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1 Giuseppe Gioacchino Belli La vita, il profilo letterario e le opere Belli nacque a Roma il 7 settembre 1791 da Gaudenzio Belli, computista papale, e da Luigia Mazio, donna di agiata famiglia napoletana. Con la venuta dei francesi e la proclamazione della Repubblica romana, il poeta, a soli sette anni, fu costretto a fuggire a Napoli con la madre (che aveva dato asilo a un parente, il generale Gen- naro Valentino, accusato di tradimento dai francesi e poi fucilato), mentre venivano confiscati al padre tutti i suoi beni. Si aprì per la famiglia Belli un periodo di sofferenze e disagi economici che ebbe fine solo con la caduta della Repubblica e il ritorno del papa a Roma; Gaudenzio, in- fatti, ottenne da Pio VII una carica molto redditizia presso il porto di Civitavecchia. L’illusione di una ritrovata agiatezza, però, svanì presto: nel 1802 Gaudenzio morì di colera lasciando un patrimonio inconsistente per i grandi sperperi compiuti. La famiglia ritornò a Roma dove l’attendevano nuovi lutti: nel 1807 morì la madre del poeta e nel 1809 il fratello Carlo. Mentre la sorella Flaminia si ritirò in convento, Gioacchino portò avanti una vita di stenti, tra lavori precari che lo costrinsero ad abbandonare gli studi del Collegio Romano. La poesia, comunque, esercitò su di lui un grande fascino e, ispirandosi anche ai luttuosi eventi autobiografici, Belli scrisse componimenti in versi sciolti o in terza rima, come, ad esempio, Il diluvio universale, Lamentazioni, La pestilenza stata a Firenze l’anno di nostra salute 1348. Pian piano il poeta entrò a far parte dell’ambiente culturale romano: nel 1812 frequentò l’Accademia degli Elleni e nel 1813 l’Accademia Tiberina, il cui scopo era di promuovere studi retorici a Roma e di cui Belli fu uno dei fondatori. Nel 1816 si unì in matrimonio con Maria Conti, una ricca vedova, e poté concedersi una vita più agiata; visitò, allora, numerose città italiane, entrando in contatto con ambienti culturali molto attivi come quelli di Venezia e di Firenze. A Milano, inoltre, conobbe le poesie di Carlo Porta, che diedero un vero e proprio impulso alla sua produzione sonettistica in romanesco, sulla quale si concentrò tra il 1830 e il 1837. Nel 1824, intanto, iniziò a compilare uno Zibaldone, che redasse fino al 1840 e grazie al quale è possibile conoscere i suoi interessi, i suoi studi e la sua cultura. Negli anni Venti furono ancora numerosi i suoi scritti in lingua come i sonetti amorosi composti per la marchesa Vincenza Roberti, conosciuta nel ’21, alla quale il poeta rimarrà sempre affettuosamente legato. Morta la moglie nel 1837, la sua produzione poetica si interruppe bruscamente e l’autore, insieme al figlio Ciro, si ritrovò ad affrontare nuovi disagi economici. Nel 1838, dunque, rientrò nell’Ac- cademia Tiberina, dalla quale si era dimesso dieci anni prima, e riprese l’attività poetica, accompagnata però da altri impieghi necessari per vivere. Nel 1839 e suc- cessivamente nel 1843, pubblicò le sue raccolte di poesie in lingua, Versi e Versi inediti (ma l’edizione completa, comprendente sonetti, odi, canzoni, capitoli ed epistole è uscita soltanto nel 1975, in tre volumi dal titolo Belli italiano), mentre tra il ’43 e il ’49 riprese la sua produzione in dialetto (che si espresse nella sola

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Giuseppe Gioacchino BelliLa vita, il profilo letterario e le opere

Belli nacque a Roma il 7 settembre 1791 da Gaudenzio Belli, computista papale, e da Luigia Mazio, donna di agiata famiglia napoletana. Con la venuta dei francesi e la proclamazione della Repubblica romana, il poeta, a soli sette anni, fu costretto a fuggire a Napoli con la madre (che aveva dato asilo a un parente, il generale Gen-naro Valentino, accusato di tradimento dai francesi e poi fucilato), mentre venivano confiscati al padre tutti i suoi beni.Si aprì per la famiglia Belli un periodo di sofferenze e disagi economici che ebbe fine solo con la caduta della Repubblica e il ritorno del papa a Roma; Gaudenzio, in-fatti, ottenne da Pio VII una carica molto redditizia presso il porto di Civitavecchia. L’illusione di una ritrovata agiatezza, però, svanì presto: nel 1802 Gaudenzio morì di colera lasciando un patrimonio inconsistente per i grandi sperperi compiuti. La famiglia ritornò a Roma dove l’attendevano nuovi lutti: nel 1807 morì la madre del poeta e nel 1809 il fratello Carlo. Mentre la sorella Flaminia si ritirò in convento, Gioacchino portò avanti una vita di stenti, tra lavori precari che lo costrinsero ad abbandonare gli studi del Collegio Romano. La poesia, comunque, esercitò su di lui un grande fascino e, ispirandosi anche ai luttuosi eventi autobiografici, Belli scrisse componimenti in versi sciolti o in terza rima, come, ad esempio, Il diluvio universale, Lamentazioni, La pestilenza stata a Firenze l’anno di nostra salute 1348.Pian piano il poeta entrò a far parte dell’ambiente culturale romano: nel 1812 frequentò l’Accademia degli Elleni e nel 1813 l’Accademia Tiberina, il cui scopo era di promuovere studi retorici a Roma e di cui Belli fu uno dei fondatori. Nel 1816 si unì in matrimonio con Maria Conti, una ricca vedova, e poté concedersi una vita più agiata; visitò, allora, numerose città italiane, entrando in contatto con ambienti culturali molto attivi come quelli di Venezia e di Firenze. A Milano, inoltre, conobbe le poesie di Carlo Porta, che diedero un vero e proprio impulso alla sua produzione sonettistica in romanesco, sulla quale si concentrò tra il 1830 e il 1837. Nel 1824, intanto, iniziò a compilare uno Zibaldone, che redasse fino al 1840 e grazie al quale è possibile conoscere i suoi interessi, i suoi studi e la sua cultura. Negli anni Venti furono ancora numerosi i suoi scritti in lingua come i sonetti amorosi composti per la marchesa Vincenza Roberti, conosciuta nel ’21, alla quale il poeta rimarrà sempre affettuosamente legato. Morta la moglie nel 1837, la sua produzione poetica si interruppe bruscamente e l’autore, insieme al figlio Ciro, si ritrovò ad affrontare nuovi disagi economici. Nel 1838, dunque, rientrò nell’Ac-cademia Tiberina, dalla quale si era dimesso dieci anni prima, e riprese l’attività poetica, accompagnata però da altri impieghi necessari per vivere. Nel 1839 e suc-cessivamente nel 1843, pubblicò le sue raccolte di poesie in lingua, Versi e Versi inediti (ma l’edizione completa, comprendente sonetti, odi, canzoni, capitoli ed epistole è uscita soltanto nel 1975, in tre volumi dal titolo Belli italiano), mentre tra il ’43 e il ’49 riprese la sua produzione in dialetto (che si espresse nella sola

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forma del sonetto), che col tempo divenne sempre più rarefatta. Intanto, in campo politico, si spostò verso posizioni sempre più reazionarie, che apparvero in tutta la loro evidenza nel 1848, quando assunse chiari atteggiamenti antimazziniani. Nel ’50 fu eletto presidente della Tiberina e nel ’52 rivestì la carica di censore, portata avanti con molta severità e rigore fino alla morte, avvenuta a Roma il 21 dicembre del 1863.Se in vita Belli aveva affidato la propria immagine poetica alle opere in lingua, legate alla tradizione classica e al conservatorismo accademico, la sua fama presso i posteri è però dovuta alla produzione dialettale, che, al contrario della prima, l’autore aveva fatto scorrere sul binario della clandestinità, dati i suoi contenuti dissacratori e spesso osceni, poco confacenti al clima culturale della Roma papale. La poesia dialettale di Belli, riunita in una raccolta intitolata Sonetti, consta di più di duemila composizioni, che nei manoscritti autografi recano anche un titolo e la data di composizione. Nell’Introduzione all’opera l’autore spiega di voler lasciare un monumento «di quella che oggi è la plebe a Roma», esplicitando in questo modo la direzione che intende seguire: come già aveva fatto Porta, Belli vuole fotogra-fare il mondo brulicante e multiforme della sua città, lasciando la parola alla plebe; rispetto all’autore lombardo, però, ci sono delle importanti differenze. A Roma non c’era, in primo luogo, una tradizione di poesia dialettale di riferimento come quella di cui si poteva vantare Milano, dove peraltro il dialetto aveva assunto una certa dignità linguistica; inoltre, mentre Porta sembra teso verso l’ideale di una società migliore, Belli fa trasparire ovunque la sua totale sfiducia in un rinnovamento so-ciale, assumendo un atteggiamento carico di pessimismo. La realtà che presenta il poeta è fatta di uomini miserabili, costretti a vivere in un mondo di ingiustizie e prevaricazioni dal quale non esistono vie di fuga. È un’amara rassegnazione quella che li caratterizza e che li spinge addirittura ad aborrire ogni cambiamento dello status quo, in un’inesorabile accettazione della loro oppressione; li vediamo, al-lora, avere in odio i carbonari e tutti quelli che inseguono ideali di rinnovamento, intenti solo a portare avanti una lotta per la sopravvivenza.Il dialetto, come anche nelle composizioni portiane, diviene strumento della rap-presentazione cruda e senza veli di questa realtà di popolani senza futuro e di po-tenti che non nutrono alcun desiderio di migliorare le condizioni della plebe, chiusi in un freddo disinteresse dal quale non rifugge nemmeno il papa. Quest’ultimo, agli sguardi di quella massa diseredata, non appare circondato da un’aurea sacralità, ma piuttosto dalla corruzione dei costumi e dall’indifferenza per la sua missione spirituale: «Lui l’aria, l’acqua, er zole, er vino, er pane, / li crede robba sua: È tutto mio; / come a sto monno nun ce fussi un cane». Niente più è sacro e nulla può dare nuove speranze: è questa l’ottica disincantata e dissacrante di un autore che, con il dialetto e con un linguaggio forte e dirompente, vuole esprimere tutto il suo pessimismo nei confronti di una società, come quella romana, corrotta e senza scrupoli, divisa tra i fasti del ceto ecclesiastico, aggrappato ai propri privilegi, e la miseria della plebe, abbandonata a se stessa.

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L’operaSonetti

La raccolta dei componimenti dialettali di Belli è intitolata genericamente Sonetti e, nell’intenzione dell’autore, che li aveva sempre diffusi in maniera clandestina tra una ristretta cerchia di amici, doveva andare distrutta dopo la sua morte. Una prima pubblicazione parziale dei sonetti, mai completamente sistemata dal poeta, fu opera del figlio Ciro e solo tra il 1886 e il 1889, dopo altre edizioni purgate e manomesse, si ebbe una grande raccolta in sei volumi.Con i suoi sonetti Belli getta una nuova luce sul mondo della Roma papale, dove si muovono nobili ed ecclesiastici, ipocriti e corrotti, nonché una massa informe di uo-mini che vivono in condizioni disperate, senza alcuna prospettiva di cambiamento. Il pessimismo del poeta si evince dalla sua totale rinuncia alla stessa condanna di questa realtà, che lui si limita a registrare con assoluto distacco, allontanando da sé ogni più viva partecipazione emotiva. Con una prospettiva “dal basso”, dando piena voce ai diseredati dell’Urbe eterna, Belli traccia la profonda distanza e sottolinea l’indifferenza che separa le due anime di Roma. Esempio di quest’amara poesia è sicuramente il so-netto Er giorno der giudizzio, nel quale lo sguardo popolare non risparmia nemmeno le immagini sacre. In un mondo dove dominano la miseria e la noncuranza, niente più è sacro e ogni cosa appare priva di contenuto, di importanza: quello che conta è la mera lotta per la sopravvivenza. Tra le poesie più note di quest’ampia raccolta vi sono anche: Er padre e la fijja, Er papa, Er passa-mano, L’angeli ribbelli, Li du’ ggener’umani.

Er giorno del giudizioUn popolano di Roma rielabora, in maniera straniante eppur immediata, e riportandola agli schemi della propria realtà, l’immagine del “giorno del giudizio”, nella quale appaiono angioloni, scheletri e un Dio che, avendo diviso i cattivi dai buoni, manda i primi giù in cantina e i secondi in alto sul tetto.

[Sonetti]

Cuattro angioloni co le tromme in boccase metteranno uno pe ccantonea ssonà poi co ttanto de voscionecominceranno a ddì: ffora a cchi ttocca.

Allora vierà ssù una filastroccade schertri da la terra a ppecorone,per rripijjà figura de perzone,come purcini attorno de la bbiocca.

Quattro grandi angeli con le trombe in boccasi collocheranno ai quattro angoli dell’Universoa suonare1 poi con un gran vocionecominceranno a dire: fuori a chi tocca.

Allora verrà su una filadi scheletri dalla terra carponi2,per riprendere sembianza umana,come pulcini attorno alla chioccia3.

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Metro: sonetto di versi endecasillabi; rime a schema ABBA-ABBA, CdC-dCd

1. Quattro … suonare: la descrizione del Giudizio universale riprende sia le descri-zioni bibliche (l’Apocalisse di Giovanni) che le rappresentazioni iconografiche pre-senti in molte chiese.

2. carponi: a quattro zampe come le pe-core: è così messa in rilievo la loro sotto-missione al giudizio divino.3. chioccia: il paragone tra Dio e la chioc-cia lo si ritrova nelle Scritture.

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E sta bbiocca sarà Ddio bbenedetto,che ne farà du’ parte, bbianca e nera:una pe annà in cantina, una sur tetto.

All’urtimo usscirà ’na sonajjerad’Angioli, e, ccome si s’annassi a lletto,smorzeranno li lumi, e bbona sera.

E questa chioccia sarà Dio benedetto,il quale dividerà le anime in due schiere, una

[bianca e una nera4:una per andare in cantina, una sul tetto5.

In ultimo uscirà un gruppodi Angeli, e, come se si stesse andando a letto,spegneranno le luci, e buona sera.

4. due schiere … nera: le due schiere sono quelle dei dannati e dei salvati.

5. una per … tetto: l’opposizione can-tina-tetto si riferisce a quella Inferno-

Paradiso; ha una connotazione molto popolaresca.

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Leggere e interpretare

Una descri-zione “popo-lareggiante” del Giudizio

Universale

Un popolano romano descrive quello che per lui sarà il Giudizio universale: quattro grandi angeli, con le loro trombe, chiameranno a raccolta tutte le anime che da Dio saranno man-date all’Inferno o in Paradiso, dopodiché ci sarà il buio, il nulla. L’evento biblico è descritto con immagini dalle forti movenze popolari che si intrecciano con le rappresentazioni scrit-turali ed ecclesiastiche. Ne è un valido esempio l’undicesimo verso, nel quale l’Inferno e il Paradiso sono evocati rispettivamente dalla cantina e dal tetto, elementare opposizione di

basso e alto che concerne la vita di tutti i giorni. Ma molto forte è soprattutto l’immagine che ci regala l’ultimo verso del sonetto, dove lo spegnersi delle luci rivela l’angosciante tragicità della fine della vita umana. Il sonetto, rappresentando la divaricazione tra le immagini popolari del Giudizio universale e le rappresentazioni canoniche, intende anche mettere in rilievo la distanza che separa, nella vita di tutti i giorni, il mondo ecclesiastico, ancorato ai propri privilegi e a un ostinato disinteresse verso la sua missione spirituale, e quello delle classi subalterne romane, prive di ogni speranza e dimenticate persino da una Chiesa che invece dovrebbe proteggerle. Come in altri sonetti, è vivo anche qui il sentimento demistificatore e pessimistico di Belli, che, con esiti alquanto grotteschi, rappresenta la desolante indifferenza tra le persone e la negatività della condizione umana, anche dopo la morte.

L’uso del dialetto

Con un linguaggio vivo e irriverente, Belli dà piena voce al mondo dei diseredati del popolo romano, servendosi delle loro espressioni. Il dialetto romanesco, privo di artifici e ricco di grande immediatezza, diventa così uno strumento efficacissimo per rappresentare quel mondo emarginato e dimenticato. Il testo presenta una serie di analogie e di metafore, di carattere popolare, con le quali la voce parlante rappresenta il Giudizio universale.

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dal testo alla produzione

1. Chi sono i veri protagonisti del sonetto di Belli?

2. Riporta i diversi momenti del Giudizio universale descritto nel sonetto.

3. In quale passo del sonetto appare più chiara l’angoscia dell’uomo per il Giudizio che dovrà arri-vare? E perché?

4. Quale sentimento fa da sfondo al sonetto?

5. Quali sono le metafore e le analogie che la voce parlante utilizza per rappresentare il Giudizio universale?

6. I sentimenti che animano la poesia di Belli sono gli stessi di Porta?

7. Secondo te la Chiesa, al giorno d’oggi, svolge una funzione sociale più incisiva rispetto al pas-sato?