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associazione culturale Larici – http://www.larici.it Francis Conte Il cammino verso l’«altro mondo» nella visione tradizionale dei contadini dell’Europa centrale e orientale Le chemin vers «l’autre monde» dans la vision traditionnelle des paysans d’Europe centrale et orientale 1997 a a In AA.VV., Vieux-croyants et sectes russes du XVIIe siecle a nos jours, numero monografico di “Revue des tudes slaves”, 1997, pp. 281-297. Traduzione dal francese: © associazione culturale Larici, 2012. Le 84 note dell’Autore, prevalentemente bibliografiche, sono a fine documento e tradotte solo nelle parti che precisano il testo. Le illustrazioni raffigurano due opere citate: a sinistra, Hieronymus Bosch, Ascesa all’Empireo, 1490 ca., particolare (Palazzo Grimani, Venezia); a destra, Giudizio universale, affresco del XV secolo nella chiesa di Santa Maria del Piano a Loreto Aprutino. 1

Il cammino verso l’«altro mondo» nella visione ... · Il primo, coincidente con il testo citato, ... Nel secolo scorso, si evitava di attraversare la stalla e/o di passare per

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Francis Conte

Il cammino verso l’«altro mondo» nella visione tradizionale dei

contadini dell’Europa centrale e orientale

Le chemin vers «l’autre monde» dans la vision traditionnelle des paysans d’Europe centrale et orientale

1997a

a In AA.VV., Vieux-croyants et sectes russes du XVIIe siecle a nos jours, numero monografico di “Revue des etudes slaves”, 1997, pp. 281-297. Traduzione dal francese: © associazione culturale Larici, 2012. Le 84 note dell’Autore, prevalentemente bibliografiche, sono a fine documento e tradotte solo nelle parti che precisano il testo. Le illustrazioni raffigurano due opere citate: a sinistra, Hieronymus Bosch, Ascesa all’Empireo, 1490 ca., particolare (Palazzo Grimani, Venezia); a destra, Giudizio universale, affresco del XV secolo nella chiesa di Santa Maria del Piano a Loreto Aprutino.

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Nel 1880, il rivoluzionario Lev Tichomirov raccontava che, a un suo amico, un cosacco ucraino aveva chiesto molto seriamente:

«Abbiate la bontà di dirmi se siete mai andato nell’altro mondo?» Il mio amico si offese per la domanda: la prese per una beffa e un’allusione alla mancanza di fede dell’ascoltatore nelle sue narrazioni. L’interrogativo del cosacco era però più serio. Uno degli abitanti del suo villaggio, di ritorno da un pellegrinaggio, aveva raccontato che, cammin facendo, era salito in cielo dove i defunti del villaggio lo avevano pregato di salutare, a nome loro, i parenti. Poi egli partì, e questa volta direttamente per il cielo, carico di rozzi regali e di soldi, che i creduli cosacchi gli avevano dato perche li portasse ai loro parenti defunti. Era dunque naturale che il cosacco desiderasse sapere dal mio amico, giudicandolo uomo esperto, se le vie di comunicazione tra la terra e l’altro mondo fossero praticabili (1).

Il viaggio evocato in queste righe fa parte di un tema millenario che esiste nell’immaginario di un gran numero di civiltà (2). Appare infatti sotto forma di due schemi ben distinti. Il primo, coincidente con il testo citato, costituisce un vero e proprio genere della letteratura popolare in Russia, derivato in gran parte dai Vangeli apocrifi. Si tratta di un percorso eccezionale che corrisponde allo spostamento dell’anima verso l’aldilà, mentre il corpo rimane in un sonno letargico (obmiranie). Dopo qualche tempo (spesso molto limitato), l’anima ritorna sulla terra e la persona racconta le sue peregrinazioni, o almeno una parte perche, di solito, non è autorizzato a rivelarlo interamente (3).

All’opposto di questo soggiorno momentaneo nell’altro mondo si situa il viaggio che è imposto dalla morte. Lo si trova nel Vangelo secondo Giovanni (14, 4-5), quando Cristo dice ai suoi discepoli:

«[…] E del luogo dove io vado, conoscete la via». Gli disse Tommaso: «Signore, non sappiamo dove vai; come possiamo conoscere la via?».

Misterioso per i vivi, questo percorso è articolato in tre segmenti. Il primo è terreno, reale e visibile: nell’ambiente cristiano, il morto viene trasportato dai vivi dalla casa alla chiesa, poi al cimitero e alla tomba. Il secondo segmento corrisponde al sentiero pericoloso che il defunto compie dal momento della sepoltura, scavata allo scopo, e che gli apre in qualche modo la porta dell’aldilà (4). Tale seconda parte del viaggio non è collegata ai vivi, se non attraverso le loro rappresentazioni dell’altro mondo. Ai loro occhi, il morto si trova liberato da se stesso, ma con il compito molto concreto di affrontare gli ostacoli che gli si ergeranno davanti. Quanto al terzo segmento, esso si svolge in senso inverso, allorquando il defunto, passato dallo stato di cadavere a quello di antenato, ritorna sulla terra. Gli è infatti possibile discendervi, su invito della propria famiglia, un anno dopo la sua

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morte, poi regolarmente, in alcuni precisi momenti dell’anno, prima che i familiari non lo inducano a ripartire verso il soggiorno degli avi (quest’ultimo punto è oggetto di un altro studio).

Fra i documenti che permettono di ricostruire l’itinerario del «grande viaggio» e le difficoltà del percorso, troviamo testimonianze, racconti popolari e indagini etnografiche. In particolare, disponiamo delle lamentazioni funebri (soprattutto della Russia del Nord), che per la maggior parte sono state raccolte a partire dal secondo terzo del XIX secolo (5). Questi pianti rituali sono per lo più invocazioni che rientrano nell’ambito di un sistema di rappresentazioni, in cui il cristianesimo ortodosso si mescola parzialmente al paganesimo antico, e che danno un’idea della morte e dei suoi imprevisti.

Nonostante la loro evoluzione, queste immagini complesse offrono una certa coerenza, che si può individuare, almeno in parte, nella stretta corrispondenza che esiste tra riti funebri e lamentazioni. Di fatto, esse ci mostrano che il «grande viaggio» è nettamente materializzato: si verifica in direzione di un altro spazio, qualitativamente differente perche oppone il mondo di quaggiù a quello dell’oltretomba (6).

I. Il cammino terreno verso la tomba

Due atteggiamenti in apparenza contraddittori dettano il comportamento dei contadini russi e ucraini che accompagnano i morti al cimitero. Il primo è evidente nella regione di Kostroma: consiste nel compiere il percorso senza fermarsi («altrimenti ci sarebbe di nuovo una morte nel villaggio» (7)) e senza nemmeno voltarsi indietro – temi che sono ricorrenti anche nei racconti popolari.

Il secondo atteggiamento consiste, al contrario, nel marcare dei tempi di fermata che ritmano il passaggio del defunto dall’interno verso l’esterno, dalla vita alla morte, dal noto all’ignoto. La prima interruzione ha luogo all’uscita dalla casa, sulla soglia, dove si battono tre brevi colpi, presunto simbolo dell’addio del morto alla propria abitazione. Come spiega un contadino dell’Ucraina subcarpazia:

Quando si trasporta la bara dalla casa, la si fa colpire la soglia. Quando esco di casa, dico arrivederci; quando me ne vado lontano e per molto tempo, abbraccio con forza coloro che restano, ma il defunto, lui, non può fare nulla: ecco perche si colpisce la soglia (8).

Anche in Bucovina si batte tre volte la bara contro la porta d’ingresso prima di portare via il defunto: il numero dispari segna in modo simbolico il mutamento di situazione (la partenza), al contrario del numero pari (che esprime stabilità e permanenza). In altri regioni, la bara è messa direttamente a contatto con la soglia di ogni casa davanti alla quale passa il corteo funebre. Anche qui viene spiegato che si tratta di permettere al morto di dire addio ai familiari e a tutti coloro che partecipano al suo funerale (9). In Bielorussia, è l’angolo della casa che si colpisce, prima di

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portare la bara nell’ingresso, sulla soglia e sotto il portico, al fine di «espellere l’anima» dal corpo (10).

A volte, prevale la paura di un ritorno improvviso del morto, a maggior ragione se è sospettato di stregoneria o di desiderio di vendetta. In questo caso, bisogna coprirne le tracce per confondere la sua memoria. Invece di spostare la bara attraverso la porta, la si fa passare dalla finestra, o ancora attraverso un buco scavato nel muro o nel soffitto. L’antichità di tale tradizione è attestata dalla Cronaca degli anni passati, che descrive il modo in cui si fece uscire il corpo del principe Vladimir dalla casa dove era morto (1015): «Il principe Vladimir spirò a Berestovo […]. Di notte si aprì un varco nell’andito, lo avvolsero in un tappeto e lo calarono con delle funi»b (11). La precisione quasi etnografica della descrizione mostra che per il principe si rispettarono alcune usanze che tradiscono la loro origine precristiana: era necessario rimuovere il cadavere trascinandolo attraverso un’apertura praticata per questo scopo e chiuderla in fretta. La morte non doveva uscire dalla porta – quella che egli aveva conosciuto in vita e di cui si ricordava; si doveva ingannare la sua attenzione creando in passaggio inaspettato e che doveva servire una volta sola. Apparentemente, l’obiettivo era quello di impedire che il defunto trovasse le proprie impronte e tornasse a tormentare i vivi.

Nel secolo scorso, si evitava di attraversare la stalla e/o di passare per il portone del recinto. Si sceglieva piuttosto di far passare la bara attraverso una breccia della palizzata. Per lo stesso motivo, spesso il tragitto verso il cimitero si effettuava facendo una deviazione, mentre il ritorno si compiva direttamente (12).

In epoca antica, esistevano altri modi di trasferire il defunto dal luogo dove era stato vegliato fino al cimitero. Uno di essi copre una dozzina di secoli, dalle origine del primo Stato kievano fino alla fine del secolo scorso. Secondo la Cronaca degli anni passati, il principe Vladimir fu «deposto sulla slitta, lo trasportarono e lo misero nella chiesa della Santa Madre di Dio, che egli stesso aveva fatto costruire» (13). È ancora su una slitta che furono trasportati i corpi dei principi Boris e Gleb (assassinati per ordine del loro fratello Svjatopolk): la prima volta dopo la loro morte, la seconda durante il trasferimento delle loro reliquie a Vysgorod, sotto il regno di Vladimir Monomaco (1113-1125). Lo stesso accadde per la maggior parte dei principi cristiani di Kiev (14). Questa usanza era eminentemente rituale, dato che si praticava sia d’estate che d’inverno, anche se il cimitero si trovava nelle vicinanze. Il costume era sintomatico al punto che la frase «essere seduto su una slitta» significava a quell’epoca «prepararsi a morire» (15). È in tal senso che Vladimir Monomaco utilizza questa metafora nelle Istruzioni che scrisse per i suoi figli (16).

Si sa che nel XIV secolo l’usanza fu rispettata durante i funerali del metropolita Pëtr (17) e che si continuò a fabbricare le slitte funebri fino all’inizio del XVIII secolo, quando Pietro il Grande le vietò ufficialmente.

b La traduzione completa della Cronaca degli anni passati è in http://www.larici.it. (N.d.T.)

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Esse erano riccamente ornate e servivano a trasportare il corpo dello zar defunto, ma anche quello dei suoi familiari e degli alti prelati (18). Nella remota regione di Olonec, la tradizione è continuata fino al secolo scorso, in estate come in inverno (19). In alcune parti dell’Ucraina (20), il defunto era portato al cimitero su un carro o su una slitta che era «obbligatoriamente tirata da buoi» (21).

Infatti, in Ucraina il bue era considerato l’animale «più puro» (22) (senza dubbio perche è ai lati di Gesù nella greppia), mentre il cavallo era tra gli animali immondi e si riteneva pericoloso fargli trasportare un defunto. In Russia, nei villaggi della regione di Vologda, ma anche presso tutti i popoli del Nord dell’impero, la slitta veniva ribaltata sulla tomba, dopo aver compiuto il suo compito, e poi abbandonata là o al confine del villaggio (23)

(come si faceva per tutti gli altri mezzi di trasporto, come il carro). È quindi all’interno del viaggio «reale» che inizia il viaggio mitico, la vera partenza per il paese degli antenati.

Talvolta, invece di decidersi a partire, l’anima esita, il che spiega i turbamenti dei parenti, attanagliati tra due atteggiamenti (24). Per ciò, occorre costruire per loro una sepoltura, che è in senso stretto l’«ultima dimora» del defunto: essa deve essere sufficientemente confortevole, affinche quest’ultimo non abbia paura e quindi non cerchi di fuggire:

Non aver paura, cigno bianco,Della piccola umida tomba,Della nostra madre la terra immensa,Della sabbia gialla e fine. Devi viverci e ti abitueraiNei lunghi secoli a venire (25).

Tuttavia, se il corpo rimane nella terra sotto forma di cadavere, l’anima deve allontanarsene, quale che sia la sua apparenza materiale. Quindi si deve spesso lusingarla, convincerla che il viaggio è inevitabile, perche lo prescrive la nuova situazione in cui essa si trova. Infatti, la via da percorrere rappresenta un cammino iniziatico, paragonabile a quello che compie il giovane principe delle leggende, che ha il compito di passare al di là di sette mari e della foresta selvaggia per attraversare il mondo sotterraneo, per poi ritornare al fine di diventare adulto.

II. Il cammino verso l’aldila

Il proverbio russo risulta più positivo del Vangelo secondo Giovanni quando dice: «Per andare all’altro mondo, ovunque ci si trovi, non c’è che una via» (26). Questa è, ovviamente, il tragitto che apre la morte, l’unica cosa certa nella vita. Eppure ogni morte non si somiglia, neppure ogni defunto, il che spiega in parte i diversi modi del passaggio verso l’aldilà, una molteplicità dovuta al fatto che la religiosità popolare non conosceva, evidentemente, alcuna regola canonica.

«Fare il gran salto» può consistere in una semplice ascesa lungo

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l’arcobaleno (27) o la Via Lattea (appunto detta in russo «la via dei morti che vanno verso il riposo eterno») o, al contrario, in una dolorosa peregrinazione. Lo schema si complica se si tiene presente che, in certe rappresentazioni popolari, l’anima può essere obbligata a compiere degli avanti e indietro tra terra e cielo, prima di essere ammessa nell’aldilà. Difatti, i primi due viaggi si situano talvolta immediatamente dopo la morte e poi al termine dei quaranta giorni; gli altri «trasferimenti» variano in funzione della bontà del morto. Se si tratta di un giusto, egli ritornerà sulla terra a intervalli regolari, soprattutto durante le commemorazioni che gli preparano quaggiù i parenti attenti. Invece, un morto «insoddisfatto» vagherà sulla terra fino all’esaurimento della forza vitale che è in lui, prima di poter partire per l’altro mondo (28).

La prima categoria di defunti è composta da coloro che hanno conosciuto una morte ratificata dai riti tradizionali dei funerali e hanno ogni possibilità di diventare degli antenati. Come affermava un contadino della regione di Vladimir raccontando la sua versione dell’insieme dei percorsi:

Non appena una persona muore […] la sua anima si presenta a Dio. In seguito, gli angeli la conducono sulla terra e gli mostrano per sei settimane dove essa ha agito in bene e dove ha fatto del male. Successivamente, la si riporta a Dio affinche sia giudicata. Quando il giudizio è terminato, se essa è l’anima di un giusto, la si conduce in un buon posto e le si domanda di restarvi fino al Giudizio universale, quando arriverà la fine del mondo. Non la si lascia andare da nessun’altra parte. Dopo il Giudizio universale, essa vivrà ancora meglio. Al contrario, se essa ha vissuto male sulla terra, se non si è pentita e se non è stata perdonata, la si mette all’inferno dove i diavoli la tortureranno un po’ fino al Giudizio universale, e più ancora dopo (29).

Per sapere com’era il viaggio, dobbiamo ora ritornare alle lamentazioni funebri. La descrizione del cammino comincia con una serie di domande che vengono poste alla persona deceduta per sapere dove essa va e in quali condizioni:

Mia colomba, mia sorella,dove vai così agghindata?Dove ti degni di fermarti?Per quale cammino e quale via,Verso quali ospiti sconosciuti,Sconosciuti e indesiderati? (30)

Infatti, prima della sua partenza, i familiari si preoccupano, tanto sulla sua destinazione che sulle ragioni concrete che l’hanno spinta a partire (perche l’opera della Morte è tabù e non la si può evocare direttamente):

Dove stai andando? Per andare dove?Ti sei preparataPer il duro lavoroo per una gioiosa passeggiata? (31)

oppure:

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…per una messa piao per i mattutini domenicali? (32)

Per sgomberare l’insolito e il fantastico che accompagna la morte, le prefiche iniziano con l’evocare un destinazione abituale ai vivi. Le occupazioni di quaggiù sono menzionate come se il defunto facesse ancora parte della famiglia e del villaggio, con le sue occupazioni e i suoi lavori quotidiani. Più raramente si parla di una lunga assenza, paragonata a quella del barcaiolo, obbligato a partire per impiegarsi lontano (33).

Soltanto più tardi, la grande partenza è evocata, quella che deve condurre i morti verso l’altro mondo, ma in modo tale che ricordi ancora la vita quotidiana. Quando il decesso si verifica in inverno, si ritiene che la strada sia più difficile, e il freddo tanto più da temere se il defunto è freddoloso. Quando egli muore al calar della notte, gli viene chiesto di ritardare la partenza, perche viaggiare di notte è particolarmente penoso e nessuno gli potrà dare ospitalità (34).

Nella misura in cui il passaggio verso l’aldilà è spesso rappresentato come un tunnel pieno di oscurità, la luce è un fattore determinante (35). È per questo che, nell’immaginario popolare, le candele che si accendono per vegliare i morti hanno un utilità molto concreta: rischiarano il cammino verso l’altro mondo, ma devono essere spente subito dopo la cerimonia funebre. Un racconto registrato recentemente nel Poles’e indica che l’anima, attraversando una palude prima di giungere nel regno dei morti, rischia di sbagliare strada se dopo il funerale i famigliari accendono una luce in casa.

Quando il morto è definitivamente pronto ad allontanarsi, quaranta giorni dopo il decesso, una delle interrogazioni rituali cerca di sapere come egli raggiungerà l’altro mondo, con quale mezzo (a piedi o a cavallo, in slitta o in telega), in che modo attraverserà il fiume che separa i due mondi (guadando, passando su un ponte o utilizzando un’imbarcazione).

A causa della distanza, è spesso evocato il cavallo e allora la prefica descrive nei particolari il messaggero «con i finimenti dorati e i ferri d’argento», la «slitta coi pattini di quercia» e la «dugac variopinta», che sta «portando il caro parente defunto molto lontano dalla sua casa natale» (36). Se il defunto parte a piedi, diventa un elemento attivo della scena, come se decidesse lui stesso di compiere il viaggio, e la prefica sottolinea ancor più l’importanza degli ostacoli da superare e la lunghezza del percorso che lo condurrà a ritrovare gli antenati:

Così stai partendo, bambino mio caro,Stai partendo per strade e cammini,Tra foreste tenebrose, Paludi che divorano,Torrenti che precipitano,

c La dugá è l’arco, fissato al collare, che sovrasta il cavallo da tiro e alle cui estremità sono legate le stanghe del carro. (N.d.T.)

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Tu andrai per sentieri stretti […]Prima, bambino mio caro, Di ritrovare i miei familiari (37).

I parenti augurano al defunto di vederlo «vivere la sua vita», nel senso che egli diventi davvero un messaggero tra i due mondi. Agli avi che gli vanno incontro nei cieli, è lui stesso a offrire informazioni sulla vita di quaggiù; è ancora lui che, venuto il tempo, rivelerà sulla terra le notizie del regno dei morti e che porterà con se la fonte delle ricchezze.

All’inizio, una caratteristica essenziale dell’evoluzione del defunto è quella di essere invisibile; non si sente che la traccia della sua scomparsa e il movimento che l’allontana dai vivi:

Come il sole che scompare dietro la nube,È così, bambino mio, che ti nascondi da noi!Come la luna che pallida si allontana al primo mattino,Come la stella si eclissa nel cielo,Egli è volato via, mio povero piccolo cigno,Verso un’altra dimora che io non conosco (38).

Infatti, anche le sue tracce scompaiono in questo passaggio dalla vita alla morte; esse saranno invase

Dalle erbe setose,Dai fiori azzurri. E il gelido inverno,Sotto le nevi farinose,Le ricoprirà, sotto cumuli profondi (39).

Per i «giusti», l’ascesa è prevista in numerosi modi, che all’inizio dipendono dalle metamorfosi dell’anima. Nelle credenze del popolo russo, questa può assumere la forma di una farfalla, di vapore o di una nuvola. Se sarà un uccello, volerà in cielo in modo sicuro; se sarà un’ombra che ricalca il corpo del defunto, sperimenterà tutte le sensazioni che erano le sue – la fame e il freddo, la paura, il desiderio e il dubbio.

Nelle lamentazioni che evocano il passaggio verso l’aldilà figurano le barriere che si frapporranno alla strada del viaggiatore: la foresta impenetrabile come quella nei racconti meravigliosi e nelle storie fantastiche; l’acqua e suoi derivati, come il fiume, il lago o il mare; infine le grandi pareti ripide, ossia rocce, burroni e montagne. Questi sono tutti quegli ostacoli che creano e formano lo spazio che raffigura il «cammino» verso l’altro mondo; questi sono quelli che lo strutturano e che costituiscono le prime immagini che i vivi hanno dell’altro mondo, della sua lontananza e dei pericoli che rappresenta:

È scomparso il nostro caro zio, nostro carissimo, oltre le foreste oscure, impenetrabili, dietro le imponenti montagne, al di là dei mari blu e profondi… (40).

Per confortare il defunto, si prevede un aiuto materiale, consistente in

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una serie di strumenti giudicati indispensabili per liberare il percorso disseminato di ostacoli che separa i due mondi.

II.1 L’acqua, il fiume e i suoi simboli

All’origine del fiume o del guado c’è una rappresentazione comune alla maggior parte delle mitologie, quella della morte come passaggio attraverso l’elemento liquido (41). Nei racconti fantastici, il fiume rappresenta l’ostacolo decisivo che occorre superare per arrivare all’aldilà (42); esso incarna il confine magico che separa la vita terrena da una nuova esistenza nell’altro mondo (43).

Questo specifico spazio può presentarsi sotto forma di una valle di lacrime (44) o di un «lago immenso, intransitabile da ogni parte» (45), due concetti molto vicini. Può anche trattarsi del «fiume dell’oblio» (Zabyt’-reka, reka Zabvenija – lo Stige degli antichi).

In un testo registrato nel 1930, una giovane vedova si rivolge all’anima del marito, che sta partendo per l’altro mondo alla fine dei quaranta giorni di vagabondaggio. Per dirgli addio, la donna esce in strada, a mezzanotte, accompagnata dagli amici del defunto, che portano un’icona, della kut’jad e dei dolci. Ella gli dice nelle ultime frasi:

Non andare fino al fiume dell’oblio,Non bere l’acqua dell’oblio.Ti dimenticherai altrimenti, anima cara,Il tuo paese natale,Ti dimenticherai me, me infelice,E dimenticherai i nostri poveri piccoli (46).

Quando per il defunto arriva il tempo di bere quest’acqua, egli prosegue la sua marcia senza essere tentato di tornare indietro, proprio perche ha dimenticato il mondo terreno. Solo in quel momento i morti possono attraversare il fiume dell’oblio o esservi inghiottiti. Tuttavia, guai al vivo che volesse attraversalo, o tentasse di allontanare da se la sua sofferenza (47): la mitologia antica lo raccontava già molto bene.

II.2 La barca

In numerose culture, che vanno dall’antico Egitto alla Scandinavia, si ha cura di dare alla bara la forma di uno scafo (48). Questa tradizione si trova nella Russia del Nord sotto il termine koloda. Si tratta di una «barca-sepoltura», scavata direttamente in un albero, a immagine della barca monoxila deli Slavi barbari o della piroga africana.

Alla fine del XIX secolo, nel governatorato di Olonec, il termine russo koloda (dal verbo kolot’, fendere) (49) designa anche «una bara scavata in un

d La kut’ja è un piatto rituale di riso o grano cotto con uva passa e miele, che si prepara per commemorare i defunti e in altre ricorrenze. (N.d.T.)

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albero intero» preparata per un giovane defunto. Il tronco è «spaccato in due nel senso della lunghezza: una metà è interrata per accogliere il corpo del giovane deceduto, mentre l’altra serve da coperchio» (50).

Nell’Europa orientale del X secolo, era in un’imbarcazione che venivano sepolti i capi «russi» (slavo-scandinavi?), perche la «barca dei morti» era un’usanza importante persino nelle civiltà antiche. Come aveva osservato nel 922 il viaggiatore arabo Ibn Fadlan che descrisse il funerale di uno dei capi (51):

Quando venne il giorno in cui si doveva bruciare il capo e la giovane ragazza [la schiava che doveva accompagnarlo nella morte], mi recai al fiume dov’era la sua barca: la si era già tirata a riva e l’avevano messa su quattro supporti di legno, attorno ai quali si erano erette delle specie di grandi cataste […]. [Dopo la cerimonia funebre] il parente più prossimo del defunto prese un bastone e lo mise sul fuoco […]. Il fuoco prese il legno, poi la barca con il capanno, l’uomo, la ragazza e tutto ciò che vi si trovava (52).

L’unione di acqua (la barca) e fuoco è perfettamente in relazione con il tema del fiume di fuoco – uno degli ostacoli che il defunto può essere indotto a superare (lo vedremo più avanti). Fino ad anni recenti, il tema della barca era raffigurato nelle lamentazioni della Russia del Nord (regione di Vologda). In esse, per esempio, una madre «sistema» il figlio in una imbarcazione per fargli passare il fiume dell’oblio (53). Nei villaggi bielorussi, i bambini giocavano a lungo «agli antenati» durante le grandi piene di primavera: essi posavano sull’acqua tumultuosa delle «barche-trucioli» destinate al nonno o alla nonna da poco scomparsi. È questo un gioco che ha, in tutta evidenza, un significato profondo, ossia quello dell’acqua pericolosa, dell’acqua che occorre attraversare per raggiungere l’aldilà, e dei mezzi che lo permettono (54).

II.3 Il ponte

Il simbolo del ponte che consente di passare da una riva all’altra è il fondamento di numerose mitologie. Il ponte non è pure, con altro scopo, un luogo di mediazione? Conduce da una riva all’altra, ma è anche sospeso tra il cielo e l’acqua; non si limita a unire, rappresenta anche il passaggio a un’altra forma di esistenza. In un contesto funebre, il fatto di «passare il ponte» rappresenta il tragitto percorso tra la terra e il cielo, tra la condizione umana e l’esistenza eterna, tra il mondo sensibile e l’universo sovrasensibile. Troviamo questo simbolo sia in Cina che nei paesi islamici, o nei racconti indiani dell’America del Nord (55).

Accanto a questo elemento simbolico si presenta un altro aspetto: il carattere pericoloso del passaggio, che è quello di ogni viaggio iniziatico segnato da una serie di prove. Il transito evoca un pericolo da superare, ma anche la necessità di un passo per attraversarlo (56). Lo si trova rappresentato, per esempio, a Loreto nella chiesa di Santa Maria in Piano, in un affresco anonimo della seconda metà del XIII secolo, che raffigura il

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«ponte stretto», ossia la prova dell’ultimo passaggio prima di raggiungere il soggiorno beatifico (57).

Nei racconti russi, il ponte è di ghiaccio o di cristallo per dimostrare che appartiene al mondo dell’oltretomba: Elena la Bella, la principessa che viene dal mondo dei morti, «soffiò e un ponte di cristallo si levò, cavalcando l’onda fino al palazzo dello zar…» (58). In alcune culture dell’Europa centrale e orientale, ci si liberava del «debito del ponte»: in Romania, per esempio, nel corso delle sei o nove settimane che seguivano la sepoltura, si costruivano dei ponti simbolici che servivano da «modello» per quelli dell’aldilà. Superando il «loro» ponte, i familiari di un defunto dicevano: «Che Dio [lo] perdoni» (59). Fino a un’epoca recente, riferiscono degli etnografi di origine rumena:

Il ponte appare là dove il bisogno si fa sentire, quando l’anima arriva vicino a un precipizio, a un dirupo, al letto di un torrente o di un fiume. Ma non è possibile da imboccare se non è stato espressamente offerto per quella determinata anima, sia che il defunto l’abbia fatto in vita, sia che i suoi familiari abbiano pensato a lui dopo il decesso (60).

La stessa usanza era frequente in Bielorussia: vi si faceva ricorso, in particolare, vicino alle sepolture che non erano ornate di croci, ma di pietre. Erano probabilmente tombe in cui erano sepolte le donne «impure», cioè quelle considerate delle streghe e quelle che si erano suicidate:

Le tombe di [queste] donne sono segnate da piccoli tumuli […]; in più vi si aggiunge una costruzione molto particolare: da qualche parte, vicino alla strada, in una zona paludosa o sopra un ruscello […], si getta una trave o un’asse su cui si incide una croce, una scarpa o un falcetto, e talvolta l’anno di morte (61).

Sempre in Bielorussia, si costruivano dei veri ponti durante le epidemie che colpivano i bambini. I Ciuvasci, che nel XIX secolo vivevano nella regione di Nižnij Novgorod, effettuavano un rituale simile subito dopo la morte di un parente. Tutti i familiari passavano sul ponte per controllare che resistesse, poi cominciavano a bere birra, a battere le mani e a suonare, prima di indirizzarsi al defunto dicendogli: «Vieni, vieni, ti si è fatto un ponte molto solido». E solo dopo si interrava il defunto (62).

In Russia, questi ponti sono evocati nelle lamentazioni funebri, ma anche nei canti dell’Anno Nuovo. I cantanti mascherati (perche vogliono rappresentare gli antenati defunti) passano in ogni fattoria, invitando il padrone di casa a seguirli «Vieni con noi nella notte nera», «Vieni a impastare l’argilla», in altre parole lo pregano di andare con loro al confine dell’aldilà per preparare un ponte per l’anima dei morti (63).

Poiche la rappresentazione di questi «ponti funebri» era severamente proibita dalla Chiesa russa, alla fine del XIX secolo non si trovano altro che deboli tracce. Una di esse era direttamente legata all’acqua e al ponte simbolico già ricordati parlando del gioco dei bambini. Si trattava di prendere un truciolo andando a bagnarsi, con la convinzione che il truciolo si sarebbe trasformato in un ponte dopo la morte (regione di Smolensk) (64).

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A volte si immaginava che fosse possibile guadare il fiume, come dimostrano alcune recenti narrazioni del Poles’e (65). Il guado (brod) è inoltre legato all’idea delle forze impure, come indicano alcuni popolari nomi derivati – brodnik in russo (lo stregone) o brodnica in bulgaro (una rusalka errante) (66).

Ora si capisce più concretamente perche il passaggio per l’aldilà è temibile: è l’immagine dei tormenti dell’agonia, dove il diavolo disputa con l’angelo l’anima del defunto su un ponte stretto e viscido, sul quale il defunto rischia di scivolare nel vuoto o nella pece bollente.

II.4 Il fiume di fuoco

Nella cultura tradizionale, l’acqua e il fuoco sono due elementi strettamente connessi perche sono, allo stesso tempo, opposti e complementari. Nel racconto L’acqua della vita e l’acqua della morte, la lacrima della giovane minacciata dal drago cade sulla guancia dello zarevič Ivan, che si sveglia dicendo: «Oh, mi hai scottato!» (67).

Il fuoco rappresenta anche un intermediario tra l’uomo e la divinità, come lo precisa il «russo» che diceva a Ibn Fadlan (il citato testimone arabo del X secolo che aveva visto bruciare il corpo di un capo «russo»):

«Il più amato e il più rispettato dei vostri uomini, voi lo lasciate decomporsi, e gli insetti e i vermi lo divorano, mentre noi, noi lo bruciamo in un istante in modo che entri senza indugio in paradiso» (68).

Sapendo che, prima di ciò, il corpo del defunto era stato messo su una barca, si rafforza l’idea di complementarità tra acqua e fuoco, un tema magnificato dal fiume di fuoco (ognennaja reka) (69).

II.5 Scale e funi

Tra i maggiori ostacoli che affliggono il defunto figurano anche le montagne e le pareti scoscese. Ciò perche i contadini della Russia meridionale avevano l’usanza di preparare delle scale con la pasta (lesenki), che essi cuocevano nel forno durante le commemorazioni rituali. Si tratta di un simbolo materializzato che si trova nell’antico Egitto, dove si figurano numerose forme di passaggio verso l’aldilà. Se il corpo dei faraoni deceduti resta nelle piramidi,

la loro anima, che conosce le vie sacre che conducono in paradiso, rimarrà vicino agli dèi, a volte salendo una scala che si poggia sull’orizzonte, a volte attraversando un fiume su una barca guidata dal cupo Caronte, a volte si svaporano o si elevano in aria sulle ali di Thot, il sacro Ibis (70).

Nelle terre russe, tali scale sono state descritte con precisione: esse comprendono molti scalini (da 3 a 24) e possono raggiungere un aršin (0,71 metri). Il rituale si pratica in due date – all’Ascensione di Cristo, quaranta

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giorni dopo la Pasqua, e il quarantesimo giorno dopo la morte del defunto, quando l’anima è presumibilmente partita definitivamente per l’aldilà (71). Il parallelismo tra i due avvenimenti è evidente, e lo scopo identico. Per l’Ascensione, il rituale si svolge in chiesa, nella foresta o nei campi. L’idea è, da una parte, quella di aiutare il Signore, cui ci si rivolge dicendo: «Cristo, sali al cielo, prendi la mia scala!» e, dall’altra, di ottenere dei buoni raccolti. In virtù del fenomeno di magia simpatica e con l’idea che i cereali comincino a spuntare quel giorno, si lancia la scala in aria, dicendo: «Segale, piccola segale, cresci più in alto di questa» o anche con più audacia: «Segale, piccola segale, afferra le gambe di Cristo!» Si può inoltre indirizzarsi direttamente a Lui dicendo: «Signore, levati in volo verso il cielo e tira la nostra segale per le spighe» (72).

L’importanza del rituale agrario, o meglio la «deviazione» verso il rito agrario, è ben sottolineata in una testimonianza che risale agli inizi del secolo (regione di Vladimir):

Per l’Ascensione, si fanno cuocere le scale. Esse sono dei dolci di farine diverse, di forma allungata, di venti centimetri di lunghezza e sei o sette di larghezza, con degli intagli sulla parte superiore per raffigurare la scala. Dopo il riposo del pomeriggio, i contadini, gli uomini, le donne e i giovani, li portano nei loro campi di segale. Là, ognuno guadagna il proprio lotto di terra; dopo essersi inchinato ai quattro angoli, getta la scala in aria ripetendo: «Che la mia segale salga più in alto!» Poi si mangiano le scale (73).

Analogamente, si gettano delle uova in aria prima di saltare più in alto possibile, al fine di stimolare la crescita dei cereali.

Quando il rituale dell’Ascensione si svolge in casa, esso ricorda quello osservato dopo la morte di un parente: una volta cotta, la scala è posta sulla tavola, o nell’angolo delle icone, o anche sospesa vicino alle icone, per metterla a disposizione delle anime che vengono a riposarsi prima della loro partenza per l’aldilà.

I genitori spesso posizionano delle funi vicino alle sepolture o sugli alberi intorno, sempre per aiutare i loro defunti a issarsi nell’altro mondo (74). Inoltre, nella Russia nord-occidentale, il cadavere è spesso cinto con un filo di lana rossa, con cui si avvolge anche la bara diverse volte (75) (è questo l’unico caso in cui il rosso è consentito durante il lutto).

II.6 Alberi e unghie

Nell’Europa orientale, l’albero è legato in molti modi al culto dei morti. Lo è dapprima marginalmente, come abbiamo visto in epoca pagana quando i defunti più autorevoli erano posti in una «barca-sepoltura» scavata in un tronco d’albero.

L’albero è anche legato al defunto in quanto rappresenta un intermediario tra il cielo e la terra: infatti le anime dei morti (le «anime-uccelli») si posano sui suoi rami prima di ascendere al cielo, oppure quando ne ritornano. D’altra parte, l’albero spinge talmente lontano «la sua cima fra le nuvole»

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(soprattutto la quercia) che incarna materialmente il legame tra cielo e terra. Questo è il motivo per cui il defunto può salire in cielo scalando un albero, come l’eroe del racconto che «prese un sacco e si arrampicò sulla quercia. Sempre salendo, mise infine piede in cielo» (76).

Vi troviamo una concezione molto diffusa dell’albero della vita che collega i due mondi, a volte anche tre: l’albero affonda infatti le sue radici nel regno sotterraneo, cresce sulla terra, e distribuisce i suoi rami in cielo. Questa idea è particolarmente importante nella mitologia degli sciamani, il che spiega perche molti popoli siberiani designano la quercia con un nome che significa letteralmente «il cammino» (77). Capiamo meglio anche perche gli alberi sono a volte piantati sulle tombe, nell’Europa centrale e orientale, e perche vi si appendono delle funi (78).

Dato che il contadino sa che il percorso sarà irto di pietre, rocce e montagne (tra le quali figura la montagna di cristallo), si è soliti collocare degli oggetti adunchi nelle tombe, che possono essere ganci di ferro o semplicemente unghie, affinche il defunto possa meglio aggrapparsi alla parete (79). Questo è anche il motivo per cui i vecchi contadini rifiutano di tagliarsi le unghie alla vigilia della loro morte. Tale atteggiamento conferma il fatto che, nelle rappresentazioni popolari del mondo slavo, il defunto guardi all’aspetto fisico e resti molto «reale». Ecco perche egli ha anche bisogno di elementi materiali, come una barca, un ponte, una scala, un gancio o una sua unghia per procedere verso l’aldilà.

Si può qui parlare di contraddizione con altre rappresentazioni del dominio dei morti o solamente di pluralità d’approccio? In realtà, il defunto può anche mostrarsi sotto forma di una farfalla, di un uccello, di una pianta o di un soffio. Ma questo succede soprattutto durante i quaranta giorni in cui l’anima vaga per la terra rivedendo i peccati che ha commesso. Invece, oltre questo limite temporale, durante il viaggio verso l’altro mondo, l’anima sembra essere percepita come un doppione del corpo, o un corpo ridotto, che conserva pur sempre la propria materialità.

Questo sistema di rappresentazioni è confermato dalle credenze, anche recenti, dei contadini dell’Europa orientale, secondo cui i morti mantengono nell’aldilà la loro professione e i loro gusti personali. Ciò spiega la presenza di sacchetti di tabacco e/o degli strumenti del mestiere (in particolare in Bielorussia), che si mettono nelle bare perche gli scomparsi possano esercitare la loro arte, «lassù» come quaggiù, poi riposare fumando. Allo stesso modo, si presumeva che, quando ritornavano sulla terra, i morti portassero gli abiti con cui li si era vestiti il giorno della sepoltura (regione di Smolensk) (80).

Quindi è il percorrere il lungo e doloroso cammino verso il soggiorno nell’oltretomba che provoca il cambiamento di stato del defunto, facendolo passare dalla categoria dei «nostri» (i vivi) alla categoria degli «altri» (i morti e, presto, gli antenati). In questo senso, il viaggio verso l’aldilà rappresenta in realtà il percorso iniziatico che abbiamo ricordato, ossia quello composto di una serie di ostacoli che sono altrettanti confini che impediscono, ma anche giustificano, il progredire verso il regno

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dell’oltretomba. L’andatura del defunto può dunque essere paragonata a quella degli eroi dei racconti fiabeschi: è «vivo» quanto lui, e per arrivare al «tre volte decimo regno», che è la morte, deve percorrere un cammino simile.

Si può anche invertire la proposizione e dire che l’andatura dell’eroe del racconto è paragonabile a quella del defunto. Per l’uno e per l’altro, ogni tappa sembra la più difficile prima di essere passati alla seguente, che sembra di nuovo impossibile da sconfiggere (81).

Nel racconto, il destino viene in aiuto all’eroe attraverso l’espediente di animali meravigliosi, come il lupo o il cavallo: senza di essi, non potrebbe superare le barriere che sono per loro natura insormontabili. Per quanto riguarda il defunto, abbiamo visto che egli è aiutato in modo specifico secondo gli ostacoli che deve superare: può trattarsi di una barca, di un ponte o di una scala, di un albero piantato sulla tomba o delle unghie nella bara. I suoi familiari li hanno preparati per questo scopo, perche bisogna assolutamente che il morto arrivi nell’aldilà. È solamente a questo prezzo che i vivi non avranno più da temerlo.

Se così non succedesse, il defunto diventerebbe di fatto un morto insoddisfatto, destinato a vagare, uno «spirito» nel senso stretto del termine. Incapace di andare fino alla fine del viaggio, egli volterebbe i suoi passi e ritornerebbe sulla terra dove non può che tormentare i vivi, e soprattutto i familiari.

La via che conduce all’oltretomba ha dunque per caratteristica quella di partire da un centro, che è costituito dal luogo dov’è l’anima (il cimitero, la tomba, ma più spesso la casa o anche l’albero dov’essa riposa). Il percorso è irto di difficoltà che, una dopo l’altra, creano la distanza che il morto deve attraversare, ma che hanno anche la funzione di mettere alla prova la sua anima. Una volta superati gli ostacoli, il cammino si dissolve nell’altro mondo e il defunto, accolto dai suoi familiari precedentemente scomparsi, può trasformarsi in antenato. Attraverso le tre fasi che lo compongono – la separazione (tra la casa e la tomba); il margine (percorso tra i due mondi); l’aggregazione (nell’universo degli avi) – questo viaggio corrisponde allo schema tradizionale dei riti di passaggio (82). Esso incarna l’ultimo legame tra il dominio dei vivi e il regno dei morti.

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13. Contrariamente a quanto afferma il cronachista, senza dubbio ciò non avvenne per «nascondere» il principe defunto, ma per rispettare la tradizione; questa usanza e ancora menzionata, nella Cronaca degli anni passati all’anno 1054, per la morte del principe Jaroslav: «Vsevolod prese il corpo di suo padre, lo pose su una slitta e lo trasportò a Kiev».

15. A questo proposito, non si può non pensare alle persone anziane del XIX secolo russo, che preparavano i loro abiti funebri per tempo e «provavano» la bara prima di morire.

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35. Si veda, da questo punto di vista, un dettaglio del «paradiso» di Hieronymus Bosch, che corrisponde a una visione di santa Perpetua (inizio del III secolo): «Noi fummo portati dagli angeli le cui mani non ci toccavano […] e, quando avemmo superato il primo cerchio del mondo, vedemmo una luce eclatante».

43. Si pensi anche alla «morte» della ragazza in relazione alla donna che nascera durante il matrimonio, cosa che spiega la presenza dell’acqua e della barca nella mitologia del matrimonio (si veda su questo tema…).

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56. Questo elemento e particolarmente evidente quando si considerano i ponti dei templi scintoisti, che introducono al mondo degli dei e il cui attraversamento e accompagnato da purificazioni rituali; nell’Occidente cristiano, il nome stesso di «sovrano pontefice» [dal latino pontifex «progettista di ponti»] mostra che il papa e il mediatore tra il cielo e la terra, e insieme il costruttore e il ponte stesso.

59. Quest’usanza fu utilizzata anche nel XIX secolo (si potrebbe dire dirottata…) da un governatore russo della Moldavia – B. Fedorov – che cercava di migliorare le vie di comunicazione della regione.

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