossibilitati ad acquistare anche gli indumenti più modesti.

Tuttavia è sufficiente verificare il tipo di tessuti utilizzati per metterne in dubbio la

fondatezza. A sostegno della tesi per cui solo un’esigua minoranza di donne

possedeva un abito simile a questo, mi è stato riferito che tutt’ora sarebbe

costosissimo riprodurne un esemplare mantenendo la stessa qualità dell’originale: sia

per l’alto costo delle stoffe pregiate da utilizzare, sia per la retribuzione di un sarto

specializzato nei complicati lavori di rifinitura manuale. Un insieme vestimentario di

massima gala, dunque, riservato al ceto dei grandi possidenti del circondario di

Cagliari, i soli che potevano affrontare le spese relative all’importazione dei tessuti

pregiati dall’estero e la confezione dell’abito da parte di sarti specializzati.

Lo conferma anche la storia dell’abito utilizzato dalla sposa durante il Matrimonio

Selargino, uno degli esemplari originali più ricchi e fastosi di su bistiri de pannus

arrubius presenti in Campidano. L’abito appartiene ora ai nipoti di Fedora,

conosciutissima in paese e rinomata per la sua abilità nel confezionare costumi

tradizionali, di cui ha rifornito tutto il circondario7; l’abito le era stato venduto dalla

“moglie del generale Porcu”, che a sua volta l’aveva acquistato da una nipote di

“signorina Elisa Cara, ufficialessa di posta”, la quale l’aveva acquistato da una della

figlie di un ricco proprietario terriero, Marini Antonio Biaggio. Sono informazioni

contenute nella lettera, già citata, di Efisio Salis, che invita il Comune ad acquistare

l’abito, indubbiamente uno dei pochi elementi di continuità tra passato e presente della

rievocazione folkloristica, in quanto la figlia di Marini Antonio Biaggio aveva indossato

quell’abito il giorno del suo matrimonio, lo stesso matrimonio il cui ricordo costituì il

punto di riferimento del Salis nell’organizzazione del Matrimonio Selargino.

7 Ad esempio buona parte dei costumi del gruppo folk di Quartucciu.

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La messa in scena della “selarginità” ▪ 127

4.6 Litografia a colori, 1898, in

Costa E., Costumi Sardi

4.7 Museo della vita e delle tradizioni sarde, fig. 10 in Contu, 2003

4.8 Scùffia, Museo della vita e

delle tradizioni popolari sarde, fig. 79 in Contu 2003

4.9 Cossu, fasc’e cintrosciu, busciacca, froccu de velludu, velu ‘e sposa [foto Pino Piras]

4.10 Deventali, fig. 323 in Contu, 2003

Page 128: Folklore nuziale e identità sarda

128 ▪ La messa in scena della “selarginità”

Page 129: Folklore nuziale e identità sarda

La messa in scena della “selarginità” ▪ 129

4.2.2.2 Antichità e immutabilità del vestiario tradizionale Un presupposto implicito nella maggior

parte della letteratura sull’abbigliamento

tradizionale in Sardegna vuole che le

donne in passato si vestissero o “alla

continentale” o “alla sarda”,

considerando del secondo tipo tutto

quello che sembrava distante dalle

mode europee e italiane del periodo.

Risultato di un certo modo di intendere il

folklore, era accettata a priori l’idea che

le donne dei paesi, “in ritardo sui tempi”,

conservassero inalterata nei secoli la

foggia di vestiario autoctona.

Così anche a Selargius, dove l’abito

tradizionale è il simbolo di una cultura

autonoma tramandata da generazioni.

Innanzitutto, si può confutare facilmente

la convinzione che l’attuale costume

tradizionale femminile selargino sia

tratto da un esemplare settecentesco8,

come può capitare di leggere.

L’indicazione “tratto da un esemplare settecentesco”, appare come un’altra forma di

manipolazione strategica del tempo, utile a rafforzare l’idea dell’antichità di Selargius e

delle proprie tradizioni, che però non regge alla prova dei fatti. Il fatto principale, in

questo caso, è il ritratto di Maria Piras, personalmente esaminato, risalente alla prima

metà del 1700, che tutti gli studiosi occupatesi di storia del costume in Sardegna,

concordano nel ritenere l’attestazione iconografica più antica del costume femminile di

gala dell’area campidanese. La completa estraneità - i due costumi sono simili nel

numero degli elementi che lo compongono, nello stesso modo in cui il costume

femminile selargino è simile a tutti gli altri costumi femminili sardi – dell’abito indossato

8 Esemplare che si dice appartenne a Peppina Deiana, moglie di Giuseppe Putzu, sindaco di Selargius tra il 1914 e il 1916.

4.11 Anonimo, Ritratto di Maria Piras, ante 1725, olio su tela, Quartu Sant’Elena [foto Francesca Salis]

Page 130: Folklore nuziale e identità sarda

130 ▪ La messa in scena della “selarginità”

da Maria Piras confrontato con la foggia vestimentaria che oggi appare normativa,

mostra chiaramente come non sia seriamente sostenibile l’idea della continuità

temporale espressa a Selargius. L’abito di Maria Piras potrebbe tutt’al più essere visto

come un prototipo delle forme vestimentarie adottate successivamente, con cui ha in

comune il numero e la forma degli elementi che lo compongono.

Se l’origine dell’abito di gala selargino si situa in un periodo successivo al XVIII secolo,

il numero degli elementi che lo compongono e il modo attuale di vestire su bistiri de

pannus arrubius si situa in un periodo ancora più recente. La descrizione dell’abito

tramandata dalle fonti iconografiche e dai resoconti dei viaggiatori dell’800 rappresenta

una sorta di istantanea fotografica, la sintesi temporanea delle regole vestimentarie di

un preciso momento storico. La comparazione della descrizione del costume in periodi

diversi permette di datare l’insieme vestimentario, smentendo l’antichità e l’immutabilità

del vestiario tradizionale.

La prima e più importante base di confronto è la tavola VI dell’Atlante del Della

Marmora (riportata nelle pagine successive) dipinta da Cominotti, architetto

piemontese giunto in Sardegna negli anni Venti dell’Ottocento come funzionario

dell’amministrazione sabauda. Prima perché è uno delle prime testimonianze

pittoriche, insieme all’acquerello di Tiole Nouveaux Mariés (1819-1824), della

diffusione in area campidanese dell’abito di gala di cui ci stiamo occupando, importante

(oltre al precedente motivo) perché è ormai da più di un decennio il logo ufficiale del

Matrimonio Selargino.

Se si confronta l’insieme che è stato tramandato come tradizionale con la tavola del

Cominotti, si nota immediatamente che l’attuale modo di portare il vestito non prevede

l’uso della cuffia, così come del cappello. Le fonti iconografiche più antiche mostrano

come la capigliatura rimanesse sempre celata, coperta da una sovrapposizione di

elementi che poteva comprendere cuffia, velo o scialle, cappello. La cuffia (scòffia)

[foto 4.8], confezionata in materiali diversi a seconda dell’uso per cui era destinata, è

costituita da una parte a sacco che contiene al suo interno l’intera massa dei capelli;

l’estremità aperta, calzata sulla fronte, veniva fermata con un nastro di velluto o taffettà

di seta nero [foto 4.9], che negli esemplari più ricchi è guarnito con canutiglia d’oro. A

Selargius il gruppo folkloristico ha tralasciato l’uso della cuffia, ma persiste la fascia a

testimonianza della sua presenza; sulla fascia viene appuntato il velo, a diretto contatto

con la capigliatura.

Page 131: Folklore nuziale e identità sarda

La messa in scena della “selarginità” ▪ 131

Tutte le donne raffigurate nella tavola del Cominotti indossano una cuffia rosso

scarlatto, il che indica che l’abbandono di tale elemento è successivo al 1825, mentre

l’assenza de su muccadori ‘e peturra, presente nell’insieme vestimentario utilizzato

attualmente, situa la datazione di quest’ultimo in un periodo ancora più recente. Il

fazzoletto copriseno (lo si vede nella litografia di Costa, fig. 4.6), che non pare attestato

prima della seconda metà del 1800, è un panno appuntato al corsetto col quale si

copre l’ampia scollatura lasciata in vista dalle camicie dei paesi del sud della

Sardegna. Tutte le persone “esperti di costume sardo” con le quali ho parlato, hanno

sentito il bisogno di giustificare l’uso di questo indumento, in qualche modo avvertito

ancora come “estraneo”. L’introduzione è dovuta per alcuni alla volontà di un vescovo,

per altri del Papa in persona, che non tollerava la “sconcezza” dell’abbigliamento

femminile sardo. Caredda [1993:70] scrive che furono i Gesuiti, nel 1825, a imporne

l’uso, e Bresciani, due decenni più tardi, ne testimonia la diffusione e l’utilizzo, sebbene

limitato al tempo di permanenza delle paesane nel capoluogo cagliaritano:

[…] così i missionari entrarono in pensiero di provvedere all’infermità degli occhi stranieri . […] Le donne in prima rimasero stupefatte che altri potessero recarsi a fare niuno caso di ciò ch’elleno, e gli uomini del paese non avevano mai posto mente […] vollero porgersi obbedienti a’ sacerdoti nel coprirsi quando vanno in città […] Uscite poscia dalla città per tornare alla villa, non sono ite oltre un mezzo miglio, che la maggior parte si tolgono dinanzi il pendone, e vanno in petto secondo la loro usanza [Bresciani 1850, ediz. 2001:161-162]

Nella tavola del Cominotti la sposa e le sue accompagnatrici indossano un cappello,

riconducibile alla tipologia “a cilindro, rotondo, probabilmente di feltro nero, che viene

indossato sovrapposto all’insieme velo e cuffia” [Contu, 2003:110]. Della Marmora,

commentando la tavola del Cominotti, scrive che “se il matrimonio avviene in una

stagione calda con il sole che batte forte, le donne aggiungono al loro costume un

capello rotondo di feltro, che mettono solo in occasioni come questa e che ornano di

piume, frange, nastri e fiori” [Della Marmora 1826, 1995:108]. Del copricapo abbiamo

altre testimonianze per la prima metà del 1800, ma non ne è rimasta traccia nel modo

attuale di portare il costume.

I risultati ottenuti dagli studiosi del costume tradizionale, comparati con le informazioni

ricavate dalla ricerca sul campo e le fonti iconografiche, mi spingono a collocare le

regole vestimentarie secondo le quali si vestono le donne del gruppo folk selargino e la

sposa nel giorno del Matrimonio Selargino, in un periodo di poco precedente

l’abbandono del vestiario tradizionale. L’assenza della cuffia, l’oblio totale sulla

possibile presenza di un cappello, lo stabilizzarsi della presenza del fazzoletto copri-

Page 132: Folklore nuziale e identità sarda

132 ▪ La messa in scena della “selarginità”

seno anche in paese, la dimenticanza della regola che voleva il grembiule “allacciato

così lento intorno alla vita da lasciar vedere sul davanti, sopra di esso, due dita di

gonnella” [Smyth in Boscolo (a cura di), 2003:66-68], sono tutte prove evidenti di un

mutamento nel modo di portare l’abito di gala. Le regole vestimentarie attuali, lungi

dall’essersi conservate inalterate nei secoli, sono il ricordo del modo di vestire all’inizio

del secolo come dimostra la perfetta congruenza con la foto-ricordo del fidanzamento

(o nozze?) della selargina Speranza Putzu Loddo, di cui avremo modo di parlare

ancora [vedi foto 4.16]

4.2.2.3 Il logo del Matrimonio Selargino: la tipicità selargina

La tavola del Cominotti riprodotta qualche pagina più avanti, rappresenta, come riporta

la didascalia del Viaggio in Sardegna di Della Marmora, “l’arrivo della sposa da un

villaggio vicino”. È stata scelta come logo ufficiale del Matrimonio Selargino. Diverse

persone ritengono che riproduca esattamente un matrimonio celebrato a Selargius, per

diversi motivi: l’abito indossato dalle donne, l’acconciatura dell’uomo, l’edificio presente

sullo sfondo della scena.

Ora, se l’abito indossato dalle donne potrebbe essere effettivamente riconducibile

all’abito di gala selargino, l’argomento addotto per provare la selarginità dello sposo

non risulta convincente. Si dice che i capelli raccolti in una treccia unica avvolta a

spirale intorno al copricapo fosse una peculiarità dei selargini, ma provando a verificare

l’informazione esaminando l’iconografia disponibile, il risultato è che non solo questo

tipo di acconciatura non era una prerogativa selargina, ma era diffusa uniformemente

in tutta la Sardegna, da Nord a Sud9. Non ho verificato l’informazione relativa all’edificio

sullo sfondo, che si dice identificabile con un rudere presente nella campagna

selargina, perché a questo punto della ricerca ho trovato il dato che respinge del tutto

le pretese sulla selarginità della scena, cioè il titolo della tavola (raramente indicato):

Noce. Arrivée d’une jeune fille de Sinai mariée à un riche cultivateur de Quartu.

9 Si veda La collezione Luzzietti (composta di 48 tavole di datazione incerta, compresa tra il 1790 e il 1800) e La raccolta Cominotti (tavole acquerellate dipinte dal vero tra il giugno 1824 e maggio 1826), entrambe curate da Alziator Francesco, nonché le considerazioni sulle acconciature degli uomini sardi di Contu, 2003:230

Page 133: Folklore nuziale e identità sarda

4.12 Cominotti, Noce. Arrivée d’une jeune fille de Sinai mariée à un riche cultivateur de Quartu, 1825, Tavola VI dell’Atlante allegato alla prima parte del Viaggio in Sardegna di Della Marmora.

Page 134: Folklore nuziale e identità sarda

Didascalia del Della Marmora per l’immagine nella pagina precedente (1995:109): “La tavola rappresenta l’arrivo della sposa da un villaggio vicino; cavalca a destra dello sposo un cavallo riccamente bardato, tenuto da uno staffiere. Gli sposi sono preceduti da due suonatori di launeddas, e seguiti da parenti e amici, le donne a destra e gli uomini a sinistra. Il corteo è chiuso dal curato, seguito da un carro (tracca) che trasporta le donne più anziane e i bambini. Sulla sommità della collina si vede un nuraghe. I genitori dello sposo accolgono la sposa; la madre le getta la grazia; nel vestibolo della casa, ornato di fiori e rami, il padre tende le braccia, dandole il benvenuto; tutta la famiglia si accalca per entrare in casa. Si vedono a destra la tavola e lo sgabello coperti da un tappeto che, secondo l’usanza, serviranno alla sposa per scendere di cavallo. Nell’angolo una palma, e ai suoi piedi un cane di razza sarda”.

Page 135: Folklore nuziale e identità sarda

135 ▪ La messa in scena della “selarginità”

In cosa consiste dunque la tipicità selargina del costume se quello di Sinnai può essere

confuso con il selargino e quello maschile con il costume di Quartu Sant’Elena? Si

dovrà ammettere che almeno in area campidanese non è applicabile la formula “un

paese, un costume”. Ciò significa che anche da questo punto di vista, non è possibile

considerare Selargius come un’unità autonoma, portatrice di peculiarità esclusive che

la distinguono dai paesi del circondario.

Quartucciu, Quartu, Monserrato, Pirri, Sinnai, Settimo, Selargius: in tutti questi paesi

l’abito di gala non differiva se non per dei particolari minimi riconoscibili solo da un

occhio esperto. Maria Rosa Contu [2003] scrive che ciò che caratterizzava lo stile

vestimentario dell’una o dell’altra località era ad esempio il modo di stirare e posare sul

capo il velo, per il resto identico tra un paese e l’altro [Contu 2003]. Un’altra

interlocutrice è certa che sa velada con le maniche a volant fosse tipica di Quartucciu,

mentre il modello con le maniche “a scure” fosse più diffuso a Selargius e il colore

marron scuro dell’indumento fosse caratteristico dell’abito di Monserrato. Per Colomo e

Speziale ciò che costituirebbe il carattere distintivo del costume di Selargius sarebbe la

grande quantità di gioielli che lo adornano [Colomo, Speziale, 1983:279], caratteristica

che oggi è piuttosto attribuita ai costumi delle donne di Quartu. La caratteristica del

costume femminile di Quartucciu consisterebbe nel modo di portare la camicia, con

l’ampio scollo di pizzo sempre più voluminoso, nonché sempre più evidente a causa

dell’inamidatura che lo rende rigido.

Ma quanti di questi tratti distintivi erano tali anche per le donne dell’800 e quanti di

questi sono stati introdotti recentemente? Sospetto che l’esasperazione dei tratti

distintivi per lo stesso abito di gala presente in tutta l’area campidanese sia la

conseguenza di una politica culturale mirante a promuovere l’idea di una sostanziale

autonomia culturale paesana. L’adozione di un abito-divisa, uguale per tutti i

componenti del gruppo, rende immediatamente riconoscibile il paese di appartenenza,

esprimendo una unicità che si estende al paese nel suo complesso.

Page 136: Folklore nuziale e identità sarda

136 ▪ La messa in scena della “selarginità”

4.2.3 Sa cadena de anca, la catena rituale del Matrimonio Selargino

Tra i motivi utilizzati

tradizionalmente per decorare gli

anelli, la catena, simbolo del

laccio indissolubile che unisce

due cuori, compare spesso in

quelli di fidanzamento o nuziali

[Gometz, 1995:117]. A Selargius

la catena non ci si limita a

raffigurarla; sa cadena de anca

la catena rituale del Matrimonio

Selargino è un oggetto composto

da

[…] grosse maglie circolari, realizzata in argento e della lunghezza di circa un metro. Le due estremità recano, da una parte, un gancio lavorato a forma di cuore e dall’altro un anello [Gometz 1995:36].

Dopo la cerimonia del matrimonio, per esprimere l’indissolubilità del matrimonio,

secondo la descrizione datene da Gometz [Gometz 1995:36], lo sposo

allaccia alla vita della sposa il gancio terminale della catena, quasi ad affermare un suo diritto di… proprietà; mentre la sposa infila al dito dello sposo l’anello dell’ultima maglia della catena, significando così lo stretto patto che tra i due si è stabilito

Come il matrimonio santadese è il matrimonio delle genti “maurreddine”, così il

Matrimonio Selargino è il matrimonio “in catene”. Ciò che contraddistingue il

matrimonio tradizionale selargino dal matrimonio tradizionale proposto in altri paesi, è

la catena con la quale vengono uniti marito e moglie al termine della celebrazione

religiosa. Interpellato su quanto conosca del Matrimonio Selargino, anche il selargino

meno interessato al folklore, sa rispondere che i due sposi vengono uniti con una

catena. Che poi creda sia un rito inventato o no, questo è tutto un altro discorso.

Da una parte abbiamo quelli che chiamerei i sostenitori acritici, che accettano la

consuetudine senza porsi tante domande, quelli critici, che forniscono argomentazioni

4.13 “Cadena de anca, catena rituale del Matrimonio Selargino” in Gometz, 1995

Page 137: Folklore nuziale e identità sarda

La messa in scena della “selarginità” ▪ 137

a sostegno dell’autenticità del rito, e dall’altra gli oppositori che rifiutano il rito (e la

manifestazione) perché inventato.

I sostenitori acritici - la stragrande maggioranza degli spettatori - conoscono il

Matrimonio Selargino a livello superficiale e seguono la festa motivati principalmente

dallo spettacolo della sfilata dei costumi da ogni parte della Sardegna. Rientrano in

questa categoria coloro che accettano e ripropongono come “vere”, per sentito dire, le

seguenti affermazioni: la catena è un’usanza tipicamente selargina, prevista in un

passato non tanto lontano (all’incirca sino agli inizi del 1900) per tutti gli sposi, i quali, al

termine della cerimonia, venivano legati dal prete che aveva celebrato la messa,

l’usanza è scomparsa con l’abbandono dell’abito tradizionale. Ho provato a insinuare

che la catena potesse essere intesa come una trovata per attirare più spettatori

piuttosto che come un’antica consuetudine, per capire se ci fossero sospetti a tal

proposito, ma ho smesso quasi subito quando ho capito di non ottenere nient’altro che

reazioni di sconcerto e delusione. Interrogati sulla simbologia della catena, tutti

concordano nel ritenere che la catena rappresenti il vincolo indissolubile del

matrimonio, ma non solo.

Tra le donne in modo particolare, circola anche un altro significato relativo alla disparità

nel modo di essere legati dell’uomo e della donna. Come ho sentito spiegare da una

signora presente tra la folla all’edizione del 2005:

la catena li lega in quel modo perché in passato la donna era sottomessa all’uomo. Ora la donna non permetterebbe più di essere legata così, come un cagnolino che si porta a passeggio…

È lo stesso significato attribuito da Gometz, citato inizialmente, quando scrive che il

gesto sembra voler affermare il diritto di proprietà dell’uomo sulla donna. Questa idea

sembrerebbe rafforzare l’impressione del rispetto della tradizione, perchè l’idea della

donna “al guinzaglio” appare coerente con le idee di senso comune su una società

tradizionale in cui la donna era considerata una specie di proprietà, del padre prima e

del marito poi. Si legga ad esempio cosa scrive “L’Unione Sarda” sulla donna sarda:

è un rito antico giustificato dalla dolcezza della donna sarda che si lascia “legare” dall’incanto dell’amore [“L’Unione Sarda”, Una magia di colori e di suoni, 11.09.93, p. 14]

Dubito fortemente che la persona che ha riproposto il rito intendesse trasmettere

questo messaggio, e bisogna ammettere che la cosa è piuttosto ironica in un paese in

cui gli studiosi locali tendono al contrario a esaltare il ruolo della donna nella società,

sconfinando in esagerazioni su improbabili forme di matriarcato selargino.

Page 138: Folklore nuziale e identità sarda

138 ▪ La messa in scena della “selarginità”

I sostenitori critici sono coloro che sono a conoscenza della polemica sull’introduzione

di pratiche inventate all’interno di un copione tradizionale e tentano di difenderne la

legittimità. Di questa fazione fanno parte tutte le persone che ruotano intorno alla Pro

Loco per l’organizzazione della festa. In verità, la difesa è piuttosto scarsa e si limita a

invocare le solite inverificabili testimonianze degli anziani. Mi è stato in particolare

riferito che la riproposta deriva dal ritrovamento di un abito tradizionale completo di

catena, della quale qualcuno - nessuno sembra però ricordare chi - ha spiegato la

funzione come elemento indispensabile alla cerimonia nuziale. Ma se si insiste con le

domande, si ottiene come risposta che la catena deve essere presa in considerazione

soprattutto per il suo valore di simbolo del legame matrimoniale.

4.14 Sa cadena e su craugheri [foto Pino Piras] tratta da: Selargius, Quartucciu, Monserrato. Guida illustrata, 2002: 86

Si è anche cercato di attribuire altri significati importanti alla catena, come la valenza

religiosa attribuita all’essere composta da 66 maglie, numero importante per la

simbologia cattolica in quanto rappresenta il doppio dell’età di Cristo, una maglia per

ogni anno che si augura alla coppia di vivere insieme. In uno degli ultimi articoli de

“L’Unione Sarda” sul Matrimonio Selargino, si legge ad esempio che la catena

è composta da 66 maglie più l’anello perché rappresenta la maturità spirituale degli anni di Gesù Cristo: 33 per la sposa e 33 per lo sposo [“L’Unione Sarda”, Sposi in catene davanti all’altare, 11-09-06, p. 14]

Tale interpretazione, che circola ormai da parecchi anni, sembra piuttosto un tentativo

per giustificare a posteriori un rito di cui non si conoscono altre informazioni. Per

quanto si tenti di imporla dubito comunque che possa prendere piede, per un motivo

molto semplice: il numero della maglie presente in catene di questo tipo è variabile,

come ho verificato personalmente su foto e abiti tradizionali. Anche negli articoli su

“L’Unione” la catena risulta composta a volte da 64 maglie, altre da 66 [si veda per

esempio l’articolo del 14-09-98, Nozze d’altri tempi, p. 14].

Page 139: Folklore nuziale e identità sarda

La messa in scena della “selarginità” ▪ 139

Gli oppositori sono solitamente amanti delle tradizioni popolari che vorrebbero

purificare la manifestazione da tutte le contaminazioni spettacolari e turistiche per

riproporre un rito realmente fedele alla tradizione. Il bersaglio preferito della critica è il

rito della catena, che appare come inequivocabilmente inventato. Perché, se così non

fosse, nessuno studioso di tradizioni popolari ne ha segnalato l’uso? Come spiegare in

altro modo che nessun viaggiatore descrive tale usanza? Ed effettivamente neanche il

Bresciani, in tutta la sua preziosissima logorrea su ogni dettaglio delle feste nuziali, ne

fa minimamente cenno. Così neppure Marcello Serra, che non degna di una parola

“l’antica usanza”.

Un’altra obiezione all’uso rituale della catena fa riferimento all’ignoranza degli

organizzatori, che avrebbero frainteso la funzione svolta dalla catena nell’abito

tradizionale. Come mi spiega un’appassionata di abbigliamento sardo tradizionale:

la catena non è altro che la cinta del grembiule, serviva ad allacciare il grembiule. Da una parte c’è il maschio, dall’altra c’è la femmina e si aggancia dopo aver fatto il giro-vita. A volte nei vestiti si trova il filo di stoffa, ma normalmente nell’abito di broccato c’era la catena.

Nell’abito di abodrau c’era il giunchiglio che si chiama craugheri, dalla parola crai, chiave. Vi si metteva l’amuleto regalato alla nascita, da cui non ci si separava mai, le chiavi, lo stuzzicadenti, le forbici. Era agganciato alla tasca con un gancio.

È molto diverso dalla catena dell’abito di broccato, non c’era catena nel grembiule di seta semplice dell’abito di abodrau, non aveva quel tipo di chiusura. Solo nel vestito di broccato c’è quel tipo di catena.

La presenza della catena era dunque limitata a un preciso tipo di abbigliamento

tradizionale in cui svolgeva una funzione indispensabile, non di semplice accessorio.

Escludere a priori che un elemento pratico possa svolgere anche una funzione di tipo

rituale è chiaramente un’idea piuttosto discutibile, la quale non costituisce una valida

argomentazione a favore della falsità del rito della catena; tuttavia, ipotizzando che la

catena avesse tradizionalmente anche il significato rituale che le viene attribuito nel

Matrimonio Selargino, il problema che si pone è quello della rappresentatività.

Se si prende in considerazione la foto alla fine del capitolo, si noterà come neppure

Speranza Putzu Loddo, una delle donne più ricche della Selargius del secolo scorso,

usi una catena d’argento come sistema di chiusura del grembiule. Nell’abito sembra

invece presente il tipo di catena descrittomi per l’abito giornaliero delle ricche

possidenti, su craugheri (letteralmente il portachiavi), pendente dal grembiule sul lato

destro della donna. Detta anche catena de s’onestadi (catena dell’onestà) “era usata

Page 140: Folklore nuziale e identità sarda

140 ▪ La messa in scena della “selarginità”

esclusivamente dalle signore di condizione abbiente di alcuni paesi del Campidano di

Cagliari”11. Se un abito di broccato completo poteva arrivare a valere quanto una

casa12, quante donne, nella Selargius dell’800, potevano permettersene uno? E quante

di queste avrebbero utilizzato la catena nel modo descritto trasgredendo i dettami della

Chiesa, che proibiva ogni rito di natura vagamente profana?

Infatti, l’unico riferimento, indiretto, che sono riuscita a trovare che possa far pensare

all’uso della catena, è tra le proibizioni espresse nel sinodo provinciale turritano del

1606:

I contraenti usino semplicemente le parole “io ti prendo come sposo o sposa”, lasciando da parte altre parole poco oneste che il parroco non permetterà assolutamente che vengono pronunciate; non permetterà neppure che si compiano altre cose simili quali il legarsi vicendevolmente, giurando di essere fedeli e onesti nel matrimonio e di conservare l’amore reciproco in eterno13 (corsivo mio)

Come si è notato in

precedenza, ancora nell’800

persistevano comportamenti

contrari alle direttive della

Chiesa, anche da parte dello

stesso clero, ma è molto

11 Gometz (1995:36) che aggiunge: “È costituita da diverse piastre in argento riprodotte a fusione con figure di uccelli, mazzi di spighe e elementi floreali legati fra loro da doppi o tripli spezzoni di giunchiglia, catenella a maglie circolari. […] La parte terminale della catena è fornita di più ganci ai quali si appendevano le chiavi e le forbici.” 12 Secondo quanto riferitomi dall’organizzatrice della mostra “Is pannus de is bisaius”, tenutasi a Quartu Sant’Elena nell’aprile 2006, per cui ci sarebbero atti notarili della fine dell’800 che testimoniano la scelta di ricevere dai genitori come dono, al momento delle nozze, l’abito di broccato piuttosto che la proprietà di una casa. 13 Sinodo Provinciale Turritano 1606, Bacallar, Cap.XV, De Matrimonio, 9, cc.47r- 47v, citato in Loi S., pp. 132 – 133

4.15 Gli sposi del 2001 [foto Piras Pino] in Selargius, Quartucciu, Monserrato. Guida illustrata, 2002

Page 141: Folklore nuziale e identità sarda

La messa in scena della “selarginità” ▪ 141

difficile che queste trasgressioni persistessero all’interno delle chiese, dove per le

cerimonie ufficiali i preti erano vincolati al rispetto della prassi prescritta nel Rituale

Romanum. Da queste considerazioni emerge che nel contesto di una rappresentazione

che intende mettere in scena un matrimonio tradizionale tipico, quindi rappresentativo

del comportamento della maggioranza, appare quantomeno incauto mostrare

all’interno di una chiesa un prete che incatena tra loro marito e moglie.

Allo stato attuale della ricerca è difficile stabilire se dare ragione a quanti difendono

l’autenticità del rito o a coloro che la rifiutano. In ogni caso, la polemica riguardante

l’aderenza alla tradizione del rito della catena è solo a livello superficiale un problema

di “invenzione della tradizione”, alla maniera di Hobsbawm e Ranger. Presentare in

questo momento prove evidenti e certe a favore dell’una o dell’altra tesi,

significherebbe schierarsi automaticamente a favore o contro il lavoro della pro-loco.

Dietro la facciata della polemica sul rituale della catena, infatti, si intravede

chiaramente il gioco di potere per la gestione della festa e dei soldi dei contributi

regionali e degli enti turistici. Quello che è più interessante in questo gioco è la

strategia mediante cui si tenta di delegittimare il lavoro della pro-loco, al fine di toglierle

ogni potere decisionale di una qualche rilevanza: si punta sull’inautenticità delle

tradizioni messe in scena. O meglio, il gioco è più sottile, se ne distrugge il simbolo

facendo intendere che è solo uno degli elementi che potrebbero essere messi alla

berlina, ma si tace su quali sarebbero gli altri. Il rituale della catena è diventato negli

anni l’elemento-chiave pro o contro una certa gestione del Matrimonio Selargino,

rifiutarne l’autenticità significa estendere l’idea dell’invenzione e della falsità alla

manifestazione tout court. Tuttavia, non si va mai oltre l’argomento catena o

considerazioni annuali su scelte contingenti, nessuno si sogna di mettere in

discussione il nucleo centrale di “vera e autentica antichissima tradizione sarda”

consolidatosi negli anni. A nessuno viene in mente di fare riferimento alle strategie di

manipolazione del tempo riguardanti l’antichità della tradizione oppure la pertinenza di

questo o quell’altro elemento tradizionale nella riproposta delle consuetudini passate.

Se crolla il nucleo centrale crolla il senso del far festa: l’elemento catena, per quanto

centrale, può essere eliminato, rimpiazzato, modificato, la reputazione di “la più vera

delle manifestazioni folkloristiche sarde” [Spanu, 1987:120] costruita nei decenni, una

volta messa in crisi è irrimediabilmente persa. E questo non è nell’interesse di

nessuno.

Page 142: Folklore nuziale e identità sarda

142 ▪ La messa in scena della “selarginità”

4.16 Speranza Putzu Loddo e Saverio Cabras, 1905 circa [collezione Efisia Cordeddu]

Page 143: Folklore nuziale e identità sarda

143

5 Il folklore come richiamo turistico e identitario

“[…] il matrimonio d'altri tempi era caratterizzato da grande semplicità, mentre la spettacolarità di quelli che oggi vengono riproposti […] è un tipico effetto della strumentalizzazione del folclore come mezzo di richiamo turistico. Accade così che nel Matrimonio Selargino (giusto per fare un esempio) la tradizione venga falsata dall'eccessiva presenza di spettatori perfino durante la vestizione degli sposi, dalla immotivata partecipazione di gruppi in costume provenienti da altri centri, da una fattispecie di gemellaggio con coppie convenute dai più disparati paesi del mondo… [Caredda, 1993:41]

Riesumare un’antica usanza non significa ripristinare i significati ad essa correlati, il

contesto differente di fruizione dell’evento innesca un processo di rifunzionalizzazione

e riplasmazione di questi, adeguandoli alle esigenze contingenti delle nuove

circostanze. Era prevedibile che concepire il folklore come risorsa per la valorizzazione

del turismo isolano avrebbe significato trasformare costumi, oggetti, gesti della

tradizione, in segni di una etnicità offerta allo sguardo del visitatore, con buona pace di

filologi come Efisio Salis che mai accettò l’idea che il “suo” matrimonio si fosse

trasformato in un “carnevalone”.

Per una simile forma di turismo, in cui “l’attrazione è una particolare diversità culturale,

con le sue stereotipiche manifestazioni” [Satta, 2001:62], si parla di “turismo etnico”;

una forma di turismo “che si presenta in stretta connessione con i temi dell’identità, e

che si indirizza verso i luoghi, gli oggetti, le figure che si ritiene la possano meglio

rappresentare” [Satta, ibidem]. Rendere le tradizioni visibili ai turisti può comportare

numerose e diverse operazioni, abbiamo visto, tra cui inventare, mescolare e

confondere valori identitari e valori di mercato, selezionando solo quei tratti tradizionali

che si pensa possano attirare l’attenzione del turista, oppure, ancora, prendere un

momento, sganciarlo dal suo contesto e spettacolarizzarlo, come per esempio avviene

a Santadi con la messa in scena della benedizione materna su un palco allestito per

l’occasione nella piazza principale.

Il confronto tra le tradizioni nuziali sarde e la rassegna folkloristica, stimolato dall’idea,

ampiamente diffusa, che il Matrimonio Selargino sia “la semplice ripresa di tratti

tradizionali antichissimi”, ha già chiarito che non è questo il campo più fruttuoso di

indagine. Ma al contrario di quanto avveniva in passato, in cui lo stigma di “turistico” o

“folkloristico” poneva l’aut-aut sullo studio del fenomeno in quanto non degno di seria

Page 144: Folklore nuziale e identità sarda

144 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

attenzione, lo studio di un esempio di turismo etnico appare come un campo di studi

privilegiato per studiare i processi di oggettivazione della cultura e le strategie di

elaborazione di una identità locale. Se la maggioranza delle feste e delle sagre

tradizionali sono organizzate dagli enti di promozione turistica (Esit, Ept, Aziende di

soggiorno, Pro Loco), se i tempi e la collocazione delle feste vengono modificati per

trasformarli in eventi fruibili da parte di un pubblico, non è più possibile analizzare le

feste escludendone la finalità turistica, senza cioè chiedersi in che modo il processo di

turisticizzazione del dato folklorico abbia inciso sulle modalità di rappresentazione della

tradizione.

Page 145: Folklore nuziale e identità sarda

Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 145

5.1 Finanziamenti e spese

Il Matrimonio Selargino è un evento promosso e finanziato dagli enti di promozione

turistica sin dalla sua nascita.

Inizialmente è l’Enal a occuparsi in maniera quasi esclusiva dell’organizzazione della

manifestazione folkloristica, curandone l’organizzazione all’interno dei festeggiamenti

suddetti. L’Enal teneva i contatti con i gruppi folkloristici, curava la realizzazione della

rassegna serale di balli e cori, chiedeva i permessi alla questura, pagava i costi della

Siae, regalava 100.000 lire agli sposi come dono di nozze. L’amministrazione

comunale, almeno nei primi anni, non sembra dare molta importanza alla rievocazione

folkloristica, aspetto evidentemente ritenuto secondario all’interno dei festeggiamenti in

onore di S.Lussorio. “Per antica e consolidata consuetudine” doveva “presiedere e

provvedere all’organizzazione dei festeggiamenti in onore di S.Lussorio Martire”

erogando a tal proposito anche una somma di £60,0001; in pratica, per quanto riguarda

il Matrimonio Selargino, aveva solo il compito di individuare la coppia di sposi, cosa

che regolarmente veniva rimandata sino all’ultimo momento. Da questo punto di vista

la corrispondenza tra Enal e Comune è piuttosto divertente, soprattutto per il tono

esasperato delle lettere dell’Enal, che ha il suo bel da fare nel riuscire a farsi ascoltare

dal Comune. Nel 1970 i manifesti stampati dal comune per pubblicizzare la

manifestazione fanno riferimento alla “costituenda Pro Loco Selargius”2. Si comincia a

sentire l’esigenza di una istituzione locale, l’Enal non sembra più in grado di far fronte

all’intero ammontare dei finanziamenti. Nel 1971 l’Enal chiederà l’intervento del

Comune per mettere a disposizione le 100.000 lire di dono agli sposi, “contributo che

per difficoltà burocratiche, questo Ufficio non potrà mettere a disposizione”, senza delle

quali si teme che nessuna coppia voglia partecipare alla manifestazione3. Sempre del

1971 è conservata la richiesta di contributi all’Assessorato al Turismo della Regione e

la richiesta all’Esit per “mettere a disposizione un gruppo folcloristico e […] coppe e

medaglie da offrire agli atleti”4. Nel 1973 sparisce ogni riferimento all’Enal. Nel 1974 e

nel 1975 la manifestazione viene sospesa per mancanza di finanziamenti, nonostante

si sia provveduto per tempo a trovare la coppia di sposi e l’Ept di Cagliari (direttore

1 Verbale di deliberazione della Giunta Comunale n. 98, 29 dicembre 1962 2 Giunta Municipale a cittadinanza, Selargius, 1970 3 ENAL a Comune di Selargius, oggetto: “Antico Sposalizio Selargino”, Cagliari, 08.09.1971 4 Assessore al Turismo di Selargius a ESIT, n°6511 protocollo, Selargius, 18.10.1971

Page 146: Folklore nuziale e identità sarda

146 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

Ragni Nicola) abbia stanziato un contributo di 3.000.000 di lire5. La celebrazione

dell’Antico Sposalizio Selargino riprende nel 1976, in seguito alla nascita

dell’associazione locale Pro Loco6, il cui apparato organizzativo riesce, da quel

momento in poi, a risolvere per tempo il problema degli stanziamenti finanziari.

Come abbiamo visto precedentemente, in base alla L.R. 21.4.1955 n. 7, art. 1, lett. c)

“l’amministrazione regionale può erogare contributi per la realizzazione di

manifestazioni turistiche che siano in grado di promuovere l’immagine della Sardegna

attirando nuovi flussi di visitatori e interagendo fortemente con le altre iniziative

pubbliche e private di promozione turistica del territorio”. La delibera del 5 agosto 2005,

n. 39/57, che stabilisce l’entità di questi contributi sulla base del bilancio regionale

2005, permette di capire il grado di rilevanza attributo dalla Regione al Matrimonio

Selargino. Sagre, feste ed eventi sono divise in 5 categorie:

tabella A – sagre e feste storiche di valenza regionale consolidata e di particolare rilievo storico-culturale, tabella B – eventi a circuito a valenza regionale, tabella C – eventi a circuito a valenza territoriale, tabella D – singoli eventi e manifestazioni a valenza internazionale e nazionale, tabella E – eventi e manifestazioni a sostegno del turismo congressuale, sportivo, culturale, religioso, scolastico.

Dal punto di vista delle attenzioni riservate dalla Regione, gli eventi più importanti sono

quelli compresi nella tabella A, che ricevono il 100% dei finanziamenti richiesti. Tra le

“sagre e feste storiche di valenza regionale consolidata e di particolare rilievo storico-

culturale”, la Giunta Regionale ha individuato nove manifestazioni, che sono dunque

considerate come quelle maggiormente rispondenti agli scopi della legge, promozione

della Sardegna e attrazione di visitatori: S. Efisio (Cagliari), la Cavalcata Sarda

(Sassari), la Discesa dei Candelieri (Sassari), la Sagra del Redentore (Nuoro), la

5 EPT Cagliari a Comune di Selargius, Cagliari, 23.07.1974 6 Presidente della Pro Loco fu inizialmente il sindaco Adriano Secci (DC). In seguito ricoprirono la carica Gino Salis e Franco Camba, che dovette dimettersi nel 1988 per incompatibilità dell’incarico con la carica di assessore comunale. Da quell’anno è tuttora presidente il geometra Frau Gianni, che è stato anche presidente delle Pro Loco provinciali e componente di quella regionale. 7 La delibera in questione e l’allegato sono consultabili all’indirizzo internet http://www.regione.sardegna.it/documenti/1_45_20050809120054.pdf e http://www.regione.sardegna.it/documenti/1_45_20050909133612.pdf

Page 147: Folklore nuziale e identità sarda

Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 147

Sartiglia (Oristano), l’Ardia (Sedilo), S. Simplicio (Olbia), la Settimana Santa (Iglesias);

S. Francesco di Lula.

L’Antico Sposalizio Selargino, così come il Matrimonio Mauritano, non è incluso in

questa categoria. È stato invece inserito dalla giunta regionale nella tabella E, tra gli

“eventi e manifestazioni a sostegno del turismo congressuale, sportivo, culturale,

religioso, scolastico”, che ricevono un finanziamento compreso (per il 2005) tra un

massimo di euro 35.000 e un minimo di 5.000. Per questo motivo, per una spesa

complessiva prevista, nella 45° edizione, di 209.900,00 euro, richiesto un contributo di

115.000 euro, ne sono stati concessi 35.000, pochi rispetto alla richiesta, ma

comunque il massimo del contributo della categoria. A Santadi è andata peggio: per

una spesa complessiva prevista di 51.645,69 euro (1/4 della spesa selargina), richiesto

un contributo di 38.734,27 euro, ne sono stati concessi 9.683,57.

La collocazione regionale è palesemente in contrasto con l’immaginaria classifica

spontaneamente stilata da alcuni informatori, concordi nel situare il Matrimonio

Selargino al quinto o al quarto posto della rilevanza regionale, dopo S. Efisio, la

Cavalcata Sarda, il Redentore e la Sartiglia di Oristano. Benché il Matrimonio Selargino

non dipenda finanziariamente dai soli fondi stanziati dalla Regione, questi hanno

assunto un’importanza decisiva a causa dei disguidi provocati dalla recente

riorganizzazione degli enti turistici8 da parte dell’amministrazione regionale Soru. La

situazione è incerta e ancora confusa, tuttavia l’ampio dibattito sulla stampa locale ha

messo in evidenza il malcontento di Pro Loco e comitati di festeggiamento locali,

scettici all’idea dell’assorbimento degli enti turistici tradizionali da parte di

amministrazioni comunali e città capoluogo. È meno rischioso perdere il finanziamento

da un singolo ente quando questi sono molti, piuttosto che perdere quello di uno solo di

due o tre grandi enti, che potrebbe compromettere irrimediabilmente la realizzazione

dell’evento festivo. L’accento posto sulla collocazione regionale dell’Antico Sposalizio

Selargino mi pare indicativo del mutamento in atto: l’incertezza sul futuro delle fonti

tradizionali di finanziamento spinge ad esaltare il prestigio culturale del Matrimonio

Selargino al fine di ricavare una nicchia sicura tra i finanziamenti regionali.

L’inserimento formale del Matrimonio Selargino tra le grandi manifestazioni del folclore

8 L’art. 26 della L. R. 7/2005 ha stabilito la soppressione dell’Ente Sardo Industrie Turistiche, con conseguente attribuzione delle funzioni e competenze all’Assessorato del Turismo. Le Ept (enti provinciali per il turismo) dovrebbero essere assorbite dalle città capoluogo, mentre le 8 Aziende di Soggiorno dalle amministrazioni dei comuni in cui hanno sede.

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148 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

sardo (tabella A) permetterebbe di mettersi al riparo dai capricci del rinnovamento dei

contributi.

Ma quali sono le voci che giustificano una previsione di spesa attualmente stimata sui

200.000 euro? La reticenza in merito è massima, nonostante il criterio della

trasparenza che dovrebbe caratterizzare il rendiconto delle spese effettuate coi soldi

pubblici. Nell’archivio comunale è stato tuttavia possibile rintracciare il rendiconto dei

pagamenti effettuati dal comune di Selargius per l’edizione del 1973 [vedi documento

5.1]. È una lettura interessante: permette di andare oltre il preventivo di spesa per

conoscere le spese effettivamente effettuate (minuziosamente dettagliate), consente di

valutare il peso del contributo comunale (circa il 30%, 3.160.000 lire per una spesa

complessiva intorno a 10.000.000 di vecchie lire), dichiara nomi e cognomi delle

persone coinvolte nell’organizzazione dell’evento (si ritrovano nomi di persone ancora

oggi attive, come Gianni Orrù, o che lo sono state per moltissimo tempo, come Fedora

Putzu). Sempre nell’archivio comunale è stato possibile visionare un preventivo di

spesa per l’anno 19749, che riporta più o meno le stesse voci di spesa previste

attualmente:

1. Partecipazione dei gruppi folkloristici (rimborso spese)

2. Sfilata carri e cavalli (rimborso spese allestimento carri e partecipazione cavalli)

3. Allestimento tribune e transennatura lungo la sfilata

4. Pubblicità e propaganda (dépliant, manifesti a colori, inviti, affissioni manifesti, servizio fotografico)

5. Celebrazione rito nuziale (addobbo floreale chiesa, rimborso spese parroco)

6. Impianto di amplificazione e presentazione della sfilata (allestimento impianto microfoni e altoparlanti, compenso al presentatore della sfilata)

7. Utilizzazione locali vari (casa dello sposo, casa della sposa, casa degli sposi, rimborso per pulizie locali scuole elementari)

8. Confezionamento cestini, dolci sardi, torta nuziale, dolci ricevimento, vini

9. Dono agli sposi

10. Spese postali, telefoniche

11. Imprevisti e varie

9 Comune di Selargius, Rievocazione Antico matrimonio Selargino - anno 1974, preventivo di spesa (3 pagine)

Page 149: Folklore nuziale e identità sarda

Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 149

5.1(a) Rendiconto dei pagamenti effettuati di cui a deliberazione della Giunta Municipale n°496 del 23 ottobre 1973, ratificata dal Consiglio comunale con atto n. 184 del 24 ottobre 1973 per la manifestazione folkloristica della “Rievocazione dell’Antico Matrimonio Selargino”, in data 28 ottobre 1973.

Page 150: Folklore nuziale e identità sarda

150 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

5.1(b) Rendiconto dei pagamenti effettuati di cui a deliberazione della Giunta Municipale n°496 del 23 ottobre 1973, ratificata dal Consiglio comunale con atto n. 184 del 24 ottobre 1973 per la manifestazione folkloristica della “Rievocazione dell’Antico Matrimonio Selargino”, in data 28 ottobre 1973.

Page 151: Folklore nuziale e identità sarda

Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 151

5.2 Il tempo della festa

Settembre, il mese in cui si tiene il Matrimonio Selargino, è detto in sardo campidanese

Capudanni. Il termine indica l’inizio dell’annata agraria e della ripresa dei lavori agricoli,

il capodanno, appunto, del calendario del mondo agro-pastorale. Per tutta la sua

durata si festeggia(va)no i santi patroni allo scopo di ringraziarli per il raccolto

concesso e propiziarne l’abbondanza nella successiva annata. Durante tali feste si

stipulavano i contratti agrari, si combinavano affari e avevano luogo gli scambi tipici

dell’economia agro-pastorale.

Questo potrebbe indurre a pensare che settembre fosse un mese privilegiato per gli

scambi matrimoniali. Si potrebbe provare ad analizzare il complesso delle pratiche

cerimoniali matrimoniali in funzione dello scorrere del tempo, il lavoro d’archivio

potrebbe indicare che certi mesi dell’anno erano privilegiati per la scelta della data

delle nozze. L’iniziatore della letteratura di viaggio sulla Sardegna, il cappellano militare

Fuos, in servizio nella città di Cagliari per tre anni sino al 1777, scrive nel suo Notizie

dalla Sardegna di aver osservato che nei mesi caldi dell’estate “i Sardi […] non

lasciano maritare le loro figlie” poiché la temperatura è così alta che “la miglior cosa a

fare si è affaticare il corpo meno che è possibile” [Fuos, 2000:228]. Caredda ricorda la

superstizione, condannata dal sinodo di Cagliari del 1695, che “sposarsi nei mesi di

maggio ed agosto potesse far morire uno dei coniugi entro l’anno” [Caredda, 1993:38]

mentre da altre parti erano invece considerati “infausti il periodo di Quaresima o il

mese di settembre o quello di luglio, quest’ultimo perché coincideva con la trebbiatura

e, così come il grano veniva lanciato in aria perché il vento lo separasse dalla paglia,

altrettanto avrebbe potuto involarsi la felicità coniugale” [Caredda, 1993:38].

Limitandosi a ciò che in proposito sanno o ricordano le generazioni viventi, tuttavia,

sembrano non sussistere divieti o preferenze particolari.

In ogni caso, la storia del Matrimonio Selargino esclude la possibilità che il periodo

della rievocazione folkloristica sia stato scelto in base a considerazioni riguardanti una

qualche aderenza alla tradizione. Nei primi anni, come si è visto, il Matrimonio

Selargino è un evento collaterale associato ai festeggiamenti in onore del Santo

Lussorio, nell’ultima domenica di ottobre. Ma dopo solo 4 anni, l’Enal di Cagliari decide

che la manifestazione è in grado di reggersi autonomamente e sgancia l’evento dalla

festa tradizionale. La rievocazione folkloristica può finalmente rispondere alle esigenze

turistiche per cui è stata creata. La data viene anticipata all’inizio di settembre:

Page 152: Folklore nuziale e identità sarda

152 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

sia per le condizioni metereologiche che negli anni scorsi hanno messo in forse la riuscita della manifestazione, sia per dar modo ai numerosi turisti, che in settembre ancora soggiornano nell’Isola, di assistere alla originale manifestazione10 [corsivo mio]

L’esperimento ottenne un grande successo, un numero record di visitatori,

probabilmente dovuto non solo allo spostamento di data, ma anche alla presenza della

presentatrice della Rai Mariolina Lami Cannulli, vecchia conoscenza del gruppo folk

selargino [foto 3.3], invitata a presentare l’esibizione dei gruppi folcloristici. Da

quell’anno, il Matrimonio Selargino guadagnò il diritto a mantenersi indipendente dalla

festa di San Lussorio; tuttavia ancora per diversi anni, gli organizzatori si vedranno

costretti a posticipare la festa a causa dei ritardi nell’organizzazione per la scarsa

collaborazione del comune.

In Sardegna, fa notare Atzori, “si verifica una certa coincidenza tra proposte culturali di

tipo etnografico e relativa domanda del mercato turistico” [Atzori, 1997:406]. Non è un

caso che l’apertura e la chiusura della stagione turistica coincida con l’inizio e la fine

delle grandi manifestazioni folkloristiche: S. Efisio il primo maggio a Cagliari e le grandi

feste patronali in autunno. La turisticizzazione dell’evento folkloristico è un elemento

che il Matrimonio Selargino condivide con molte altre manifestazioni folkloristiche

sarde, particolarmente evidente nella scelta del periodo in cui queste sono collocate.

Sino alla metà del Novecento, il tempo della festa era subordinato ai ritmi costitutivi del

calendario delle campagne, strettamente vincolato al calendario del lavoro agricolo.

Successivamente, ci sono stati casi in cui sa festa manna de sa bidda, la festa

principale del paese, è stata spostata per venire incontro alle esigenze turistiche. Nei

casi in cui il tempo della festa si sia mantenuto rigido, per inerzia della tradizione o

perché assunto come un'eredità, questo non esclude che sia stato allungato, ridotto o

modificato per adattarlo alle richieste dei visitatori. D’altronde, fa notare Angioni

[1982:244 e 2000], la più importante festa paesana anche in passato si collocava

generalmente in un periodo compreso tra la fine della primavera e l’inizio dell’autunno,

cioè dopo i grandi lavori agricoli estivi o prima di essi, per cui nella maggior parte dei

casi non si è fatto nient’altro che adattare dal punto di vista turistico la tradizionale festa

paesana.

10 ENAL a Comune di Selargius, n°3164 protocollo, oggetto: “Antico Sposalizio Selargino”, Cagliari, 12.08.1966

Page 153: Folklore nuziale e identità sarda

Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 153

Se prima il tempo della festa era scandito dal ciclo lavorativo contadino, ora il tempo

della festa è scandito dall’andamento dei flussi turistici. Si prenda per esempio quanto

scritto da Arca e Ligios [1992:73] sulla scelta della data in cui situare la Cavalcata

Sarda:

All'inizio la Cavalcata fu fissata al giorno dell' Ascensione: l'idea era che, siccome il turismo si muove in coincidenza con la Pasqua e molte agenzie di viaggio assumono quella data come momento di partenza della stagione turistica, tanto valeva aggregare ad una festa «mobile» anche la Cavalcata. Di lì a qualche anno si sarebbe visto però che talvolta la Pasqua era troppo «bassa», soprattutto in una terra, come la Sardegna, dove ancora si fa fatica a spostare indietro le lancette dell'orologio turistico: e allora la data fu definitivamente fissata alla penultima domenica di maggio, com'è adesso.

Perché settembre? Perché non un altro qualsiasi mese compreso all’interno della

stagione turistica sarda? La decisione, mi spiega il presidente della Pro Loco selargina,

è dipesa da due fattori principali strettamente correlati: primo, la necessità di accedere

ai finanziamenti dell’Esit, secondo, la tipologia di turista che arriva in Sardegna. L’Esit

era disposto a sponsorizzare l’evento solo nel caso si accettasse di non situare la festa

nel periodo di alta stagione, luglio e agosto. Il turista che arriva in Sardegna in alta

stagione, venne spiegato, è un turista interessato esclusivamente alla balneazione; è

un turista che non si sposta dalle coste, non è incuriosito da quanto avviene più

all’interno. Il Matrimonio Selargino doveva essere organizzato immediatamente a

ridosso della bassa stagione. In questo modo si riusciva ad attirare il tipo di turista

attratto dalle manifestazioni culturali, che visita la Sardegna non solo per il suo mare.

Poiché a maggio e giugno il tempo è ancora instabile, si decise di puntare su

settembre.

A questi due fattori se ne potrebbe sicuramente aggiungere un terzo: il contesto delle

manifestazioni folkloristiche nel circondario. È evidente che il numero di turisti si riduce

all’aumentare delle proposte simili, soprattutto se in un lasso di tempo troppo

ravvicinato. La certezza di una data stabile, in questo caso la seconda domenica di

settembre, assicura il non ripetersi di situazioni spiacevoli come quella dell’87 e dell’88,

in cui Assemini e Selargius scelsero la stessa domenica per il matrimonio, e dovettero

contendersi pubblico e gruppi folk.

Page 154: Folklore nuziale e identità sarda

154 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

5.3 Lo spazio della tradizione

Dove ha luogo la messa in scena del Matrimonio Selargino? Nelle strade o nelle

piazze, al chiuso o all’aperto, in spazi specializzati (musei, teatri, stadi) o in spazi

periferici, esterni al centro abitato? Lo spazio costituisce un fattore rilevante nella

comprensione del fenomeno Matrimonio Selargino. Le modalità secondo cui lo si

utilizza non sembrano il risultato di decisioni contingenti, slegate tra loro, in quanto

mostrano una certa coerenza interna. Lo spazio appare trasformato, modificato o

rifunzionalizzato al fine di adattarlo alla esigenze della festa.

5.3.1 Percorrendo il passato

Si prenda in esame il

percorso del corteo

nuziale nel 1962. Il

corteo dello sposo,

partito dall’incrocio di

via S. Martino con via

Crimea, percorreva via

Roma dove, all’altezza

di via Dante, si

congiungeva con il

corteo della sposa,

partito da piazza Don

Orione, per proseguire

insieme in via Dante alla

volta della chiesa

dell’Assunta. La scelta

di questi spazi, solo in

apparenza casuale, si

rivela se ci sofferma

sull’organizzazione dell’abitato nella prima metà del secolo, così come la ricordano i

più anziani.

L’abitato di Selargius, nel passato, era concentrato tutto intorno alla via Roma, che

costituiva la via principale del paese. L’attuale via Roma nel passato era denominata

5.2 Percorso corteo nuziale 1962 [elaborazione F. Salis]

Page 155: Folklore nuziale e identità sarda

Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 155

s’arriu (il torrente), poiché nella stagione delle piogge vi ci scorreva un torrente che

periodicamente distruggeva l’abitato. S’arriu divideva la parte antica del paese in due

parti: su bixinau de pitzus, il rione di sopra (tratteggiato in rosso nella pianta

soprastante) e su bixinau de baxu, il rione di sotto (tratteggiato in celeste), così

denominati perché componevano rispettivamente la zona alta e quella bassa del

paese.

All’esterno del perimetro disegnato dai confini dei due rioni, si ripartivano le numerose

strade che collegavano Selargius direttamente con tutti i centri vicini: bi’e Sestu, (via

S.Martino) verso Sestu; bia beccia (via istria), così chiamata perché era la vecchia

strada per Cagliari prima che venisse aperta anche bi'e Casteddu; bi’e Paoli, via

Trieste, verso Monserrato; bi’e Settimo, il tratto di via Roma esterno al centro abitato,

verso Settimo San Pietro.

Il centro abitato era costituito da

case addossate le une alle altre.

Le strade erano generalmente

poco più che viottoli (utturrus e

utturreddus): di larghezza

irregolare, erano solitamente

strettissime e seguivano un

tracciato tortuoso. Poche erano

selciate per cui risultavano

fangose d’inverno e polverose

d’estate, con i numerosi fossi

ricoperti di paglia o altri materiali.

L’acqua piovana ristagnava a

lungo nel solco delle cunette,

ricavate ai lati delle strade o al

centro della carreggiata. Quando

poi le piogge erano abbondanti,

le vie si trasformavano in enormi

rivoli che straripavano a causa

dell’assenza di arginature delle

cunette. 5.3 Una vecchia immagine di via Dritta, l’attuale via Roma

Page 156: Folklore nuziale e identità sarda

156 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

Si racconta che la divisione tra i due rioni non fosse una questione meramente

geografica, ma fosse connessa anche ad altri fattori di tipo sociale ed economico. Quel

che è certo è che ogni rione aveva i propri punti di riferimento e di incontro: s’ie

Piredda per su bixinau de pitzus (all’incirca all’incrocio tra via crimea e via San Martino)

e Pratz’e Cresia (piazza di chiesa) per su bixinau de baxu. Erano punti di incontro

inevitabili, in cui si sostava per lunghe ore, poiché vi erano situate le fontanelle

pubbliche, unica fonte di acqua potabile (molte case erano dotate di pozzo, ma l’acqua

raccolta era salmastra e quindi non potabile). Su bixinau de pitzus ruotava dunque

attorno a sa ia manna (la via grande, via Crimea) e si estendeva sino a via Roma,

delimitata da una parte da via S.Martino (bi’e Sestu, la strada per Sestu) e dall’altra da

via S.Salvatore (s’arruga ‘e Coiana). Al suo interno, gli edifici più importanti erano in

s’atziada de Beccheria o de Biccu (la salita della beccheria), così chiamata perché vi

era il mercato pubblico delle carni, poco distante si trovava anche la scuola femminile.

Ancora più importante, in via S.Olimpia, la casa Rattu-Tasca, nel passato sede del

municipio e, ancor più anticamente, sede della giudicatura del Mandamento. Su

bixinau de baxu, dall’altra parte della via Roma, si estendeva all’incirca sin poco dopo il

piazzale della parrocchiale. Comprendeva, oltre la chiesa di Maria Vergine Assunta, le

chiesette di S’Antonio e di San Giuliano, l’ex carcere aragonese, l’area di San Nicolò,

regno degli ortolani, lo stabilimento vinicolo S.Boi, nonché la stazione tranviaria.

Il collegamento tra i due vicinati avveniva tramite le salite, ai due lati della via Roma, il

cui nome era legato a quello delle famiglie che ci abitavano; un altro punto di incontro

comune ai due vicinati, al limite del centro abitato era sa ruxixedda (all’incrocio tra bi’e

Settimo, come era chiamato il tratto immediatamente fuori dall’abitato della via Roma,

diretto verso Settimo S.Pietro, dopo via San Salvatore e via Rosselli), così chiamato

per la presenza di una piccola croce ora scomparsa. Ma il vero punto d’incontro, il più

importante, era quello situato tra via S.Olimpia, via Roma e via Dante, s’atziada ‘e

caserma (la salita della caserma, per la presenza dei carabinieri nell’edificio dell’ex

carcere aragonese). Era il punto di incontro dei vivi e dei morti, della Madonna e dei

Santi: qui era il fulcro della vita politica del paese, con la sede del municipio e il

carcere-stazione dei carabinieri, qui si attendeva il passaggio dei cortei funebri diretti al

cimitero, qui la domenica di Pasqua, nel rito de s’incontru, si incontravano le due

distinte processioni, una col simulacro della Madonna, l’altra con quello del Cristo

risorto, per procedere insieme sino alla chiesa dell’Assunta. Qui, infine, nel 1962, si

decise di far incontrare il corteo dello sposo e il corteo della sposa per la sagra del

Matrimonio Selargino.

Page 157: Folklore nuziale e identità sarda

Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 157

Il quadro è ora chiaramente delineato: ponendo in relazione lo spazio percorso dal

corteo nuziale con le considerazioni precedenti sull’organizzazione spaziale

dell’abitato, si ottiene un risultato che si presenta troppo preciso perché esso possa

essere di natura semplicemente casuale. Le strade e le piazze scelte per il passaggio

del corteo circoscrivono il perimetro del centro abitato nei primi decenni del Novecento,

toccandone i punti nevralgici e dirigendosi verso la chiesa principale.

La festa scorre lungo un percorso concepito come un itinerario, alla scoperta di quello

che una volta costituiva l’intero abitato e ora, con la crescita smisurata del secondo

dopoguerra, è diventato il centro storico. Come è stato scritto in un articolo de

“L’Unione Sarda” [11-09-95, p. 6], il corteo della festa scorre lungo i “rioni storici,

baluardi ancora inespugnati della selarginità più genuina”: lo spazio della festa è lo

spazio della tradizione. Il riferimento semantico proposto dagli organizzatori della festa

si riferisce allo spazio come luogo di riappropriazione di una identità “autentica”, di un

senso di comunità quale quello vissuto dai selargini delle generazioni precedenti.

La proposta degli organizzatori è dunque un salto nel passato, salto facilitato dal fatto

che, per l’occasione, si cerca concretamente di ricreare un’atmosfera di paese di cento

anni fa, come rileva anche Sardu:

le strade in cui sfilerà il corteo nuziale sono almeno per un giorno linde e completamente sgombre da ogni tipo di veicolo, cosa che produce, per chi non è più tanto giovane, un piacevole ritorno all’infanzia quando la strada era il regno incontrastato del viandante e il salotto buono delle comari.11

Oltre che a sgombrare le vie da tutte le macchine, i cittadini sono invitati a mettere in

mostra tutto ciò che in qualche modo possa ricondurre all’atmosfera che si tenta di

ricreare:

È un’occasione straordinaria per spargere le strade di essenza di fiori profumati, di foglie fresche, stendere drappi, arazzi e lenzuola finemente ricamati sulle finestre, per aprire i portoni delle case con cortili pieni di fiori e di piante e con le lolle tipiche per gli affreschi murali e per le cassapanche antiche. Ognuno potrà, nella settimana di festa, esporre e vendere liberamente i prodotti della campagna alla propria porta o mettere in mostra le opere che spiccano per l’ispirazione e per l’arte.12

11 Sardu, VHS Antico Matrimonio Selargino 12 Comune di Selargius e Pro-Loco a cittadinanza, Selargius, 1993, manifesto affisso sui muri e volantino distribuito nelle case.

Page 158: Folklore nuziale e identità sarda

158 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

In alcuni anni è stato pure indetto un concorso per premiare pecuniariamente la casa

meglio addobbata. Tra gli inviti rivolti alla popolazione, uno spicca in particolar modo

per il suo significato simbolico: quello spargere nelle strade fiori profumati e foglie

fresche ha un nome specifico nella tradizione sarda, dove è conosciuto come sa

ramadura.

L’ornamento delle strade è una tradizione di origine bizantina, utilizzata per onorare il

cammino dell’imperatore e di altre personalità molto importanti, “il cui percorso era

decorato con ghirlande, piante profumate e vari addobbi di pregio” [Pillai, 1997:20]. In

Sardegna l’usanza è stata trasferita alle processioni religiose, quale segno di

devozione e rispetto per la statua del santo, che sfila per le strade cittadine accolta dal

profumo delle foglie di menta e di basilico, dai festoni di mirto e da addobbi vari. Qual è

allora il legame tra sa ramadura e il rito del matrimonio? A detta di diversi informatori, si

tratta della rifunzionalizzazione attuale di un’usanza legata tradizionalmente alla

venerazione del sovrannaturale. È indubbio, in ogni modo, che si tratti di un’operazione

che coglie nel segno l’effetto ricercato. La decorazione delle strade è un espediente

attraverso il quale un’architettura effimera risemantizza quella permanente,

trasformandola in scenario festivo. Da una parte, nascondendo asfalto e cemento, si

trasmette l’immagine di un vecchio borgo agricolo, dall’altra, attraverso i profumi, i fiori,

le bandierine colorate si ricrea l’atmosfera di un paese in festa.

La strada è il luogo principale di una festa che vuole essere “di tutti”. Spazio aperto di

incontro, aggregazione ed esibizione, lascia libera scelta sulle modalità di

partecipazione: da quale punto, per quanto tempo. La strada è concepito come un

luogo di spettacolo in cui si distinguono due settori: uno per gli attori, l’altro per gli

spettatori. È qui la principale difficoltà incontrata dagli organizzatori: conciliare le

esigenze dello spettacolo con quelle del pubblico. Perché se da una parte è indubbio

che l’illusione del “salto nel passato” riuscirebbe al meglio con un corteo in costume

che si snoda per le viuzze del centro storico, è altrettanto chiaro che lo spazio troppo

angusto e la visuale limitata non soddisfa gli spettatori, i quali preferiscono concentrarsi

nei punti che consentono una maggiore libertà di movimento. Non soddisfa neppure le

esigenze dei partecipanti in costume, costretti a sfilare per ore sotto un sole impietoso

per vie in cui gli spettatori si possono contare sulle dita di una mano.

Page 159: Folklore nuziale e identità sarda

Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 159

Negli anni, i tentativi di

conciliare le diverse

richieste sono stati

innumerevoli, ogni pochi

anni è stata

sperimentata una nuova

soluzione di

compromesso.

Particolarmente

elegante la scelta

dell’88. Il corteo dello

sposo, partito dalla casa

campidanese Ligas, si

ferma sulla soglia di

quella che idealmente è

la casa della sposa, in

via Roma. I due cortei

procedono poi insieme

per strade ampie e

spaziose, con larghi marciapiedi per il pubblico: via Crimea, via San Martino, via Istria e

Manin. Ma tale soluzione non poteva essere definitiva. Selargius era ormai cresciuta a

dismisura e il perimetro percorso dal corteo copriva un’area eccessivamente ridotta

rispetto all’area dell’intero abitato: bisognava necessariamente ampliarlo altrimenti non

sarebbe più stato possibile immaginare il Matrimonio Selargino come una “festa di

paese”.

Non è necessario soffermarsi sulle infinite variazioni del percorso negli anni successivi.

En passant, si può giusto far notare come uno dei risultati duraturi delle

sperimentazioni successive sia stato l’utilizzo della via San Martino in tutta la sua

lunghezza. In questa via, nel momento in cui è occupata dall’inizio alla fine, si ferma

l’avanzare del corteo per una decina di minuti cosicché i vari gruppi folcloristici che lo

compongono possono esibirsi in canti e balli più o meno improvvisati, per la gioia del

pubblico.

5.4 Percorso corteo nuziale 1988 [elaborazione F. Salis]

Page 160: Folklore nuziale e identità sarda

160 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

5.5 Percorso corteo nuziale 1998 [elaborazione F. Salis]

Negli ultimi anni il percorso si presenta più o meno invariato, segno che si è giunti a

una soluzione che sembra soddisfare le diverse esigenze. Ciò nondimeno, gli

organizzatori la ritengono una soluzione temporanea e sono ancora alla ricerca della

giusta via di mezzo che possa conciliare la richiesta di spettacolo da parte del pubblico

e l’atmosfera di intimità e raccoglimento richiesta dal rito che sta per essere celebrato.

Strade e piazze, centrali e situate nel centro storico, sono nel Matrimonio Selargino gli

spazi privilegiati della festa. Tuttavia, il discorso non potrebbe dirsi completo se non si

facesse cenno al ruolo giocato dalle case campidanesi in questo contesto.

Page 161: Folklore nuziale e identità sarda

Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 161

5.6 Percorso corteo nuziale 2006 [elaborazione F. Salis]

5.3.2 Sa domu cerexina – La casa selargina

A Selargius, come nelle altre zone di pianura e collina dove l’attività economica

prevalente era quella agricola, la tipologia abitativa più diffusa era quella della “casa a

corte”. Ne è elemento distintivo sa lolla, il loggiato, che alcuni trovano molto simile al

patio spagnolo, un lungo porticato sul quale si affacciano e prendono luce le stanze

(aposentus), posto come filtro tra queste e il cortile (pratza). Le lolle erano realizzate in

vari stili, ma sempre con una struttura ad archi (a tutto sesto o a sesto ribassato) e con

materiali quali il ginepro (zinnibiri) e mattoni di terracotta.

La casa campidanese si sviluppa su un solo piano, sul lato nord, ma senza finestre in

questa direzione; con questo accorgimento si riusciva ad evitare i fastidi provocati dal

soffiare continuo del maestrale, il vento che in Sardegna piega tutto il piegabile in

direzione sud-est. Le stanze erano perciò buie e la poca luce era quella che filtrava

Page 162: Folklore nuziale e identità sarda

162 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

dalla lolla, orientata in direzione sud-est, che se da un lato riduceva la luce nelle

stanza, dall’altro le proteggeva dal calore estivo e dal freddo invernale.

La tipica casa selargina è una costruzione in ladiri (mattoni crudi). Tutti i muri venivano

realizzati con questo materiale e la ragione è presto detta: la pietra è un elemento

quasi assente nel territorio selargino. Per procurarsi il blocco squadrato di pietra

arenaria col quale proteggere le parti più sollecitate e abbellire la costruzione, era

necessario recarsi nella zona “is seddas” a Selargius o direttamente alle cave di

Cagliari. Per proteggere le fondamenta dalle piogge e dall’umidità veniva realizzato

uno zoccolo con pietrame raccolto sul greto dei torrenti misto a malta di fango;

sottovalutare il problema della solidità delle fondamenta ha significato, nelle periodiche

annate delle alluvioni, vedersi portare via la casa dall’impeto delle acque, soprattutto in

zone come la via Roma.

Alte mura, senza finestre, separavano una proprietà dall’altra. Anonimo e dimesso,

l’esterno di una casa campidanese non rivela nulla di quello che si trova all’interno.

L’unica via di comunicazione con l’esterno era costituito dal portale che immetteva nel

cortile. Unico segno esteriore di distinzione tra le case, al portale erano riservate

attenzioni estetiche particolari, tanto da farne il specifico oggetto di trattazione in

pubblicazioni apposite e materia di studio per gli studenti delle scuole medie,

periodicamente inviati in perlustrazione a fotografare gli ultimi portali che nascondono

le vecchie domus.

Per quanto concerne le caratteristiche architettoniche e funzionali delle abitazioni, ha

scritto Angioni [1985:237-284], c’è più varietà all’interno di uno stesso paese che tra

zone diverse della provincia di Cagliari. La distinzione sociologica tra le varie categorie

di abitanti è insomma più rilevante della distinzione architettonica e urbanistica tra le

varie zone della provincia. E infatti, uno volta all’interno, al di là della tipologia (la

presenza della lolla, i muri in ladiri e la disposizione a sud-est), pochi altri erano gli

elementi condivisi: sa domu ‘e lettu e su muntronaxiu.

La prima era una stanza destinata, in modo esclusivo, al solo pernottamento della

coppia marito e moglie; spesso era l’unica stanza dotata di letto, mentre i figli

dormivano in un’altra stanza, per terra, su giacigli realizzati con materiali vari.

Indistintamente, in tutte le abitazioni, mancavano le latrine; al loro posto su

muntronaxiu, uno spazio per i bisogni fisiologici utilizzato anche l’accumulo di tutti i

rifiuti domestici, in cui rovistavano tutti gli animali.

Page 163: Folklore nuziale e identità sarda

Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 163

Le differenze tra proprietari (grandi, propietariu mannu; medi, propietariu; piccoli,

propietarieddu) e tra questi e quanti non possedevano nulla, erano considerevoli. Il

criterio della proprietà distingueva gli uni dagli altri: la quantità dei mezzi di produzione

posseduti tra attrezzi da lavoro, bestie e terra. Ognuno aveva case proporzionate alle

dimensioni dei propri possedimenti. La casa dei proprietari non si distingueva solo per

una maggiore ampiezza e qualità degli ambienti, ma anche e soprattutto per la

presenza, ai lati del cortile, lungo il perimetro del muro di recinzione, dei locali per il

deposito degli attrezzi agricoli e pastorali e delle derrate alimentari. Vi era lo spazio per

il forno, la stanza con l’asinello che azionava sa mola per la lavorazione dei cereali, il

pozzo e gli abbeveratoi per gli animali, il deposito per la legna, il pagliaio, i ricoveri per

gli animali. Le case dei braccianti e degli artigiani, al contrario, svolgevano la sola

funzione di abitazione, senza annessi agricoli o con solo un abbozzo di essi, mentre

quelle dei piccoli e medi proprietari avevano almeno la stalla per una coppia di buoi e

un magazzino per gli attrezzi o per il deposito del raccolto.

Selargius conserva ben poche delle sue domus. Qualcuno afferma, malignamente, che

il Matrimonio Selargino ne abbia accelerato il processo di abbattimento: si racconta che

ogni qual volta una vecchia casa è stata scelta come sede per la rievocazione

folkloristica, dopo poco tempo è stata abbattuta per far posto a un moderno villino.

Quale che sia il motivo, è indubbio che nella sua storia il Matrimonio Selargino abbia

dovuto modificare più volte la sede della messa in scena di alcuni momenti

fondamentali della rievocazione folkloristica: la vestizione degli sposi, la loro

benedizione e il banchetto nuziale. Attualmente la Pro Loco si avvale della casa Ligas

in via Rosselli, la casa Putzu in via Roma 115 e la casa del canonico Putzu in via

Roma 63. Le prime due, utilizzate quotidianamente dai proprietari come normali

abitazioni, per alcuni giorni diventano rispettivamente “la casa della sposo” e la “casa

della sposa”, mentre la terza casa, di proprietà del Comune, rappresenta la nuova

abitazione della coppia unita in matrimonio, in cui si consuma il banchetto nuziale.

Quale migliore scenario di un tipico prodotto della cultura campidanese, un’antica

domu cerexina, per collocare un altro prodotto, il Matrimonio Selargino, che si vuole

riproduttore della stessa cultura? Il legame, reale, tra contesto scenico e tradizione

campidanese, rende altrettanto reale il legame tra le azioni rituali messe in scena e la

stessa tradizione; la domu esprime visivamente ciò che le parole lascerebbero

all’immaginazione.

Page 164: Folklore nuziale e identità sarda

164 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

Certo, bisognerà ammettere che le case scelte non rispecchiano quella che doveva

essere l’abitazione del selargino medio di cent’anni fa. Sono case estremamente

ricche, appartenute a grandi proprietari terrieri, l’elite del passato. Basteranno due

nomi: Speranza Putzu Loddo e Saverio Cabras Pisu [foto 4.16], ex inquilini della casa

situata in via Roma 115. Saverio Cabras Pisu era nipote di Efisio Cabras, ex sindaco e

notaio, e figlio di Filomena Pisu, di Settimo; nel 1894 la madre ottenne dal giudice

l’autorizzazione ad attingere dal fondo di 20000 lire (lasciate come donazione al figlio

minorenne) per ristrutturare la casa di via Roma, danneggiata dalle alluvioni degli anni

prima. Speranzina Putzu Loddo (già nominata in precedenza per l’abito indossato nella

foto 4.16, prototipo di quello che sarebbe diventato l’abito di parata selargino) era

l’unica figlia femmina di Anna Rosa Loddo e Efisio Luigi Putzu, più volte sindaco di

Selargius. Ebbe come fratelli Giuseppe (sindaco di Selargius tra il 1914 e il 1916),

Pietro, Antonio, Don Francesco Onorio e il Canonico Felice Putzu, proprietario, in vita,

dell’altra casa situata in via Roma e utilizzata per il Matrimonio Selargino. La ricchezza

della famiglia Putzu è evidente nel fatto che Efisio si preoccupò, alla fine del 1800, di

far erigere la chiesa di S.Salvatore sopra le fondamenta della chiesa secentesca

crollata nel 1864; in seguito la stessa famiglia ne fece dono all’opera Don Orione.

Quando Speranzina e Saverio si sposarono, intorno al 1905, andarono a vivere nella

casa di via Roma. Morto il marito senza eredi (ebbero un solo figlio che morì in giovane

età), la casa, come previsto dal contratto di matrimonio, rimase di proprietà della

donna, la quale continuò a viverci sino alla morte (la casa passò poi al nipote

Francesco, figlio del fratello Pietro, e di qui all’attuale proprietario Felice, figlio di

Francesco) mentre fece dono al paese, nel 1939, della casa dei genitori affinché

venisse utilizzata come asilo.

Esteriormente, un indice inequivocabile dell’agiatezza dei proprietari di queste

abitazioni è la struttura su due piani e la bellezza dei portoni. Ma è una volta all’interno

che lo sguardo del visitatore realizza l’entità di questa ricchezza: decine e decine di

attrezzi agricoli di ogni tipo, magazzini per le botti, pozzi, mobili di fattura pregiata. È

scomparso su muntronaxiu, è bene dirlo. Si potrebbe scambiarle per musei della civiltà

contadina sarda, come se ne vedono un po’ dappertutto in Sardegna, se non fosse

che, a differenza di questi musei, gli oggetti che le compongono non sono

necessariamente tutti riconducibili a una qualche specificità autoctona. Piuttosto

rispecchiano il gusto della ricca borghesia selargina di inizio secolo, per cui elementi

riconosciuti come sardi (sa lolla, per esempio) si mescolano armonicamente ad altri

(l’arredamento, per citarne uno) che si rifanno alle mode continentali del momento.

Page 165: Folklore nuziale e identità sarda

Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 165

5.3.3 E se si trasferisse tutto a San Lussorio?

5.7 Marghinotti Giovanni, Festa campestre in Sardegna, 1861, olio su tela

Nel 1861 il maggiore pittore dell’800 sardo, Giovanni Marghinotti, nato a Cagliari nel

1798, dipinge uno dei suoi quadri più noti, Festa campestre in Sardegna, in cui

descrive un momento di una festa campestre sarda. La rappresentazione è ricca di

particolari che sembrano osservati dal vero: il gruppo di ballerini impegnato nel

tradizionale ballu tundu, la figura in primo piano che forse li accompagna suonando

contemporaneamente sulittu e tamburinu, i particolari dei costumi delle altre figure,

appartenenti a diverse località della Sardegna, la tracca “parcheggiata” di fronte alla

chiesa, la chiesa sullo sfondo. L’edificio, dalla “fisionomia tipica dei santuari campestri

del Meridione sardo, con portichetto antistante funzionale allo svolgimento della sagra”

[Serra R., 1993:177] è descritto con una tale fedeltà che Serra Renata lo identifica con

certezza come il santuario dedicato a S. Lussorio, da secoli nel bel mezzo dell’agro

selargino. Se la chiesa è quella di S. Lussorio, la festa non può che essere quella in

onore del santo, una volta fra le più frequentate e celebri feste campidanesi.

Immagino che non esista esempio migliore del quadro di Marghinotti, per illustrare una

proposta che potrebbe modificare radicalmente il senso della manifestazione nella

direzione di una sempre più marcata forma di turismo etnico. Si riosservi il quadro

come se fosse un’istantanea recente di una festa, non più quella per S. Lussorio, bensì

Page 166: Folklore nuziale e identità sarda

166 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

quella del Matrimonio Selargino, e si otterrà “la novità del futuro, tesa a una

manifestazione sempre più originale e suggestiva”13.

L’idea, di cui si sente discutere per la prima volta nel 1991, è di Tonino Melis.

Importante uomo politico selargino, impegnato sin dai primi anni Settanta nel ruolo di

consigliere comunale, in quello di assessore e di sindaco (1985-1990 e 1994-1998),

Melis non è certo nuovo alle innovazioni nell’ambito del Matrimonio Selargino, con

l’introduzione nell’86 della partecipazione della coppia straniera e l’anno successivo del

“Palio della sposa”. Per un certo periodo è anche un’importante funzionario dell’Esit ed

è in questa veste che lancia una nuova proposta, riportata in un articolo dell’Unione:

Già dalla prossima edizione – dice Melis – sarebbe più bello celebrare lo sposalizio nella chiesetta di san Lussorio. Non solo, ma utilizzerei il palco circostante per un altro progetto: creare uno spazio attorno all’antico tempio dove tutti devono muoversi indossando il costume sardo.

Tutti, dal venditore di noccioline all’artigiano che presenta i suoi elaborati, al pescatore che vende i pesci. E all’interno di questo spazio – ha aggiunto ancora Melis – sarebbe opportuno anche organizzare il banchetto nuziale, con tutti gli ospiti vestiti ugualmente con i costumi tradizionali.

In questo modo, si tornerebbe davvero al passato di una coreografia irripetibile. Un matrimonio così conquisterebbe davvero spazi imprevedibili e lancerebbe Selargius verso nuovi orizzonti turistici, ben oltre i confini dell’area metropolitana14.

Una sorta di presepio dell’identità sarda, un museo vivente di boasiana memoria? Uno

studioso di antropologia non può fare a meno di accostare l’iniziativa a quella di Franz

Boas, il quale nel 1892 si accordò con alcuni indiani Kwakiutl perché andassero ad

abitare in un finto villaggio Kwakiutl, ricostruito appositamente, dove potersi dedicare

alle loro attività abituali sotto lo sguardo dei curiosi che visitavano la mostra15. È lo

stesso accostamento che probabilmente verrebbe in mente a Buttitta, che più volte ha

lamentato la politica di valorizzazione delle tradizioni in senso turistico - consumistico,

la quale condannerebbe alla reiterazione degli stereotipi etnici, alla

13 “L’unione Sarda”, Due coppie all’altare: una sarda l’altra austriaca, 14-09-91, p. 10. 14 Ibidem. L’idea venne rilanciata anche in altri articoli delle successive edizioni del Matrimonio Selargino. La mancata attuazione del progetto, mi ha spiegato Melis, è legata per lo più alla lentezza dei lavori di restauro della chiesetta di S. Lussorio e a divergenze ancora irrisolte con i proprietari dei terreni dell’area circostante. Tuttavia, se venisse rieletto alla carica di sindaco nel prossimo anno … 15 Ma, senza spingersi troppo lontano, si potrebbe ricordare la famiglia fonnese scelta a rappresentare la Barbagia alla Mostra Etnografica svoltasi a Roma nel 1911, che dimorò per mesi nell’abitazione “fonnese” tradizionale ricostruita negli spazi espositivi (Muru Corriga, 1990a:99).

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Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 167

creazione di “riserve indiane”, dove stanchi attori dovrebbero trovarsi a recitare la parte dei commossi fedeli, degli operosi artigiani, dei pii contadini e quant’altro, a profitto del turista di passaggio felice di “stupirsi” di usi e costumi “antichi” e “selvaggi” [Buttita, 2000:7]

Nonostante questo, anzi proprio per questo, l’attuazione del progetto si rivelerebbe

accattivante dal punto di vista di un’indagine antropologica interessata a studiare gli

inevitabili mutamenti apportati ai significati della festa.

Page 168: Folklore nuziale e identità sarda

168 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

5.4 La partecipazione di gruppi in costume

Come abbiamo appena visto, uno dei fattori principali che influenza l’uso dello spazio è

la gestione della sfilata dei gruppi folkloristici. Ogni anno una fetta consistente del

budget del Matrimonio Selargino è utilizzato per invitare a sfilare un numero piuttosto

alto (circa una quarantina) di gruppi folk provenienti da tutta la Sardegna, per un

numero complessivo di circa un migliaio di partecipanti (senza contare le persone a

cavallo, sulle traccas e il gruppo spontaneo). Nessuno sembra mai essersi posto il

problema della coerenza della loro partecipazione con la riproposizione di una

matrimonio tradizionale di paese.

A dire il vero, quale che sia il motivo della festa, quella che Ariño [1997: 15] chiama

“esibizione vestimentaria di grandi masse organizzate in associazioni volontarie”, è una

caratteristica presente in qualsiasi manifestazione folkloristica (ma non solo) sarda, il

cui successo pare direttamente proporzionale al numero di gruppi folkloristici che può

permettersi di ospitare. In realtà, non è neppure necessario inventarsi un pretesto per

sfilare: si pensi per esempio alla Cavalcata Sarda, la cui unica ragion d’essere è

propriamente lo sfoggio del costume tradizionale paesano.

L’“immotivata partecipazione di gruppi in costume”, evidenziata dal passo in epigrafe in

apertura del capitolo, costituisce un buon oggetto di indagine antropologica. Perché la

loro partecipazione non è oggetto di discussione, anzi è considerata ovvia e

imprescindibile? Quali sono i motivi per cui l’abito tradizionale costituisce un richiamo

forte per migliaia di spettatori?

La prima considerazione che si può fare al riguardo è che il costume è bello. Questo

perché la storia dell’abito sardo si ferma al culmine, proprio nel momento in cui le

innovazioni tecnologiche, le competizioni estetiche messe in moto da esposizioni come

quella del 1881 a Milano e del 1896 a Sassari, nonché dalle manifestazioni in onore dei

Reali, fanno raggiungere agli abiti “il più alto livello economico e il massimo splendore

estetico e cromatico” [Piquereddu, 2003:53].

È l’ultima istantanea, il momento successivo gli abiti perdono sostanzialmente la

funzione d’uso, avviandosi a diventare

materia museale e scenografica, costumi, elementi connotati da atemporalità, non modificabili, non partecipi della costante mutevolezza della moda, entrando a pieno diritto nella grande Esposizione Internazionale romana del 1911 all’interno della mostra di Etnografia italiana curata da Giovanni Loria […] [Piquereddu, 2003:53]

Page 169: Folklore nuziale e identità sarda

Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 169

La combinazione degli eventi ha permesso di tramandare come tradizionali le versioni

più belle e più ricche del sistema vestimentario sardo. Nonostante molti studiosi,

nonché molti viaggiatori, si siano ostinati a presentarli come il frutto di una tradizione

immutata nei secoli (se non millenni), a causa del poco progresso e delle

comunicazioni limitate, ora sappiamo che in realtà la foggia in cui ci sono pervenuti, è il

risultato di un processo di rifunzionalizzazione indumentaria iniziato nel XVII secolo e

conclusosi alla fine del XIX [Piquereddu, 2003:15]. Lo splendore e la ricchezza degli

abiti registrata da molti autori del XIX secolo, non è il segno di una persistenza

secolare, bensì l’effetto dell’immissione a buon mercato dei tessuti industriali alla fine

dell’800.

La varietà di prodotti dell’industria tessile europea resa accessibile anche alle élite di

paese determina una rivoluzione nelle stoffe, nei colori e negli ornamenti dei vestiti dei

ceti rurali e delle classi popolari. La possibilità di fruire di un catalogo di colori

tradizionalmente precluso, per esempio. È irragionevole pensare che, prima della

scoperta dei coloranti chimici, le classi popolari potessero permettersi toni intensi,

brillanti, saturi e colori come il rosso degli abiti tradizionali del Campidano; non si

andava oltre la “gamma dei bruni e dei mezzi toni, l’opacità della ruvida lana, il colore

sporco delle fibre grezze”16.

La diffusione della produzione tessile industriale, rendendo desueto il sistema

produttivo della tessitura tradizionale, causò l’abbandono generalizzato dei telai e la

riconversione del lavoro femminile nella produzione di pizzi e ricami. Questo permise di

effettuare quegli interventi innovativi in direzione del vistoso arricchimento ornamentale

che caratterizza camicie, polsi e polsini, veli e fazzoletti; un tipo di lavoro fino ad allora

tradizionalmente riservato agli abiti dei ceti elitari. L’ampia diffusione di veli, grembiuli,

fazzoletti di tulle ricamati in bianco su bianco, sono un altro esempio di come ciò che

oggi appare come un elemento imprescindibile dell’abito autoctono, sia un’introduzione

recente seguita all’affermazione della moda dell’abito bianco nuziale in molte città

europee.

Il sistema base dell’insieme vestimentario sardo è dappertutto lo stesso: copricapo,

camicia, corpetto, giubbetto, gonna e grembiule per le donne; copricapo, camicia,

corpetto, giubbetto, calzoni, gonnellino, brache per gli uomini. Le regole vestimentarie

presentano sostanziali convergenze, variano i dettagli, i colori e le ornamentazioni. Su

Page 170: Folklore nuziale e identità sarda

170 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

386 comuni in Sardegna, più di un centinaio hanno ricostruito o reinventato i propri abiti

tradizionali. Se si tiene conto che molti di questi hanno ristabilito 3-4 varianti da usare a

seconda che l’uso fosse quotidiano o festivo, a seconda dello stato civile di chi lo

indossava, ecc., un rapido calcolo dà idea dell’eterogeneità scaturita dal sistema base

comune17. Ciò che identifica un paese rispetto all’altro è la variante nel colore, nella

forma, nella decorazione, nel modo di portare un elemento del vestiario, che produce

una sorprendente varietà finale e dà luogo a una sorta di “estetismo competitivo”.

Per la folla di spettatori, è uno dei motivi principali per cui assistere alla sfilata dei

gruppi folkloristici. Spesso sono immediatamente riconoscibili i turisti alla loro “prima

sfilata”, paralizzati dallo stupore o al contrario come impazziti nel tentativo di

fotografare tutto, che non resistono alla tentazione di chiedere come sia possibile

portare la mastruca18 in piena estate, mentre gli habitué, sardi o turisti “svezzati”, si

divertono a stilare classifiche sui paesi con il costume più bello, commentando la

bellezza di ogni particolare o criticando il modo in cui è indossato. Un altro divertimento

regionale consiste nell’indovinare la provenienza del gruppo folk, riconoscendo i tratti

distintivi del costume prima che si riesca a leggere la scritta del paese al quale

appartiene.

I costumi tradizionali costituiscono motivo di attrazione anche per un altro motivo

fondamentale, di natura identitaria. In senso antropologico, come è noto, l’identità può

avere aspetti diversi a seconda che si intenda considerarne la nozione soggettiva o

quella collettiva. Per quest’ultima, che esprime ciò che sente di sé un popolo, un

gruppo, una comunità, lingua e abbigliamento rappresentano nella maggior parte dei

casi due delle forme più significative attraverso cui si elabora l’appartenenza. I costumi,

ha scritto Marcello Serra, “sono soltanto i simboli, non l’essenza” della sardità. Tuttavia

è attraverso il costume, indossandolo, che si riscopre la propria identità di sardi:

Anche quei sardi che a contatto col progresso e per l’influenza livellatrice della civiltà odierna hanno stemperato necessariamente la loro sardità nel costume anonimo e generico, indossando in quel giorno il costume tradizionale, ritemprano al contatto corale la loro natura illanguidita [Serra, 1989:67]

16 Orsi Landini, “La seta”, in Annali 2003, p. 366 citata in Piquereddu 2003, p. 43 17 Colomo, Speziale 1983; Arca, Ligios 1992 18 Mastruca è il termine italiano col quale si usa indicare sa bist’ ‘e peddi, tipico indumento utilizzato dai pastori: è un ampio soprabito di pelle di pecora col vello in fuori, senza maniche.

Page 171: Folklore nuziale e identità sarda

Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 171

L’interesse per l’abito tradizionale sconcerta quanti non riescono a capirne il

prolungamento sino a Novecento inoltrato, ben oltre i limiti di durata del clima culturale

che in epoca romantica ne aveva stimolato il sorgere in tutta Europa. Ma appunto,

l’interesse non è tanto per il costume in sé, quanto per gli ideali di riscatto politico,

sociale, culturale di cui diventa l’emblema per gli intellettuali dell’Isola tra Ottocento e

Novecento.

Da marchio di subalternità, razzismo e derisione, l’abito tradizionale si trasforma in

primario simbolo etnico, vessillo dell’identità sarda, per effetto dell’adozione da parte

della borghesia intellettuale sarda, impegnata nell’opera di costruzione di un

sentimento di appartenenza sarda. Anche l’aristocrazia isolana, che solitamente

seguiva i canoni della moda continentale, cominciò a indossare, in atto di omaggio al re

in visita nell’Isola, i panni tradizionali dei vari paesi. Ma con il consolidarsi del regime

fascista, che non vedeva di buon occhio il fervore identitario regionalista, vengono

relegati in secondo piano:

secondo i giovani intellettuali fascisti raccolti a Cagliari intorno alla redazione del Lunedì dell’Unione, i costumi sporchi e maleodoranti case popolari per le pulci, devono sparire; possono sopravvivere tutt’al più come strumento di attrazione turistica, entro villaggi appositamente ricostruiti, e come documenti del passato, in un museo etnografico di cui si auspica l’istituzione […] [Altea, 2003:362]

In seguito alla valorizzazione turistica regionale del secondo dopoguerra e al

conseguente boom dei gruppi folkloristici, attualmente gli abiti tradizionali (insieme alla

lingua), continuano a costituire il più importante simbolo dell’identità sarda. Anzi delle

identità sarde. L’analogia tra costume e identità è immediata: nello stesso modo in cui

non esiste un unico costume riconoscibile genericamente come “sardo”, ma tanti

costumi “sardi” quanti sono i paesi che la compongono, esiste un’unica identità sarda

costituita dalla somma delle singole parti? Le grandi manifestazioni di folklore sono un

momento molto sfruttato politicamente per rispondere che sì, effettivamente, si può

parlare di “popolo sardo”: se ogni gruppo folk è paragonabile a una delegazione di

paese, le grandi manifestazioni folkloristiche sono allora “adunanze nazional regionali”,

“assemblee solenni” di tutti i sardi, che dimostrano che al di là delle divisioni è possibile

muoversi insieme per uno scopo comune:

Perché i sardi, quando convengono a una sagra, a un pellegrinaggio, o ad una festa religiosa, indossando gli antichi costumi, ritrovano miracolosamente il loro accento primitivo e genuino. Senza alcuna regia, ma per una suggestione che nasce dall’incontro corale e dalle fibre più riposte di ciascuno, essi ripetono gesti, cadenze, movimenti d’arcaico ritmo, riallacciandosi spontaneamente al filo della

Page 172: Folklore nuziale e identità sarda

172 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

tradizione, che l’urgenza del progresso e le consuetudini della vita quotidiana hanno solo allentato, ma non reciso. […]

Perciò ogni sagra isolana ha il sapore mitico di un ritorno alle origini. […] i Sardi ormai convengono ogni anno a Cagliari, a Nuoro e a Sassari non per una semplice sagra, ma per una assemblea solenne, che ha assunto il valore di un rito, in cui si esprime senza limitazioni e senza artifizi una razza che non vuole livellarsi e perire, nel quale si svela col plastico rigore e con ineguagliabile ricchezza la fertilità del folklore sardo [Serra 1989:68]

Stesse considerazioni per il sindaco di Selargius che in apertura al documentario di

Salvatore Sardu, invita i selargini e in generale tutti i sardi, a indossare il “costume de

nostri padri”, per partecipare da protagonisti al Matrimonio Selargino:

Io oggi ho voluto mettere come si usava fare nelle feste, nelle grandi occasioni, l’abito più bello; e nel mio armadio l’abito più bello è questo, il costume dei nostri padri. E vorrei che in questa occasione i concittadini selargini e anche tutti gli altri sardi capissero quanto sia importante riappropriarsi delle proprie tradizioni, della propria cultura e andarne orgogliosi.

[…] un modo certo per affermare la nostra dignità di popolo, la nostra identità di cittadini, e la nostra sardità che deve comunque essere sempre presente. Io invito tutti quanti per le prossime occasioni affinché aprano i loro armadi, portino i loro costumi più belli che sono quelli che ci appartengono da sempre, così come ci appartiene la nostra cultura e la nostra terra.

____________________________________________________________

Pagina seguente: 5.8 Elenco gruppi folk che hanno partecipato al Matrimonio Selargino in otto diverse edizioni della manifestazione. Fonti: articoli de “L’Unione Sarda” e dépliant “Programma della manifestazione”.

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173

1962 Busachi Maracalagonis Oliena Orgosolo Osilo Ploaghe Quartu Sant’Elena Samugheo Sinnai

1963 Assemini Bitti Maracalagonis Monserrato Oliena Orgosolo Osilo Quartu Sant’Elena Samugheo Seneghe

1968 Assemini Busachi Cabras Dolianova Maracalagonis Monserrato Muravera Oristano Pula Quartu Sant’Elena Samugheo Santadi San Vero Milis Seneghe Sestu Settimo San Pietro Siurgus Donigala Solarussa

1990 Cagliari Dolianova Elmas Maracalagonis tamburini di Oristano Quartucciu Sant’Antioco Seneghe Silanus Sinnai Tissi (?) Villasor Villaspeciosa

1992 Assemini Cagliari Dolianova Elmas Florinas Ghilarza Iglesias Monserrato Nugheddu Orgosolo tamburini di OristanoPirri Quartu Sant’Elena Sestu S. Nicolo Arcidano Solarussa S. Nicolò Siurgus Donigala Suelli Tempio Teulada Villanova Villasimius

1997 Arzana Assemini Bauladu Baunei Carloforte Ceremule Elmas Ghilarza Iglesias Irgoli Meana Sardo Monserrato Nughedu S.Nicolò Nuraxi Figus Orgosolo Tamburini di Oristano Orroli Osilo Ozieri Pula Quartu Sant’Elena Quartucciu Teulada Villacidro Villamar Villanovatulo Villasor Samugheo San Vito Sennori Senorbì Sestu Settimo San Pietro Siurgus donigala

2005 Alà dei Sardi Atzara Bitti Burcei Busachi Cabras Cagliari Domusnovas Elmas Florinas Gavoi Iglesias Laconi Lula Nuoro Nurallao Ovodda Quartu Sant’Elena Quartucciu Ploaghe Samugheo San Vito Santu Lussurgiu Sanluri Sassari Sedilo Sennori Siniscola Siurgus Donigala Sorgono Terralba Tonara Tortolì Uta Villagrande Strisaili Villamar Villasor

2006 Assemini

Benetutti Busachi Cagliari (Villanova) Codrongianus Domusnovas Gavoi Gergei Ghilarza Lanusei Macomer Milis Monserrato Nuoro Olbia Orosei Ovodda Pirri Quartu Sant’Elena Quartucciu Samassi Samugheo Sanluri Santu Lussurgiu Sassari Selegas Sennori Serramanna Sestu Sinnai Siniscola Siurgus Donigala Terralba Tonara Villamassargia Villanovaforru Villasor

Page 174: Folklore nuziale e identità sarda

174 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

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Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 175

5.5 Quale lingua?

“Solo il nostro, e non gli altri diffusi nell’Isola, ha il permesso per celebrare la liturgia e il

consenso matrimoniale in lingua sarda”: un’affermazione costante quando i selargini

parlano del “loro” matrimonio. Costituisce motivo d’orgoglio identitario, nonché un

punto di forza speso sul mercato dell’attrattiva turistica.

Racconta Gianni Orrù [2003]:

Tutto ebbe inizio nel 1970, quando il parroco dell’Assunta, don Carmine Fais, invitò il vescovo di Cagliari, il cardinale Sebastiano Baggio, ad assistere alla cerimonia nuziale del Matrimonio Selargino. In quell’occasione venne fatta esplicita richiesta, dietro presentazione di alcuni antichi documenti, di poter celebrare la messa del giorno del Matrimonio in lingua sarda campidanese. Furono esibite alcune disposizioni dei vescovi cagliaritani De Esquivel, De la Cabra e Cariñena riguardo alla necessità di usare la lingua volgare nelle celebrazioni liturgiche.

Il cardinale promise di far approfondire il discorso da alcuni canonici, i quali, fatti passare alcuni anni, richiesero al poeta e linguista selargino Faustino Onnis una traduzione in sardo del Messale e della liturgia del Matrimonio. Nel 1976, finalmente, il vescovo ausiliario di Cagliari Pierluigi Tiddia poté celebrare la messa in lingua sarda campidanese, come si fa tutt’ora.

Se a Selargius la cerimonia si celebra in campidanese - induce a pensare il racconto -

è dunque perché i selargini furono in grado di presentare documenti convincenti per la

realizzazione del proposito. Ma nello specifico quali furono i documenti sottoposti

all’attenzione del cardinale?

Uno di questi risale alla visita pastorale dell’arcivescovo di Cagliari Bernardo de la

Cabra nel territorio selargino, ed è contenuto nel terzo volume dei Quinque Libri,

risalente al periodo compreso tra gli anni 1643 e1655. La lettura del documento, la cui

traduzione devo alla cortesia del prof. Salvatore Loi (vedi 5.9 e 5.10), provoca

sorpresa, ma non per i motivi che ci si aspetterebbe, bensì per la sua irrilevanza: il

testo non tratta dell’uso della lingua sarda durante la celebrazione del matrimonio.

Tratta invece dell’ordine di spiegare il vangelo e altre “cose spirituali” in sardo affinché

“tutti la capiscano” (“enseñen la doctrina christiana en lengua vulgar para que todos la

entiendan”). Nel testo si fa riferimento al matrimonio unicamente per proibire che i

curati lo celebrino e diano la benedizione nuziale a quanti non conoscano

adeguatamente la dottrina cristiana (“mandamos a dichos curas que de aquí adelante

no desposen ni den benedición a los que no supieren la doctrina christiana”).

Page 176: Folklore nuziale e identità sarda

176 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

5.9 Archivio Arcivescovile di Cagliari, Quinque Libri Selargius, vol. 3 (1643-1655), foglio 491

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Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 177

Nos Don Bernardo de la Cabra, por la gracia de Dios y de la Santa Sede Apostólica Arçobispo de Cáller, obispo de las Uniones, Primado de Sardeña y Córsega etc, y del Consejo de Su Magestad, otrosí Juez apostólico delegado en las causas de visita por el Santo concilio de Trento, visitando la yglesia parroquial de Santa María de la presente villa de Selarjus, havemos mandado decretar los mandatos siguientes.

Primeramente, confirmamos todos los editos que de nuestro orden se han despachado y mandado publicar en dicha yglesia, y de nuebo y por auto de visita mandamos que aquellos se observen, exequuten y cumplan en la forma so las penas que en ellos se contienen. Ittem, por quanto estamos informados que en algunas villas hay gran falta en enseñar la doctrina christiana que no solamente los muchachos pero aun perçonas maiores no la saven, de lo que redunda gran daño a sus conciencias, por tanto mandamos a los curas que hoy son y por el tiempo serán en esta presente villa que cada día de Domingo en la Missa conventual declaren al pueblo con brevedad el Santo Evangelio de aquel día y les digan cosas espirituales y sin mesclar pláticas profanas; y que los dichos días de Domingo, después de comer, manden sonar una campanilla por toda la villa para que todos acudan a la parroquia en la qual dichos curas enseñen la doctrina christiana en lengua vulgar para que todos la entiendan; y el cura que lo dexare de haçer caiga por cada vez en la pena de tres libras aplicaderas a obras pías a nuestro arbitrio. Y mandamos al nuncio de dicha villa que tenga quenta de dichas cosas en lo que a él tocare haçer en pena de veynte sueldos por cada vez aplicaderas como los de arriba. Y assimismo mandamos a los padres que embien sus hijos y hijas para que les enseñen dicha doctrina christiana en pena de dies sueldos por cada vez que faltaren, los quales desde agora applicamos para hazeyte de la lámpara del Santíssimo desta dicha villa, y para maior cumplimiento de todo lo sobredicho mandamos a dichos curas que de aquí adelante no desposen ni den benedición a los que no supieren la doctrina christiana so la pena de quatro ducados por cada vez aplicaderos a nuestro arbitrio.

Noi don Bernardo de la Cabra, per grazia di Dio e della santa sede Apostolica arcivescovo di Cagliari, vescovo delle diocesi unite, primate di Sardegna e Corsica etc., e del Consiglio di Sua Maestà, giudice apostolico delegato nelle cause di visita (pastorale) dal santo concilio di Trento, visitando la chiesa parrocchiale di Santa Maria del presente villaggio di Selargius, abbiamo ordinato decretare i mandati seguenti. Per prima cosa, confermiamo tutti gli editti che per nostro ordine sono stati emanati e fatti pubblicare in detta chiesa e di nuovo e con decreto della visita ordiniamo che si osservino, eseguano e compiano sotto le pene in essi contenute. Inoltre, siccome siamo informati che in alcuni villaggi c’é grande mancanza nell’insegnare la dottrina cristiana tanto che non solo i ragazzi ma anche gli adulti non la sanno, cosa da cui risulta gran danno alle loro coscienze, pertanto ordiniamo ai curati di oggi e che saranno in seguito nel presente villaggio che ogni domenica, durante la messa conventuale, espongano al popolo brevemente il Santo Vangelo del giorno e cose spirituali, senza mescolare alcunché di profano; e che nelle dette domeniche, dopo pranzo, comandino che venga suonata una campanella per tutto il villaggio affinché tutti vadano in parrocchia dove i detti curati insegnino la dottrina cristiana in lingua volgare perché tutti la capiscano. Il curato che omettesse di farlo incorra per ogni volta nella pena di tre lire da applicare ad opere pie a nostra discrezione. Ordiniamo al nunzio del villaggio che vigili su dette cose per quanto é di sua competenza sotto pena di pagare 20 soldi (se non lo facesse) da applicare come si é detto prima. Allo stesso modo ordiniamo ai genitori che mandino i figli e le figlie perché sia loro insegnata la dottrina cristiana sotto pena di pagare 10 soldi per ogni volta che mancassero, i quali 10 soldi fin da ora applichiamo ad acquistare l’olio per la lampada del Santissimo di questo detto villaggio. Per una maggior messa in atto di quanto detto, ordiniamo a detti curati che d’ora in avanti non sposino né diano la benedizione (nuziale) a quanti non sapessero la dottrina cristiana sotto pena di pagare 4 ducati per ogni volta da applicare a nostra discrezione. […]

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178 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

Se questo è il documento più importante, in quanto espressamente indirizzato al clero

selargino, immagino che gli altri, di cui non sono riuscita ad ottenere maggiori

informazioni, siano altrettanti esempi delle raccomandazioni degli arcivescovi

cagliaritani ai rettori delle parrocchie della propria diocesi. Ad esempio, il riferimento al

Cariñena, arcivescovo di Cagliari negli anni tra il 1699 e il 1722 [Turtas, 1999:823], è

sicuramente da mettere in relazione al sinodo da lui presieduto nel 1715, circa mezzo

secolo dopo De La Cabra, in cui chiude la trattazione dogmatica richiamando pievani,

rettori e parroci sul dovere di istruire alla dottrina cristiana i fedeli affidati alle loro cure,

sottolineando l’assoluta necessità di spiegare il messaggio cristiano nella lingua parlata

dai fedeli (“expliquen en Sardo") [Pala, 1985:35]1.

La lingua sarda ha sempre costituito un grosso ostacolo nella storia della Chiesa in

Sardegna. Se da un lato i vescovi esortavano il clero a utilizzare la lingua locale, infatti,

dall’altra erano loro stessi a ignorare la parlata dominante nella loro diocesi. A Cagliari

tra il 1500 e il 1720, quindi sino alla fine della dominazione spagnola, su 19 arcivescovi

solo 1 è di origine sarda, il Machin, ma comunque “straniero” in quanto catalano di

Alghero e di sicura formazione spagnola [Pala, 1985:43, nota 4]. Degli altri 18 ben 17

sono di origine spagnola, e di questi “quasi tutti”, scrive Turtas, ignoravano la lingua

locale, “al punto che dovevano servirsi di un interprete quando volevano entrare in

contatto con la parte non alfabetizzata del loro gregge, soprattutto durante la visita

pastorale” [Turtas, 1999:414] (inutile dire che questi erano la stragrande maggioranza).

Nel periodo sabaudo la situazione si presenta invariata, i vescovi costretti a imparare la

lingua locale o, nella stragrande maggioranza dei casi, a servirsi di un interprete: “non

tardarono ad accorgersi che, pur essendo ancora quella spagnola la lingua ufficiale del

regno, la stragrande maggioranza dei loro fedeli capiva soltanto il sardo o, meglio, la

variante di quella lingua che dominava nel territorio nel quale era ubicata la loro

diocesi“ [Turtas, 1999:490]. Consci del problema, sin dalla metà del 1500, per aiutare i

curati nella loro opera di evangelizzazione in sardo, venivano fatti stampare catechismi

elementari e brevi opuscoli in lingua volgare [Turtas, 1999:451 e nota 478].

1Nella nota 50 a p. 48 viene riportata la trascrizione del brano in questione, tratto dalla Constituciones Synodales del Arzobispado de Caller, Caller-S.Domingo 1715, p. 91: “…Porque hemos reconocido con gran dolor de nostro coraçon el olvido culpable, que ay en los Parrocos de ensenarla, y en las personas de todas edades, y sesos de acudir a a aprehederla, coformandonos con lo decretado en el Santo Concil de Trento ordenamos, y mandamos, que todos los Plebanos, Rectores, y Curas de almas en cada uno de los Domingos, y de mas fiestas del ano, en que no huviere sermon, ò festiuidad, que lo impida, en la Missa conventual, al tiempo de Ofertorio, expliquen en Sardo uno de los misterios de nuestra Fè, instruyendo los fieles con amor, y caridad, acomodandose con la capacidad de los oyentes.” (grassetto mio)

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Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 179

Ora, quello che vorrei qui mettere bene in evidenza è che, a parte le situazioni di

comunicazione pastorale quali sermoni, catechismo, editti di visite pastorali e ordini

vari, la lingua utilizzata era esclusivamente il latino. Non faceva eccezione la liturgia del

matrimonio, che seguiva scrupolosamente il Rituale Romanum nel quale le formule

sono in latino; unica eccezione le domande e le risposte, espresse nella lingua parlata

dai contraenti, per avere la certezza della consapevolezza degli sposi verso il

significato delle loro parole. Il Concilio Vaticano II ha modificato, innanzitutto, le formule

utilizzate nella liturgia matrimoniale, ma anche la lingua da utilizzare per esprimerle:

non dal latino al sardo, bensì dal latino all’italiano. Il sardo non è tra gli idiomi

contemplati tra quelli permessi nelle liturgie sacramentali della chiesa italiana.

Ma allora perché voler celebrare a tutti i costi la messa in sardo, esigenza avvertita

anche negli altri paesi in cui si rievocano matrimoni tradizionali? La questione può

essere affrontata come una forma di ipercorrettismo, cioè come sostituzione di una

forma ritenuta corretta, la lingua sarda, a un’altra, l’italiano, che si ritiene scorretta.

L’italiano suona totalmente fuori contesto in occasioni pensate per essere feste delle

sardità in tutte le sue forme. La festa è - dovrebbe essere - un ritorno al passato, alle

“origini”, in tutte le sue forme, dal costume indossato ai dolci, passando per i gioielli, le

launeddas, le traccas, ecc. Tutto dovrebbe essere rigorosamente sardo, dall’inizio alla

fine, esattamente come nel passato: in un contesto del genere sarebbe controintuitivo

ammettere che il primo degli elementi costituivi dell’identità sarda, la lingua, nel

passato era (quasi) assente nella liturgia.

Se si volesse realmente realizzare, come si ripete in continuazione, una ricostruzione

verosimile di un matrimonio di due secoli fa, si dovrebbe allora riprendere il rituale

latino utilizzato in quel periodo, ma probabilmente in questo modo si inficerebbe la

validità del rito officiato. L’unico motivo per cui il rito in sardo del Matrimonio Selargino

ha validità legale è perché è la traduzione pedissequa, parola per parola, della

versione italiana. Gli sposi tra l’altro rispondono affermativamente alle domande del

prete con il “sì” italiano, non con il sardo “eia”.

La traduzione, eseguita dal poeta selargino Faustino Onnis, non soddisfa del tutto

Monsignor Zuncheddu, che se ne occupa ormai da dieci anni, avendo celebrato la

messa nuziale nell’edizione del 1996, del 1998 e dal 2002 ininterrottamente sino a

oggi:

Non è solo una questione di maestria è necessario sopra ogni cosa lo studio della teologia, perché non si possono tradurre con leggerezza le parole. Nella traduzione ci sono parecchie imperfezioni che bisognerebbe correggere ma il

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180 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

problema è che neanche io so bene come. Ad esempio la traduzione “deu pigu a tui” (“io prendo te”) non mi è mai piaciuta.

Ora, con le modifiche apportate dalla Conferenza Episcopale Italiana nel 2004, l’espressione da usare e quindi da tradurre in campidanese sarebbe “Io accolgo te”, ma sembra che nessuno sia in grado di aiutarmi a fare questo piccolo aggiornamento traducendo il verbo accogliere in sardo. Alcuni mi dicono di usare “dèu arricciu a tui” altri “dèu accuddu a tui”, oppure altre espressioni che in chiesa è meglio non pensare e dunque neanche pronunciare.

Monsignor Zuncheddu, giudice istruttore nel tribunale E.R. della Sardegna, avvocato

della Rota Romana, è uno strenuo difensore dell’uso della lingua sarda in tutti i

momenti della liturgia. Il sogno è quello di poter celebrare, un giorno, una messa

interamente in sardo,

perché la gente comune ha diritto di avere la parola di Dio nella sua lingua

Il problema è quello di riuscire a ottenere l’autorizzazione della Chiesa, “che non

dovrebbe avere paura dei termini sardi”. Intanto ha già tradotto, insieme al gesuita

padre Cuccu, i vangeli in sardo nell’opera intitolata Is Evangelius de Gesù Cristu,

passàus de s’aregu antigu in sardu campidanesu, pubblicata a Cagliari nel 1996. “Io

stampo tutto quello che scrivo e traduco in sardo, nonostante le critiche”. E ogni volta

aggiunge un tassello in più:

nel libretto della messa per la scorsa edizione del Matrimonio Selargino, ho aggiunto due preghiere eucaristiche (pregadorìas) tradotte dal sacerdote orionino di Selargius don Raffaele Boi. È una sorta di provocazione, perché i vescovi permettano finalmente queste cose, ovviamente se fatte bene, con estrema attenzione per le parole scelte.

Un’attenzione che non ha nulla a che vedere con le infiammate discussioni

accademiche attuali sulla lingua sarda:

il mio sardo non è quello dell’università, è quello che parla la gente comune per la strada. Non dipendo dalle grammatiche dei cattedratici universitari, che insegnano nelle aule o nelle scuole di specializzazione: sono alunno, come Gesù lo era, della strada. È lì che mi fermo a parlare con la gente e come Lui faceva con l’aramaico, io ricorro al sardo per capire e farmi capire.

Gesù Cristo d’altronde quando è venuto non ha parlato l’ebraico dei dottori del tempio, ha parlato in aramaico. Portare la parola di Dio attraverso la nostra lingua diventa veramente bello, grande ed emozionante.

È con la loro lingua che i sardi esprimono la loro fede, non in altro modo.

Ma la lingua dei sardi non è forse l’italiano? Non siamo ai tempi del Cariñena, oggi è

molto più facile che un sardo non sappia parlare la lingua sarda, piuttosto che la lingua

italiana. Il bilinguismo, o la sua forma detta diglossia, è di gran lunga il caso più

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Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 181

comune nell’isola. E anche Monsignor Zuncheddu, in palese contrasto con le

affermazioni precedenti, ammette la difficoltà di conservare l’uso della lingua: “oggi non

lo si parla più, spesso il dialetto è italianizzato, e questo è un problema. Certi termini

rischiano di andare perduti, conservati come sono solo dai più anziani”. Se Santadi e

Assemini, per citare i più importanti, non celebrano il proprio matrimonio tradizionale in

limba non è infatti tanto per problemi di autorizzazione, quanto perché è difficile trovare

sacerdoti che conoscano il sardo locale a un livello tale da poter celebrare la messa. Al

contrario di quanto si dice e si scrive a Selargius, Santadi e Assemini celebrano o

hanno celebrato la liturgia in lingua. Nella scorsa edizione (2006) del matrimonio

mauritano, per esempio, è stato chiamato a celebrare Monsignor Zuncheddu, che

sembra l’unico in Sardegna in grado di svolgere degnamente questo compito.

Se così stanno le cose, allora parlare il sardo non è una necessità, bensì il risultato del

processo, storicamente recente, di costruzione e valorizzazione di una identità

regionale sarda. Come si sia passati nella considerazione della lingua sarda dal

“pressoché barbarico vernacolo”, disprezzato come non degno di essere appreso né

tantomeno studiato, a elemento oggetto di specifica tutela - così come deciso dalla

legge regionale n°26, del 15 ottobre 1997 (“Promozione e valorizzazione della cultura e

della lingua della Sardegna”) - è oggetto di una vasta letteratura. Fatto sta che oggi la

lingua è uno degli elementi più importanti nella costruzione di un sentimento di

appartenenza comunitaria, come dimostrano il coinvolgimento e la passione dei

numerosi circoli di emigrati sardi nel resto d’Italia e nel mondo, che guardano sul

satellite il Matrimonio Selargino trasmesso in diretta da una delle maggiori emittenti

televisive sarde, Videolina, e poi chiamano monsignor Zuncheddu perché spedisca loro

il testo della messa.

Il fatto che Videolina trasmetta in diretta la messa mi pare un’osservazione importante

su cui soffermarci un altro momento. Al pubblico presente alla festa è necessario

sommare i soggetti celebranti creati dai media, cioè “quei segmenti di audience che

selezionano volontariamente la ricezione di programmi di feste – e che lo fanno per

provare una commozione sostituiva sperimentando una comunione immaginaria con

feste che acquisiscono così significato universale o almeno divengono rappresentative

di una etnia” [Ariño, 1997:17].

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182 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

Tornando alla questione della lingua,

quello che qui vorrei mettere in

evidenza è come i vari matrimoni

folkloristici concorrano a mettere in

evidenza, nell’uso del sardo, il

carattere costruito, fittizio, di una

pretesa comune identità sarda.

Esempio: Santadi, 2006, monsignor

Zuncheddu, presentandosi con il

libretto della messa del Matrimonio

Selargino del 2005, celebra la messa

nuziale nella variante sarda

campidanese, in un’area in cui si

parla la variante sulcitana, di fronte a

uno sposo sassarese!

Il re è messo a nudo: come si può

parlare di un’identità sarda, si dice, se

non esiste neppure una variante

linguistica comune con il quale

esprimerla? Molto diffuso a livello di

senso comune, il vecchio paradigma

un territorio, una lingua, un popolo, si

scontra in questi casi con la realtà

della mancanza di un’unica lingua

sarda. “Il concetto europeo di nazion-ità legata al possesso privato di una lingua” che,

scrive Anderson [1996:79], “ebbe grande influenza nell’Europa dell’800 e, più vicino a

noi, sulle teorizzazioni successive della natura del nazionalismo”, è un argomento

molto sentito in Sardegna.

Da più di trent’anni la questione della lingua coinvolge comuni cittadini, storici e

intellettuali di varia estrazione. Una soluzione di compromesso è stata proposta

recentemente, con una decisione dell’amministrazione regionale che ha avuto ampia

eco sui giornali locali: si è deciso di adottare sperimentalmente la limba sarda comuna,

una mediazione tra le parlate più diffuse e comuni in Sardegna, da utilizzare negli uffici

pubblici e per gli atti in uscita dell’amministrazione regionale.

5.10 Varianti locali della lingua sarda. Tratto da: www.mondosardegna.net/linguasarda/linguasarda.htm

Page 183: Folklore nuziale e identità sarda

Il folklore come richiamo turistico e identitario ▪ 183

Anche perchè, anche a livello politico, la presenza di una lingua comune sembra

essere la condizione senza della quale le rivendicazioni sarde non hanno ragione di

esistere; come ha spiegato il presidente della Sardegna Soru:

siamo la minoranza linguistica più ampia d’Italia, però siamo l’unica regione che non aveva ancora scelto una sua lingua ufficiale. Con meno forza abbiamo così potuto reclamare quella possibilità offerta dalla legge regionale per il Parlamento europeo, cioè quella di avere un rappresentante per ogni minoranza [“L’Unione Sarda”, 19-04-06, p. 7, Sa limba nei documenti della Regione, di Zuccheddu Francesca]

Liturgia de su Matrimoniu2 DOMANDAS Acabada s' omelìa e pustis calincunu momentu de silenziu, is sposus e totus is aterus s'indi strantaxant, e su sacerdotu (si furriat facci a is sposus), cun custus fueddus o aterus chi s'assimbilint nàrada: Is sposus respundit: Is sposus respundit:

Carissimus (nome dello sposo) i (nome della sposa) seis benìus impari a sa domu de Deus po chi sa stima bosta riciat su segliu suu e sa cunsagrazioni sua ananti de su ministru de sa Cresia e ananti de sa comunidadi. Bosaterus seis giai cunsagraus medianti su Battisimu: immòi Cristus si benedixit e s' affortiat cun su sacramentu nuziali, po chi si stimeis a pari cun amori fideli e chen'e fini e s'attueis cunscienziosamenti is doveris de su matrimoniu. Po custu si domandu di esprimìri ananti de sa Cresia is intenzionis bostas. (nome dello sposo) i (nome della sposa), seis benìus a si cojai liberamenti, chen'e perunu costringimentu, cun conoscenzia prena de su sensu de sa decisioni bosta? Sì Seis dispostus, in sa bia noa de su matrimoniu, a si stimai e a s'onorai a pari po totu sa vida? Sì.

2 Estratto dal libretto della messa, a cura di Monsignor Zuncheddu, utilizzato nell’edizione 2005 del Matrimonio Selargino

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184 ▪ Il folklore come richiamo turistico e identitario

Su sacerdotu ponit is domandas, e a dogna domanda is sposus donanta sa risposta insoru: Is sposus respundint:

Seis dispostus a riciri cunscienziosamenti e cun amori is filius chi Deus s'hat a bolli donai; e a ddus imparai segundu sa lei de Cristus e de sa Cresia sua? Sì.

______________________________________________________________________ CUNSENSU Po custu su sacerdotu sforzat is sposus a espressai su cunsensu: Is sposus si donant sa manu deretta

Si duncas est intenzioni bosta de si cojai, donai sì sa manu deretta i espressai ananti de Deus e de sa Cresia sua su consensu bostu.

Su sposu narat: Sa sposa narat:

Deu, (nome sposo), pigu a tui, (nome della sposa), comente sposa mia, e promittu de t'essiri fideli sempiri, in s'allirghìa e in su dolori, in sa saludi e in sa maladìa, e de ti stimai e ti onorai totus is dis de sa vida mia. Deu, (nome della sposa), pigu a tui, (nome dello sposo), comente sposu miu e promittu de t'essiri fideli sempiri, in s' allirghìa e in su dolori, in sa saludi e in sa maladìa, e de ti stimai e ti onorai totus is dis de sa vida mia.

Su sacerdotu ricendu su cunsensu narat :

Totus respundint :

Su Signori onnipotenti e misericodriòsu cunfirmit su cunsensu chi heis manifestau ananti de sa Cresia e si dignit de si preni mellus de sa benedizioni sua. No atrivat s' omini a separai su chi Deus unit. Amen i Aici siat!

_______________________________________________________________________ BENEDIZIONI E DONU DE IS ANEDDUS Su sacerdotu narat : Su sposu, ponendu s'aneddu in su didu de sa sposa, podit nai : Pustis, sa sposa, ponendu s'aneddu in su didu de su sposu, podit nai

Su Signori benedixat custus aneddus chi si donais pari pari in signali de stima e de fidelidadi. (nome della sposa) arrìci cust' aneddu, signali de sa stima mia e de sa fidelidadi mia. In nomini de su Babbu e de su Fillu e de su Spiridu Santu. (nome dello sposo) arrìci cust'aneddu, signali de sa stima mia e de sa fidelidadi mia. In nomini de su Babbu e de su Fillu e de su Spiridu Santu.

Page 185: Folklore nuziale e identità sarda

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1963 26.10 L’antico rito per due sposi cagliaritani, “L’Unione Sarda”, p. 4 27.10 Suggestiva la giornata folkloristica, “L’Unione Sarda”, p. 4

1964 23.10 Un matrimonio con l’antico rito in un clima di fede e di folclore, “L’Unione Sarda” 25.10 Stamane a Selargius l’antico matrimonio, “L’Unione Sarda”, p. 6

1965 23.10 Domani si celebra a Selargius il matrimonio con l’antico rito, “L’Unione Sarda”

1966 04.09 Per le nozze in costume gran festa folcloristica, “L’Unione Sarda”, p. 6

1967 22.09 Domenica si rinnova il matrimonio selargino, “L’Unione Sarda”, p. 6

1968 12.10 Per l’antico sposalizio Selargius domani in festa, “L’Unione Sarda”, p. 6 13.10 Si rinnova a Selargius l’antico rito nuziale, “L’Unione Sarda”

1970 25.09 Le nozze di due giovani d’oggi esaltano un suggestivo passato, “L’Unione Sarda” 26.09 Appuntamento con folklore, “L’Unione Sarda”, p. 7

1971 23.10 Giovani sposi di oggi per un antico rituale, “L’Unione Sarda”, p. 8 24.10 Oggi Selargius in festa per l’antico matrimonio, “L’Unione Sarda”

1972 06.10 Domani a Selargius lo sposalizio sardo, “L’Unione Sarda”

1973 26.10 Tradizione folk ad Assemini. Andranno all’altare legati con le catene, “L’Unione Sarda”

1976 16.10 Settimana selargina, “L’Unione Sarda”, p. 8

Page 194: Folklore nuziale e identità sarda

194 ▪ Bibliografia

1978 09.09 Domani il tradizionale matrimonio selargino, p. 6

1980 13.09 Le sagre in Sardegna. Matrimonio Selargino, “L’Unione Sarda”, p. 6

1983 03.09 Selargius si veste d’antico: domani matrimonio in costume, “L’Unione sarda”, p.6

1984 02.09 Una catena per gli sposi, “L’Unione Sarda”, p. 7

1985 01.09 Due sposi e una catena, “L’Unione Sarda”, p. 7

1986 28.09 Incontro a Selargius per gli sposi “in catena”, “L’Unione Sarda”

1987 12.09 Assemini rinnova domani l’antico rito del matrimonio in “limba”, “L’Unione Sarda”, p. 14 (Amisani Salvatore) 12.09 E gli sposi “incatenati” a Selargius avranno al loro fianco anche due francesi con il costume sardo, “L’Unione Sarda”, p. 14 (Camboni Gino) 13.09 Selargius in festa rievoca oggi le nozze in costume, “L’Unione Sarda”, p. 14, di (Camboni Gino) 13.09 Assemini. Canti e balli in chiesa per gli sposi “incatenati”, “L’Unione Sarda”, p. 14 (Amisani Salvatore) 14.09 Un po’ di Francia tra i due sposi incatenati, “L’Unione Sarda”, p. 14 (Camboni) 14.09 L’acqua e il grano per benedire gli sposini, “L’Unione Sarda”, p. 17 (Amisani)

1988 11.09 Oggi sposi in catene tra fede, poesia e folclore, “L’Unione Sarda”, p. 16 (Camboni Gino) 11.09 Oggi sposi in catene tra fede, poesia e folclore, “L’Unione Sarda”, p. 16 (Amisani Salvatore)

1989 06.09 Selargius, parte il carro per annunciare lo sposalizio con le catene, “L’Unione Sarda”, p. 15 (Secci Roberta) 07.09 Il fascino dell’antico Palio, “L’Unione Sarda”, p. 16 09.09 Si rinnova “Sa coja antiga”, “L’Unione Sarda”, p. 16; La catena pegno d’amore, “L’Unione Sarda”, p. 17 10.09 Selargius, folla e polemiche al Palio, “L’Unione Sarda”, p. 17 (Casu Roberto) 11.09 Oggi sposi sul filo della tradizione, “L’Unione Sarda”, p. 21 (Secci Roberta)

1990 01.09 Un amore legato con catene d’oro, “L’Unione Sarda”, p. 15 07.09 Tra due domeniche al via l’antico rito degli sposi “incatenati”, “L’Unione Sarda”, p. 13 (Camboni Gino) 13.09 Il palio della sposa, “L’Unione Sarda”, p. 16; Inviti al matrimonio in lingua sarda. Attesa per gli scozzesi, “L’Unione Sarda”, p. 17 (Camboni Gino) 15.09 La catena pegno d’amore, “L’Unione Sarda”, p. 6; Un “sì” con le catene, “L’Unione Sarda”, p. 16 16.09 Selargius ripete la festa. Nozze in catene e il fazzoletto in palio, “L’Unione Sarda”, (Camboni Gino)

Page 195: Folklore nuziale e identità sarda

Bibliografia ▪ 195

1991 12.09 È il fascino del palio, “L’Unione Sarda”, p. 14 13.09 La magia d’amore, “L’Unione Sarda”, p. 16 14.09 Due coppie all’altare: una sarda l’altra austriaca, “L’Unione Sarda”, p. 10; I colori della felicità, “L’Unione Sarda”, p. 11; Un dolce “si” con le catene, “L’Unione Sarda” 15.09 Si ripete stamattina (e siamo a quota 31) l’attesa cerimonia del matrimonio con gli sposi in catene, “L’Unione Sarda”, p. 14 (Verde Alessandra)

1992 11.09 Le catene dell’amore, “L’Unione Sarda”, p. 16 12.09 Un “si” con le catene, “L’Unione Sarda”, p. 6; È lo sposalizio selargino, “L’Unione Sarda”, p. 18 13.09 Selargius, un sì in catene. Oggi rivive l’antico matrimonio, “L’Unione Sarda”, p. 17 (Camba Franco); I colori della felicità, “L’Unione Sarda”, p. 18

1993 10.09 Il grande Palio della sposa, “L’Unione Sarda”, p. 16 11.09 Uniti per la vita con le catene, “L’Unione Sarda”, p. 13 (Verde Alessandra); Una magia di colori e di suoni, “L’Unione Sarda”, p. 14; Gli anelli magici d’una lunga catena, “L’Unione Sarda”, p. 15 12.09 Le catene dell’amore, “L’Unione Sarda”; Festa dell’amore, “L’Unione Sarda”; Le catene, un pegno d’amore, “L’Unione Sarda” 13.09 Un tuffo nel passato fra launeddas e profumo d’alloro, “L’Unione Sarda”, p. 9 (Verde Alessandra)

1995 08.09 Rito pieno di fascino, “L’Unione Sarda”; Le catene dell’amore, “L’Unione Sarda” 10.09 Un sì in catene, “L’Unione Sarda”, p. 21 (Piras Lorenzo) 11.09 Le nozze della memoria, “L’Unione Sarda” (Piras Lorenzo)

1997 13.09 Sono anche i turisti i protagonisti della festa, “L’Unione Sarda”; Un antico rito ripropone i segni magici di secoli fa, “L’Unione Sarda” 14.09 Gli sposi in catene, “L’Unione Sarda”, p. 23 (Piras Lorenzo);Uniti dalla catena dell’amore, “L’Unione Sarda” 15.09 “Liberate Silvia Melis”, “L’Unione Sarda”, p. 10 (Piras Lorenzo)

1998 11.09 Ritorna per la 38°volta a Selargius il matrimonio degli sposi incatenati, “L’Unione Sarda” 13.09 Sposi incatenati dall’amore, “L’Unione Sarda”, p. 19 (Piras Lorenzo) 14.09 Nozze d’altri tempi, “L’Unione Sarda”, p. 14 (Pinna Francesco)

1999 12.09 Anche due coppie straniere all’antico matrimonio, “L’Unione Sarda”, p. 16 13.09 Nozze in catene senza turisti, “L’Unione Sarda”, p. 13 (Piras Lorenzo)

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Verbale di deliberazione della Giunta Municipale, oggetto: “Erogazione contributo per la festività in onore di S.Lussorio”, Selargius, 17.10.63

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ENAL a Comune di Selargius, oggetto: “Antico Sposalizio Selargino”, Cagliari, 23.08.1971

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Giunta Municipale a cittadinanza, Selargius, 12.10.1971

Assessore al Turismo di Selargius a ESIT (n°6511 protocollo), Selargius, 18.10.1971

ENAL a Comune di Selargius (n°1584 protocollo), oggetto: “Antico Sposalizio Selargino”, Cagliari, 28.08.1972 ENAL a Comune di Selargius, oggetto: “Antico Sposalizio Selargino”, Cagliari, 13.09.1972 Comune di Selargius, RENDICONTO dei pagamenti effettuati di cui a deliberazione della Giunta Municipale n°496 del 23 ottobre 1973, ratificata dal Consiglio comunale con atto n. 184 del 24 ottobre 1973 per la manifestazione folkloristica della “Rievocazione dell’Antico Matrimonio Selargino” in data 28 ottobre 1973 (2 pagine)

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Comune di Selargius, Rievocazione Antico matrimonio Selargino - anno 1974, preventivo di spesa (3 pagine)

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Comune di Selargius a Assessorato al Turismo Regione Autonoma della Sardegna (n°4222 protocollo), oggetto: Rievocazione antico matrimonio selargino – Richiesta contributo, Selargius, 19.08.1975

Camba Franco a Comune di Selargius, Selargius, 06.09.1988

1 Ringrazio la direttrice dell’Archivio Comunale dott.ssa Patrizia Lanero per avermi dato la possibilità di condurre la ricerca su materiale ancora non accessibile all’utenza pubblica in quanto in via di riordino. Desidero inoltre ringraziare il dott. Daniele Vacca per avermi assistito durante tutta questa fase della ricerca e per l’aiuto prestatomi nel reperimento dei materiali utili ai fini di questo lavoro.

Page 197: Folklore nuziale e identità sarda

Bibliografia ▪ 197

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Programma Antico Sposalizio Selargino, 32°edizione, 13 settembre 1992

Comune di Selargius e Pro-Loco a cittadinanza, Selargius, 1993

“Predica de su sacerdotu e ministru de Deus dottori GIUANNI FRANCISCU ZUNCHEDDU laureau in sa Lei canonica e giùgi istruttori de su Tribunali de sa Cresia de tottu sa Regioni conciliari de sa Sardigna po sa celebrazioni de su matrimonio cristianu de STEVINI RIVA e GIOVANNA PUGGIONI in su ritu de s’antigu sposaliziu selarginu, Ceràxiux (prov. de Casteddu), su 15 de cabud’anni, de su 1996, in dominigu, a mesu dì, custu ritu po sa 36° borta”, 1996 (16 pagine)

Fonti orali2

Associazione folk Su Idanu: Quartu Sant’Elena, 05.04.2006

Associazione folk Kellarious, Selargius, 09.2006

“Gruppo 53” Oliena : Cenceddu, Catte Nina, Mastroni Ignazia, Palimodde Antioca, Oliena, 09.2006

Amisani Salvatore, Assemini, 23.09.2006

Cordeddu Efisia, Selargius, 24.03.2006, 04.04.2006

Corona Fausto, Selargius, 23.03.2006

Corona Maria Laura, Quartucciu, 12.2005

Frau Cinzia, Selargius, 04.2006

Frau Gianni, Selargius, 13.04.2006

Loi Salvatore, 27.04.2006; 01.05.2006

Melis Olinda, Selargius, 16.03.2006; 04.2006, 10.2006

Melis Tonino, Selargius, 15.09.2006

Mereu Fausto, Etzi Luisanna, Selargius, 02.05.2006

Orrù Gianni, Selargius, 03.2006; 09.2006

Pibiri Ida, Selargius, 08.03.2006

Putzu Felice, Selargius, 10.2006

Gigi e Rosanna Ragatzu, Selargius, 09.2006

Sardu Salvatore, Quartu Sant’Elena, 10.2006

2 Nell’elenco compaiono solo i nomi delle persone il cui contributo è stato maggiormente rilevante per la ricerca.

Page 198: Folklore nuziale e identità sarda

198 ▪ Bibliografia

Scanu Salvatore, 04.2006

Secci Albino, Selargius, 08.03.2006

Secci Rachele, Selargius, 23.03.2006, 04.2006, 09.2006

Serrau Maria, 10.2006

Sitzia Simonetta, Selargius, 24.03.2006

Spiga Lucio, Cagliari, 13.03.2006

Turchi Dolores, 09.2006

Usai Denise, 04.2006; Santadi, 08.2006

Zuncheddu Gianfranco, Cagliari, 04.04.2006

Altri materiali sul Matrimonio Selargino

Articoli quotidiani 2005 07.09 Le serenate per Sa Coja antiga, “L’Unione Sarda”, (Atzeni Sergio) 11.09 Sa Coja Antiga: oggi si rinnova il “sì” degli sposi in catene, “L’Unione Sarda”, (Atzeni Sergio) 12.09 Efisio e Simona sposi in catene, “L’Unione Sarda”(Atzeni Sergio); Una storia che si ripete da 44 anni, “L’unione Sarda” (Atzeni Sergio) 12.09 Un “sì” in costume e catene, “La Nuova Sardegna” 12.09 L’antico sposalizio selargino si gemella con la Slovacchia, “Il Giornale di Sardegna”, p. 22 (Antinori Giulia)

Articoli quotidiani 2006 22.03 Coppie per Sa coja, “L’Unione Sarda”, p. 25 ? La maestra e il geologo: ecco gli sposi de Sa Coja, “L’Unione Sarda”, p. 25 (Atzeni Sergio) 11.09 Sposi in catene davanti all’altare, “L’Unione Sarda”, p. 14 (Pinna Francesco)

Dépliant:

Enal Cagliari, Comune di Selargius, Comitato festeggiamenti San Lussorio, Antico Sposalizio Selargino. Rassegna folkloristica. Balli e cori di Sardegna, Selargius (Cagliari), domenica 28 ottobre 1962

Enal Cagliari, Comune di Selargius, Antico Sposalizio Selargino. Rassegna folkloristica. Balli e cori di Sardegna, Selargius 25 ottobre 1964

Antico Sposalizio Selargino, 1970

Selargius, Ottobre 1971, Antico Sposalizio Selargino

Pro Loco, Amministrazione Comunale, Antico Sposalizio Selargino, 28° edizione, 11 settembre 1988

Page 199: Folklore nuziale e identità sarda

Bibliografia ▪ 199

Pro Loco, Amministrazione Comunale, Antico Sposalizio Selargino, 29° edizione, 10 settembre 1989

Pro Loco e Comune di Selargius, Antico Sposalizio Selargino, 34° edizione, domenica 11 settembre 1994

Associazione Turistica Pro Loco Selargius, Comune di Selargius, L’Antico Sposalizio Selargino, 42° edizione, domenica 15 settembre 2002

Associazione Turistica Pro Loco Selargius, Comune di Selargius, L’Antico Sposalizio Selargino, 43° edizione, domenica 14 settembre 2003

Associazione Turistica Pro Loco Selargius, Comune di Selargius, L’Antico Sposalizio Selargino, 44° edizione, domenica 12 settembre 2004

Associazione Turistica Pro Loco Selargius, Comune di Selargius, L’Antico Sposalizio Selargino, 45° edizione, domenica 11 settembre 2005

Associazione Turistica Pro Loco Selargius, Comune di Selargius, L’Antico Sposalizio Selargino, 46° edizione, domenica 10 settembre 2006

Mascia Rossana, a.s. 1998/99, 5°D, Antico Sposalizio Selargino, tesina per il diploma di scuola superiore dell’istituto “Domenico Alberto Azuni”

Orrù Gianni, 1984 Aspetti di vita e cultura selargina, dattiloscritto, Biblioteca comunale di Selargius; 2003 Antico Sposalizio Selargino, relazione presentata al convegno sulle tradizioni nuziali, organizzata a Selargius nel contesto delle iniziative per l’edizione 2003 del Matrimonio Selargino

Salis Efisio, lettera indirizzata “All’egregio Signor Sindaco del Comune di Selargius”, riportante la data 02.07.1981, manoscritto

Sardu Salvatore, s.a. Antico Matrimonio Selargino, Sarfilm, Selargius (CA), VHS

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201

This work is intended to propose an ethnographic reading of the

modes of production and construction of a local tradition and identity

in the frame of historical and social processes of wider significance

put into effect in a hinterland area of the chief town, i.e. regional

capital, of Sardinia through the organization of a folkloric display

concerning the local wedding customs.

Folkloric marriages are a still unexplored Sardinian cultural

phenomenon of which a first general contextualization is provided.

The revival of the Sardinian tradition connected with wedding

customs staged in folkloric display such as “L’Antico Sposalizio

Selargino – Sa coja antiga cerexina”, as well as in some other similar

shows present in other villages of the island seems to be a

particularly interesting subject-matter of studies in order to verify on

the spot the prevailing themes of the anthropological research on

contemporaneousness: tradition, identity, tourism.

Field research dwells in a prevailing way upon just one of these

“weddings in the Sardinian style”, through which are shown the

production modes of tradition connected with the construction of a

local sense of belonging, which are in turn linked with intellectual,

political, social and economical processes of wider significance. This

study aims at analyzing on the one hand the ways of construction of

a community sense of belonging and, on the other hand, the

sequence of events and effects that such construction puts into

effect.