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105 LA TRASCRIZIONE MUSICALE DEL MUTETU CAMPIDANESE Proposta di metodo e applicazioni 1 Paolo Bravi Introduzione La trascrizione musicale ha sempre rappresentato uno strumento fondamentale nell’analisi etnomusicologica per quanto riguarda l’indagine formale. Il tema, ampiamente traato in sede di riflessione teorica, non richiede delucidazioni introduve 2 . Ci limiamo a notare, preliminarmente, che le trascrizioni etno- musicologiche su pentagramma, da Bartok in poi, hanno sempre comportato un ‘allargamento’ – in parcolare per l’inserimento di segni diacrici convenzio- nali – e anche, in mol casi, un adaamento – per esempio, per l’indicazione di intervalli non tempera o di durate in forme non mensurali – della tradizionale semiografia colta 3 . Tenendo in considerazione la natura del repertorio e i fini 1 Il testo qui pubblicato è una versione (con alcune modifiche) di un contributo presentato dall’autore nell’ambito della rassegna “Musas e terras” (a cura dell’Associazione Culturale “Su Bentu Estu”, Sinnai, 2004), e distribuito in quella circostanza in forma daloscria. 2 Sulle quesoni in campo relave alla trascrizione e all’analisi etnomusicologica, presenamo alcuni toli dalla ricca bibliografia di cui disponiamo oggi, citando fra quelli disponibili in lingua italiana: Carpitella 1973: 225-233, Bartok 1977: 245-271, Stockmann 1989: 209-238, Macchiarella 2000: 13-23, 184-195, Arom 2002: 69-93. 3 I sistemi musicali delle tradizioni extraeuropee presentano quasi sempre asse diastemaci diversi da quello in uso da tre secoli nella musica colta occidentale. La sterminata bibliografia in questo seore, che parte dal celebre saggio On the musical scales of various naons di Alexander J. Ellis (Ellis 1885), pietra miliare della moderna disciplina etnomusicologica, dimostra in modo inequivocabile la ampia variabilità culturale che caraerizza la discrezzazione del connuum delle altezze in ogni sistema musicale. La disposizione delle alterazioni microintervallari (indican frazioni di semitono predefinite o varian e variazioni di altezza di portata minore, non precisamente definita) sul pentagramma tradizionale deve comunque fare i con con la struura diastemaca non regolare che caraerizza lo schema pentagrammaco. D’altra parte, è noto che l’esigenza di ‘piegare’ la tradizionale notazione in relazione alla diversa struura delle opere musicali è avverta anche dai compositori del Novecento che, a vario tolo, operano nell’area dello ‘sperimentalismo’. Come nota Joseph Machlis, “la notazione musicale tradizionale, un sistema che si era evoluto nel corso di mol secoli, risultò adeguata sino a quando la musica era basata sulla scala diatonica e sulle armonie maggiori e minori, su ba regolari semplicemente uni in gruppi di due o di tre, o dei mulpli

La trascrizione musicale del mutetu campidanese. Proposta di metodo e applicazioni

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Problems and approaches of musical transcription in ethnomusicology.

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LA TRASCRIZIONE MUSICALE DEL MUTETU CAMPIDANESEProposta di metodo e applicazioni1

Paolo Bravi

Introduzione

La trascrizione musicale ha sempre rappresentato uno strumento fondamentale nell’analisi etnomusicologica per quanto riguarda l’indagine formale. Il tema, ampiamente trattato in sede di riflessione teorica, non richiede delucidazioni introduttive2. Ci limitiamo a notare, preliminarmente, che le trascrizioni etno-musicologiche su pentagramma, da Bartok in poi, hanno sempre comportato un ‘allargamento’ – in particolare per l’inserimento di segni diacritici convenzio-nali – e anche, in molti casi, un adattamento – per esempio, per l’indicazione di intervalli non temperati o di durate in forme non mensurali – della tradizionale semiografia colta3. Tenendo in considerazione la natura del repertorio e i fini

1 Il testo qui pubblicato è una versione (con alcune modifiche) di un contributo presentato dall’autore nell’ambito della rassegna “Musas e terras” (a cura dell’Associazione Culturale “Su Bentu Estu”, Sinnai, 2004), e distribuito in quella circostanza in forma dattiloscritta.2 Sulle questioni in campo relative alla trascrizione e all’analisi etnomusicologica, presentiamo alcuni titoli dalla ricca bibliografia di cui disponiamo oggi, citando fra quelli disponibili in lingua italiana: Carpitella 1973: 225-233, Bartok 1977: 245-271, Stockmann 1989: 209-238, Macchiarella 2000: 13-23, 184-195, Arom 2002: 69-93.3 I sistemi musicali delle tradizioni extraeuropee presentano quasi sempre assetti diastematici diversi da quello in uso da tre secoli nella musica colta occidentale. La sterminata bibliografia in questo settore, che parte dal celebre saggio On the musical scales of various nations di Alexander J. Ellis (Ellis 1885), pietra miliare della moderna disciplina etnomusicologica, dimostra in modo inequivocabile la ampia variabilità culturale che caratterizza la discretizzazione del continuum delle altezze in ogni sistema musicale. La disposizione delle alterazioni microintervallari (indicanti frazioni di semitono predefinite o varianti e variazioni di altezza di portata minore, non precisamente definita) sul pentagramma tradizionale deve comunque fare i conti con la struttura diastematica non regolare che caratterizza lo schema pentagrammatico. D’altra parte, è noto che l’esigenza di ‘piegare’ la tradizionale notazione in relazione alla diversa struttura delle opere musicali è avvertita anche dai compositori del Novecento che, a vario titolo, operano nell’area dello ‘sperimentalismo’. Come nota Joseph Machlis, “la notazione musicale tradizionale, un sistema che si era evoluto nel corso di molti secoli, risultò adeguata sino a quando la musica era basata sulla scala diatonica e sulle armonie maggiori e minori, su battiti regolari semplicemente uniti in gruppi di due o di tre, o dei multipli

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analitici preposti, abbiamo ritenuto utile adattare, apportando modifiche signi-ficative, il metodo di trascrizione usuale. Il sistema adottato consente di avere un quadro visivo del dato sonoro non solo di più immediata interpretazione rispetto a quello offerto dal pentagramma, ma anche maggiormente aderen-te alla forma musicale del repertorio esaminato o di repertori tipologicamente analoghi.

Una semiografia per la musica tonale

La notazione pentagrammatica tradizionale usuale, su chiave di violino e/o di basso, risulta nella maggioranza dei casi adeguatamente funzionale alla ‘scrittura’ (come pure alla trascrizione) di forme sonore costruite su base tonale. Nel caso di repertori di tipo modale, non solo il pentagramma tradizionale denuncia limiti di una certa consistenza, ma rende più difficile (nel senso di più complicato per quanto concerne il profilo semiografico e di meno agevole per quanto concerne la facilità e l’immediatezza della lettura e della comparazione) l’interpretazione del dato sonoro corrispondente al notatum.Innanzitutto, bisogna rilevare che nella quasi totalità delle culture musicali tradizionali non esiste un’indicazione assoluta dell’altezza dei suoni. La struttura intervallare manifesta delle costanti, ma solo in senso relativo, ossia per quanto riguarda i rapporti fra le altezze4. Pertanto, una trascrizione che

che ne conseguivano, e su strumenti normali suonati in maniere normali. Una volta che i compositori si furono spinti oltre queste limitazioni, si dovettero trovare nuovi modi per scrivere la musica. I raggruppamenti ritmici complessi, le modulazioni «strane» e gli intervalli di microtoni richiedevano di apportare perfezionamenti al sistema esistente” (Machlis 1984: 155-156).4 La stabilità dei valori assoluti è connessa o al cosiddetto ‘orecchio assoluto’ o alla possibilità di ancorare l’accordatura strumentale e l’intonazione vocale a campioni di riferimento stabili. Per quanto riguarda la situazione in ambito occidentale, va rilevato da un lato il fatto che la definizione rigida (addirittura sanzionata da apposite norme di livello nazionale e internazionale) del La di riferimento alla frequenza di 440 Hz è un fatto recente, dall’altro che comunque la tradizione teorica, da Pitagora in poi, ha sempre posto l’accento sui rapporti fra i suoni, ossia sulle relazioni intervallari fra le frequenze, piuttosto che sui valori assoluti. In ambito etnomusicologico, l’impossibilità di avere un elemento oggettivo di riferimento comporta quasi sempre una variabilità (entro limiti stabiliti) nella definizione del centro tonale. Questo è anche il caso del canto a mutetus dell’area campidanese, della poesia cantata in logudorese, diffusa nell’area centro-settentrionale della Sardegna, come pure della poesia in ‘ottava rima’ presente in Toscana e nell’Alto Lazio. In queste tradizioni, infatti, la voce del poeta agisce in solitudine o con accompagnamento di altre voci. Nel caso della poesia cantata a mutos

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rispetti fedelmente i valori assoluti delle altezze non soltanto è sostanzialmente inutile, ma è addirittura sconsigliabile per due ragioni: 1) costringendo a leggere in tonalità diverse (e magari poco frequentate), non consente una comparazione immediata tra documenti diversi; 2) induce, in modo sottilmente subdolo, ad associazioni cui l’orecchio e l’esperienza ha assuefatto l’ascoltatore ‘occidentale’. Questo, comunque, è un dato sufficientemente acquisito almeno nella letteratura propriamente etnomusicologica5. In molti casi, infatti, l’etnomusicologo-trascrittore 1) effettua un ‘trasporto’ e adotta una collocazione ‘media’ all’interno del pentagramma che consente una lettura non cervellotica e mette a disposizione un documento agevolmente comparabile; 2) evita di inserire alterazioni in chiave e segnala ciascuna ‘alterazione’ – diesis, bemolle, variazioni microintervallari – a fianco (o sopra) la nota interessata; 3) segnala l’altezza assoluta dell’esecuzione indicando a parte la reale altezza della finalis o del centro tonale6. Un esempio di trascrizione di questo tipo applicata a un repertorio di poesia cantata è quello adottato da Maurizio Agamennone (e, successivamente, da diversi altri) per l’ottava rima tosco-laziale7. In questo caso, la finalis è stata collocata sul Mi (primo rigo del pentagramma in chiave di Sol). L’alterazione

dell’area barbaricina o della tradizione della ‘repentina’ dell’area oristanese, al contrario, la presenza dell’organetto o della fisarmonica come strumento di accompagnamento comporta una stabilizzazione dell’intonazione su valori definiti.5 Béla Bartók, nell’introduzione alla prima parte del volume Serbo-Croatian Folk-Songs, (Béla Bartók e Albert B. Lord, Columbia University Press), pubblicata nel 1951 ma risalente al periodo fra il 1942 e il 1944, dava il seguente suggerimento: “prima di essere raggruppate, le melodie vanno ricondotte a un comune denominatore, cioè a dire al comune tonus finalis. A questo proposito, sol1 (cioè il sol centrale […]) appare senz’altro il migliore” (in Bartok 1977: 269). Sul tema, cfr. Arom 2002: 82-83.6 Per la definizione di ‘centro tonale’, vd. Agamennone, in Agamennone / Facci / Giannattasio / Giuriati 1991: 156-157. 7 Vd. Agamennone 1986: 171-218. Per quanto riguarda il mutetu campidanese, le trascrizioni su pentagramma pubblicate sono poche. Michele Mossa trascrive un mutetu del cantadori Eliseo Vargiu, con finalis in Mi, riportando in chiave l’armatura di La maggiore, dato che nell’esecuzione non è presente la nota Re (Mossa 1999: 70-71). Antonio Pisano trascrive un mutetu (in Solinas 1993: 59) indicando il tempo di recitativo libero e apponendo un’armatura di chiave di Fa minore (annota, poi, un’insolita contra di accompagnamento costituita da tre voci). Paolo Zedda, invece, ha realizzato alcune trascrizioni adottando segni di alterazione che evidenziano la natura non temperata degli intervalli.

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semitonale più frequentemente registrata riguarda il Fa# (seconda maggiore). Ma le alterazioni si infittiscono notevolmente con i poeti che adottano stili di canto basati su modi più vicini alla scala maggiore: in questo caso, ovviamente, è segnalato anche l’‘innalzamento’ del III, VI e VII grado. Ciò indubbiamente ovvia, almeno in parte, ai limiti di cui si è detto in precedenza. Ci pare, però, che tale soluzione presenti comunque alcuni limiti e manifesti ancora margini di ‘ambiguità’ rispetto al sistema tonale implicito nel pentagramma. L’assenza di una indicazione di chiave, pur ‘simbolicamente’ rilevante, non nega, nella lettura pentagrammatica, l’esistenza di una implicita tonalità di riferimento: riconduce semmai – almeno sotto l’immediato profilo psicologico – alla tonalità di Do maggiore (o a quella di La minore), tonalità poi immediatamente disattesa dalla presenza di alterazioni frequenti e ricorrenti sulla ‘via’ del pentagramma. In altre parole, non cancella del tutto l’idea – sottile e insinuante – della tonalità, semmai la sublima attraverso un processo di ibridazione: da un lato utilizzando una scansione pentagrammatica che riflette i rapporti intervallari della tonalità di Do, dall’altra inserendo alterazioni in corso d’opera che, ove si presentino in modo ricorrente, richiamano altre tonalità. A questo punto, ci sembra però che si perda in qualche modo il senso di ciò che un’alterazione deve rappresentare (e che, in effetti, fa egregiamente nel sistema tonale) in un documento di trascrizione. Infatti: che valore ha la presenza di un segno di alterazione? Se non ha un valore come traccia di una dato strutturale, perché differenziare – a livello semiografico – note con accidenti e note senza accidenti? Un’alterazione, per logica e per definizione, è segno di una modificazione8. Rispetto a che cosa avviene, nel caso esemplarmente citato, la

8 La questione ‘alterazioni’ non può, a nostro avviso, essere minimizzata come puramente nominalistica o banalmente semiografica. Nel sistema di notazione tradizionale, infatti, esse sono dati grafici coerenti con la struttura musicale e con la teoria ad essa soggiacente. Per esemplificare in modo elementare, basti dire che, nonostante l’enarmonia dei suoni potrebbe rendere sostanzialmente irrilevante la definizione di un suono come, ad esempio, Do# o Reb, la norma notazionale nella maggioranza dei casi non è affatto indifferente alla questione, che deve essere risolta sulla luce di considerazioni teoriche (armoniche o melodiche) specifiche. L’alterazione, dunque, come qualunque altro elemento semiografico, deve avere un significato musicalmente e concettualmente non ‘ambiguo’ e coerente con l’impostazione complessiva del sistema di notazione. Non è marginale ricordare, sotto questo profilo, che il problema si è posto, in termini equivalenti, anche per le esperienze d’avanguardia musicale del Novecento. Andrea Lanza, a questo proposito, mette in luce la “nuova consapevolezza del carattere ‘costitutivo’, e non soltanto pratico, della notazione musicale” e la “stretta relazione tra gli schemi del pensiero musicale e le forme segniche con le quali esso viene fissato

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modificazione? Alla tonalità di Do maggiore non affermata, ma implicita nella struttura pentagrammatica ‘vuota’ di indicazione di chiave? E inoltre: perché indicare, con costanza ‘maniacale’, un suono ricorrente in un’esecuzione – e dunque – verosimilmente strutturale, con un’alterazione che classicamente diremmo ‘temporanea’ e che alla lunga non esime da un implicito confronto con un’altra tonalità? Perché affaticare la lettura con tante alterazioni? Sono domande, queste, che ne sottintendono un’altra, di portata più generale e di maggior significato sotto il profilo teorico, che possiamo formulare nel modo seguente: perché non dire esplicitamente che l’alterazione implica – percettivamente, linguisticamente, simbolicamente – una dimensione di confronto, e dunque dichiarare, (senza ambagi o opacità, o senza sottacere la questione) rispetto a che cosa il confronto è dato? Ci piace ricordare, a questo proposito, la posizione di Diego Carpitella, che definiva lo studio del folklore “un’analisi differenziale, che consiste […] nella individuazione e nell’accertamento di dati differenziati che distinguono i due elementi dell’insieme a confronto”9.

Alterazioni?

Proviamo, dunque, ad esaminare che cosa può accadere se trascriviamo un mutetu adottando il criterio della trasposizione della finalis al Mi del primo rigo. Estrapolando dall’esperienza di trascrizione svolta su tale repertorio, è possibile esemplificare attraverso alcune situazioni tipiche:1) Può accadere che si debba richiamare un’alterazione costante del secondo

grado con un diesis, come d’altra parte dovremmo fare nel caso in cui dovessimo esaminare forme ordinariamente tonali (sempre che la finalis

graficamente sulla carta” (Lanza 1991: 141). A proposito dello specifico problema del significato delle alterazioni, egli nota che “i primi sintomi di incompatibilità tra notazione tradizionale e nuovi princìpi compositivi si erano già manifestati nella dodecafonia viennese, la quale presupponeva una assoluta parità fra le dodici note, ma continuava a servirsi di una notazione basata sulla distinzione fra nota naturale e accidentale” (Lanza 1991: 142).9 Carpitella 1972: III. Francesco Giannattasio pone in evidenza questo aspetto rilevando il fatto che “l’etnomusicologia nasce con la scoperta e l’osservazione delle ‘alterità musicali’, […] il rilevamento delle diversità è alla base dell’intera esperienza etnomusicologica” (Giannattasio 1998: 31). D’altra parte, la riflessione epistemologica dell’antropologica postmoderna nasce dal presupposto che qualsiasi analisi del culturalmente diverso presuppone un’interpretazione e si basa su un confronto complesso e irriducibile tra sistemi culturali.

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coincida con la tonica, e che ci troviamo di fronte ad una struttura maggiore o minore standard). In questo caso l’alterazione non indicherebbe una ‘deviazione’ del sistema musicale adottato rispetto ai canoni standard occidentali, ma una segnalazione che obbligatoriamente scaturisce dalla struttura del pentagramma in chiave di Sol. Potremmo allora dire, per pura comodità, che si tratta di una alterazione ‘esterna’, nel senso che trova la sua origine e la sua spiegazione nell’evoluzione del sistema musicale – e della corrispondente semiografia – tonale e che non rappresenta un tratto differenziale del sistema modale campidanese rispetto al sistema eurocolto;

2) Può accadere che si debba evidenziare un’alterazione costante, espressa come microvariazione verso l’acuto, del III grado, vicino, ma non analogo, ad un intervallo di terza minore. In questo caso, dunque, dovremmo inserire un simbolo (ad esempio, una freccia verso l’alto) in corrispondenza della nota Sol, che esprima tale sollevamento (che resta comunque inferiore al semitono). Tale alterazione risulta assolutamente estranea al sistema musicale tonale e alle scale temperate: potremmo perciò chiamare tale alterazione ‘interna’, in quanto riflette un dato musicale proprio del particolare modo adottato dal cantadori;

3) Può accadere che il cantadori utilizzi un II grado intonando un intervallo di seconda maggiore leggermente abbassato. In questo caso, dovremmo sovrapporre un’alterazione ‘esterna’ (l’altezza rimane comunque più vicina a quella di un intervallo maggiore) ad un’alterazione ‘interna’ (l’abbassamento microintervallare)10. Potremo, certo, integrare i dati in un unico simbolo, ma dal punto di vista concettuale l’origine delle due alterazioni può essere considerata distintamente.

Già questa situazione mostra la problematicità della situazione: dovendo adattare la descrizione del modo usato dal cantadori allo schema pentagrammatico, si perde di vista la distinzione tra ciò che è ‘comune’ (nel senso comparativo del termine) e ciò che è ‘specifico’. Ma il problema si complicherebbe ancora se – per esigenze, ad esempio, comparative – decidessimo di trasportare la finalis al Fa del primo spazio. Vediamo che cosa accadrebbe nei tre casi sopra proposti.

10 È infatti evidente che la disposizione delle alterazioni microintervallari (indicanti frazioni di semitono predefinite o varianti e variazioni di altezza di portata minore, non precisamente definita) sul pentagramma tradizionale deve comunque fare i conti con la struttura diastematica non uniforme che caratterizza lo schema pentagrammatico (cfr. Giuriati, in Agamennone / Facci / Giannattasio / Giuriati 1991: 86).

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1) L’alterazione (che abbiamo definito ‘esterna’) sul secondo grado, se questo è eseguito con un intervallo prossimo ai 200 cents, scomparirebbe;

2) L’alterazione microintervallare sul III grado (‘interna’) dovrebbe questa volta essere segnalata con una duplice alterazione (seppure, anche in questo caso, magari sinteticamente espressa in un unico simbolo): ‘esterna’ (l’altezza è più prossima al La bemolle che al La naturale: è dunque necessario il simbolo del bemolle) e ‘interna’ (l’altezza è leggermente superiore rispetto al La bemolle)

3) Dovremo togliere l’alterazione ‘esterna’ e lasciare l’alterazione ‘interna’.La domanda – che crediamo spontanea – a questo punto è la seguente: può essere davvero efficace una trascrizione in cui le alterazioni vanno e vengono secondo una scelta del tutto soggettiva o legata a fattori musicalmente insignificanti come la necessità di equilibrio grafico sul pentagramma? L’alterazione non dovrebbe distinguere con chiarezza, senza necessità di esami microscopici e di interpretazioni più o meno soggettive, ciò che è ‘modificato’ (rispetto ad uno standard di confronto esplicitato) da ciò che non lo è? Non è possibile immaginare una semiografia che da un lato semplifichi la lettura e la comparazione, e dall’altro sgombri il campo su tali possibili (e concreti) equivoci?E ancora: la collocazione delle alterazioni a fianco o sopra la nota anziché come armatura di chiave indica, generalmente, un approccio di tipo etic, e in modo più o meno esplicito richiama al lettore una prudenza di interpretazione. In altre parole, è come se stesse ad indicare che il trascrittore non ha ancora raggiunto certezze (né sa se queste possano effettivamente essere raggiunte) sul sistema intonativo adoperato dal cantore e dunque si limita a registrare di volta in volta le altezze dei suoni emessi. Ma allorché egli (il trascrittore) sarà giunto ad individuare con certezza la modalità standard di realizzazione di certi intervalli, non dovrà forse inserire (come accade, ad esempio, per molte trascrizioni di performance eseguite da musicisti arabi su maqam di cui ben si conosce la struttura intervallare) tali alterazioni in chiave, sia per una semplificazione della lettura, sia per distinguere ciò che è sistematico da ciò che è occasionale? E, in questo caso, come sarà opportuno comportarsi con l’ordine delle alterazione in chiave, che tradizionalmente prevede inserimenti progressivamente ordinati sulla base dell’ordine del circolo delle quinte e su posizioni del pentagramma predefinite? Un esame delle tecniche di trascrizione usate in ambito etnomusicologico mostra un quadro di interpretazioni non sistematico né univoco. Le esigenze pratiche di descrizione e di analisi dei singoli repertori conducono a soluzioni di volta in volta differenti, più o meno

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efficaci in relazione al tipo di repertorio esaminato e alle finalità preordinate alla realizzazione delle trascrizioni, ma comunque metodologicamente eterogenee.La questione della trascrizione, inoltre, al di là delle difficoltà tecniche cui abbiamo accennato, presenta anche aspetti teorici e metodologici di più ampia portata. Come si è detto, non è questa la sede per ripercorrere le problematiche ad essa connesse. Ci limiteremo a sottolineare un aspetto. La struttura dei repertori di tradizione orale è, nella maggioranza dei casi, di tipo modale. Ciò significa che l’esecuzione musicale contempla un numero di altezze generalmente definito, le quali sono strutturate sulla base di un centro tonale e di uno o più gradi gerarchicamente preminenti. Questo è un dato essenziale che attraverso la trascrizione dovrebbe emergere con chiarezza, e che dovrebbe di per sé consentire un ‘apprezzamento’ immediato delle specifiche caratteristiche modali relative alla struttura intervallare11.

11 Harold Powers rileva che il termine ‘modo’ – dal latino medioevale modus (e, di qui, l’aggettivo ‘modale’ e il sostantivo ‘modalità’) – è utilizzato con diversi significati nella tradizione musicologica (Powers 1980: 376-378). In particolare, per quanto riguarda l’ambito etnomusicologico, è stato utilizzato, nota causticamente Powers, in modo ambiguo per indicare da un lato “scale types”, dall’altro per indicare “motivic types”, e talvolta, indiscriminatamente, per indicare sistemi di organizzazione intervallare che non si prestano a similitudini con i sistemi musicali del Rinascimento, dell’India o di Java. La sconsolante conclusione cui egli perviene è dunque la seguente: “The words «mode/modal/modality» have acquired such a universal semantic range as to have become virtually useless for either descriptive or comparative purpose. For a musicologist to say that the foundations of all melodic practice in some musical culture are musical modes is like a Marxist saying that the foundations of all social relationship in a society are its modes of production – or a freudian saying that the foundations of all human psychological states are sexual urges. All that may well be very true – but then where do we go from there? A universal rule is not much use for analysis” (Powers 1992: 218). Nonostante ciò, riteniamo che, in attesa di una più rigorosa e pertinente definizione – utile per comparazioni di carattere transculturale – dei significati e dei valori specifici da attribuire al termine ‘modalità’, esso resti ancora un’utile categoria per indicare “un sistema complesso di organizzazione e di elaborazione delle altezze che, pur manifestando alcuni elementi di carattere generale, presenta tratti specifici e distinti nelle diverse tradizioni musicali” (Agamennone, in Agamennone / Facci / Giannattasio / Giuriati 1991: 148), definito soprattutto in opposizione al termine ‘tonalità’, inteso come “sistema di organizzazione delle altezze determinatosi nella storia musicale eurocolta, [che] privilegia invece una stretta interdipendenza fra i suoni, secondo un asse verticale grave/acuto polarizzato nella regione grave della combinazione dei suoni” (Agamennone, in Agamennone / Facci / Giannattasio / Giuriati 1991: 176-177). In particolare, il dato centrale che contraddistingue l’organizzazione modale di un sistema è dato dal fatto che l’elaborazione musicale – non necessariamente monodica, ma tale

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Trascrizione musicale e contorno intonativo

Il quadro che abbiamo delineato dovrebbe servire, nelle intenzioni di chi scrive, a spiegare il senso della proposta che noi facciamo, ovvero le necessità – teoriche e pratiche – da cui essa discende, e le difficoltà metodologiche cui vorrebbe far fronte. Prima di descrivere il sistema di trascrizione adottato, è però necessario un supplemento di informazioni sulla strumentazione adottata per la rilevazione delle altezze e delle durate riportate in trascrizione. Le trascrizioni musicali sono state realizzate con l’ausilio del programma Praat (Boersma & Weenink, 2011), un software dedicato all’analisi fonetica. L’estrattore di frequenza fondamentale di cui il programma è dotato permette di raffigurare in forma grafica i profili melodici realizzati dai cantadoris. I dati ottenuti in questo modo possono essere utilizzati per osservare l’occorrenza delle frequenze fondamentali del canto (raggruppate in classi di 10 cents) attraverso istogrammi di frequenza detti tonagrams (cfr Tjerlund, Sundberg, & Fransson, 1972) .L’adozione di tale strumentazione di analisi sonora consente di esaminare nel dettaglio le frequenze utilizzate nelle esecuzioni cantate. L’osservazione della distribuzione delle frequenze e il riscontro dei dati nell’esecuzione cantata permette di rilevare alcuni aspetti generali del comportamento intonativo dei poeti improvvisatori, che si riflettono nell’armatura di chiave utilizzata nella trascrizione per indicare i tratti essenziali dell’intonazione. I tonagrams nelle figure 1a/b/c/d che presentiamo di seguito si riferiscono alle sterrinas trascritte e proposte a titolo esemplificativo nell’Appendice al presente articolo e mostrano alcune situazioni che si presentano nelle analisi delle parti monodiche

da far comunque prevalere la dimensione orizzontale (melodica) su quella verticale – è strutturata attorno ad un centro tonale invariabile, come pure stabile – in ogni singolo modo – è la funzione dei gradi. Nella musica organizzata in modo tonale, invece, al di là della prevalenza dell’assetto verticale dei suoni, la ‘posizione’ e pertanto la funzione di ciascun grado della scala muta in relazione all’evolversi del soggiacente sfondo armonico. La connessione che spesso viene stabilita tra l’idea di modo come ‘scale type’ e come ‘melodic type’, pur non priva dei deplorevoli motivi di confusione rilevati da Powers, deriva proprio dal fatto che la stabilità strutturale dei sistemi modali facilmente induce alla configurazione di formule ricorrenti. Nel contesto delle culture orali o prevalente orali che rappresentano il ‘terreno’ su cui più frequentemente sorgono sistemi musicali a carattere modale, le formule (‘motivic types’) tendono ad entrare nel patrimonio della tradizione e a diventare praticamente organiche alla struttura scalare stessa. Ciò non dovrebbe peraltro esimere, come rileva Powers, dal distinguere, in sede analitica, fra la struttura intervallare e le forme melodiche, senza peraltro con questo ipotecare alcuna priorità – tipologica o cronologica – dell’una o dell’altra.

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del mutetu12. I tonagrams in figura 1a e 1b mostrano una strutturazione in gradi chiaramente definita, in cui ciascun grado appare nella forma di una cuspide relativamente ben delineate. I tonagrams in figura 1c e 1d mostrano invece una definizione dei gradi meno chiara e precisa rispetto agli esempi precedenti. In diversi casi, il vertice della cuspide e la distribuzione delle frequenze corrispondenti a un grado si trova a una distanza dal centro tonale più o meno distante rispetto agli intervalli definiti dalla scala temperata. Solo per fare due esempi, il IV grado in figura 1a e il III in figura 1b presentano significativi scostamenti rispetto ai più vicini intervalli della scala temperata.

12 La maggioranza delle esecuzioni analizzate o trascritte riguarda l’intonazione della sezione iniziale del mutetu, chiamata sterrina, nella quale il poeta improvvisatore (chiamato cantadori) si esibisce in perfetta solitudine, per un lasso di tempo di circa un minuto. L’esecuzione del mutetu prevede, dal punto di vista musicale, l’alternanza di parti in cui il poeta (cantadori) canta in assolo e di parti polivocaliche, che intervengono al termine di ciascuna sezione del mutetu. In questi casi alla voce del poeta che improvvisa si aggiungono quelle di due altri cantanti detti bàsciu e contra, che, emettendo voci gutturali e pronunciando sillabe non-sense, forniscono l’accompagnamento vocale tipico di questa forma poetico-musicale del Campidano.

8.4 18.40

242

Number /bin

Semitones

Me2

TC 1 2 3 4 5 6 7 8 8.2 17.20

326

Number /bin

Semitones

Zu4

TC 1 2 3 4 5 6 7

8.3 20.30

144

Number /bin

Semitones

Mx1

TC 1 2 3 4 5 6 7 8 9-1 6.8 17.80

223

Number /bin

Semitones

Sa4

TC 1 2 3 4 5 6 7 8-1-2

Figure 1a/b/c/d

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01234567891011

1 2 3 4 5 6

A partire da grafici di questo tipo, è possibile interpretare con maggiore cognizione di causa quanto si può rilevare attraverso l’ascolto e l’analisi delle curve di intonazione di ciascun verso cantato. A titolo esemplificativo, presentiamo in Figura 2 un esempio di rappresentazione del profilo intonativo di un verso e, di seguito, la trascrizione che di questo verso abbiamo effettuato (il testo verbale è riportato in trascrizione fonetica larga). Come è noto, il senso musicale e, prima ancora, la percezione uditiva presentano un quadro ‘semplificato’ rispetto alla complessità del dato sonoro rilevato in modo sperimentale. L’orecchio infatti non percepisce tutte le sfumature che una rilevazione di questo tipo mostra. L’interpretazione musicale del dato sonoro è un fatto segnato, oltre che dalla biologia (nel caso in questione, dalla fisiologia dell’apparato uditivo e dalle strutture neurologiche preposte a tali compiti), dalle categorie acquisite e interiorizzate che riguardano i parametri di ciò che appartiene alla dimensione musicale.

Figura 2

Finalità e convenzioni

Ritorneremo, in sede conclusiva, sul tema – centrale per quanto riguarda la problematica teorica della trascrizione – della rilevazione dei dati sonori da inserire in trascrizione. Passiamo ora alla descrizione del sistema adottato per riportare le altezze su un piano spazializzato, rendendoli in modo grafico. In sostanza, il sistema da noi adottato, nel cercare di risolvere le difficoltà,

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le incompiutezze o le deformazioni cui in partenza si è fatto cenno, si pone quattro finalità:1) Evidenziare la natura modale del repertorio trascritto: la trascrizione mostra

con immediatezza il centro tonale e le strutture intervallari e microintervallari rilevabili attraverso l’analisi della distribuzione delle frequenze;

2) Applicare un criterio ‘riduttivo’: il pentagramma si riduce in relazione all’effettiva estensione della linea melodica;

3) Esplicitare il termine di confronto, da cui discendono le alterazioni: ogni alterazione va intesa come elemento differenziale rispetto alla scala maggiore temperata13;

4) Evitare una trasformazione delle abitudini di lettura musicale così radicale da esigere uno specifico addestramento: la lettura della trascrizione, al contrario, una volta conosciute le norme adottate, risulta elementare – soprattutto per quanto riguarda la facilità d’interpretazione e l’immediatezza comparativa – per chiunque abbia un grado di confidenza anche solo minima con la lettura del pentagramma tradizionale.

In termini pratici – e facendo riferimento al repertorio di canto a mutetus oggetto della trascrizione – gli esiti di questa operazione di adattamento riguardano gli aspetti che seguono:

13 Il fatto che il termine di confronto sia univocamente indicato nella scala diatonica maggiore temperata è dettato prioritariamente dalla necessità di avere un riferimento costante e facile da interpretare, tale dunque da consentire una comparazione agevole. È peraltro evidente che la scelta di questo elemento di riferimento nasce da un lato dal peso preponderante che la scala ha avuto nella pratica e, ancor più, nella plurimillenaria riflessione teorica in Occidente. D’altra parte, la dinamica del confronto culturale che è implicita nel sistema qui descritto potrebbe suggerire, come eventuale paragone di confronto alternativo, soltanto la scala minore. Ma è indubbio che, nel confronto tra maggiore e minore, la tradizione teorica occidentale è ampiamente sbilanciata a favore del primo e che le teorie ‘dualistiche’ (Arthur von Öttingen, Hugo Riemann ecc.) – che non individuano il modo minore come derivato dal maggiore ma riconoscono ad esso origine separata e parallela e, dunque, pari ‘dignità’ – risultano nel complesso minoritarie. Il confronto con la scala diatonica maggiore, dunque, sembra sotto più aspetti quello più ‘ragionevole’: il più immediato, cioè, ma anche il più fondato. Tale termine di paragone dovrà però essere adattato (o, al limite, abbandonato) nel caso di forme musicali basate su scale modali assolutamente non assimilabili alla scala diatonica o a parti di questa. È il caso, ad esempio, delle scale non eptatoniche o di altre forme (ad esempio, strutture per terze), per le quali il confronto con la scala maggiore non è proponibile o risulta in qualche modo deformante.

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Righi e spaziLa serie di spazi e di righi del pentagramma (ma più spesso, in conformità con il criterio n° 2 sopra indicato, si tratta di un tetragramma) non indicano note specifiche, ma gradi della scala. La corrispondenza tra posizione (spazi e righi) e gradi per le trascrizioni da noi riportate in Appendice è rappresentata nella tabella 1.L’ambitus dei suoni con i quali viene cantato il mutetu di rado supera l’estensione di una sesta. Peraltro è evidente che qualsiasi escursione, verso l’alto o verso il basso, può essere rappresentata seguendo questa logica di sviluppo. Si è scelto di omettere i righi superflui: pertanto, nei casi – come si è detto, frequenti – in cui l’estensione non superava l’intervallo di sesta, si è esclusa la rappresentazione del quinto rigo, che sarebbe risultata superflua14.

ChiaveL’uso non convenzionale che è stato fatto del pentagramma è espresso dalla cancellazione delle tradizionali indicazioni e dall’inserimento di un simbolo specifico (rappresentante una T: per ‘centro Tonale’) collocato, nel caso in esame, in corrispondenza del primo spazio (in pratica, il tetra- o pentagramma va letto come se ci fosse una chiave di Do in Fa)15.

14 Nei casi in cui l’estensione dovesse essere tale da esigere un allargamento del pentagramma completo (dotato quindi di cinque righi), sarebbe evidentemente opportuno ricorrere a tagli addizionali o, nel caso di forme modali polifoniche, all’aggiunta di ulteriori pentagrammi. Crediamo infatti che la facilità di lettura sarebbe compromessa di fronte ad un numero di righi elevato. Pertanto suggeriamo di considerare l’indicazione relativa alla variabilità del numero di righi unicamente in direzione sottrattiva.15 La posizione del centro tonale, indicato dal simbolo indicato, potrebbe naturalmente variare secondo il tipo di estensione e di configurazione intervallare che la scala in uso prevede.

Tabella 1

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Armatura di chiaveIn assenza di alterazioni, i gradi vanno considerati equivalenti a quelli della scala maggiore temperata. Nel nostro caso, come d’altra parte nella maggior parte dei repertori di tradizione orale sia del folklore europeo, sia di tradizioni extraeuropee, le scale non presentano normalmente strutture diastematiche assimilabili a tale scala di riferimento16. Tenendo presenti quanto emerge dall’osservazione delle distribuzioni delle frequenze fondamentali nei tonagrams e dall’esame dei profili intonativi dei versi cantati, sono state inseriti appositi ‘modificatori’. Non sempre i modificatori utilizzati coincidono con i tradizionali segni del diesis e del bemolle, dato che spesso i gamut nel canto a mutetus sono strutturati su intervalli non temperati. La sequenza di apparizione dei modificatori segue l’ordine scalare. La tabella 2 spiega il significato da attribuire ai ‘modificatori’ adottati.

DurateTrattandosi di forme di canto non mensurate, anche l’indicazione delle durate è stata realizzata secondo una modalità non convenzionale, ma comunque già adottata in ambito etnomusicologico. Si è adottato un sistema ‘misto’: da una parte, infatti, per una esatta valutazione della durata dei suoni, si è seguito il metodo temporizzato; dall’altra, per non perdere l’immediatezza di lettura che è offerta dai simboli tradizionali di durata, si sono comunque aggiunti i tradizionali ‘gambi’ (nel nostro caso, leggermente staccati dalla testa) e le tradizionali codette. Con esse è indicata, in modo approssimativo la durata, secondo i valori espressi nella tabella 3.17

16 Cfr. Giuriati, in Agamennone / Facci / Giannattasio / Giuriati 1991: 102.17 Per una panoramica relativa ai metodi di trascrizione comunemente adottati in àmbito etnomusicologico, cfr. Giuriati, in Agamennone / Facci / Giannattasio / Giuriati

Tabella 2

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Livelli di pertinenza

Il sistema di trascrizione che noi adottiamo, dunque, da un lato evidenzia in modo chiaro il discrimine tra modalità e tonalità; dall’altro pone con nettezza la dimensione del confronto interculturale assumendo come base di confronto la scala per eccellenza del sistema tonale occidentale, da sempre al centro della riflessione da parte dei teorici, ossia la scala diatonica maggiore, considerata nella versione a temperamento equalizzato sia perché la pratica ci ha ormai assuefatto a questa dimensione dei rapporti intervallari, sia perché la suddivisione equalizzata degli intervalli facilita notevolmente la comparazione.Detto questo, si può rilevare che in effetti il sistema adottato non differisce, dal punto di vista pratico, ossia dal punto di vista della lettura, dal sistema del Do mobile. La principale differenza rispetto al pentagramma tradizionale riguarda invece la struttura dell’armatura di chiave. A tale proposito, occorre notare che l’armatura di chiave segnala tratti ricorrenti nel canto della specifica esecuzione che è fatta oggetto di trascrizione, mentre, di per sé, non è sufficiente per stabilire il livello di pertinenza di tali tratti. In linea teorica, infatti, essi possono riguardare livelli diversi, e dunque possono identificare tratti che rivestono un’importanza diversa. Possiamo definire tali livelli, ad una prima approssimazione, secondo la scala seguente:a) tratti universali: ricorrono in tutti i cantadoris, e dunque possono essere

considerati propri del genere di canto del mutetu (appartengono, in altri termini, alla langue del sistema musicale);

b) tratti areali: ricorrono nel modo di canto dei cantadoris di una data area geografica;

c) tratti individuali: ricorrono in tutte le produzione cantate di un determinato cantadori (utilizzando la terminologia linguistica, li possiamo identificare come tratti ‘idiolettali’);

1991: 252-290 (in particolare, per il metodo temporizzato e il metodo misto: 257-259).

Tabella 3

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d) tratti specifici: ricorrono nella produzione cantata del particolare mutetu esaminato e trascritto.

Nel nostro caso, le alterazioni identificano (allo stato attuale) solo tratti specifici; e solo un ampio confronto con altri gamut e con altre trascrizioni potrà consentire di estendere la portata di quanto si è riscontrato in un singolo mutetu (cfr Bravi 2010).

Trascrizioni “generali” e “specifiche”

Le (insolite) armature di chiave da noi adottate da un lato hanno un valore forte, in quanto segnalano l’uso di tratti strutturalmente differenti rispetto alle scale basate sul sistema temperato, dall’altro hanno un valore debole, in quanto possono anche essere considerati meri strumenti utili ad evitare un appesantimento della trascrizione con una miriade di segni diacritici. Sotteso a questa questione, vi è il concetto, proprio di tutta la storia dell’etnomusicologia – da Ellis in poi – della variabilità dei sistemi scalari. È questo presupposto che, in fase di trascrizione, impone cautela nell’interpretazione di ciò che si percepisce, e dunque, almeno per il momento, suggerisce di non distinguere in modo esplicito le alterazione con valore forte (considerate elementi strutturali di un sistema) da quelle con valore debole (considerati meri fenomeni di esecuzione).È, d’altra parte, la stessa cautela che ci induce talvolta a affollare, più di quanto non si vorrebbe, il pentagramma con segni diacritici. Rispetto al metodo (e di riflesso al valore) da dare alla trascrizione musicale, vi sono, secondo Mantle Hood, due estremi, quello “generale” – la trascrizione riporta gli elementi essenziali trascurando piccole varianti esecutive ecc. – e quello “specifico” – la trascrizione riporta minuziosamente tutti i dettagli dell’esecuzione. Fra i due estremi corre la linea G-S [Generale-Specifico], lungo la quale si possono porre tutti i casi intermedi.18 A nostro giudizio, una trascrizione dovrebbe, almeno idealmente, rappresentare i tratti della langue musicale, e tralasciare i semplici fenomeni di esecuzione, a meno che lo studio non verta espressamente su tali aspetti. Tuttavia, la questione assume un carattere perversamente tautologico dal momento che, la trascrizione, oltre ad essere uno strumento descrittivo (e come tale dovrebbe essere dunque G), è, per l’etnomusicologia uno (anzi, il più importante e praticato) strumento analitico, consente cioè di scoprire le regole di un sistema musicale a noi estraneo (e come tale è bene che sia, almeno fino a un certo

18 Per una sintetica trattazione dell’argomento, vd. Giuriati in Agamennone / Facci / Giannattasio / Giuriati 1991: 250-252. Cfr. anche Arom 2002: 75-78.

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punto, S). Che cosa permette all’analista, nel momento della trascrizione, di distinguere i tratti dotati di valore musicale dai meri fenomeni di esecuzione? In linea teorica, si potrebbe pensare, considerando la trascrizione come l’alfa e l’omega del lavoro etnomusicologico, di trascrivere un dato esempio musicale in due fasi distinte, e con modalità diverse, secondo il bagaglio di conoscenze posseduto sull’oggetto indagato. In una prima fase, ignorando le regole del sistema, e dunque utilizzando la trascrizione come strumento analitico, si dovrebbe trascrivere in modo S; nella seconda (anzi, ultima) fase, dopo aver esaminato adeguatamente l’oggetto e aver scoperto le regole del sistema, si dovrebbe ‘rivedere’ la trascrizione e presentarla come strumento descrittivo (praticamente: semplificarla, omettendo i tratti che l’analisi ha dimostrato essere ascrivibili alla sfera dell’esecuzione).Pur essendo tale approccio possibile non solo in linea teorica (tra l’altro, Béla Bartók, che fu uno dei primi a porsi il problema della validità delle trascrizioni e del metodo con cui esse andavano realizzate, ci ha lasciato esempi di trascrizione doppie: una di tipo G e una di tipo S), bisogna considerare che qualsiasi approccio di tipo S deve comunque essere sorvegliato, in quanto in ogni caso la trascrizione è solo una descrizione più o meno approssimativa dell’evento musicale19. Ogni trascrizione, anche la più orientata sul versante S, non è una rappresentazione ‘oggettiva’ del fatto sonoro: presuppone sempre una ‘categorizzazione’ dei suoni e dei ritmi, seppur più minuziosa rispetto a quella che si mette in atto quando si realizza una trascrizione di tipo G, e questa operazione di classificazione apre, in ogni circostanza, una serie di interrogativi che si affacciano su questioni teoriche e metodologiche di ampia portata.

Applicazioni

In Appendice proponiamo alcune esemplificazioni tratte dal corpus di trascrizioni realizzato con il con il metodo di rilevazione descritto e applicando i principi semiografici sopra esposti. Tutte le trascrizioni riguardano la prima sezione del mutetu (sterrina): in alcuni casi la trascrizione comprende anche la fase polifonica terminale, quando la voce del cantadori si sovrappone a quella

19 A questo proposito, Giovanni Giuriati sottolinea il fatto che “bisogna sgombrare il campo da qualsiasi pretesa di oggettività della trascrizione. […] in questa operazione di “traduzione” è inevitabile un intervento soggettivo di chi la compie. La trascrizione consiste, implicitamente o esplicitamente, in un primo momento di riduzione ed analisi del documento sonoro: il trascrittore interpreta ciò che ascolta dandone una propria versione grafica, determinata dall’interesse analitico che lo induce a trascrivere” (Giuriati in Agamennone / Facci / Giannattasio / Giuriati 1991: 247-248).

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dei due accompagnatori che formano il gruppo de sa contra20; in altri casi riguarda soltanto l’esecuzione monodica. In testa sono riportati da un lato i dati riguardanti l’autore e la circostanza dell’esecuzione (si tratta sempre di gare poetiche pubbliche tenute in occasione di feste dedicate al Santo patronale o a Santi intestatari di altre chiese presenti nel paese); dall’altro la durata totale della parte trascritta e l’indicazione del valore assoluto del centro tonale. La sigla posta al centro ha invece un valore puramente funzionale e si riferisce alla catalogazione nell’archivio privato delle registrazioni.

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20 Si tratta, in entrambi i casi, del duo composto dal bàsciu Paolo Pilleri e dalla contra Aldo Pittirra. La vocalizzazione avviene su vocali o sillabe non sense (non trascritte).

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APPENDICE

Esempi di trascrizione: quattro sterrinas (le ultime due comprensive del primo intervento di accompagnamento di bàsciu e contra)

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