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La vera storia del cacciatore di mosche

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di Francesco Pissard - Narrativa, racconti

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Francesco Pissard

La vera storia del

cacciatore di mosche

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LA VERA STORIA DEL CACCIATORE DI MOSCHE Copyright © 2010 Zerounoundici Edizioni

Copyright © 2010 Francesco Pissard ISBN: 978-88-6307-315-7

In copertina: immagine fornita dall’Autore

Finito di stampare nel mese di Settembre 2010 da Digital Print

Segrate – Milano

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A mia madre

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Introduzione

Ogni scrittore è sempre autobiografico e ogni opera, consapevolmente o no, prende le mosse e ruba qualcosa dalla vita dell’artista, come ci hanno insegnato più di un secolo di psicoanalisi e una certa parte di studi semiotici e di analisi testuale. Ciò è vero anche per il libro LVSDCDM, una serie di racconti, o meglio, di storie che, partendo quasi sempre da esperienze personali dell’autore, tratteggia con sfumature delicate situazioni di vita “vissuta” emozionalmente, tentennamenti e dubbi della quotidianità, proiezioni dal passato sullo schermo di un presente precario e fuggevole e in un certo qual modo, “de-locato”. Le storie che compongono l’opera costituiscono, nel loro insieme, una sorta di viaggio, un itinerario spirituale verso la conoscenza di sé attraverso il recupero di un passato che assurge, mediante il ricorso a simboli e archetipi, ad una dimensione di universalità. In questo senso l’opera può essere considerata propriamente moderna: l’Io del narratore protagonista non è solamente quello di Pissard ma, come sembra dire l’autore “sei tu stesso, ipocrita lettore, mio simile”. Attingendo come tutte le espressioni artistiche, alla vita quale fonte non rappresentabile per ciò che viene rappresentato.

Sandro Sitzia

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Focorealrt Picasso diceva che ci vuole tanto tempo per diventare bambini. Spero di diventarlo presto perché sono stanco della vita da grandi, degli immensi vuoti che questa comporta e dei pochi mattoncini con cui riempirli. La mia maschera da clown si sta squagliando, è strano perché qui fuori fa un freddo cane ma la maschera si squaglia, dal naso rosso colano gocce di sangue e pittura, il trucco nero dilaga nelle guance intonandosi con l’umore. Che bel sole, che bel mare, che bello tutto eppure tremo, tremo di vergogna, tremo di paura, non sento musica oltre ai miei denti che battono fuori tempo e le mie ossa che cigolano. Ho solo un posto dove rifugiarmi: i miei ricordi lontani e i miei sogni perduti; Sento che sto per piangere, non voglio farlo ma sto per piangere. Non riesco a capire quando ho cominciato a sbagliare strada. Sembrava tutto perfetto, la mia vita scorreva tranquilla, certo ho dovuto spostare dei grossi massi, alcuni sono stati duri da digerire e molti li vorrei ancora vomitare ma non ci riesco. Sto male, sto veramente male. Cisco si sentiva angosciato, svuotato, stanco ed eternamente insoddisfatto da tutto ciò che lo circondava quando decise per inerzia e per paura di abbandonare lavoro, famiglia e amori, di lasciarsi tutto alle spalle per dedicarsi alla caccia alle mosche. Non trovava più stimoli nel mondo che aveva intorno, odiava la competitività della società in cui viveva, era diventato intollerante a tutta la gente che incontrava e, in particolar modo, non tollerava i loro difetti che ai suoi occhi diventavano sempre più evidenti e fastidiosi. Non aveva più voglia di esporsi, di confrontarsi, non voleva più combattere, era anche fortemente deluso dai valori in cui aveva sempre creduto, famiglia e amicizia. Sentiva inoltre che questa sfiducia nelle persone che gli avevano sempre dato calore, conforto e

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affetto era solo ed esclusivamente colpa del suo malessere interiore, si sentiva fuori posto e a disagio in qualsiasi posizione si mettesse. Prese la decisione d’istinto, quasi con rabbia: si sollevò di scatto dal suo letto, fece un paio di giri su stesso e cominciò a prepararsi. Con i capelli ancora spettinati, la vista poco lucida e molta confusione in testa dispose un bagaglio molto ridotto per questa sua terapeutica avventura: raccolse due camicie, i jeans e poca altra roba. Mise in un sacco il suo retino per pescare i gamberi, dalle maglie molto fini, una penna e un quaderno con i quadretti piccoli che solitamente usava per i suoi tanti calcoli e partì fiducioso per la foresta di Focorealrt, a quaranta chilometri dalla sua città; di questi soltanto una ventina erano facilmente percorribili attraverso una strada larga e accessibile, nei restanti avrebbe dovuto attraversare vecchi passaggi ormai ricoperti da una foltissima vegetazione e cambiare spesso direzione per l’impraticabilità del percorso. Il primo tratto di strada lo fece in fretta, a passo spedito e con la mente totalmente vuota, o meglio completamente annebbiata dal nervoso, dall’insoddisfazione e dall’insofferenza. Il suo era un gesto un po’ folle o forse solo dimostrativo, nemmeno lui sapeva dove andare e cosa fare, era semplicemente convinto che la caccia alle mosche rappresentasse, in quel particolare momento, l’ultimo salvagente a cui appigliarsi. Una volta incontrati i primi ostacoli, nella foresta alla irrequietudine si unì la paura, l’incertezza sul da farsi e tanti dubbi sulla possibile stupidità del suo gesto. Riuscì ad accantonare questi pensieri solo per affrontare la foresta con i suoi passaggi inesistenti, i tanti insetti che l’abitavano e l’oscurità che si apprestava ad accoglierlo. L’ansia di non sapere a cosa andava incontro lo scoraggiava sempre di più, le scarpe da tennis invecchiavano a ogni passo e si mostravano sempre più inadeguate a quel terreno, i jeans si erano strappati già in due punti per via dei rovi che non sempre riusciva a evitare. Non aveva previsto tutte queste difficoltà, era motivato ad andare avanti ma anche molto impaurito e confuso. Aveva la convinzione che quell’avventura avrebbe rappresentato il distacco da una realtà che ormai odiava, ma non si sarebbe mai immaginato che nella foresta avrebbe poi incontrato la magia che sognava sin da quando, ancora bambino, voleva diventare un gabbiano, volare

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controcorrente compiendo le più spericolate acrobazie e sperimentare la posizione dello stallo. Mentre camminava con il lungo corpo spesso curvato per evitare i fittissimi e intrecciati rami della foresta, pensava sempre più spesso e con crescente timore che non sarebbe mai riuscito ad arrivare a capo di quell’impresa. Ragionava su quanto fosse stupida l’idea di cacciare le mosche, e quanto fossero inutili ed esteticamente orrende le sue prede. Cominciava a porsi mille domande, si interrogava con sospetto e perplessità e, per convincersi sulla validità della sua scelta, si diceva che quella era l’ultima occasione per salvare la sua mente e la sua anima. Camminando alternava i tanti dubbi ai ricordi della sua vita. Gli tornavano in mente i tanti discorsi fatti con l’amico Silvester davanti a una birra, filosofeggiando su tutto e tutti quando si ubriacavano felici, guardandosi compiaciuti mentre con gli occhi e la mente sempre più appannata elencavano i libri che avevano letto o le tante canzoni che conoscevano. Sorrideva al pensiero che gli argomenti preferiti e che più li divertivano erano donne e sesso; nessuno dei due aveva avuto grandi trascorsi sentimentali ma si confidavano su ogni istante della loro vita, si prendevano in giro ridendo e bevendo. Una delle cose che lo stupiva di più di quell’amicizia era come trovasse l’amico molto simile a lui, non gli veniva in mente un solo momento di dissenso tra di loro, un solo gesto o pensiero che non condividessero. Cisco e Silvester erano mentalmente due gocce d’acqua, durante il periodo universitario si erano cercati tantissimo e ogni momento vissuto insieme era stato intenso, divertente, unico. Un altro aspetto di Silvester che lo incuriosiva era l’impossibilità di trovargli un preciso difetto. Cisco nei suoi infiniti e lunghi vaneggiamenti mentali si divertiva ad analizzare le persone che gli ruotavano intorno e, dandosi arie da consumato psicologo, stilava immaginarie liste di pregi e difetti. Silvester però non era tirchio, non era permaloso, non era noioso, non era pedante, e non era nemmeno perfetto, l’amico era una delle poche persone al mondo a non averlo mai deluso. Stava ancora pensando a lui quando vide in lontananza spuntare dalla fitta vegetazione una capanna. Aveva camminato tutto il giorno e la luce del sole stava lentamente svanendo, durante quella stancante giornata aveva perso molte delle convinzioni e degli stimoli che

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l’avevano portato ad avventurarsi nella foresta e, malgrado la prima impressione che gli destò la capanna non fosse molto convincente, vedere quelle quattro tavole di legno unite a formare un riparo gli restituì gran parte della fiducia perduta. L’ingresso era ostruito da piante, molte delle quali erano cresciute anche all’interno e spuntavano, attraverso delle aperture, dalle vecchie tavole del pavimento. Il gradino d’ingresso scricchiolava sinistramente ogni qualvolta si poggiava il piede e anche le pareti della casa non davano quella sensazione di stabilità e sicurezza che solitamente si richiede alla propria dimora. Erano vecchie, sporche e parevano poter cedere da un momento all’altro, e l’unica finestra aveva due dei quattro vetri mancanti. Ma ciò che soprattutto preoccupava Cisco era il soffitto di quella casa che, con una trave spezzata in due e pericolosamente barcollante, due tavole mancanti e altre decisamente rovinate, non gli avrebbe certo permesso di trascorrere delle calde e tranquille notti. Le condizioni della capanna erano decisamente rovinose, stava probabilmente aspettando il suo arrivo per crollare. Un motivo di entusiasmo era però la strategica posizione che questa aveva all’interno della foresta, si trovava infatti a circa quaranta passi da un piccolo lago dove si sarebbe lavato e avrebbe cacciato con facilità quantità enormi di mosche. Inoltre, come aveva sperimentato sulla sua pelle e sulle sue povere gambe, era molto difficile arrivare alla capanna e questo gli avrebbe evitato spiacevoli incontri. Si prospettava un lungo periodo di pace e solitudine. Era ormai buio quando finì di esplorare la zona intorno alla sua nuova abitazione e rimandò al giorno seguente ogni operazione di restauro. Stava per passare la sua prima notte nella foresta e, mentre la luce lentamente scivolava via, Focorealrt dava inizio progressivamente a un concerto di rumori sconosciuti alle sue orecchie. Arrivò poi anche la stanchezza a bussare alla porta e gli occhi pesanti convinsero Cisco a distendersi in un angolo della sua capanna. Avvolse le camicie formando un dubbio cuscino, raccolse pochi pensieri e inquietudini varie e si addormentò pesantemente travolto da quella faticosa e insolita giornata.

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Janis la capanna La mattina, al risveglio, Cisco decise di affrontare subito l’ostacolo maggiore alla sua permanenza nella foresta e cominciò a ristrutturare la sua bella capanna che battezzò con il nome di Janis in onore di Janis Joplin, una delle sue cantanti preferite. Una breve perlustrazione all’interno portò alla luce degli attrezzi utili al suo scopo: un martello, una scatoletta piena di chiodi arrugginiti, due cacciavite e una sega, e anche se non si era mai trovato a proprio agio con nessun tipo di arnese l’entusiasmo era tale che forse nemmeno un provetto falegname avrebbe potuto far meglio. Dopo essersi lavato con l’acqua gelida del lago perlustrò attentamente la zona circostante. Il lago era piccolo e gli alberi arrivavano fino alla riva. Dietro a dei rovi Cisco trovò un piccolo ruscello nascosto che sfociava nel lago, lo seguì e arrivò fino a una parete di roccia grigio chiara percorsa da acqua dolce che alimentava il ruscello, formando una fontana naturale dove Cisco si dissetò bevendo fino a sentirsi pesante e stanco. Si riposò felice ai piedi della parete prima di ricominciare il suo giro di perlustrazione, nel corso del quale raccolse ogni cosa potesse servirgli per la sistemazione della capanna, compresi diversi legnetti dalla forma regolare e alcuni massi lisci e piatti. Usò i tronchetti dritti e regolari per chiudere bene i vari buchi del tetto, sollevò la trave e mise un palo di sicuro ingombro a sostenerla, sostituì i vetri mancanti inchiodando delle assi recuperate dal tetto. Sradicò tutte le piante che crescevano all’interno della casa e mise sotto le tavole rotte i massi recuperati e diede anche una pulita generale. Avrebbe potuto completare il restauro sistemando sia il gradino cigolante che la porta decisamente precaria, ma l’essersi messo a riparo da spifferi ed eventuali piogge era già una grossa conquista, la sua enorme pigrizia lo spingeva verso un meritato riposo. La sua attenzione cadde poi su una scoperta inaspettata. Cisco non si era ancora preoccupato di procurarsi il cibo, nonostante lo stomaco lo richiamasse ripetutamente e i morsi della fame cominciassero a

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farsi sentire. Fortunatamente il Fato venne incontro al solitario cacciatore facendogli trovare dietro alla casa, appesi a una parete, quattro pesci essiccati dal colore rossastro, agganciati per la coda a un filo di nylon e di aspetto tutt’altro che invitante. Ma la fame era tanta e Cisco diede subito un morso al primo pesce ancora legato al filo di nylon. Il sapore non era certo dei migliori ma questo non lo frenò e, con voracità, si mangiò tutti e quattro i pesci senza nemmeno prendesi la briga di sfilarli dal nylon, lasciando poi solo le lische appese al filo. La giornata stava già per finire, Cisco in un solo giorno aveva restaurato la sua casa ed era anche riuscito a sfamarsi. Non si era ancora organizzato per la sua nuova professione di cacciatore di mosche e non si preoccupava nemmeno di procurarsi il cibo per i giorni successivi, forse perché era un problema troppo pratico per interessarlo o forse già sapeva, nel suo inconscio, che la magia di quel posto gli avrebbe presto tolto quest’incombenza. Mentre la giornata lentamente giungeva al termine i ricordi dell’infanzia gli monopolizzarono la mente, sdraiato sulle vecchie tavole e con le braccia dietro alla testa aspettava con pazienza il sonno mentre rievocava il periodo più felice della sua vita. Il fatto curioso di quei ricordi era che mentre sentiva lontanissima gran parte della sua fanciullezza, persa nel tempo, alcuni episodi erano invece ben saldi nella sua memoria come se li avesse appena vissuti, soprattutto riviveva sorridendo il giorno in cui era andato per la prima volta a veder gareggiare il padre José ai giochi internazionali di Agrado. Il padre era un manovratore in pensione, alto, robusto e dotato di una forza decisamente fuori dal comune. In gioventù era stato una promessa nazionale del rugby ma un incidente in moto gli aveva lasciato in eredità un vistoso trascinarsi della gamba destra, delle acute fitte al ginocchio ogni qualvolta si avvicinava l’inverno e l’impossibilità di proseguire la sua promettente carriera sportiva. Nonostante lo zoppicare, José manteneva sempre un andatura fiera ed elegante, nella sua città era rispettato e adorato da tutti fin dai tempi in cui militava nella squadra cittadina di rugby. I giochi internazionali, che a dispetto del nome vedevano la partecipazione dei soli quartieri cittadini, erano motivo di festa per la piccola città di Agrado. José da diversi anni era il capitano della

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squadra “Paraguay”, nome derivante dal poverissimo quartiere dove era nata e vissuta la sua famiglia da quattro generazioni. La Paraguay aveva vinto le ultime cinque edizioni dei giochi e Cisco non stava più nella pelle il giorno in cui il padre aveva deciso di portarlo per la prima ad assistervi. Ricordava ogni istante vissuto quel giorno e in particolare la bellissima gara di tiro alla fune che la Paraguay aveva vinto contro la forte squadra dei fratelli Umar. La madre di Cisco, la bellissima Florinda, morì due settimane dopo quella splendida giornata a causa di un violento attacco di asma che le impedì di respirare. Spirò tra le braccia del suo adorato marito e con addosso gli occhi gonfi, lucidi e sconvolti del figlio che quel giorno pianse tutte le lacrime che il padre aveva risparmiato in un’intera vita. Cisco quella notte evitò di pensare alla madre perché non voleva rovinarsi quella magica giornata nella foresta, continuò con i suoi felici pensieri sulle imprese del padre che lo accompagnarono prima di una lunga dormita che concluse la sua seconda giornata nella bellissima foresta di Focorealrt.

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I quattro pesci Il nuovo giorno iniziò all’alba, e già con i primi raggi di sole che gli davano la sveglia Cisco cominciò a organizzare la sua nuova vita. Non sapeva ancora nulla sulla caccia alle mosche, non aveva mai letto libri al riguardo o sentito voci di altre persone che si erano cimentate in questo nuovo lavoro, hobby, distrazione o fuga che fosse. Doveva inventare tutto lui: le regole, i metodi di caccia, l’impostazione, doveva ideare tutto e sperimentarlo sulla propria pelle. Prese il quaderno a quadretti, la penna, il suo retino e si avviò verso il lago. Si sedette sulla riva, aprì il quaderno e lo fissò aspettando l’ispirazione. Tracciò quindi due righe nella prima pagina del quaderno, due righe verticali che racchiudevano una colonna larga otto quadretti su cui scrisse “mosche avvistate”, quindi, sulla spinta di questa prima idea, continuò con altre due colonne dove segnare le “mosche catturate” e le “mosche sfuggite” alla caccia. Questa catalogazione lo soddisfaceva e, sfruttando la spinta creativa, decise di concludere l’organizzazione matematica della caccia con una colonna più stretta sul lato destro della pagina dove segnare le percentuali di mosche catturate rispetto alla totalità delle mosche avvistate. Segnò quindi la data in alto a destra sopra le colonne, la sottolineò e diede inizio alla sua caccia. Inizialmente rimase seduto a osservare il cielo e ad aspettare che le mosche arrivassero nel suo raggio d’azione. Sistemò il quaderno aperto sulla prima pagina di lato con la penna pronta a segnare nuovi sviluppi e poggiò il retino sulle braccia come fosse un’arma. Si lasciò poi distrarre dal paesaggio circostante. Il laghetto era piccolo e poco profondo, l’acqua aveva un colore scuro per via del poco sole che filtrava dagli alberi, tranne in una piccola zona sulla sua destra dove battevano con forza dei raggi di sole che formavano un piccolo cerchio chiaro sull’acqua e una colonna bianca che si elevava verso il cielo. Dalla parte opposta della riva gli alberi erano molto più fitti e formavano un muro all’apparenza impenetrabile, quasi fosse il limite di quel magico mondo.

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Cisco riprese l’appostamento scrutando con maggior attenzione l’orizzonte, in attesa di prede da segnare sul suo quaderno. Bastò poco tempo per rendersi conto che doveva ancora imparare tutto sulla caccia alle mosche, infatti non solo non riuscì a veder avvicinarsi la prima mosca da catalogare, ma per poterla notare dovette aspettare che si appoggiasse minacciosa sulla sua spalla. L’incertezza di quella nuova situazione era dovuta al dubbio che assaliva Cisco. Rimasto immobile per non spaventare la sua preda, non sapeva infatti se segnare subito sul suo quaderno l’avvistamento della mosca e poi dedicarsi alla sua caccia o prima cercare di catturarla e quindi segnare l’esito. L’imbarazzo sparì per merito della stessa preda che, prima che il suo cacciatore potesse fare qualcosa, aveva già ripreso a zigzagare libera nel cielo sparendo dalla vista di Cisco. Il novello cacciatore era però ugualmente felice perché poteva segnalare la prima mosca avvistata nel quaderno riportando di lato uno “zero” per le mosche catturate, altrettanto sotto la colonna delle percentuali. Cisco capì che, se voleva diventare bravo ed esperto nella caccia alle mosche, doveva prima studiarle attentamente, cercare di conoscere ogni particolare del loro modo di volare, le loro abitudini, le zone del lago che preferivano. Voleva sapere tutto sulle mosche. Corse velocemente a riporre il retino. Giunto alla capanna appoggiò la temibile arma sulla parete esterna, e in quell’istante il suo sguardo venne catturato dai quattro fili di nylon che il giorno prima aveva abbandonato con solo le lische appese. Incredibilmente trovò altri quattro pesci essiccati appesi alle lenze. Cisco spaventato fece due salti indietro si guardò velocemente intorno alla ricerca di qualcuno nei paraggi che gli stesse organizzando un brutto scherzo, ma la foresta si fece improvvisamente più scura e silenziosa. Nulla faceva pensare alla presenza di qualche persona nascosta dietro a un albero. Cisco sentiva solo un unico rumore, quello del proprio cuore che aumentava continuamente la frequenza del proprio battito. Cominciò a indietreggiare, come per scappare dalla vista di quei pesci resuscitati, quando sbatté la schiena su un grande albero e lanciò un urlo come se fosse stato colpito da una pallottola. Si rese allora conto che i suoi nervi stavano lentamente cedendo. Si stese ai piedi dell’albero con le braccia incrociate sulle ginocchia che nascondevano la testa, e cominciò a pensare a una possibile

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soluzione per la nuova presenza dei pesci. Rimase ore a riflettere scavando nella memoria i ricordi delle lezioni di chimica del vecchio Professor Curtis o nelle ormai dimenticate ore di biologia, ma non riusciva a trovare una soluzione a quel mistero. Alla fine mise da parte le proprie paure e arrivò alla conclusione che forse la ricrescita dei pesci era dovuta alle lische lasciate sul nylon e si convinse che, appese in quel particolare ambiente, diventassero come dei fertilissimi semi di un qualsiasi frutto. Gli rimase però il dubbio che fosse qualcosa di magico a provocare quell’evento fantastico. Per capire bene il mistero della ricomparsa dei pesci decise di toglierne due dal nylon per mangiarseli poi al lago, lasciando quindi due lenze senza lische appese e di mangiarsene subito due lasciando le lische appese per far ricrescere i pesci. Rimase tutto il giorno al lago a studiare il volo delle mosche, aggiungendo delle piccole annotazioni, degli appunti e delle semplici osservazioni che lo aiutassero a capire il volo di quegli orrendi e inutili insetti. Ritornò da Janis poco prima dell’arrivo della notte, si mangiò i due pesci sulla riva del lago buttando la lisca in acqua e al ritorno a casa notò che all’estremità del nylon si trovavano ancora le due lische lasciate da lui. I giorni successivi passarono veloci senza che Cisco riuscisse a risolvere il mistero dei pesci che continuavano a riapparire quotidianamente, che lasciasse o meno le lische appese. L’attenzione del cacciatore, quei giorni, venne monopolizzata da uno studio attento del volo delle mosche. Cibandosi dei pesci, che ogni giorno ritrovava appesi dietro alla capanna, il cacciatore smise di pensare alla magia della loro ricrescita, anche se cominciava a riconoscere in ognuno dei quattro pesci ogni giorno delle caratteristiche che lo differenziavano dagli altri: il quarto era di un colore più scuro mentre il primo aveva la coda molto piccola. Cisco, ogni giorno che passava, imparava qualcosa sulle mosche e scopriva nuove caratteristiche nei quattro pesci appesi dietro alla capanna. Le notti nella foresta diventavano sempre più lunghe, il sonno ritardava ogni giorno di qualche minuto e Cisco arrivò a passare intere notti con le mani dietro alla testa e gli occhi aperti a scrutare il buio.

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In quelle interminabili nottate tornavano prepotenti i ricordi del passato. Una volta ripercorse con precisione la giornata in cui conobbe il suo amico Silvester. Era il giorno della prima lezione di chimica all’Università, gli studenti erano disposti in tre file in attesa del Professor Curtis, un vecchio solitamente scorbutico e con la passione per gli aforismi che spesso inseriva a sproposito nella sua lezione. Cisco e Silvester ancora non si conoscevano e si trovarono uno affianco all’altro per puro caso. il Professore arrivò puntualissimo con la sua cartelletta ben stretta sotto l’ascella, sistemò gessi e appunti sulla cattedra in pochi e rapidi gesti che sicuramente ripeteva identici da diversi decenni, scrisse il proprio nome in grande a un lato della lavagna, scarabocchiò sempre in assoluto silenzio qualche oscura formula di chimica quindi si voltò verso i propri studenti, li osservò con attenzione e cominciò un lungo monologo di circa due ore. Non si fermava mai, parlava incessantemente e il discorso era variegato, spesso decisamente brillante e coinvolgente ma in altri momenti risultava noioso e ripetitivo. Ogni tanto inseriva qualche citazione dei suoi autori preferiti, citò Wilde, Pirandello e Twain e tanti altri ancora, trovando forzati accostamenti con la materia che spiegava, a ogni citazione guardava compiaciuto i propri studenti che si cercavano invece con gli occhi tentando di capire l’oscuro messaggio del vecchio professore. «Ragazzi, io sono il professor Curtis. Vi accompagnerò tutto l’anno in questo corso di lezioni che richiederà tutto il vostro impegno. Spero che sia la passione ad avervi spinto verso questo corso di studi altrimenti non riuscirete mai a passare il mio esame; ricordatevi che è il cuore a fare le scelte più importanti della nostra vita e, come diceva Blaise Pascal, “il cuore ha ragioni che la ragione non conosce”…» Il professore aveva una cultura fuori dalla norma, parlava di tutto tranne che di chimica: passava dalla storia all’arte, dalle tradizioni dei diversi popoli alla musica. Cisco spinto dal divertimento di quella insolita lezione, si rivolse al suo vicino inventandosi anche lui una sua citazione «“Nessuno è miglior giudice di se stesso ma d'altronde nessuno è peggior giudice di se stesso”; secondo te è un brillante detto o semplicemente una cazzata?»

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«La seconda» gli rispose convinto Silvester che poi si fece anche lui conquistare dalla mania degli aforismi. «Ma senti questa invece: “la vita è come una ragazza. Incomincia a sorriderti solo quando ti ha lasciato”.» Si presentarono e insieme andarono a bere nel pub davanti alla facoltà, a mezzogiorno cominciarono il valzer delle birre e dopo circa cinque minuti erano già ubriachi. Si inventarono mille aforismi e proverbi o semplici luoghi comuni, quindi cominciarono a fare un censimento di tutti i sederi femminili che entravano in quel bar. Quel giorno cominciò un amicizia che si rafforzò continuamente nel tempo, insieme si ubriacarono milioni di volte, si fumarono la loro prima canna e affrontarono gli esami universitari. In tutti gli anni condivisi si confidarono tutta la loro vita, le loro passioni, i loro sogni, i ricordi più brutti e quelli più belli. Della valigia che Cisco portò con se nella Foresta di Focorealrt, l’amico Silvester rappresentava una delle cose più belle.

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L’alfabeto moschideo I giorni continuarono con Cisco che si divideva tra lo studio delle mosche, l’osservazione delle caratteristiche dei pesci appesi sul nylon, sul mistero della loro ricrescita e sui tanti ricordi che, a tratti, affioravano alla memoria facendogli rivivere momenti belli e brutti della sua esistenza. Dopo circa dieci giorni di permanenza nella foresta decise di mettere in pratica i suoi studi sul volo delle mosche per tentare di cacciarle. Si era convinto che gli insetti con i loro repentini cambiamenti di direzione tracciassero nel cielo delle figure e delle forme per comunicare con la natura circostante. Spesso si faceva rapire da questa sua rivoluzionaria interpretazione sul volo delle mosche, si concentrava su ogni singola mosca cercando di capire cosa volesse comunicare e cominciò a segnare sul quaderno queste interpretazioni. Era convinto di aver visto una mosca mentre cercava di spiegare a un albero che il vento si sentiva in colpa quando, agitandosi, gli faceva cadere le foglie, un’altra volta scoprì due mosche che, tramite delle figure disegnate nell’aria, informavano la natura circostante del loro amore. Cominciava ad avere simpatia per quegli orrendi esseri volanti. Si rendeva conto che la caccia alle mosche era meno affascinante di quella alla volpe e che probabilmente non avrebbe mai invogliato la fantasia di uno scrittore come la caccia alle balene; non aveva nemmeno la tradizione e la storia che poteva vantare la secolare caccia ai bisonti nelle americhe, nonostante tutto si sentiva sempre più fiero del suo ruolo ed era ansioso di mettersi alla prova. Armato di quaderno, penna e retino si appostò nella zona del lago più ricca di prede, sulla destra del sentiero vicino al muro degli alberi, proprio a pochi passi dalla colonna di luce che per quasi tutta la giornata dominava il lago. Aveva notato infatti che lì si davano appuntamento mosche di varie dimensioni e che gironzolavano intorno alla colonna a turno quasi facendosi una doccia di luce per rigenerarsi.

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Prima di iniziare la caccia decise di tagliare diverse maglie dalla rete dalla sua pericolosissima arma trasformandola in un innocuo agitatore di aria. Non voleva catturarle nel vero senso della parola; era conscio che, così facendo, non rendeva onore a uno sport dalle tradizione millenarie come la caccia, ma provava simpatia per le sue prede e non voleva far loro del male, decise che per cattura si intendeva il passaggio attraverso il ferro del retino e cominciò. Fermo, immobile, con il retino sollevato in aria, si appostò vicino alla riva e concentrò lo sguardo su una mosca cercando di seguirla attentamente in ogni momento del suo volo, senza farsi distrarre dalle altre e in attesa di poterla catturare. La povera preda girava senza meta cambiando direzione velocemente e in modo imprevedibile; Cisco, da cacciatore diligente e paziente, la seguì nel suo disordinato volo fino a quando non arrivò a pochi metri da lui. Quando la mosca si trovò a circa un metro dalla sua arma, Cisco diede un colpo veloce e rapido alla preda facendola passare attraverso il ferro, poggiò il retino per terra e seguì felice lo svolazzare un po’ spaventato della mosca che si allontanava verso il centro del lago. Riprese quindi il quaderno nella pagina di notazione dei risultati della caccia; era segnata solo la prima mosca, quella sfuggita il secondo giorno di permanenza a Focorealrt. Segnò le colonne in un nuovo foglio, scrisse la data in alto e quindi un bel “uno” sotto la colonna delle mosche avvistate, un altro sotto quella delle mosche catturate e un “cento” tondo tondo sotto quella delle percentuali. La giornata continuò con Cisco divertito e conquistato dalla sua insolita occupazione. Avvistò settantotto mosche il primo giorno, catturandone cinquantaquattro per una percentuale del sessantanove percento. Una era convinto di averla catturata mentre cercava di spiegare a una foglia quanto fosse bello volare, un'altra la interruppe mentre insegnava a un'altra piccola mosca come procurarsi il cibo. Verso l’imbrunire non voleva rientrare da Janis, non lo attirava nemmeno la sua recente scoperta su uno dei tre pesci: aveva infatti riscontrato che il terzo pesce partendo da destra aveva una delle pinnette laterali spezzate. Voleva accertare se questo fosse un errore nell’ultima magica ricrescita o se ogni volta ricresceva con questo difetto.

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Ma l’euforia della giornata di prosperosa caccia gli aveva rapito completamente la mente e, rientrando, non riusciva a non pensare a tutte le mosche catturate, ai vari episodi di quella fantastica giornata. Arrivato alla capanna era praticamente buio, buttò rete, quaderno e penna in un angolo della casa e si diresse dai quattro pesci. Effettivamente il terzo aveva la pinnetta anteriore spezzata. Li divorò in pochi minuti e poi andò a dormire felice. Le giornate di caccia scorrevano impegnando Cisco con la rete, con la penna e con la mente. I calcoli diventavano sempre più complicati e aumentava progressivamente anche la sua abilità sia nella caccia che come traduttore del linguaggio delle mosche. Riusciva a capire ogni movimento degli insetti, aveva scoperto che nulla era fatto a caso e che le mosche stavano continuamente comunicando tra di loro, ogni figura disegnata nell’aria aveva un preciso significato e Cisco, per cercare di far chiarezza, decise di dedicare un paio di ore della giornata alla stesura dell’alfabeto moschideo. Quest’osservazione portò all’incredibile scoperta del fatto che le mosche hanno come argomento preferito l’amore, sotto tutti punti di vista, lodano continuamente la natura per tutte le sue varie manifestazioni, il vento per la sua forza e imponenza, il sole per il suo calore, e diffondono a tutto il mondo circostante questa venerazione per la natura. Cisco si rese conto, e lo rappresentò con un preciso grafico, che le giornate in cui avvistava meno mosche faceva maggiori scoperte sul loro alfabeto. Un giorno si emozionò tantissimo mentre stava per catturare la ventiduesima mosca della giornata, perché gli parve di notare due mosche che parlavano di lui. Si fermò poco prima di assestare il micidiale colpo con il retino perché l’occhio gli cadde sulla mosca che, facendo strane spirali per aria e alternando queste a sinusoidi e zig-zag improvvisi, stava dicendo a una compagna che all’uomo mancavano almeno due arti e un paio di ali per essere perfetto. L’altra mosca le rispose che quello strano uomo non avrebbe mai potuto volare perché tra retino, quaderni e penne varie sarebbe stato troppo goffo.

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Il padre di Cisco Delle giornate trascorse a Focorealrt una in particolare coinvolse il cacciatore di mosche. Erano ormai passate due settimane di intensa caccia e di impegnativo studio del linguaggio delle mosche, i discorsi di queste lo emozionavano sempre di più e non pensava mai a un ritorno alla città, aveva trovato il suo Eden e ormai il passato si stava lentamente filtrando nella sua mente mantenendo i ricordi più belli e radicati. Quella mattina si svegliò con il solito buonumore, pronto per una nuova giornata al lago. Preparò tutto l’armamentario e uscì fischiettando “Me and Bobby McGee”. Una volta fuori da Janis vide in lontananza un signore in riva al lago, immobile come un sasso. Cisco incuriosito ma anche indispettito per questa violazione si avvicinò dall’intruso. Camminava lentamente per studiarlo, cercando di fare meno rumore possibile per coglierlo di sorpresa, non riusciva a capire se quella persona era lì per lui o vi si trovava per caso. La sua stazza era veramente impressionante, aveva un grande cappello di paglia che gli copriva la testa e le spalle, si vedevano i possenti muscoli delle braccia, i pantaloni erano larghi e consumati e le scarpe dovevano avere percorso tre o quattro giri del mondo. Arrivato a pochi passi Cisco lo salutò cercando, con voce decisa e sicura, di dare autorità al suo ruolo e, soprattutto, di non lasciar trapelare i propri timori «Buongiorno.» Il signore rispose senza voltarsi e continuando a fissare il lago. «Ciao, figliolo.» «Babbo! Ma cosa ci fai qui?» rispose stupito Cisco. «Sono venuto trovarti, volevo sapere come stavi e cosa ci fai in questa bellissima foresta.» «È da quando è morta mamma che non ti ho più visto. Dove sei andato e che fine hai fatto, babbo?» «Vedi, piribicchio, io la mia fuga me la sono spiegata così: credo che, quando veniamo al mondo, quando iniziamo questo viaggio, ci diano un bagaglio, una valigia da riempire con le nostre esperienze

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positive o negative che siano, i desideri e le emozioni, le paure. E non pensare che siano cose astratte ma anzi hanno un peso, un peso enorme, e noi camminiamo in questa vita portandoci dietro questo grande peso. Ci sono dei periodi in cui ci sentiamo forti e vigorosi e non sentiamo questo fardello, ma altri giorni rischiamo di crollare e di non riuscire a camminare sovrastati da questo bagaglio di emozioni che ci portiamo dietro.» Cisco non riusciva a distogliere lo sguardo dal padre che gli spiegava la propria filosofia, non lo aveva mai sentito parlare tanto. Si sentiva stordito dalla sorpresa e continuava in silenzio ad ascoltare il padre. «Quando ho conosciuto tua madre è nato un amore profondo, io l’aiutavo a sostenere il suo peso e lei mi aiutava con il mio. Sono stati gli anni più belli che un uomo possa mai vivere. Vorrei che Dio esistesse veramente per poterlo ringraziare del regalo che mi ha fatto. Poi però, quando tua madre è morta, ho perso tutte le mie forze, e non farti ingannare dai miei muscoli, io fisicamente sono morto con lei. Adesso mi ritrovo in questa terra con la mia pesantissima valigia e con quella di tua madre, se sto fermo non riesco a stare in piedi e sostenere ambedue e così ho cominciato a camminare. Non so dove vado e nemmeno mi interessa ma so che, se cammino, penso meno alle zavorre che devo portare.» Cisco ascoltò il padre con gli occhi gonfi di stima, lo aveva sempre considerato un eroe taciturno e dalla grande forza. Era di poche parole ma riusciva ugualmente a comunicare con i silenzi, era come circondato da un aura che parlava per lui. Cisco intuiva dall’odore dell’aria o dal rumore del vento se il padre era felice o arrabbiato. Dopo la morte di Florinda, Cisco aveva perso anche il padre. Non gli rimproverava la solitudine in cui l’aveva lasciato dopo la morte della madre. Aveva solo dieci anni quando morì, ma lei continuò a vivere nei ricordi di Cisco così come il padre continuò a essere presente nel silenzio e nella penombra della propria vita. «Babbo, vorrei dirti tante cose ma sembrano bloccate in gola. Tu mi chiedi perché sono qua ma sinceramente non so darti una risposta come non sono riuscito a darla a me stesso. Mi sento inadeguato a questa vita, non mi piace la società in cui vivo, non mi piacciono le persone che mi circondano, non mi piaccio io. Babbo, vivere è troppo difficile. Se, come tu dici, dobbiamo trascinarci una valigia

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durante tutta la nostra esistenza, credo che la mia sia troppo pesante per le mie forze o io troppo debole per lei.» «Cisco, non è vero, non è come dici tu. Devi solo guardarti dentro intensamente e con pazienza e, quando hai finito di guardarti dentro, devi sollevare la testa e cominciare a cercare la tua strada. Magari la percorrerai da solo oppure troverai una persona con cui vivere felicemente, ma non stare fermo, sei troppo intelligente per stare fermo.» Cisco e il padre continuarono a parlare di loro, delle loro vite, di piccoli ricordi che tornavano a galla. José raccontò al figlio di quando giocava a rugby, di quando si ruppe la gamba in motorino, tutte cose che Cisco conosceva a memoria ma che era felicissimo di risentire. Verso sera Cisco e il padre si avviarono alla capanna, prima di salutarsi mangiarono insieme in silenzio i quattro pesci. José sparì in un istante verso l’imbrunire, il figlio non si accorse nemmeno della sua partenza e, per diverso tempo, gli rimase la convinzione di aver solo sognato.

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Marie Cisco era ormai diventato un esperto interprete del linguaggio moschideo e passava ore e ore a comunicare con le mosche del lago. Era entrato a far parte della natura di quel luogo e le mosche si divertivano a spiegargli segreti che nessun umano riuscirebbe a scoprire nemmeno dopo secoli di studi e osservazioni. Venne a sapere che le rane sono molto vanitose, circondate dall’ammirazione che provano tutti gli animali del bosco per la loro evidente bellezza. Più di una mosca gli raccontò di quanto le farfalle siano invece sensibili e con un forte senso della solidarietà; nel corso della loro brevissima vita svolazzano nell’aria in cerca di animali o insetti da aiutare. Le mosche erano un po’ come delle giornaliste della natura, recepivano informazioni da ogni essere vivente e le divulgavano. Anche Cisco raccontava alle mosche particolari della vita degli umani, con il dito indice descriveva nel cielo le figure che le stesse mosche gli avevano insegnato. Raccontava loro soprattutto circostanze della propria vita, i suoi ricordi più profondi e intensi. Aveva in particolare una interlocutrice preferita, era una piccola mosca verde che passava gran parte della giornata ronzando intorno a Cisco. A lei aveva raccontato gli episodi più importanti, i ricordi più belli e anche quelli più malinconici che galleggiavano nella sua mente. Le raccontò del piccolo orto che Florinda assegnò a Cisco quando era piccolino. Era l’ultima estate che passarono insieme, Cisco aveva finito con la scuola e trascorreva le mattine con la madre nella bottega dei fiori. Florinda gli delimitò un piccolo pezzo di terra e gli regalò diversi tipi di sementi. Cisco passava gran parte del giorno nel suo orto a guardare le piantine che ancora non spuntavano. Si fece regalare dal nonno un cappello di paglia con cui si dava arie da perfetto contadino. Le sere a cena José e Florinda non riuscivano a zittire il figlio che parlava dei suoi progetti per l’orto e sognava un futuro da contadino. Una sera Cisco, stanco di contare le mosche che entravano e uscivano dal retino, si coricò in riva al lago e cominciò a raccontare alla mosca verde un periodo importante della propria vita. Le

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raccontò di quando conobbe Marie. Era al terzo anno di Università e passava tutte le sere in un locale vicino all’ateneo gestito da Tac, un simpatico Bangladese. Andava in quel pub sempre con l’inseparabile Silvester ma lì incontrava diversi suoi amici: lo spagnolo Aleandro, il più saggio e anche quello che beveva meno del gruppo, e spesso veniva Ferdinando, l’Italiano dagli occhi chiari e con mille conoscenze femminili all’interno dell’Università. Quella sera gli amici stavano parlando di musica, Cisco e Silvester avevano gusti molto simili, Aleandro sosteneva che di ogni artista era inutile avere tutti i dischi ma era più comodo e pratico registrarsi le canzoni migliori in una cassetta. Entrarono nel locale Marie e Julia, due amiche di Ferdinando. Lui le invitò a sedersi al tavolo con loro e mentre Julia accettò felice e divertita, Marie rimase in disparte, intimidita. Julia e Ferdinando cominciarono a farsi il solletico, fecero gare di velocità nel bere birra e sotto il tavolo giocavano con le mani guardandosi ridendo. Marie, silenziosa, rispondeva alle domande che tutto il gruppo le faceva: “quanti anni hai? Dove vivi? Che corsi segui?…” solo Cisco stava in silenzio e la guardava attentamente nei momenti che lo sguardo di lei era lontano per poi abbassare il viso quando i loro occhi si incontravano. Cisco trovava Marie e la sua timidezza bellissime, aveva un vestito bianco semplice, aderente nel busto e largo nella gonna, molto demodé ma che le dava un’aria ingenua e angelica. Verso la fine della serata Julia e Ferdinando andarono via insieme, Aleandro era rincasato già da tempo per studiare, e rimasero al locale solo Silvester, Cisco e Marie. Sola con i due ragazzi, lei divenne più estroversa e cominciarono a parlare delle loro passioni. Marie adorava i libri di Aghata Christie e le canzoni di Buddy Holly, viveva con la famiglia in un quartiere della periferia e, per non incrementare le spese dell’università, si faceva ogni giorno a piedi i due chilometri di strada tra la casa e la scuola. Dopo il locale i due amici accompagnarono Marie a casa. Mentre camminava lei sembrava danzare, Silvester parlava spedito mentre Cisco si impacciava su qualunque discorso cominciasse. Delle volte addirittura balbettò, cosa che mai gli era capitata in vita sua. Dopo quel giorno cominciarono a frequentarsi molto spesso, lui trovava

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ogni scusa per poterla incontrare, ogni espediente era buono per vederla. Cisco raccontò alla mosca di come quel periodo fosse uno dei più belli della sua vita, dopo lo studio correva a incontrarsi con Marie, trascurava anche Silvester e gli altri amici. Qualsiasi cosa volesse fare Marie, lui faceva l’impossibile per accontentarla, sembravano due fidanzatini e Cisco si sentiva per la prima volta innamorato. Non riusciva però a trovare il coraggio di baciarla. Sentiva che anche lei lo voleva ma non ne aveva il coraggio. Dopo averla accompagnata a casa correva da Silvester a raccontare l’ennesimo fallimento «Niente da fare, anche oggi non l’ho baciata» «Sei un deficiente, ma cosa aspetti?» «Non è capitata l’occasione, quando la accompagno lei non si ferma nemmeno un minuto per salutarmi, continua a camminare, si volta verso di me e mi saluta con la mano senza fermarsi, capito? Continua ad avanzare. Che faccio, la bacio mentre camminiamo?» «Possibile che ogni sera è la stessa scena?! Ti ho già spiegato la tattica, le chiedi di fermarsi perché le devi dire una cosa, dici due parole carine e nel mentre con il viso ti avvicini al suo e la baci.» «Basta, hai ragione. Domani la bacio.» Il giorno dopo Cisco raccolse tutto il coraggio di cui aveva bisogno e accompagnandola a casa, quando furono quasi arrivati, aspettò che lei si voltasse per salutarlo e le disse «Aspetta, Marie. Ti devo dire una cosa molto importante.» «Dimmi.» La guardò negli occhi, con un calore che lentamente gli assaliva il corpo, la bocca sembrava secca come il deserto del Sahara, ma Cisco si lanciò «Io… io mi trovo molto bene con te.» «Anche io con te.» Si guardarono ancora per qualche minuto negli occhi, quando lui fece la prima mossa «Allora, ciao.» «Ciao Cisco.» La sera non voleva nemmeno passare dall’amico a fargli il resoconto, aveva vergogna e paura di quanto l’avrebbe preso in giro Silvester. Fece tutta la strada ripercorrendo il momento di grande imbarazzo e dandosi dell’idiota.

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Si baciarono finalmente dopo un mese di frequentazione. Erano all’uscita del cinema, mentre rientravano versa casa di lei. Cisco si avvicinò e le prese la mano, continuarono a passeggiare mano nella mano, ogni tanto si sorridevano con gli occhi, Cisco sentiva in corpo il coraggio per baciarla. Arrivati vicino alla casa di lei, nel vicoletto dove solitamente si salutavano, Cisco strinse ancora più forte la mano di lei, si guardarono per pochi secondi e insieme si diedero un dolce bacio sulle labbra. Cisco, incoraggiato dal raggiungimento di un desiderio tanto atteso, si fece trasportare dalla passione, anche Marie sembrava rapita da tanto desiderio. Poggiati sul muretto nel vicolo Cisco e Marie non staccavano le loro labbra. Cisco mise la sua mano sotto il maglione di lei, le accarezzò i fianchi salendo lentamente fino al seno, quando la mano di lui le sfiorò il seno Marie cominciò a ridere, divenne rossa in viso e continuando a ridere lo abbracciò. Cisco, vergognandosi per il suo audace gesto e intimidito dalla risata di lei, si discostò velocemente «Scusami. Veramente, ti chiedo scusa.» Marie, continuando ridere, gli diede un bacio leggero sulle labbra e gli disse «Non scusarti, mi ha fatto ridere perché mi facevi il solletico.» Poi prese la mano di lui e la mise sul suo seno. Iniziarono da quel giorno una storia d’amore che regalò a Cisco momenti di felicità mai conosciuti fino ad allora. Si raccontarono ogni cosa della loro vita, entrarono uno dentro l’altro, vissero intensamente e in simbiosi per tre anni che volarono come un soffio di vento. Cisco raccontava la sua storia alla piccola mosca che, poggiata sulla spalla dell’amico, osservava con attenzione i movimenti del dito del giovane cacciatore. Cercò di spiegarle la fine di quel grande amore. Le spiegò come la paura di soffrire, la paura di amare nuovamente una persona come aveva fatto con la madre, la paura di perderla avevano rovinato quella storia. Marie aveva trascorso un anno piangendo per il cambiamento di Cisco, ogni giorno tornava da lui sperando di ritrovare il ragazzo dolce e innamorato che aveva conosciuto ma lui era irrimediabilmente cambiato. La paura della vita, la paura di nuove sofferenze non riusciva a dare al ragazzo la serenità per godersi quel grande amore.

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La loro storia ebbe fine quando la famiglia di lei, stanca di vederla soffrire, la mandò a studiare in un'altra città. Il racconto del suo grande amore aveva riempito di malinconia il ragazzo che abbandonò la mosca, il retino e il quaderno sulla riva del lago e senza nemmeno mangiare andò dritto nella capanna. La mosca inseguì l’amico, cercava di spiegargli cosa sapeva lei dell’amore, voleva dargli fiducia e coraggio, parlargli delle cose belle della vita ma Cisco non aveva voglia di seguire i movimenti della mosca e decifrarli… Disteso da solo nella sua Janis Cisco cominciò a ripercorrere la sua bella storia con Marie: la prima volta che avevano fatto l’amore, le sere passate leggendo insieme i loro libri preferiti. Nonostante non avesse mai dato prova di grande memoria il ragazzo ricordava ogni momento vissuto con Marie, ogni secondo diviso con lei, ogni suo respiro. Non aveva dimenticato niente dei momenti felici condivisi. Cisco cominciò a piangere ripensando al dolore che aveva recato alla fidanzata, i sensi di colpa gli invasero il corpo impedendogli di dormire, e di dimenticare.

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La madre di Cisco Quella mattina al risveglio Cisco non voleva staccarsi dal suo letto, il giorno prima aveva cacciato ottantasette mosche che erano come sempre sfuggite attraverso il ferro del retino. Non le aveva ancora inserite nel suo quaderno perché era troppo stanco per aggiornarlo e per fare tutti i conti che si era prefissato. Quel giorno non solo l’aspettava la consueta caccia ma doveva anche fare i vari calcoli tralasciati il giorno precedente. Questi impegni della giornata non lo invogliavano minimamente, si sentiva pesante, senza forza e svuotato da ogni energia. Decise quindi di alzarsi di scatto, quasi come per prendere alla sprovvista se stesso e la sua pigrizia, e quando meno se l’aspettava sollevò il busto, mise i piedi per terra, e per riprendersi poi dallo sforzo appena fatto si sorresse la testa con le mani appoggiando i gomiti nelle ginocchia. Si sentiva sempre più debole e svogliato, aveva anche dei leggeri capogiri, veri o immaginari che fossero, a peggiorare la situazione. Quando finalmente si decise ad andare al lago per lavarsi la faccia, udì un suono provenire dall’esterno. Quella novità gli fece dimenticare la sua stanchezza e, incuriosito, uscì dalla capanna. Appena superato l’uscio della porta intravide a metà strada tra la casa e il lago una pallina bianca lucente, si avvicinò lentamente a quello strano visitatore. Si trovava a pochi metri da lui quando, sentendolo miagolare, capì che si trattava di un insolito gatto. Il colore del pelo era di un bianco lucente che ricordava il cotone, il portamento regale diffondeva nell’ambiente circostante tranquillità. A partire dal punto dove stava il bellissimo gatto, aveva inizio uno stretto percorso ornato da rose gialle e rosa e calle. Questo fenomeno stupì Cisco che, nonostante ignorasse anche le basilari fondamenta della botanica, non riusciva a spiegarsi come tanti fiori e piante fossero nate e cresciute in una sola notte. Il percorso di fiori continuava disegnando curve, cerchi e figure varie per poi perdersi nell’orizzonte. Era poi evidenziato da una luce particolare che faceva risaltare ancora di più i rigogliosi fiori. Pareva che le rose e le calle monopolizzassero i raggi del sole. Il gatto sornione fece un piccolo balzo e girò intorno

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al cacciatore di mosche e subito spuntarono, da ogni tratto di terra toccata dal gatto, rose gialle seguite da rose rosa e circondate da poche calle di contorno. La magica nascita di quei fiori inizialmente fece tremare Cisco spaventato, poi una lacrima cominciò ad attraversargli il viso e associò quella miracolosa presenza con la persona che l’aveva abbandonato quando ancora era un bambino. Le gambe non riuscirono più a sostenerlo e cadde con le ginocchia in terra, cominciò a piangere come non aveva mai fatto e, con la voce tremante, balbuziente, che voleva scaricare rancore e rabbia trattenuta per tanti anni, iniziò un lungo sfogo «Mamma, mi hai rovinato la vita» disse, quindi cominciò a singhiozzare fortemente, le parole uscivano lentamente e incomprensibili. «Ti ricordi quel piccolo orto davanti a casa dove mi insegnavi a coltivare i fiori? Non me la cavavo tanto male, no? È uno dei miei pochi ricordi veramente vivi nella mente. È strano il cervello, mamma, abbiamo vissuto così tanti momenti felici insieme; perché, secondo te, li ho rimossi?» Il gatto bianco continuava a disegnare dei cerchi di fiori gialli e rosa intorno a Cisco che continuava a piangere a singhiozzi. Ogni tanto il ragazzo si fermava, respirava lentamente e cercava le parole per iniziare un discorso che gli fermentava dentro da anni, ma ogni sforzo risultava vano. Non riusciva a emettere nessun suono, sia per la forte emozione di quell’incredibile momento ma anche perché il discorso che aveva tenuto dentro a sé per tutta una vita, le parole che lo avevano accompagnato in tanti momenti difficili, doveva ora pronunciarlo davanti a un gatto, molto bello e dal colore insolito ma pur sempre un gatto. Quando finalmente riuscì e a calmarsi guardò fisso negli occhi la sua mamma-gatto, due occhi grandi e di due colori diversi, uno giallo e uno azzurro, e cominciò il suo confuso discorso «Ti ho delusa, vero? È strano, ma solo ora mi rendo conto che ci sono cose della mia vita che conosci solo tu. Devi essere fortemente delusa dal tuo unico figlio. Mi hai amputato il cuore andandotene, mamma. Avrei voluto condividere tantissime cose con te: ti avrei voluto far conoscere

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qualche mia ragazza, vedere il tuo viso preoccupato prima di un mio esame e abbracciarti dopo averlo superato. Ti avrei voluto parlare nei miei momenti difficili. Tanti li ho vissuti per colpa tua, sai, se tu fossi rimasta con me probabilmente adesso avrei più fiducia nella vita, in me stesso e sarei anche più felice. Sarei diventato un ragazzo molto più coraggioso, che non scarica sempre le sue colpe sugli altri e non fugge continuamente dalle difficoltà. I miei difetti sono un prodotto esclusivamente tuo.» Cisco mise da parte il rancore e la rabbia, si fece prendere dai ricordi felici e si distese per terra con le mani dietro alla testa. Cominciò a pensare a tutti i momenti che lo legavano alla madre, ai suoi fiori, all’amore per José, ai suoi sguardi prima severi poi via via più dolci e sorridenti, all’amore per le sue tre gatte. Mentre Cisco pensava a sua madre, il gatto bianco cotone si accovacciò vicino alla sua ascella e si assopirono insieme in quel momento. Cisco si addormentò sereno e tranquillo con il gatto poggiato sul suo corpo e sognò intensamente quella giornata. Con i sogni ritornò alla sua infanzia, al cappello di paglia che gli regalò il nonno quando decise di fare il contadino, all’orto curato con la madre. Sognò anche le tre gatte, le bellissime gatte con cui aveva condiviso la morte di Florinda. La grande e la media si erano avvicinate ancora di più dopo la scomparsa della padrona, non passava momento senza che si facessero le fusa, si dessero forza tra loro. La gatta piccola invece si era chiusa in un silenzio infinito. Nel momento in cui Florinda esalò l’ultimo respiro la gatta piccola miagolò per l’ultima volta nella sua vita. Visse anche lei quel dolore portandoselo dentro e lasciandolo sedimentare senza trovare consolazione in niente e nessuno. Nel sogno ripercorse il momento del distacco, quando si era ritrovato solo con il mondo ad aspettarlo al varco. Il destino gli aveva aperto un immenso solco nel cuore, una ferita che rimase aperta tutta la vita, che gli ricordava le cose belle di cui era stato derubato ma anche quelle, bellissime, che aveva avuto la fortuna di vivere. Quando si svegliò il gatto non era più vicino a lui ed era sparita anche la scia di rose e calle che aveva accompagnato la sua venuta. Cisco questa volta pensò di aver sognato veramente fino a quando non vide, davanti all’ingresso della capanna, una bellissima rosa dall’aspetto regale che dava a tutto l’ambiente un tocco di felicità.

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Cisco si avvicinò, gli si chinò innanzi e, con un sorriso, si diede un bacio nel palmo della mano per poi soffiarlo verso il bellissimo fiore. Lo osservò per ancora qualche minuto prima di salutarlo definitivamente «Addio, mamma.» FINE ANTEPRIMACONTINUA...