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i luoghi La strada che mi ha tagliato la vita SIMONA VINCI cultura Ella Maillart, l’ultima viaggiatrice STEFANO MALATESTA la lettura Rocky Marciano, boxeur brocco e vincente EMANUELA AUDISIO e ANTONIO MONDA SHANGHAI P iù di tanti celebrati progressi tecnologici, l’invenzione di una semplice scatola di metallo ha cambiato il mon- do senza che ce ne accorgessimo. Il 26 aprile di cin- quant’anni fa al porto di Newark, New Jersey, una gru caricava 55 grandi contenitori metallici su una vecchia carretta dei mari, la Ideal-X, una petroliera arrugginita della seconda guer- ra mondiale. Cinque giorni dopo la nave attraccava a Houston do- ve 55 camion aspettavano il carico da portare a destinazione. Nel 1956 il viaggio passò inosservato. Nessuno poteva immaginare che quella data segnava l’inizio di una rivoluzione. In quel tra- sporto di mezzo secolo fa era nato il primo container, la Scatola, il recipiente universale che da allora è diventato uno strumento es- senziale della globalizzazione. Un banale, brutto parallelepipedo di ferro ha reso il mondo molto più piccolo. Le sue conseguenze sulla nostra vita quotidiana, sull’economia e sulla geopolitica del- le nazioni sono state tanto profonde da eguagliare per importan- za la diffusione dell’informatica. Se infatti il computer e Internet hanno trasformato il flusso delle informazioni, l’avvento del con- tainer ha rivoluzionato il flusso planetario di tutte le merci, dalle materie prime agli oggetti di consumo. I vestiti che indosso in que- sto momento, i mobili di casa mia, il mio telefonino, il computer, gli ingredienti del mio pranzo: tutto è arrivato via mare o su tir o su treno, al supermercato o nella boutique, dopo essere stato imbal- lato e caricato in uno dei milioni di container, rigorosamente iden- tici per formato e dimensioni, che traversano i continenti senza so- sta, nel viavai incessante del commercio globale. Oggi sembra normale che le merci cinesi ci arrivino in casa a una frazione del costo degli stessi prodotti fatti a Biella o Treviso. In realtà è il crollo dei costi di trasporto che ha cambiato la logica de- gli scambi, ha sconvolto la specializzazione internazionale del la- voro. C’è un mondo “prima” e un mondo “dopo” l’avvento del con- tainer. Il simbolo di un’èra scomparsa è il muscoloso Terry Malloy, il portuale recitato da Marlon Brando nel film Fronte del porto: un personaggio irrimediabilmente datato, assente nei maggiori porti di oggi, città di robot dove gli addetti in camice bianco program- mano sui computer il lavoro di gru imponenti, che fanno volteg- giare in aria il balletto dei container tra navi giganti, treni merci e colonne di camion. Quando il porto di Oakland-San Francisco tre anni fa ordinò nuove gru solleva-container, erano così alte che il passaggio della nave che le importava dalla Cina rischiò di spezza- re il Bay Bridge, il celebre ponte della Baia californiana. Una manifestazione estrema di questo cambiamento oggi la si può osservare a Shanghai, dove in due anni e mezzo di lavoro incessante, notte e giorno, seimila operai hanno costruito quasi in alto mare il più grande porto del mondo: Yangshan, su un’isola semiartificiale, colle- gata alla terraferma da un ponte di 36 chilometri con autostrada a sei corsie. Qui arrivano le mega-navi della nuova generazione, città gal- leggianti come la Msc Pamela che trasporta 9.200 container. (segue nelle pagine successive) con un servizio di RICCARDO STAGLIANÒ il racconto La folla di ombre nei luoghi di guerra GIORGIO BOCCA e CARLOTTA MISMETTI CAPUA la memoria Bubblegum, la nostra idea dell’America LAURA LAURENZI e VITTORIO ZUCCONI FEDERICO RAMPINI spettacoli Il film su Beatrix Potter, regina delle fiabe ENRICO FRANCESCHINI Box The Cinquant’anni fa nel New Jersey nasceva il container Oggi è considerato il veicolo e il simbolo del mercato globale DOMENICA 23 APRILE 2006 D omenica La di Repubblica Repubblica Nazionale 35 23/04/2006

nel New Jersey TheBox - la Repubblicadownload.repubblica.it/pdf/domenica/2006/23042006.pdf · 2006-04-23 · ricano Marc Levinson dedica lo studio intitolato The Box (la sca-tola)

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i luoghi

La strada che mi ha tagliato la vitaSIMONA VINCI

cultura

Ella Maillart, l’ultima viaggiatriceSTEFANO MALATESTA

la lettura

Rocky Marciano, boxeur brocco e vincenteEMANUELA AUDISIO e ANTONIO MONDA

SHANGHAI

Più di tanti celebrati progressi tecnologici, l’invenzionedi una semplice scatola di metallo ha cambiato il mon-do senza che ce ne accorgessimo. Il 26 aprile di cin-quant’anni fa al porto di Newark, New Jersey, una gru

caricava 55 grandi contenitori metallici su una vecchia carrettadei mari, la Ideal-X, una petroliera arrugginita della seconda guer-ra mondiale. Cinque giorni dopo la nave attraccava a Houston do-ve 55 camion aspettavano il carico da portare a destinazione. Nel1956 il viaggio passò inosservato. Nessuno poteva immaginareche quella data segnava l’inizio di una rivoluzione. In quel tra-sporto di mezzo secolo fa era nato il primo container, la Scatola, ilrecipiente universale che da allora è diventato uno strumento es-senziale della globalizzazione. Un banale, brutto parallelepipedodi ferro ha reso il mondo molto più piccolo. Le sue conseguenzesulla nostra vita quotidiana, sull’economia e sulla geopolitica del-le nazioni sono state tanto profonde da eguagliare per importan-za la diffusione dell’informatica. Se infatti il computer e Internethanno trasformato il flusso delle informazioni, l’avvento del con-tainer ha rivoluzionato il flusso planetario di tutte le merci, dallematerie prime agli oggetti di consumo. I vestiti che indosso in que-sto momento, i mobili di casa mia, il mio telefonino, il computer,gli ingredienti del mio pranzo: tutto è arrivato via mare o su tir o sutreno, al supermercato o nella boutique, dopo essere stato imbal-

lato e caricato in uno dei milioni di container, rigorosamente iden-tici per formato e dimensioni, che traversano i continenti senza so-sta, nel viavai incessante del commercio globale.

Oggi sembra normale che le merci cinesi ci arrivino in casa a unafrazione del costo degli stessi prodotti fatti a Biella o Treviso. Inrealtà è il crollo dei costi di trasporto che ha cambiato la logica de-gli scambi, ha sconvolto la specializzazione internazionale del la-voro. C’è un mondo “prima” e un mondo “dopo” l’avvento del con-tainer. Il simbolo di un’èra scomparsa è il muscoloso Terry Malloy,il portuale recitato da Marlon Brando nel film Fronte del porto: unpersonaggio irrimediabilmente datato, assente nei maggiori portidi oggi, città di robot dove gli addetti in camice bianco program-mano sui computer il lavoro di gru imponenti, che fanno volteg-giare in aria il balletto dei container tra navi giganti, treni merci ecolonne di camion. Quando il porto di Oakland-San Francisco treanni fa ordinò nuove gru solleva-container, erano così alte che ilpassaggio della nave che le importava dalla Cina rischiò di spezza-re il Bay Bridge, il celebre ponte della Baia californiana.

Una manifestazione estrema di questo cambiamento oggi la si puòosservare a Shanghai, dove in due anni e mezzo di lavoro incessante,notte e giorno, seimila operai hanno costruito quasi in alto mare il piùgrande porto del mondo: Yangshan, su un’isola semiartificiale, colle-gata alla terraferma da un ponte di 36 chilometri con autostrada a seicorsie. Qui arrivano le mega-navi della nuova generazione, città gal-leggianti come la Msc Pamela che trasporta 9.200 container.

(segue nelle pagine successive)con un servizio di RICCARDO STAGLIANÒ

Trent’anni fa, dal garage di una casa californiana, uscivaun nuovo tipo di computer destinato a cambiare il mondo

il racconto

La folla di ombre nei luoghi di guerraGIORGIO BOCCA e CARLOTTA MISMETTI CAPUA

la memoria

Bubblegum, la nostra idea dell’AmericaLAURA LAURENZI e VITTORIO ZUCCONI

FEDERICO RAMPINI

spettacoli

Il film su Beatrix Potter, regina delle fiabeENRICO FRANCESCHINI

Lettere d’amore

BoxTheCinquant’anni fanel New Jersey

nasceva il container

Oggi è consideratoil veicolo e il simbolodel mercato globale

DOMENICA 23 APRILE 2006

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di Repubblica

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la copertina36 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 APRILE 2006

Il 26 aprile di cinquant’anni fa, a Newark, una grucaricava 55 contenitori metallici su una vecchiacarretta del mare. Nessuno ci fece caso ma era natoil container, l’invenzione che ha cambiato il mondo

(segue dalla copertina)

L’ambiziosa Shanghai, la città che in vent’anni hacostruito il doppio dei grattacieli di New York, orapunta al primato sui mari. Con una capacità ditransito di trenta milioni di container all’anno,ben presto con il treno ad alta velocità e con la nuo-va fabbrica degli Airbus che ha scelto di insediarsi

proprio in questa zona di Shanghai, il porto di Yangshan lancia lasfida a Hong Kong, Singapore, Yokohama, Kaohsiung (Taiwan).Ben 14 sui 20 maggiori terminali portacontainer sono in Asia. Trale capitali marittime che regnano nella nuova gerarchia dei com-merci hanno ormai un ruolo minore porti dalla storia secolare co-me Genova, Marsiglia, Anversa, perfino Londra e New York.

Ai cinquant’anni della nascita del container l’economista ame-ricano Marc Levinson dedica lo studio intitolato The Box (la sca-tola). Lo storico navale Brian Cudahy pubblica Box Boats: how con-tainer ships changed the world (battelli per scatole: come le naviportacontainer hanno cambiato il mondo). Levinson ci ricordache mezzo secolo fa il trasporto delle merci non avveniva in unflusso unico ma in una serie di passaggi continuamente interrottie spezzati: dalla nave al treno al camion, ogni volta che cambiavail mezzo bisognava scaricare e ricaricare fisicamente il contenutoa forza di braccia. Bottiglie di whisky o sacchi di caffè, pneumaticio barattoli di pelati, ogni merce era un caso a sé, con imballaggi di-versi, formati incompatibili. Portuali, facchini, manovali, sudoredi schiene e bicipiti, fatica fisica e tragici incidenti sul lavoro, que-sta componente umana occupava un posto fondamentale nel bu-siness mercantile. Le operazioni di trasferimento da mare a terrarichiedevano tanta manodopera, facevano perdere tempo pre-zioso, imponevano soste della merce nei magazzini, moltiplica-vano i rischi di deperimento, danni e furti. «Per molti prodotti —calcola Levinson — la spedizione poteva incidere fino al 25 percento del costo finale». Svuotare una nave attraccata in banchinanel 1956 costava 5,83 dollari per tonnellata di merce, ma MalcomMcLean, proprietario di una grossa azienda americana di tra-sporti, spese solo 0,16 dollari a tonnellata per caricare la naveIdeal-X, grazie alla sua idea di usare dei contenitori metallici dellostesso formato dei suoi camion.

Era l’uovo di Colombo. Un’idea semplice e geniale. Eppure il suosuccesso non fu immediato. L’intuizione dell’inventore della Sca-tola sconvolgeva l’ordine costituito: minacciava mestieri antichi,la vocazione di intere città di mare, gli interessi di dinastie capitali-stiche di armatori. Per gestire lo smistamento dei container biso-gnava ridisegnare i porti, rafforzare le banchine, creare spazio perle grandi gru, costruire interconnessioni con le ferrovie e le auto-strade. In molti scali marittimi mancava il terreno necessario, era-no limitati dalla collocazione geografica (Genova) o dalla densitàdell’urbanizzazione (New York, Londra). La disgrazia di Rotter-dam rasa al suolo dai bombardamenti della seconda guerra mon-diale si trasformò in una fortuna, perché la città olandese trovò lospazio per reinventarsi come porto da container. I sindacati deiportuali lanciarono dure battaglie per tentare di frenare l’avanza-ta implacabile di un sistema destinato a decimarli. Si opponevanoanche molti armatori, per gli alti costi della riconversione delle flot-te. E poi non era semplice mettere d’accordo tanti paesi e tanti si-stemi di trasporto sulle dimensioni ideali del container, che avevaun senso solo se il mondo intero adottava uno standard unico.

La coalizione delle resistenze avrebbe potuto uccidere l’ideadella Scatola Globale. La svolta in suo favore avvenne con dieci an-ni di ritardo, a metà degli anni Sessanta, e in modo abbastanza for-tuito. La società di trasporti di Malcom McLean fu ingaggiata ne-gli appalti civili per la guerra del Vietnam. Nel massiccio sforzo lo-gistico dispiegato dalle forze armate americane per il lungo con-flitto del sud-est asiatico, i vertici militari s’innamorarono dellapraticità del container. L’adozione della Scatola da parte del piùpotente esercito mondiale fu la consacrazione decisiva per l’in-

venzione destinata a cambiare le regole del capitalismo. Dallametà degli anni Sessanta al decennio successivo, il commercio in-ternazionale aumentò a una velocità doppia rispetto alla stessacrescita dell’economia mondiale.

L’impatto più visibile della Scatola naturalmente ha investito ilsettore navale. Il caos variopinto dei porti di una volta è stato sosti-tuito da paesaggi maestosi ma freddi e asettici. In luoghi che nes-suno aveva mai sentito nominare come Busan (Corea del Sud) sor-gono sterminate file di banchine; gru d’acciaio alte settanta metricorrono sui binari per sollevare e posare un container ogni novan-ta secondi; navi da oltre centomila tonnellate si alternano alla ca-tena di montaggio. Le regine dei mari sono dei King Kong che de-vono poter stivare fino a otto piani sovrapposti di container nelleloro pance, e altri sei o sette strati sopra coperta, allineati ordinata-mente in file di venti. Le flotte impiegano una minuscola frazionedegli equipaggi di una volta. Una supernave può trasportare tre-mila container pieni di computer da Shanghai alla Germania cir-cumnavigando il Capo di Buona Speranza in tre settimane, con ap-pena venti persone a bordo per manovrarla. «Dalla Malesia al-l’Ohio — scrive Levinson — un carico di 35 tonnellate di merce puòpercorrere 17mila chilometri su nave treno e camion in 22 giorniper un prezzo inferiore a un solo biglietto aereo di prima classe».

Le conseguenze sono penetrate in profondità nella vita quoti-diana. Il crollo del costo dei trasporti a lunga distanza ha consen-tito quella seconda rivoluzione industriale chiamata il “toyoti-smo”: la capacità delle multinazionali di regolare con precisioneassoluta il flusso della produzione, modificando continuamenteil lavoro delle fabbriche per adattarlo alle scelte del consumatore.Automobili o maglioni, telefonini o scarpe, il modello dell’econo-mia mondiale è diventato la catena di ipermercati americani Wal-Mart: il gesto di un consumatore nel South Dakota che afferra unprodotto dallo scaffale e lo mette nel carrello della spesa, trasmet-te un impulso istantaneo che si trasforma in un ordine per una fab-brica in Asia.

Soprattutto, una volta che la distanza non è più una barriera, ilsalario di una ragazza cinese è entrato in gara con la paga dell’o-peraia tessile di Prato. Con l’avvento della Scatola globale ogni me-stiere industriale è stato messo di fronte a un’alternativa dram-matica: diventare internazionali o sparire. Essere geograficamen-te vicini al consumatore non è più un vantaggio significativo perchi produce beni industriali. A poche ore di autostrada, di ferroviao di canale fluviale dal nuovo megaporto di Shanghai, centinaia dimilioni di operai cinesi sono pronti a riempire i container per i no-stri supermercati, a un decimo del costo italiano. Il container hacontribuito a creare la nuova divisione sociale che spacca trasver-salmente tutte le società contemporanee: come consumatori, ilnostro tenore di vita è stato beneficiato da un’inondazione di pro-dotti a basso costo; come lavoratori, molti di noi sono costretti amisurarsi con la concorrenza di tre miliardi e mezzo di asiatici, inCina India e dintorni, le nuove potenze emergenti.

L’onnipresenza del container nell’economia mondiale ha an-che altri effetti, di cui non misuriamo ancora la pericolosità. Unporto come Long Beach (Los Angeles) gestisce ogni giorno il tran-sito di almeno diecimila container carichi di merci. «Non esisteneppure una remota possibilità — avverte Levinson — che gliispettori delle dogane o della polizia possano controllarli tutti, tan-to più che ogni container è a sua volta stipato di pacchi chiusi e si-gillati dal pavimento al soffitto». Il boom di efficienza e di trafficimondiali reso possibile dalla Scatola globale è altrettanto vantag-gioso per noi consumatori come lo è per i mercanti di droga o di ar-mi, il crimine organizzato e il terrorismo. Dopo l’11 settembre2001, gli esperti di antiterrorismo concordano nell’indicare neiporti marittimi il nuovo tallone d’Achille dell’Occidente. La possi-bilità che la Scatola un giorno trasporti in regalo un esplosivo nu-cleare, destinato a seminare la morte in una metropoli americanao europea, è un altro degli effetti imprevisti di quel cargo Ideal-Xche salpò dal New Jersey cinquant’anni fa.

La rivoluzione silenziosadella Scatola globale

FEDERICO RAMPINI

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Lo scompartimento su cui viaggia la globa-lizzazione. Il serial killer della distanza checi permette di consumare merci dall’origi-ne remota come se fossero prodotte sottocasa. Un ponte in movimento tra mondi eculture disparate. Ulrich Beck è convinto

del ruolo cruciale dei container nel rivoluzionare gliscambi commerciali prima e la società poi. E proprioper sottolineare l’aspetto “culturale” della vicenda ilsociologo della London School of Economics fa del pa-rallelepipedo di metallo un’icona di ciò che nel suo ul-timo saggio ha definito «cosmopolitismo».

Un libro spiega come la containerizzazione abbia al-terato per sempre i flussi del commercio mondiale.Troppo merito per un quadrilatero di latta?

«Il container è in effetti un fantastico paradigma del-la globalizzazione. È come se stesse tutta in quella sca-tola che uccide la distanza come solo sanno fare i nuo-vi strumenti di comunicazione.Rendendo gli scambi sempre piùeconomici ha fatto sì che un pro-dotto “tedesco” o “svedese” sia or-mai assemblato in diverse parti delmondo. È l’epitome di quello cheio chiamo «cosmopolitismo bana-le», di cui si fa esperienza quotidia-na guardando un uovo o un pescee pensando da dove viene. E che di-mostra una volta di più la crescen-te interdipendenza del mondo incui viviamo».

La delocalizzazione ha due fac-ce: da un lato i consumatori si av-vantaggiano di prodotti più eco-nomici, dall’altro perdono posti di lavoro e quindi po-tere d’acquisto. Quale effetto è prevalente?

«È un fenomeno molto ambivalente, di cui non sipuò dare un giudizio in termini di bianco e nero. Il suorisultato finale dipende dalla nostra reazione nei suoiconfronti. Viviamo in un periodo di trasformazione si-mile all’inizio della società industriale o alla rottura delsistema feudale nel XVI-XVII secolo. Anche allora il di-battito sul futuro che aspettava l’umanità era preva-lentemente pessimista».

Come bisogna porsi, invece?«Sin qui abbiamo definito la nostra situazione da una

prospettiva esclusivamente nazionale e non ha fun-zionato granché. Un caso tipico riguarda le migrazio-ni, molto difficili da gestire da un punto di vista nazio-nale. Mentre assumendo un punto di vista cosmopoli-ta si scopre che coloro che lavorano in Europa finan-ziano, oltre alla nostra, la loro economia in manieramolto più efficace di quanto noi facciamo con i nostriaiuti. Gli stessi cinesi hanno contribuito allo sviluppodel loro capitalismo con rimesse dall’estero. I britanni-ci, ad esempio, festeggiano San Valentino regalandorose che vengono dall’India perché molto economi-che. Ma a forza di comprarle è cresciuto anche un mo-vimento per migliorare le condizioni di quei lavoratorie i vari sistemi di commercio equo e solidale stannoavendo un impatto a migliaia di chilometri di distanza.Insomma, ogni giorno che passa ciò che facciamo nelnostro paese può avere conseguenze sempre più di-stanti».

E cosa si può fare per governare questi fenomeni?«Per proseguire con la metafora della scatola, non è

pensabile tornare alla società dei container nazionali.

Sarebbe soltanto una grande illusione, la «bugia di tut-te le bugie». Piuttosto si devono concepire politiche in-terne che abbiano sin da subito un orizzonte maggioredi quello nazionale. È un gioco di potere aperto in cuinegoziamo confini e attribuzioni con gli stati, le multi-nazionali, le organizzazioni internazionali, le ong. Nes-suna di queste entità può vincere da sola, tutte dipen-dono da alleanze e coalizioni».

Ci sono coalizioni più forti di altre?«La più consolidata è quella tra capitale globale e sta-

to nazione, tenuta insieme dall’economia di mercato,ma non è l’unica. I rischi globali, come l’uragano Katri-na e il terrorismo, danno agli stati — e alla società civi-le — nuove fonti di legittimazione. Allo stesso tempo,però, ne tolgono al capitale che spesso contribuisce acreare rischi come quelli ambientali. Quindi una se-conda opzione politica potrebbe essere una coalizionetra società civile e stato che cerchi di ristabilire il rispet-

to dei diritti base del lavoro e quellicivili nei confronti del capitale. Puòsembrare una visione cosmopolitautopistica ma la consapevolezzadella cooperazione transnaziona-le di fronte all’avanzata dei rischiglobali sta crescendo».

L’Europa, tra questi assetti va-riabili, come si comporta?

«Se si vede l’Unione europeacome un “gioco a somma positi-va” di stati la sovranità finisce peressere aumentata, non diminuitacome alcuni lamentano. Pensia-mo alla Polonia. Una parte erascettica verso l’integrazione, so-

no nati partiti di resistenza come Samo Obrona (unaspecie di Lega nord locale, ndr) che facevano appel-lo agli agricoltori della Pomerania. Bene, se adessoqualcuno prende in considerazione le loro rimo-stranze è proprio grazie all’ingresso nella Ue. Oppu-re guardiamo alla manodopera a basso prezzo dal-l’Est o dall’Africa. È impossibile opporsi da un pun-to di vista nazionale: provate a chiudere i confini e iprodotti della concorrenza straniera arriveranno viaInternet. L’unica è trasformarla in una questione eu-ropea, trovare un accordo sui salari minimi che nondevono essere gli stessi dappertutto. Ci sarà un rie-quilibrio tenendo conto delle differenze, un com-promesso tra paesi più e meno ricchi dal quale en-trambi guadagneranno. Nel lungo periodo ciò au-menterà la probabilità di risolvere i problemi inter-nazionali come l’invecchiamento delle società, la ri-duzione della forza lavoro e così via».

The Box tocca un altro aspetto cruciale della globa-lizzazione: la standardizzazione. Un mondo interdi-pendente ha bisogno delle stesse unità di misura, coni container che diventano un esperanto mercantile.Che fine faranno le peculiarità locali?

«La standardizzazione è una condizione necessariama non deve schiacciare tutto il resto, sarebbe una di-stopia. Anche all’interno degli standard lavorano for-ze di diversità. McDonald’s, anche in questo, è un mo-dello. In Cina è assai diverso che negli Usa. Oltre adaver integrato menu locali viene vissuto soprattuttocome un punto di incontro per i ragazzi, ha un’imma-gine più legata alla vita familiare, lì molto rilevante. Unesempio delle tante “poligamie culturali” di cui fare-mo esperienza».

“Così i nuovi mercantihanno scoperto

il loro esperanto”RICCARDO STAGLIANÒ

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 37DOMENICA 23 APRILE 2006

Ulrich Beck: quelparallelepipedo

con misure standardè il paradigmadel moderno

cosmopolitismo

È la larghezza standarddei container (otto piedinel sistema anglosassone)

2,44 mÈ l’altezza di tutti i containerin giro per il mondo (otto piedie sei pollici)

2,59 mÈ la lunghezza del containerbase (20 piedi). Può essereanche raddoppiata (40 piedi)

6,10 m

ILLUSTRAZIONE DI MIRCO TANGHERLINI

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Foto d’autore

Quello che capimmo in quei frenetici, straccioni,deludenti anni Trenta fu che la guerra era persaprima di cominciare. Dai richiami del ‘38, dalVallo Littorio del ‘39 fino all’intervento contro laFrancia del ‘40 uno spettacolo sconsolante di in-curia, di impreparazione, di azzardo, di stupi-

dità. Non eravamo antifascisti ma il fascismo se ne stava an-dando da solo con quella sua pretesa di essere un gigantementre era un nano, con il suo bluff scoperto, con quel suoconfrontarsi con le grandi nazioni. Se ne stava andando enon potevi far finta di non vederlo, di non capirlo.

Il peggio furono i richiami alle armi di un esercito senzamezzi, senza un vero comando. Ti svegli un mattino nellatua piccola città alpina, Cuneo, indossi abiti pesanti perchéè già nevicato sulla incombente montagna, esci per andarea scuola al ginnasio-liceo Silvio Pellico che sta nella cittàvecchia vicino al collegio dei salesiani, dove c’è la piazzettain cui Garibaldi riunì i primi Cacciatori delle Alpi che solo lapace di Villafranca poté fermare mentre stavano marciando

su Trento. Esci da casa e vedi che è incorso uno strano esodo, una lungafila di poveracci vestiti da poverac-ci, cioè con il vestito brutto che in-dossi quando vai sotto le armi e conle valigie di cartone che tiri giù dalsolaio quanto ti arriva la cartolinarossa, la cartolina precetto del ri-chiamo alle armi, e arrivato in piaz-za Vittorio, che sta fra la città nuovae quella vecchia, ti chiedi: ma questidove vanno? Perché le casermestanno nella città nuova e questi in-vece si dirigono sui portici di quellavecchia. E quando come ogni matti-no stai per entrare nei portici li trovioccupati dai poveracci.

Le caserme non sono pronte, lebrande e i materassi non sono arrivati, hanno buttato unostrato di paglia sotto i portici e lì i richiamati devono dormi-re. Non si sa neppure come dargli da mangiare. I mulini pri-vati non hanno scorte sufficienti, quelli dell’esercito sonolontani, fra Piacenza e Alessandria, bisogna aggiustarsi coni panettieri borghesi, pagare i prezzi che chiedono, oppurelasciare che i richiamati si arrangino, vendano ai civili i far-setti a maglia o i teli tenda che hanno appena ricevuto.

Quello fu il primo inverecondo spettacolo di un regimeche voleva conquistare il mondo avendo ancora le toppe neipantaloni. Poi arrivò il caos cementifero del Vallo Littorioche vedevamo sbalorditi con i nostri occhi, noi ragazzi cheogni domenica continuavamo ad andare in montagna. Ifrancesi avevano, dalla prima guerra mondiale, da quandol’Italia faceva parte della Triplice, l’alleanza con gli impericentrali, una linea fortificata che copriva l’intero confine dalmare al monte Dolent in Valle di Aosta. L’ordine di costrui-re il Vallo Littorio arrivò tardi, nel ’38, e fu una corsa disordi-nata agli appalti di quattrocento aziende, senza un precisopiano militare, con fortificazioni distribuite a caso.

I lavori prendono un ritmo frenetico, arrivano dal Bielle-se, dalla Bergamasca impresari famelici, alcuni con mezziridicoli, camion e badili, saltano tutti i controlli. Alcune for-

tificazioni sono prive degli impianti di aerazione, appena sispara i locali si riempiono di gas, i soldati svengono o esco-no all’aperto, alcuni si arrangiano mettendo le maschereantigas. In altre mancano i rivestimenti ai muri, l’acqua del-la neve filtra e può arrivare a metà gamba. I fossati anticarrosono poco profondi, un giorno che saliamo al Colle dellaMaddalena vediamo delle corde di acciaio tese sulla stradanei pressi del lago, un nostro fortificatore evidentementepensa che possano tendersi come elastici e buttare nel lagoi carri nemici. Anche in montagna le cucine da campo nonfunzionano, il rancio non arriva. E vediamo come i soldatirimediano: sparano sui camosci delle riserve reali, pescanonei laghi Sella con le bombe a mano, un boato e le trote mor-te vengono a galla.

Traforo troppo stretto per i cannoniCamminiamo per le nostre montagne e vediamo come si di-sfa un regime che si pretende militare e imperiale. Sempreal Colle della Maddalena stanno stendendo i reticolati e ilmaggiore che dirige i lavori telefona al comando che sta aBra: «Mi mancano i paletti». Dal comando rispondono:«Cercheremo di farteli avere. Intanto possiamo dire che listate mettendo?». Un giorno che siamo al Colle di Tenda ve-diamo una lenta carovana militare che sale verso il passo.Non può usare il traforo che è troppo stretto e basso per far-ci passare i cannoni giganti da 420 presi agli austriaci nellaguerra ‘15-’18. Li portano in Val Roj per una rivista del prin-cipe di Piemonte che comanda proforma la nostra armata.Uno dei cannoni giganti sparerà un unico colpo e la cannasi sfascia.

La posta non funziona, gli alpini ci danno delle lettere daimbucare giù in pianura. Mancano le pile per i telefoni dacampo, le radio sono pesanti, intrasportabili in alta monta-gna. Gli alpini che incontriamo ci dicono che il loro batta-glione conta più muli che soldati. Gli autieri del Genio chedevono percorrere tratturi impervi hanno trovato un modoper cavarsela: fingono un incidente, fanno uscire di stradala camionetta.

Come funzioni il comando dell’armata lo vediamo con inostri occhi. Il comando sta a Bra, sistemato in alcuni vago-ni letto delle ferrovie e nei locali del ristorante i Buoi rossi. Lecomunicazioni non funzionano e allora ogni comando di di-visione spedisce i suoi al fronte a vedere quel che succede.Succede che le auto si bloccano negli ingorghi stradali al-l’imbocco delle valli, dove le salmerie non riescono a prose-guire e i reparti avanzati non ricevono i rifornimenti.

Due armate nostre sono schierate lungo le Alpi, ventiduedivisioni, trecentomila uomini con tremila pezzi di artiglie-ria. E nessuno capisce perché si debba fare la guerra allaFrancia dove lavorano un milione di nostri emigrati. L’ecci-dio di lavoratori nostri a Aigues Mortes è stato dimenticato,gli italiani sono accolti fraternamente. Perché fare guerra aun paese già vinto, perché «il colpo di pugnale nella schie-na» come lo chiamerà Roosevelt?

Lo schieramento francese è ormai ridotto al minimo, daicinquecentomila uomini dell’inizio della guerra con la Ger-mania si è scesi ai pochi del 10 maggio, quando le ultime ri-serve sono state mandate al Nord per fronteggiare l’offensi-va della Wermacht. Restano 46 battaglioni per complessivi83mila soldati ma il morale di questi pochi è ancora buono,la linea fortificata è ottima e come ha scritto lo stratega Clau-sewitz «attaccare la Francia sulle Alpi è come pretendere di

LE MEMORIE DELLA GRANDE GUERRALe foto di Luca Campigotto mostrano i luoghi

della Grande Guerra tra Trentino e VenetoAccanto, Dosso del Sommo. Sotto, Forte Dossaccio

GIORGIO BOCCA

“Noi ragazzi che andavamoin montagna guardavamostupiti il caos cementifero

del Vallo Littorio”

La folla di ombretra le pietre

dove ha abitatola battaglia

Tre fotografi, nella cornice del Festival di Roma, mettonoin mostra le immagini di quel che resta delle frontierefortificate del Novecento italiano: il Pasubio e l’Ortigara,la Linea Gotica, la Cortina di ferro. E uno scrittoretestimone dell’attacco fascista alla Francia e protagonistadella Resistenza racconta i suoi “luoghi di guerra”

il racconto

38 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 APRILE 2006

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alzare un fucile afferrandolo per la punta di una baionetta».Il nostro comando lo sa: anche in caso di sfondamento, da-to lo stato delle strade e il numero dei valichi, non potremoavanzare che per pochi chilometri.

Quando il 10 giugno 1940 entriamo in guerra, la tacita in-tenzione del nostro comando affidato al maresciallo Bado-glio è di aspettare che i tedeschi abbiano sconfitto le arma-te franco-inglesi, cioè il tacito «se io non attacco, voi non at-taccate». Ma si può star fermi se a Roma c’è un Mussolini chevuole ad ogni costo «qualche migliaio di morti per sedersi altavolo della pace?». Bisogna attaccare, costi quel che costi.

Le “scatole di sardine” si impigliano nei reticolatiIl costo è ancora alto, ce ne accorgiamo noi che stiamo nel-le immediate retrovie: gli ospedali non bastano ad accoglie-re le migliaia di soldati congelati, perché mancano le diviseinvernali di lana e si combatte con quelle estive di tela, per-ché gli scarponi sono spesso di cartone e non di cuoio, e nel-la notte del 21 c’è stata un’abbondante nevicata. Le notizieche arrivano dal fronte sono catastrofiche: le divisioni cheattaccano il valico del Piccolo San Bernardo finiscono in unintasamento generale. È bastatauna frana sulla strada e la resistenzadi una compagnia di Chasseurs desAlpes perché si formasse una colon-na di chilometri, impossibile risalir-la con le autoambulanze e con le cu-cine da campo. I reparti che attacca-no in direzione di Briançon sono in-chiodati dalle artiglierie del forteChaberton, i carri leggeri, le «scato-le di sardine» come li chiamano isoldati, si inceppano nei reticolati osi fermano per avarie al motore. Inun vallone un battaglione di fante-ria si ferma sotto una postazione dimitragliatrici francese. Il massacroè evitato dal comandante francese,il maggiore Rènard, che scende afarli prigionieri: 345 che si arrendono senza colpo ferire.

Ma sono le notizie che arrivano da Genova e da Torino afarci capire che da questa guerra siamo in pratica già usciti,se ci staremo fino al settembre del ‘43 sarà solo perché tenutiin piedi dai tedeschi. Quali notizie da Genova e da Torino?Nel mare di Genova in pieno giorno è comparsa una squa-dra francese con quattro incrociatori pesanti e venti caccia,si è messa a cannoneggiare indisturbata le fabbriche di Se-stri e di Vado ritirandosi solo nel tardo pomeriggio: la nostraaviazione non si è vista, i piloti dormivano e nessuno ha pen-sato di svegliarli. È il 15 giugno, l’aviazione inglese arriva suTorino, bombarda la Fiat senza che la nostra contraerea in-tervenga. E non interviene perché non c’è. Nel Mar Ligure lanostra flotta è arrivata tre giorni dopo l’attacco; dopo Tori-no, Mussolini telefona a Hitler perché gli mandi delle batte-rie. Un Hitler generoso e paziente ritarderà l’armistizio conla Francia fino a quando non sarà accettato anche quello conl’Italia. Dicono che all’ingresso dei plenipotenziari francesiil maresciallo Badoglio trattenesse a stento le lacrime dallavergogna.

Eppure il Vallo Littorio avrà almeno una parte preziosanella guerra partigiana: ci troveremo le centinaia di mitra-gliatrici abbandonate dal regio esercito.

GALLERIE, TRINCEE E FORTINella foto grande, una galleria sul Monte PasubioSopra, il Forte di Cima VezzenaAccanto, trincea sul Pasubio. Sotto, Forte Cherle

“In quelle fortificazionitrovammo poi centinaiadi mitragliatrici prezioseper la lotta partigiana”

CARLOTTA MISMETTI CAPUA

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 39DOMENICA 23 APRILE 2006

“Basta un clic nel silenzioe risenti urla e scoppi”

ROMA

Tutto lascia un’impronta di memoria. Dopo novanta o set-tanta anni una guerra cosa lascia, e dove lo lascia? Tre fotografihanno inseguito questa domanda, trovando ognuno cose diver-se. Luca Campigotto è partito dalle parole di Un anno sull’alto-piano di Emilio Lussu, e poi nel silenzio delle montagne ha tro-vato scenari fantastici come quelli de Il Signore degli Anelli. Harievocato l’angosciosa vita di trincee dove si uccideva per gua-dagnare venti metri e si moriva facendo le sentinelle, ha seguitole guide sugli itinerari bellici di Walther Schaumann per fotogra-fare il Pasubio, l’Ortigara, il Grappa. Per quattro anni ha cercato iluoghi della guerra, quando la guerra non c’è più: montagne sen-za carneficine, trincee senza gelo, forti senza mine. «Anche im-merso nel silenzio mi sembrava di sentire gli scoppi e le urla. Il fa-scino dei racconti era stato talmente forte che non potevo nonpensarci» racconta il fotografo, la cui mostra è al Museo di Romain Trastevere, a piazza San Egidio, fino al 30 aprile. «I luoghi di-cono molte cose».

Il trentenne Riccardo Mazzoni, che espone accanto a Campi-gotto, ha fotografato invece i bunker della linea gotica, la demar-cazione che divise in due l’Italia dopo l’8 settembre: la regioneToscana con il Touring Club ha appena varato una guida di iti-nerari da fare a piedi in questi luoghi: bunker e muraglioni forti-ficati, da La Spezia a Rimini. Lorenzo Vitturi, anche lui al Museodi Roma in Trastevere, documenta una memoria recente e pococonosciuta. Sovvenzionato da Fabrica, ha cercato e trovato mol-te tracce nell’entroterra di Gorizia delle fortificazioni lungo la“Cortina di ferro”, attive in Italia fino al 1994: ben oltre la cadutadel Muro. Ha fotografato casse mediche, bandiere corrose, unconfessionale abbandonato: tracce di un presidio che rimanda aIl deserto dei tartari.

Queste campagne fotografiche sui campi di battaglia del No-vecento sono nate in Francia, e proseguono ora in Italia sottol’egida del quinto Festival Internazionale di Roma FotoGrafia(direttore artistico Marco Delogu): una rete di 120 mostre col-legate da un solo tema, appunto il Novecento, che durerannofino al 31 maggio.

Ma il tema che ispira il lavoro di Campigotto, Mazzoni e Vittu-ri non si esaurisce qui. Altri progetti puntano a indagare i luoghidi guerra e gli strani oggetti che li abitano e che evocano cisterneromane, torri saracene, antichi pozzi, catacombe nelle colline. Eche in realtà sono quel che resta di dodicimila bunker dispersilungo le valli le strade e le coste di Paesi Bassi, Danimarca, Fran-cia, Belgio: i rifugi costruiti dai tedeschi fra il ‘39 e il ‘44. Oggi sonoluoghi senza scopo e senza futuro. Il Politecnico di Milano e laScuola di architettura di Versailles hanno costituito un progettoeuropeo per censire, fotografare e studiare un destino per que-sta linea di difesa: si chiama Atlantic Wall e per ora vive on-line.

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la memoriaMode planetarie

40 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 APRILE 2006

WASHINGTON

Gli si appiccicò sotto la suola della scarpa e non se ne liberòmai più. «È talmente stupido», si disse del mite e onesto pre-sidente degli Stati Uniti Gerald Ford, «che non riesce nep-pure a camminare e a fare le bolle con la gomma contem-

poraneamente». L’insulto originale era ancora più crudele e volgare, mafu l’immagine dell’idiota del chewing gum a restare incollata, perché nul-la come quella pallina di resina masticata a vuoto e gonfiata soltanto perscoppiare come l’ego di un politicante, dice subito, e da un secolo, «Ame-rica». Racconta la semplice metafora di una cultura che ha fatto salivaredi acquolina il mondo intero, dolciastra, colorata, accessibile, superficia-le e innocente.

Neppure la stecche di Lucky Strike o le tavolette di cioccolato Her-shey lanciate dai carri Sherman che sferragliavano per le vie dell’Euro-pa liberata da fascisti e nazisti hanno gridato «America!» e libertà comequelle biglie colorate prima di rosa shocking, nel 1906, e poi di tutti i co-loranti più truci che l’industria chimica avesse saputo inventare. Quelcontenitore di plexiglas, che gli inventori seppero perfezionare così be-ne da renderlo a prova di appannamento, di umidità e di muffa, con lagrossa chiave cromata, la fessurina per la moneta e il “plonk” della pal-lina che rotola verso l’uscita, è stata, prima per due generazioni di ame-ricani e poi per tutti, una delle armi di persuasione di massa che hannovinto le guerre ideologiche, esportato the american way of life e con-vinto anche il bambino più riottoso o l’anti-imperialista più idrofoboche una nazione capace di inventare un prodotto la cui sola funzione èformare il nulla non può essere poi tanto cattiva.

La bubblegum — la gomma non più soltanto da masticare comealtre resine, noci, cera di api, foglie o come il mastiche greco che permillenni gli esseri umani avevano ruminato per ingannare la fame,ma da gonfiare in una bubble, una bolla — è infatti divenuta moltopiù che un altro placebo per nevrastenici. È una cultura, un mododi vivere e di guardare il mondo non attraverso una falsa sfe-ra di cristallo, ma attraverso la lattiginosa e indecifrabile,dunque più onesta, sfera di gomma. Bubblegum, nellaperfezione onomatopeica della parola bubble che fagonfiare già le guance solo a pronunciarla, si è tradottain forma verbale immediatamente comprensibilequando si vuole comunicare il vuoto zuccheroso di untempo leggero e un po’ vano. Già nel 1939, per esorciz-zare la tempesta che si addensava sul mondo, Ella Fitz-gerald cantava «Chewin’ chewin’ chewin’ he bubble-gum», masticando la gomma, senza immaginare che po-chi anni dopo l’innocua pallina sarebbe rinata in un pro-dotto chiamato bazooka, come il lanciarazzi anticarro.

Negli anni Sessanta trionfò la bubblegum music, rock facile,orecchiabile e ritmato per ragazzine con le calzette bianche corte ei ragazzini con il Brylcreem stile American Graffiti. La dieta televisi-va che ci gonfia lo stomaco senza nutrire, è stata chiamata «bubble-gum per gli occhi» e il nuovo pseudogiornalismo televisivo, quelloche ha sloggiato l’informazione seria in favore di ricette, pettego-lezzi, toni da intrattenimento, è stato sprezzantemente definitodal migliore critico tv americano, Tom Shales, «bubblegum news»,notizie del nulla. I giapponesi, implacabili riciclatori di vezzi ame-ricani, se ne sono impossessati per una serie popolarissima di car-toni, Bubblegum crisis, da pronunciare baburogam. Il cinema diHollywood l’ha masticata in almeno 34 film. L’arte l’ha un po’ tra-scurata, anche se c’è una strada di San Louis Obispo, città fra SanFrancisco e Los Angeles, nella quale da generazioni i turisti appicci-cano le gomme sputate a un muro della Herrera Street, dove secca-no e pietrificano formando il piùbizzarro, spontaneo e disgustosomosaico del mondo.

La gomma da masticare — figlia diquella pianta maya detta chicle («al-bero della bocca» nella lingua indige-na, per il suo incessante sputare resi-na) originaria dello Yucatán, quellache un industriale di Chicago, il si-gnor Wrigley, comperò assicurando-sene il monopolio — precedette didecenni, e di secoli, l’invenzione del-la “gomma da bolle” avvenuta nel1906 e rimasta a lungo senza succes-so, per la cattiva formula del compo-sto. La prima biglia riusciva a forma-re la palla davanti alla bocca, ma almomento dell’inevitabile scoppiocopriva il volto dello sventurato ma-sticatore con una pellicola tenace epesante, che doveva essere rimossacon la trementina e raschiata via co-me le vecchie pitture sui muri. Si do-vettero attendere più di vent’anniperché la bubblegum acquistassequella elasticità leggera ma resisten-te che le permetterà di raggiungereil record mondiale di quasi set-tanta centimetri di diametro, re-gistrato dal Guinness dei pri-mati inutili. E di entrare anchenel grande libro della morte,grazie a una signora australia-na che si vide scoppiare la bollain faccia mentre guidava l’auto,ne fu accecata e andò a spiattellar-si contro un albero.

Ma — coloranti a parte via via proi-biti e che tanto nocivi poi non dovevano essere se gene-razioni intere sono invecchiate serene pur avendo ma-sticato quelle biglie dalle tinte violente come i primi car-toon disneyani — nessuno ha mai davvero accusatoquella pallina di provocare altre catastrofi che un possi-bile aumento delle carie nei bambini, poi contrato dal-l’avvento dello “sugar free”, i dolcificanti senza zucchero.Non mancarono i severi pediatri e gli attenti educatori che

immaginarono in quel ruminare incessante che accompagnava la noiadelle lezioni in classe e le segnava con il punto esclamativo del “pop” quan-do la bolla scoppiava, una possibile forma di addiction, di dipendenza psi-cologica, oltre che di cattive maniere. Ma poi ben altri incubi di tossicodi-pendenza avrebbero sloggiato il timore che l’esercizio dei muscoli maxil-lo-facciali, e il delizioso attimo nel quale la crosticina si spezza sotto i den-ti, potessero portare alla fine della civiltà occidentale e alla corruzione deinostri fanciulli.

Ora si applaudono i giocatori di baseball che abbandonano i grumi ditradizionale tabacco da masticare e i conseguenti orridi sputazzi nerastriper la innocua gomma. Si guardano con approvazione i “mister” che ri-nunciano all’immancabile sigaretta per buttarsi in bocca palline e stec-che di gomma e fiorisce una pseudoletteratura medica che immagina be-nefici di salute per i ruminanti, dalla stimolazione del cervello alla accre-sciuta potenza virile, soprattutto nella formulazione della crosta zucche-rata con il Viagra, si spera non per bambini. Qualche ansia produce, a vo-ler essere molto ansiosi, l’inevitabile competizione infantile e preadole-scenziale per vedere chi riesca a inflazionare meglio la gomma, secondoil classico e triste principio dell’“io ce l’ho più grosso”. Chi scrive non riu-scì mai, forse per difetti genetici, a padroneggiare l’arte del fare la palla conla gomma e qualche cicatrice traumatica sarebbe rimasta, se non fossestata lenita un poco dalla constatazione che spesso i più bravi erano i com-pagni più cretini.

Con qualche malinconia per il tempo e per le bolle perdute, si può guar-dare quindi al declino e alla progressiva scomparsa dei distributori di pal-line colorate, in via di estinzione insieme all’America di NormanRockwell, ai drugstore di paese che mischiavano il seltz al gelato e allebottiglie di vetro della Coca, quelle che Elvis Presley metteva sotto lapatta dei calzoni per far sognare le ragazzine che esplodevano bol-le di desiderio durante i suoi concerti. La divina semplicità di quel-le monadi zuccherate, tollerate ma non amate dai genitori, che nel-

le nostre tasche di bambini diventavano appiccicose d’estatecon lo sciogliersi della crosta e venivano centellinate per la

scarsità delle dieci lire necessarie ad azionare la macchi-na prodigiosa, è stata distrutta dalla inutile complessità

dell’offerta, che mette la gomma alla portata di tutti, an-che dei più poveri. Come sa bene chi abbia viaggiato innazioni molto misere, circondato da sciami di mo-nelli che offrono al passante “chicklets, chicklets”a ogni semaforo.

La pallina colorata che ha raccontato l’inno-cenza perduta dell’America è una specie minac-

ciata di estinzione, rimpiazzata da altri simbolimeno dolci e innocui. Eppure resta ancora profon-

damente americana, occidentale, decadente, se è veroche mai si sono visti terroristi e crociati fondamentalisti an-

tioccidentali masticare gomma e fare bolle mentrepredicano la nostra morte. Non è una teoria che po-

trebbe avere il plauso di Bush, ma forse un bombar-damento a tappeto di bubblegum colorate sull’I-

raq potrebbe avere un effetto positivo. Certa-mente non peggiore di quello avuto finoradalle palline d’acciaio delle bombe a

grappolo.

VITTORIO ZUCCONI

Cento anni fa un tale di nome Frank Fleer mise a puntola bubblegum, una gomma alimentareparticolarmente elastica.Da allora, la pallinache si mastica e può gonfiarsi in zuccherosesfere di nulla ha conquistato il mondo,metafora di una cultura superficiale e innocente

MODERNARIATOLa pagina è illustratada un distributore di bubblegum,un tempo onnipresentenei luoghi di ritrovo, oggioggetto di modernariato

La bolla dolce e coloratache fu l’idea dell’America

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La bubblegum compie cento anni. Un secolo è pas-sato da quando fu inventata la prima strana cara-mella che faceva le bolle. Ci volle un po’ di tempo

perché la gomma rosa si affermasse. Oggi è uno dei sim-boli più immediatamente riconoscibili dell’America,proprio come la Coca-cola e l’hamburger.

Se masticare la gomma, atto supremamente maledu-cato, è un gesto ormai sdoganato e sempre più universal-mente diffuso anche fra cardinali e presidenti, fare i pal-loni in pubblico, esplodendoli col botto, resta un gesto ri-provevole chiunque lo compia, specie se ha superato idieci anni d’età.

L’uomo che è passato alla storia per avere inventato labubblegum si chiama Frank Fleer, che nel 1906 mise a

punto una nuova gomma alimentare particolarmen-te elastica cui dette il nome di Blibber-Blubber, del

tutto insapore. La gomma, a base di una resinaestratta dall’albero della Sapodilla, il mitico chi-cle, fu però giudicata troppo appiccicosa, tantoda non essere neppure messa in commercio.

Bisognerà aspettare ben ventidue anni per-ché Walter Deimer, un dipendente dell’aziendafondata da Frank Fleer e da suo fratello Henry,

perfezionasse la ricetta modificando le dosi ebrevettasse una nuova gomma color rosa, battez-

zata Double Bubble, che ebbe subito un successoclamoroso. Era il 1928. Perché di colore rosa? Perché

quel giorno Deimer aveva a sua disposizione soltantoquel colorante alimentare: tutti gli altri erano finiti.

C’era una volta in America. Se la moderna gomma damasticare risale alla seconda metà dell’Ottocento e Tho-mas Adams è indicato come il suo inventore, il chewinggum vanta tuttavia una storia millenaria che si perde nelbuio dei secoli. Già gli antichi greci amavano masticare laresina di lentisco, mentre le popolazioni indigene dell’A-merica Centrale preferivano il chicle, appunto il latticeprodotto dall’albero di Sapodilla. Masticare gomma era

una pratica molto diffusa anche nel Nord Americaprima che arrivassero i colonizzatori europei: i pel-

lerossa utilizzavano il lattice derivato dall’abeterosso, lo spruce.

Quando Thomas Adams, nel 1870, mise a pun-to il primo chewing gum moderno produsse unconfetto masticabile il cui sapore però spariva inpochi secondi. Sarà un venditore di popcorn di

Cleveland, William J. White, ad aggiungere allagomma lo sciroppo di glucosio in grado di trattene-

re più a lungo aromi e sapori.E in Italia? La gomma arrivò con la guerra. Nella no-

stra infanzia la bubblegum si vendeva nei distributorifuori dai negozi e dai bar: palline colorate racchiuse ingrandi vasi trasparenti che oggi sono reperti di moderna-riato. Si infilava di piatto una moneta da dieci lire, che poidiventò da venti, poi da cinquanta, e poi da cento, e la pal-lina, con un rumore secco, scendeva a urtare contro losportello di metallo. Mai visti colori così carichi e squil-lanti: all’epoca non erano ancora fuori legge.

Poi si passò alla Big Babol nostrana, una mattonella ro-sa al sapore di fragola che invadeva la bocca e impastan-dosi con la saliva sembrava lievitare, mettendo a duraprova le nostre capacità masticatorie.

Il resto è storia recente, e si mescola a quella della nor-male gomma da masticare. Ecco la gomma del ponte, cheanche se si chiamava Brooklyn era prodotta in un paesedel milanese, Lainate. Imitava il chewing gum classicoamericano, quello originale: una piccola striscia sottile diforma rettangolare incartata nella stagnola, leggerissi-mamente infarinata, anzi, cosparsa di zucchero a velo. Legomme di ultima generazione, invece, quelle contempo-ranee, quasi sempre piccoli confetti bianchi, invadono lenostre borse e le nostre tasche in scatoline richiudibili,grandi quanto pacchetti di sigarette. E spesso a masti-carle sono proprio quelli che non vogliono o non posso-no fumare. Oppure che non vogliono o non possonomangiare, fanno la dieta, combattono i crampi della fa-me, desiderano profumarsi l’alito, cercano di non rosic-chiarsi le unghie e di non mordere penne e matite. In-somma: vogliono placare lo stress.

È la riabilitazione: da oggetto di minuscolo edonismoquando non addirittura di regressione, la gomma da ma-sticare vive oggi una nuova gioventù e un nuovo rilanciocome prodotto funzionale. Non solo non fa male, ma fabene; non solo non provoca la carie ma la previene, gra-zie al magico xilitolo, un antibatterico che elimina la plac-ca. Su dieci confezioni di gomma vendute oggi in Italiaben otto sono sugar free. Siamo una nazione di infatica-bili masticatori, uno dei primi paesi al mondo: si calcolasiano almeno 19 milioni gli italiani che consumano gom-ma. Spendiamo in chewing gum 152 milioni e 870milaeuro l’anno, mettendo sotto i denti complessivamente24mila tonnellate di gomme per un totale di 300 milionidi astucci e 500 milioni di stick. Masticano soprattutto lepersone fra i 10 e i 44 anni, in lievissima maggioranza disesso femminile. A masticare di più è l’italiano del Nord-Ovest, il meno dedito è quello dell’Italia centrale.

La gomma, secondo gli estimatori, ha fra l’altro il van-taggio di favorire la concentrazione e anche di neutraliz-zare la tensione. Una panacea: ma sarà vero? Stando a unostudio compiuto in Gran Bretagna, nell’Università diNorthumbria a Newcastle, stimolerebbe persino la me-moria, sia quella a breve che quella a lungo termine: la ma-sticazione fa aumentare il battito cardiaco e viene così pro-dotta maggiore insulina, che va ad agire sui recettori situatinella zona cerebrale dell’ippocampo potenziando di oltreun terzo le funzioni mnemoniche del cervello.

Nel Giappone hanno persino inventato un’impressio-nante gomma che fa aumentare il seno: è a base di Pue-raria Mirifica, una pianta tailandese che contiene fitoe-strogeni. Sarà presto disponibile (presto si fa per dire:

non prima del 2011, quando scadrà il vecchio brevet-to) il chewing gum al Viagra: gomma celeste che, ri-

spetto alla normale pasticca, ha il vantaggio di fa-re effetto in tempi più brevi, non oltre mezz’ora.Il chewing gum è il nuovo vettore scelto dalle ca-se farmaceutiche per veicolare gli ultimi ritro-vati medicinali, tenere lontano dalla portatadei bambini. E così un prodotto dolciario e «ri-creativo» diventa una vera e propria medicina.

Mastica che ti passa: ecco la gomma all’aspirina,quella anti ulcera, quella — una delle prime — al-

la nicotina, quella contro il mal d’auto, la gommaantiacido, la gomma antistaminica, la gomma anti in-

fiammatoria, la gomma anticoncezionale, la gomma an-tibiotica, la gomma vaccino, la gomma antivirale, la gom-ma che riduce il colesterolo, la gomma dietetica che agi-sce sul metabolismo. E persino la gomma che combattela depressione. O per lo meno ci prova.

Un segreto tinto di rosaDalla Blibber-Blubber alla Big Babol

LAURA LAURENZI

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 41DOMENICA 23 APRILE 2006

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i luoghiPaesaggi deturpati

La Provinciale 3, ribattezzata Trasversale di Pianura,doveva essere la via di collegamento tra Modena e RavennaIn realtà questa striscia d’asfalto è lunga poco piùdi 52 chilometri. Ogni giorno si carica addosso tonnellatedi merci di ogni tipo e i camion ne sono padroni. L’autricedi “Dei bambini non si sa niente” la ha perlustrata a piedi

Camminando lungo la

Qualche anno fa, una notte ho fatto un sogno, ho sognato una carta della pro-vincia di Bologna, una cartina gigantesca, grande come un lenzuolo di-spiegato, e io ci stavo seduta come si sta sopra un tappeto, c’era disegnatala linea rossa della Strada Provinciale 3, ribattezzata Trasversale di Pianu-ra. È una strada che taglia in due, in senso orizzontale, un breve tratto diEmilia Romagna, doveva essere la via di collegamento tra Modena e Ra-

venna. In realtà, la Trasversale di Pianura propriamente detta è lunga cinquantaduechilometri e un po’ di metri: parte da San Giovanni in Persiceto e arriva a Medicina. Daun lato e dall’altro si innesta su altre due provinciali, in mezzo c’è il casello Interportodella Tangenziale che vomita, e risucchia, camion e automobili a getto continuo.

Quando ero una bambina, qui non c’era niente. Lastrada era fatta di polvere e sassi. Attorno, c’erano solo icampi e qualche casa colonica lontana, un’idea di mat-toni, il fumo di un camino dritto nella luce della sera.Adesso, questi cinquantadue chilometri di asfalto ognigiorno si caricano addosso tonnellate di piastrelle, sala-mi, cemento, liquidi altamente infiammabili, pendola-ri, stracchini, polli, maiali, rotoli di stoffa. E ancora. An-cora. Ancora. Nel sogno, puntavo il dito contro quella li-nea rossa, la seguivo facendo scorrere il polpastrello sul-la carta e ripetevo ad alta voce i nomi dei paesi e delle lo-calità che toccava — il Postrino, Forcelli, Sala Bologne-se, Colombarola, Pietroburgo (Pietroburgo?!), Funo,Bagnarola, Budrio, l’Olmo — ed ero felice, provavo unasensazione quasi elettrica, perché quel luogo io lo pos-sedevo, lo conoscevo a memoria, lo avevo attraversato

centinaia di volte, fin da quando ero una bambina: era di più che una strada, di più cheun posto qualsiasi, era una geografia dell’anima, quel luogo ero io.

Dopo quel sogno, una mattina ho deciso: uscire di casa, chiudermi la porta alle spal-le e dimenticare di possedere un qualunque mezzo di trasporto, niente automobile,niente moto, niente scooter, niente bicicletta, solo le gambe: gambe, colonna verte-brale, piedi, questa meravigliosa possibilità di muovermi nello spazio senza l’ausiliodi nient’altro che questo, il mio corpo. E così sono cominciati i pellegrinaggi e la stra-da del sogno, e quella che ricordavo, si sono combinate e infine sovrapposte, dando vi-ta a un’altra strada, quella reale. Giorno dopo giorno, viaggio dopo viaggio, ho raccol-

to indizi, catalogato i cambiamenti.La domanda con la quale ho cominciato questo viaggio di pignola perlustrazione è

la domanda apparentemente più banale di tutte: cos’è una strada? Una domanda tal-mente ovvia che anche un bambino delle elementari potrebbe rispondere senza la mi-nima esitazione: una strada — come peraltro recita il dizionario della lingua italianaDevoto-Oli — è «un’opera intesa a consentire, o a facilitare il transito in corrispon-denza di una via di accesso o di comunicazione» / una strada è anche «un cammino,un itinerario». Una strada dunque è un passaggio. E a cosa serve? Per l’appunto a pas-sarci, a transitarci, serve a collegare i posti, a spostarsi da un luogo all’altro, a metterein comunicazione luoghi distanti, serve perché le persone possano muoversi con me-no difficoltà nello spazio. E qui è arrivato il mio primo spaesamento. Un ciclista o unpedone che si mettano in viaggio su questa strada, lo fanno a proprio rischio e perico-lo, come un gatto, una lepre, una formica o un riccio che decidano di attraversare lastrada perché gli gira di attraversarla: questo muoversi con meno difficoltà infatti è or-mai vero solo per i camion.

Durante le mie rischiose passeggiate incrocio i miei impavidi compagni di sventu-ra: due filippine, una più giovane e una più vecchia, che ogni sera tornano a casa a pie-di dopo la loro giornata di lavoro dal centro di Budrio verso le campagne, calpestandola linea bianca sul margine del fosso, qualche rara vecchietta in bici con il fazzoletto intesta e le sporte della spesa appese ai manubri, i ragazzini che tornano a casa dopo ilpomeriggio in parrocchia, o al campo da calcio (pochissimi, questi ultimi). E i camionche passano a centotrenta all’ora ci fanno barcollare e tremare tutti quanti come figu-re ritagliate nella carta velina. Ci guardiamo negli occhi smarriti, e pensiamo la stessacosa io credo, e cioè che una strada serve perché gli esseri umani si spostino da un luo-go all’altro, che sia per lavoro, per necessità, o semplicemente per fare una passeggia-ta, e che dovrebbe essere evidente, naturale, ovvio, che una strada, ogni strada, fossepensata perché ciascuno possa servirsene nel modo in cui desidera, o è costretto, a ser-virsene: se ho una macchina vado in macchina, se ho solo i piedi vado a piedi.

Invece ormai è come se un essere umano in movimento non potesse essere pensa-to altro che col culo piantato dentro un ammasso di ferro a motore. Punto. Per andarea camminare ci sono i percorsi pedonali, i percorsi trekking, come se appunto cam-minare fosse diventata una cosa assolutamente assurda per l’uomo contemporaneo,un’attività perduta nella notte dei tempi e dunque esotica e affascinante e vendibilecome un “weekend in vigna” passato a pigiare l’uva nei tini. Riscopri un ritmo umano:vieni un weekend a camminare. E no che non ci vengo. Voglio camminare qui, a casamia, e non posso farlo, voglio andare dal cartolaio a piedi, perché deve essere una sfi-da? Io abito in una strada sterrata che si chiama via Albareda (che in dialetto vuol dire

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Un ciclista o un pedoneche si mettano in viaggio lo fannoa proprio rischio e pericolo, come

un gatto, una lepre, una formicaI veicoli a 130 all’ora fanno

tremare tutti come figure di carta

SIMONA VINCI

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strada che taglia la vitaalberata) e questa strada si immette direttamente sulla SP3, se non voglio uscire inmacchina, o se non possiedo la macchina, lo faccio a mio rischio e pericolo.

Quando sopra una strada ci cammini ti viene naturale guardarti attorno, voltare latesta da una parte e dall’altra e vedere cosa c’è attorno a quella strada, qual è il pae-saggio che attraversa e che tu stai attraversando. Cosa ci passa sopra? Merci di ogni ti-po, organiche e inorganiche, gli scarti, i rifiuti, il tempo. Dunque puoi osservare, comescriveva Lawrence Durrell, «le lente concrezioni del tempo sul luogo». E così, cammi-nando ho visto le case coloniche abbandonate, successivamente ristrutturate secon-do moderni criteri di leziosità che poco hanno a che fare con l’originaria, spartana e unpo’ rozza linearità, e portate a nuova vita, spesso dipinte in colori fosforescenti (forseperché i camion riescano a vederne la sagoma anche di notte, quando sfrecciano a cen-totrenta all’ora e fanno tremare i muri insieme ai proprietari e ai loro letti?). Ho visto icantieri abbandonati: quante storie dietro quegli spazi «laconici» — come li defini-rebbe Gianni Celati — devastati, immobili, pencolanti, abbozzati. Cosa è successo?Perché se ne restano lì così, in quell’indeterminazione, per mesi, anni, fino a trasfor-marsi in un’ovvietà del paesaggio che piano piano la natura ricopre e mangia, ripren-dendo possesso di ciò che era suo fin dal principio? Ho visto i campi superstiti di bar-babietola da zucchero, di mais e sorgo e patate. Qualche vivaio. I distributori di benzi-na. E poi la gente, sigillata nell’aria condizionata sulle automobili in corsa.

Negli ultimi due anni, il tracciato della SP3 è stato modificato e spostato al di fuoridel centro urbano di Budrio — col suo corredo di espropri, battaglie, compromessi, ri-tardi — e per un lungo periodo, i lavori per le rotonde che ora connettono i due tron-chi della SP3 circumnavigando il paese, sono apparsi in mezzo alla campagna comemisteriosi cerchi nel grano. Immense aree circolari depilate e cementate senza nessunraggio che si dipartisse verso l’esterno a indicare una qualsiasi direzione verso il mon-do, una funzionalità, e io le andavo a guardare in bicicletta, e insieme a me c’erano gliomarelli del paese, sporti sulle buche a guardare le frecce delle rotatorie con gli occhisbarrati e il cervello confuso, tutti lì a cercare di immaginare come si sarebbe evolutala questione.

Le strade, per capirle, andrebbero sempre anche viste dall’alto, anche se poi vistedall’alto fanno venire le vertigini, perché quando guardi le carte satellitari ti rendi con-to che il mondo è diventato un reticolato di strade, che all’asfalto non c’è scampo, chequesta smania di collegare tutto a tutto ci ha rinchiusi dentro una griglia quadrettatada battaglia navale che se da una parte rende il mondo una comoda ottimista spiana-ta di asfalto attraversabile in lungo e il largo, in realtà lo riempie pure di confini, di re-ti, di limiti invalicabili, di barriere. Un mondo a misura di ruote e motori, non di piedie corpi umani.

Un giorno, durante una delle mie perlustrazioni, sul muro di cemento di una fab-brica ho letto una scritta che diceva così: «CORRI CHE TI PASSA». Sono rimasta a fis-sarla per un po’, domandandomi chi l’avesse mai scritta, e cosa avesse nella testa unoche scriveva una cosa simile ai bordi di una strada del genere, se ci aveva davvero pro-vato, lui, il bombolettatore misterioso, a correre sulla Sp3. Forse, una volta davvero suquesta strada ci si poteva correre, doveva essere una strada che attraversava uno spa-zio tutto diverso: chilometri e chilometri di terra piatta e verde, in certi punti copertadi boschi e faggeti, e poi di campi ordinati, amorevolmente curati. Una terra viva. Ades-so, le fabbriche abbandonate punteggiano la pianura con le loro ciminiere spente, lerecinzioni di filo spinato corrose di ruggine, smangiate, in attesa di essere smantella-te per far spazio a nuovi insediamenti industriali. Le fabbriche in attività che sputanolingue di fumo nel cielo. E lungo la strada, da una parte e dall’altra, insegne di trattorieper camionisti, cartelloni pubblicitari che reclamizza-no ghiaia, lattonerie, vivai. Il fumo fetente dei gas di sca-rico che a bolle si diffonde in mezzo al paesaggio piatto,si disfa sulla superficie dei campi, contro le pareti dellecase coloniche.

Sotto i miei occhi, oggi, c’è la strada. L’asfalto crepatoe ruvido. Pieno di buchi, crateri, fenditure, mozziconi disigaretta, preservativi, merde di cane rinsecchite, gattispiaccicati, piume d’uccello, lattine accartocciate,frammenti di copertoni esplosi, chiodi, bulloni, pezzi diferro arrugginito, carcasse di animali ormai irriconosci-bili. Niente idea di progresso, collegamenti rapidi e si-curi, è una strada mortale, che attraversa piccoli centri— paesi grandi, medi, minuscoli, frazioni — e li detur-pa, li soffoca, li ammutolisce. Con la lenta agonia dell’a-sfalto che si corrode sotto milioni di pneumatici, agoniadi falene schiantate contro i parabrezza, di nutrie spappolate, civette, incidenti mor-tali. E io sono di nuovo qui, parte di questo movimento incessante, questa concrezio-ne di tempo e storie e movimenti su un nastro d’asfalto, a cercare di immaginare comeera il mondo prima, prima dell’ottimismo degli asfaltatori. Adesso, ci sono dei periodiche tutti questi chilometri di strada si popolano di striscioni rabbiosi e lenzuola graf-fitate appese ai muri degli edifici, che sventolano fuori dalle finestre come bandiere diguerra: via il traffico pesante dalla Trasversale. Siamo stanchi di respirare veleno. Stopai camion. Siamo noi, che cerchiamo di riprenderci ciò che dovrebbe essere nostro: lestrade, i passaggi, le vie di collegamento e transito, lo spazio e i luoghi e il tempo.

DI PAESE IN PAESELa pagina è illustrata da un acquerello originaledi Gipi. Nelle foto in basso, lungo la Trasversaledi Pianura, da sinistra: San Giovanni in Persiceto;casa colonica a Sala Bolognese; l’Interportodi Funo; i municipi di Argelato e di Budrio

L’AUTRICESimona Vinci vive in provincia di Bologna. Il suo primolibro, “Dei bambini non si sa niente” (Einaudi Stile libero1997), fu alla pubblicazione un caso letterario ed è statotradotto in numerosi paesi, tra i quali gli Stati Uniti.Sempre per Einaudi sono usciti la raccolta di racconti“In tutti i sensi come l'amore” (Stile libero 1999), il romanzo“Come prima delle madri” (Supercoralli 2003) e il raccontolungo “Brother and sister” (Stile libero 2004).Sempre per Stile libero ha curato l'antologia “Ragazzeche dovresti conoscere” (2004).“Stanza 411” è la sua ultima uscita (Stile libero 2005)

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Un tempo questo spazioera diverso: terra piatta e verde,boschi e faggeti, campi ordinatiAdesso le fabbriche abbandonatepunteggiano l’orizzontecon le loro ciminiere spente

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Era l’ultima esploratrice, si chiamava Ella Maillart,Kini per gli amici, e ha traversato l’intero Novecentoe le terre d’Oriente ancora sconosciute, svelandole

con resoconti e fotografie rimaste celebri. Ora, a quasi dieci annidalla sua scomparsa, viene pubblicato il libro che ripercorre le tappesalienti di un’esistenza avventurosa e spregiudicata

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Storia della ragazzache viaggiavaper non arrivare maiA

novantadue anni, quando l’ho conosciuta an-dandola a trovare nel suo chalet sulle Alpi Sviz-zere in una splendida, cristallina, freddissimagiornata d’inverno, Kini — nessuno degli amiciha mai chiamato Ella Maillart con il suo vero no-me — appariva quella che doveva essere sempre

stata, anche in tempi remoti: una altoborghese europea dallatesta ai piedi, di natura sportiva, che irradiava un immensocharme, assolutamente priva di quelle pose assunte, anche in-volontariamente, da chi avesse frequentato, a qualsiasi titolo, laconoscenza orientale (in genere la posa era inversamente pro-porzionale alla conoscenza effettiva).

A suo tempo anche lei aveva detto qualche banalità sul Tra-monto dell’Occidente e si era unita al coro spengleriano, masenza troppo battersi il petto. E più tardi seguirà gli insegna-menti sapienziali e pratici di due maestri indiani, quelli che gliignoranti chiamano santoni, più per placare la sua irrequietez-za occidentale che per entrare in mondi molto lontani dai no-stri e di complicata decrittazione. Ma credo che quella angosciadella generazione perduta degli anni Venti, di cui ha parlato unfamoso poeta, andava intesa, almeno per quanto riguardava Ki-ni, più come noia per il tran-tran della vita familiare che comedisperazione di genere alto.

Era vero che moltissimi giovani abbandonavano Francia eInghilterra, perdendosi in luoghi remoti — e dando così inizioal ventennio più folle in fatto di viaggi — incapaci di rimanere inuna patria che celebrava con retorica quelle spaventose stragialle quali erano scampati per puro miracolo. E delusi da ventisecoli di inconcludente pensiero cristiano andavano cercandofontane dell’eterna giovinezza sparse qua e là, lungo le valli hi-malayane, immaginandosele tali e quali le proporrà Hollywooddieci anni più tardi. Ma la spinta a viaggiare, per lei e per migliaiadi ragazze benestanti come lei, aveva altre motivazioni.

Nelle fotografie di quegli anni Kini compariva con la testa in-filata in una cloche, l’orologio piatto, una maglietta da mari-naro a righe, del tipo che adopererà anche Picasso a Vallauris,e la gonna scorciata da Coco Chanel. Sembrava una ricca, ca-pricciosa e non conformista ereditiera, di quelle che scappa-vano con lo chauffeur per mollarlo sul porto di Antibes, im-barcandosi su un paquebot delle Linee marittime orientali(che facevano scalo a Marsiglia, non ad Antibes). E questa eraesattamente l’impressione che voleva dare. Ma in realtà nonera ricca, il padre stava per fallire o aveva dato fondo a tutti isuoi risparmi e non poteva mantenere come voleva quella fi-glia, malaticcia e insicura, dotata tuttavia di una forza di vo-lontà enorme.

Quel giorno dell’incontro nello chalet mi era apparsa comeun monumento alla salute, una di quelle che chiamano vecchierocce. E sprigionava una tale sicurezza che per qualche attimorimasi imbambolato a guardarla, mentre lei, dopo avermi ri-portato all’aperto, nella terrazza, aveva girato una sdraio in di-rezione del sole, dicendo che sarebbe stato un delitto perdersianche un attimo di quella splendida giornata. Poi si era slaccia-

ta la camicia sul petto, aveva aperto una bottiglia di vino rosso,mi aveva offerto un bicchiere e si era adagiata nella sedia sdraio,in una sequenza di gesti che a me, sempre imbambolato, erasembrata unica. Ma tutto questo, la sicurezza, la salute, era sta-to conquistato faticosamente, attraverso una serie infinita dipassaggi, di esperienze, di lavori inutili, che però si rivelerannonello stesso tempo utili, in quanto straordinariamente adatti adessere sceneggiati e raccontati. Ma lei allora non lo sapeva.

Come ho accennato all’inizio, anche Kini da qualche parteaveva detto di essere delusa dall’occidente e via con il tramon-to. Ma era il desiderio di emanciparsi che aveva convinto le ra-gazze come lei a gettare il busto dalla finestra qualche anno pri-ma, a tagliarsi i capelli alla garçonne, a scappare dalla tutela deifamiliari e a correre per le strade e soprattutto per le spiagge del-la vecchia Europa, perse dietro il nuovo, potentissimo mito, checambierà le abitudini degli uomini e delle donne come nessu-na altra rivoluzione: il mito del sole e dell’elioterapia. Nel giro dipoche settimane o di pochi mesi, sulla Costa Azzurra, direttasuccursale di Parigi e anticipatrice di gusti e di mode, dagli om-brellini che riparavano le delicate epidermidi delle signorine, siera passati ai costumi scollati e alle creme abbronzanti.

E Kini e le sue amiche erano riuscite a partire in barca per

STEFANO MALATESTA

Nel 1932, nel Turkestanrusso, riuscì a penetrarein un luogo segretoe a documentarei processi ai kulaki asiaticidurante il terrore staliniano

IN RIVA AL LAGOUn ritratto giovaniledi Ella Maillart a Ginevra,intorno al 1926 (dal volume“La Vie immédiate”,Payot 1991). La famigliadella futura viaggiatrice(padre ginevrino, madredanese) si trasferì in rivaal lago nel 1913, quandola bambina aveva dieci anni

CrociereCarovanee

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 45DOMENICA 23 APRILE 2006

una crociera nel Mediterraneo che durerà sei mesi. Se la vole-vano spassare, altro che Tramonto dell’Occidente, prenderepigramente il sole nude sul ponte o immergersi in qualche fan-tastica caletta che allora doveva essere il luogo più simile al pa-radiso che ci fosse in Europa. Come si fa a dargli torto? Non socosa succedesse all’interno di quelle barche: probabilmentenulla, o forse tutto, ma non erano affari loro? Con una diffe-renza tra le altre ragazze e Kini: per loro gli eventuali amori era-no un divertimento passeggero, per Kini delle passioni che du-reranno tutta la vita. Quando quel tesoruccio di Miette, la suaamica del cuore, le annunciò che non sarebbe mai venuta neiMari del Sud, come avevano progettato insieme, ma si sareb-be sposata, per Kini fu come se le avessero annientato la fami-glia con un colpo solo.

Era arrivata quasi al punto di non ritorno: pochi anni ancorae si sarebbe perduta. Tutti gli sport praticati a livello da profes-sionista — hockey su prato, vela, sci — tutti i lavori precari —segretaria di azienda, sceneggiatrice, documentarista, pesca-trice di tonni — ora sembravano una perdita di tempo, perchénessuno di loro si era trasformato in un’occupazione stabile.Ma era anche Kini che provava la sensazione di essere trasci-nata da forze esterne, come una “Rolling Stone”, un sopran-nome che per quel periodo le andava in maniera perfetta, mol-to più che a Mick Jagger. Fu la necessità, non il caso, a trasfor-marla in scrittrice di viaggi. In questo senso non aveva mai avu-to da bambina o ragazza nessun segno premonitore: mai pen-sato a navigare, a viaggiare, a scrivere. Mai guardata una cartageografica con speciale attenzione, mai sentito brividi correrelungo la schiena quando leggeva nomi come Taklamakan o Ca-bo de Hornos. Il viaggio era nato dalla irresistibile attrazioneche provava per le compagne di avventure, spingendola a par-tire per luoghi isolati o remoti dove non c’erano gli amici di fa-miglia a romperti le scatole.

L’intuizione, per la verità non difficile, che salvò Kini fu l’u-nificazione di tutte le sue esperienze, e più disastrose eranostate più funzionavano, attraverso il racconto. Qualche voltaho visto che la mania della classificazione ha portato a divide-re gli scrittori di viaggi in scrittori che viaggiano per scrivere escrittori che scrivono per viaggiare. Ella Maillart è stata il piùgrande scrittore del secolo scorso che ha scritto unicamenteper viaggiare. Il primo viaggio, e uno dei suoi più celebri, èquello del 1932, nel Turkestan russo, dove riuscì ad entrare nelluogo, segreto e proibito, in cui si celebrava un orrendo pro-cesso ai kulaki asiatici durante il periodo stalinista; e dovescattò delle fotografie oggi considerate per l’aspetto formale ela drammaticità della situazione tra le migliori del decennio.Sono state queste fotografie a darle la fama e a convincerla acontinuare su questa strada.

Ma il viaggio di gran lunga più famoso si svolse qualche annopiù tardi, nel 1936, e portò Kini e il suo compagno di viaggio —ma non di vita — Peter Fleming, a raggiungere Kashgar, città ca-rovaniera ai confini occidentali della Cina partendo da Pechi-no, e dopo aver attraversato anche una regione del Tibet e il de-serto del Taklamakan. Se mi è permesso un riferimento perso-nale, molti anni più tardi ho rifatto lo stesso percorso, leggendo

menti geografici non erano così accurati. Fin dall’inizio, avevaavuto un rapporto difficile con la scrittura: «Le parole sono im-potenti a descrivere certe emozioni», dirà in La vagabonda deimari. Un concetto ripetuto da innumerevoli falsi scrittori unnumero infinito di volte, forse per giustificare il loro scarso ta-lento. Eppure nessuno come Kini ha avuto quella straordinariacapacità di fare credere che l’unico mondo reale possibile eraquello che lei stava descrivendo, senza orpelli letterari, senzasupponenza, senza nulla che impedisse una visione diretta eche partiva dal basso: dagli odori, dai sapori; o dall’alto: dalla vi-sione che aveva nel deserto. Nei suoi libri i lettori avvertono inogni momento che il viaggio, la realizzazione del viaggio e tuttoquello che succede entro questi due archi di tempo e di spazioè molto più importante per lei di qualsivoglia risultato lettera-rio. Lei sta raccontando la sua vita, non un andare in giro perpaesi esotici. E quando tutti gli altri saranno ritornati nelle lorocittà lontane e rientrati nelle loro case, lei sarà sempre in testaalla carovana.

Perché solo il viaggio la rendeva felice, perché nel movimen-to le sensazioni nascevano, maturavano, si perdevano e rico-minciavano in un ritmo circolare, che stava per la metafora delmondo: «Conosco già l’odore dei cammelli e il loro fetido alita-re quando ruminano, il momento in cui la carovana si ferma perfare acqua, la raccolta degli sterchi per accendere il fuoco e lagioia che procura il tè bollente. Amo questa vita primitiva chetrasforma in gioia ogni boccone, la sana fatica che trasforma ilsonno in una incomparabile voluttà e il desiderio di avanzarerealizzato ad ogni passo». Quando alla fine raggiunsero Kash-gar, Peter era raggiante e Kini tristissima. «Non ho desiderio ditornare a casa», scriverà più tardi «e spero che il viaggio possaprolungarsi tutta la vita». La sorte è stata benefica con Kini, dan-dole esattamente quello che chiedeva.

La traversata del desertodel Taklamakan, nel 1936,per raggiungere la cittàcarovaniera di Kashgar, fu narratain “Oasis Interdites”

IL LIBRO DELLA SUA VITAIl libro di Ella Maillart “Crociere e carovane - La mia vita,i miei viaggi” (164 pagine, 9,50 euro) è pubblicato da EDTe sarà in libreria nei prossimi giorni. Per i tipi dello stessoeditore sono stati pubblicati in Italia altri libridella scrittrice-viaggiatrice ginevrina (1903-1997): “Oasiproibite”, “Vagabonda nel Turkestan” (tratto da “Des montscèlestes aux sables rouges”), “Ti-Puss”, “La via crudele”

ISTANTANEE LONTANELe fotografie che illustrano questa paginasono tratte dal volume Ella Maillart, “La Vie immédiate”,Payot 1991. Dall’alto in basso:a Karakol, sul lago Issik-Koul, Kirghizia, 1932;dal calderaio, Samarcanda, Uzbekistan, 1932;giovane principessa khalka, Manciuria, 1934;guerrieri nayar nel Kerala, 1955Accanto al titolo: tempesta di vento nella valledel Boron Kol, bacino di Tsaidam, 1935

alternativamente, uno per sera, i due libri che la strana coppiaaveva poi scritto sul viaggio: Oasis Interditesdi Kini e News fromTartary di Fleming. Era divertente vedere come uno stesso,identico viaggio, fosse interpretato in modo così differente, tan-to da chiedersi se veramente uno aveva visto le stesse cose cheaveva visto l’altro. Fleming sapeva maneggiare magnificamen-te la penna nella tradizione del genere anglosassone, che pre-vedeva un’accurata descrizione di cose viste o udite, filtrata tut-tavia da quel senso di superiorità che non abbandonava mail’inglese all’estero. Così i personaggi incontrati nel viaggio c’e-rano tutti: principesse mongole coperte di pelle di marmotta,pastori tibetani, russi bianchi in fuga, cavalieri tanguti che mi-nacciavano di sterminare la spedizione. Ma si capiva in ognimomento che durante la faticosa avanzata nel deserto Peter so-gnava sempre solo di tornare finalmente a Londra e di cambiarsid’abito per andare al club dove gli amici lo avrebbero salutatocon l’abituale distacco: sei tornato Peter? Ora dimentica quegliorribili tibetani e raccontaci come è andata la caccia.

La prosa di Kini non era così perfettamente oliata e i riferi-

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 47DOMENICA 23 APRILE 2006

Si chiama Majed al-Sabah, ha 37 anni ed ha aperto un fashionshop nel suk di Damasco. Un trionfo di griffe europee e gioiellida sogno, proprio accanto alle povere bancarelle di pistacchidisseminate lungo la via romana dove San Paolo si convertìal cristianesimo. E ora lancia una sfida al Vecchio continente

Lo sceicco stregato dalla modaDAMASCO

Ali Abu Hasan indossa unatuta azzurra, sudicia. È piùoperoso di una formicanella sua botteguccia di

due metri per due su Straight Street, nelsuk di Damasco. Una lampadina nudapende sopra pistacchi, ceci arrostiti, semidi zucca, mandorle croccanti, arachidi eanacardi sistemati a cono nei contenitoriin legno. Il fatturato in tre giorni è triplica-to. E non sono i soliti clienti. Da Ali sosta-no matrone ingioiellate, signori in Mer-cedes, autisti in livrea e guardie del corpoimpettite. Nel portone accanto, ristruttu-rato con cura, lo sceicco kuwaitianoMajed al-Sabah ha aperto una boutiquedi capi firmati, Villa Moda, la prima di tut-ta la Siria, cinquecento metri quadratisotto i maestosi archi in mattoni rossi il-luminati da un immenso lampadario(rosso), artigianato locale. Un fashionshop nel più popolare e antico quartieredella capitale siriana, tra vecchie sartorieche confezionano galabeyein flanella gri-gia, rigattieri, ebanisti e, naturalmente,venditori di semi e frutta secca. Ali regalaa tutti un assaggio; dopo lo shopping «i si-gnori ripassano sempre» per mezzo chilodi semenza da portare a casa insieme auna t-shirt o un jeans griffato.

Lo sceicco divora pistacchi, mentreracconta la sua avventura di pioniere del-la moda tra le sabbie arabe. «Ali è ormaimio amico, mi ha confessato che sua mo-glie è diventata gelosa di tutte queste bel-le donne. Dice che abbiamo rivoluzio-nato la sua vita. Ma sono sicuro cheVilla Moda cambierà i ritmi ditutto il suk di Damasco», diceentusiasta, mentre si ac-comiata cinque minutiper la preghiera deltramonto. Il muez-zin della vicina Mo-schea Omayade haappena chiamato araccolta i fedeli. I com-mercianti sciamanoverso la spianata, la-sciando il ritratto delpresidente Assad-dagli-occhi-azzurri a guardiadelle loro mercanzie.

Majed al-Sabah è unavecchia conoscenza delfashion business. Timel’ha battezzato «Thesheik of chic» e NewYork Times è volato aLondra, quando si èsparsa la notizia chesarà proprio lui a gestireil più gigantesco nego-zio multimarca europeoche verrà inauguratonella capitale inglese nel2009. Sarà ospite di unvecchio edificio déco giàin ristrutturazione, Bat-tersea Power Station,comparso in un film di Hit-chcock nel 1936 e sulla co-pertina di un album dei PinkFloyd nel 1977. Si chiameràVilla Moda, naturalmente, eavrà la stessa filosofia di quello(cinquemila metri quadrati)aperto tre anni fa a KuwaitCity. «Fin da ragazzino so-gnavo di aprire una bouti-que», racconta lo sceiccotrentasettenne, nipote deldefunto emiro delKuwait. «Ero molto gras-so allora, adoravo YohjiYamamoto, perché eral’unico che disegnavaqualcosa che potessiindossare anch’io.Aprii il primo Villa

Moda a Kuwait City nel 1992, dopo laGuerra del Golfo» (settemila baguette diFendi vendute nel ‘97). «Nel 2002, quan-do ho inaugurato il grande multibrand, lamia intenzione era chiara: chi vuole unaltro negozio di Chanel o un’altra bouti-que di Valentino o un altro Cartier? Ormaisono diventati come i McDonald’s,uguali in tutto il mondo. Abbiamo inguardaroba più dell’indispensabile, per-ché continuare a comprare se non è un’e-sperienza eccitante?».

Alle sfilate di Alexander McQueen, losceicco che ha tradito il petrolio per lamoda, si presenta in galabeya, ma per l’i-naugurazione di Villa Moda Damasco hascelto ampie giacche dalla foggia orien-tale. Sua moglie, la bellissima Samah, chegli ha dato due figlie, segue le sue attivitàcon discrezione («È una conservatrice,molto meno socievole di me»). Impecca-bile nel suo candido Azzedine Alaïa, se nesta tutta sola a inviare un sms dietro l’al-tro, mentre lo sceicco si affanna con gli in-vitati. Un trionfo di Ferragamo e Valenti-no, Marni e Bottega Veneta, capi e acces-sori strategicamente sistemati su vec-chie credenze in ebano e avorio, tragioielli etnici d’ambra e d’argento, pre-ziosi dishdashricamati a mano e raffina-ti caffettani realizzati da Prada in edizio-ne limitata per Villa Moda. In una bache-ca guardata a vista da una commessa os-sequiosa brillano gioielli dalla foggia ot-tomana. Qualcuno li scambia per bigiot-teria. «Sono tutte pietre vere, diamanti,smeraldi, rubini. Alcuni pezzi hanno piùdi cento anni», ripete lei incessantemen-te alle opime bellezze siriane che si avvi-cendano davanti alla vetrina delle mera-viglie.

«I siriani che prima facevano un saltoaBeirut per lo shopping hanno trovato lefrontiere sbarrate: l’assassinio dell’exprimo ministro libanese Rafiq al-Haririha inasprito i rapporti tra Siria e Libano.Prima che il governo liberalizzasse le im-portazioni, c’erano cinque o sei signoredella buona borghesia che periodica-mente viaggiavano all’estero, facevanoincetta di capi firmati che poi rivendeva-no nel corso di tè pomeridiani alle ami-che», racconta lo sceicco. «Eppure quitutti continuavano a dirmi: non è il postogiusto, nessuno verrà a comprare grandifirme nel suk Medhat Pasha, devi aprireuna boutique nella zona residenziale do-ve vivono i ricchi. Io invece ero attrattodall’architettura della vecchia Damasco,determinato a trovare uno spazio sul-l’antica Via Recta, il Cardo romano doveSan Paolo si convertì al cristianesimo.Nel diciassettesimo secolo c’erano dellestalle qui dentro, non ci siamo meravi-gliati, rimuovendo le incrostazioni, ditrovare topi, rettili e scorpioni».

Quando gli iracheni occuparono ilKuwait, Majed aveva poco più divent’anni. Per sfuggire alla soldataglia diSaddam a caccia di reali da sterminare, si

finse panettiere. Poi, finalmente, riuscì ariparare a Londra. «Fu un’esperienzaatroce. Ecco perché oggi apprezzo quelche sono e prego Allah cinque volte algiorno per la sua generosità. È molto du-ro essere un membro della famiglia realee in un giorno perdere tutto: patria, iden-tità, famiglia, il tuo passaporto è cartastraccia, le tue carte di credito valgono ze-ro. Ora quando vedo un seme per terra loraccolgo, perché durante l’occupazioneanche mangiare un pistacchio era un pri-vilegio».

Ai suoi ospiti, lo sceicco offre il megliodi Damasco. Party esclusivi in antiche di-more riportate agli antichi splendori,banchetti all’interno di divan da mille euna notte, mentre candidi dervisci ruo-tano intorno a se stessi alla ricerca di Dionel meraviglioso fluire della musica sufieseguita dai migliori artisti locali. E dopocena entrano in scena anche i dj, e sullenote di I will survive, insieme alla vario-pinta corte dello sceicco, ballano ancheSultan Bin Fahad, erede al trono saudita,e sua moglie, la principessa Deena, piùbella e sexy di una top model. «La Siria èun paese pieno di ricchi e le donne arabenon sono quelle raccontate dalla retoricadi Hollywood», incalza Majed. «Lo chicnon abita solo a Avenue Montaigne,Montenapoleone e Madison Avenue.Voglio portare il lusso vicino a un nego-zietto di pistacchi, un posto dove tutto,ma proprio tutto quello che c’è dentro siain vendita: mobili antichi e borse di Pra-da, damaschi e gonne di Marni, gioiellibeduini e Burberry’s. Non solo un nego-zio multibrand dunque, ma anche mul-ticulture. Questo è il concetto base delmegashop di Londra. Non sarà l’ennesi-ma brutta copia di Selfridges o Harrods.Andrò personalmente da Rei Kawakubodi Comme des Garçons e le dirò: ecco,questi sono damaschi siriani, questi so-no ricami marocchini, perché non provia creare qualcosa di speciale con questiprodotti in esclusiva per il nostri negozi?Battersea è a soli dieci minuti dalla zonadello shopping, perché dovrebbero veni-re da noi se trovano le stesse cose a Sloa-ne o Bond Street? E potete star certi cheinsieme a una costosa pelliccia di Fendi,a Battersea potrete comprare anche ungustoso cartoccio di pistacchi. Il prossi-mo passo? Un negozio come questo nelsuk di Teheran. Le iraniane sono bellissi-me e nel paese c’è grande ricchezza.L’Europa? Poco interessante, è ormaivecchia. Nei nostri paesi, invece, il set-tanta per cento della popolazione ha me-no di 26 anni».

Dopo Dubai e Qatar, un altro Villa Mo-da aprirà a fine anno in Bahrein, proget-tato dall’architetto olandese MarcelWanders. «Con lui sto esplorando le pos-sibilità di trasportare tutta l’umanità, l’al-legria, la vitalità, il fascino esotico del sukin una boutique. Alla mia maniera». Pi-stacchi griffati.

GIUSEPPE VIDETTI

LA VIA RECTALo sceiccoMajed al-Sabah,In alto, il sukdi Damascosulla Via RectaIn basso,le antiche muradi Villa Moda

le storieOltre il petrolio

“La Siria è un paese pieno di ricchie le donne arabe non sono quelle raccontate

dalla retorica di Hollywood. Voglioportare qui il lusso occidentale, ma voglio

anche inventare con gli stilisti nuovi prodottiin esclusiva per i nostri negozi”

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Marciano, il pugile brocco

la letturaMiti dello sport

Quando nel ’48 comincia a boxare da professionistaha 25 anni e i tecnici lo stroncano: “Troppo vecchio, cortoe leggero, senza stile né finezza”. Ma l’italo-americano Rockyè umile e cocciuto, conosce i suoi limiti e ci lavora su: disputa49 match e li vince tutti. E giusto cinquant’anni fa, campionedei massimi, si ritira imbattuto per diventare una leggenda

La sua era una boxeda classe operaia:molto sudore,niente paradisoMa convinse i mafiosia lasciarlo “pulito”

Ci sono quelli che non mol-lano mai. Non c’è nienteda fare, non vanno giù. Ese ci vanno, si rialzano. Teli ritrovi sempre addosso,magari barcollanti, pieni

di sangue, pronti a pestarti. Lo sport in-segna: non si può sempre vincere.Quelli se ne fregano, non ci cascano, evincono sempre: con il naso spaccato,con l’occhio chiuso, con la bocca rossa.Rocky era così. Duro, selvaggio, senzagrazia. Il suo diretto destro equivalevaal nono grado delle scala Richter (loscrisse il giornalista Red Smith). Il gan-cio sinistro era da elettroshock. Unoche non ci stava a perdere. Un invinci-bile. Quarantatré avversari stesi. Unmartello al posto del pugno, un collopoderoso, una rabbia da combattente.Ti picchiava a sangue, poi ti abbraccia-va. Una boxe da classe operaia, sudore,niente paradiso.

Rocky Marciano scese dal ring cin-quant’anni fa. Il 27 aprile 1956. A tren-tun anni. Unico campione dei pesimassimi imbattuto. Non si era lasciatostrappare nemmeno un match: qua-rantanove incontri, zero sconfitte,quarantatré successi prima del limite.Eppure non era portato per la boxe: erapiccolo, senza allungo, né equilibrio.Un pugile per caso. Lui lo sapeva, capi-va i suoi limiti, ci lavorò su. Cammina-va molto, per settantacinque isolati,dalla stanza alla palestra. Mangiavasempre verdure, beveva pochissimo,solo di sera, portava in tasca una vaset-to di miele per addolcire il caffè. Masti-cava la bistecca, non inghiottiva, spu-tava i pezzi di carne in una coppa sul ta-volo. L’unico pugile ad esercitare le pu-pille, con un pendolo che aveva appesosul letto e che seguiva con la testa. Si al-lenava duecentocinquanta round perun solo combattimento, cento ripresepiù degli altri.

Un mito anche per la mafia. Rockyera il loro idolo: macho, guerriero, pai-sà. Solo una volta gli proposero di ven-dersi l’incontro, nel ‘55, contro l’ingle-se Don Cockell. «Ti diamo un sacco disoldi, ti rifarai nella rivincita». Lui li cac-ciò fuori dalla stanza gridando: «Mi fa-te schifo, vergognatevi di essere italia-ni». Il match finì alla nona ripresa, conCockell che strisciava a terra in cercadelle braccia dell’arbitro. L’ordine ven-ne da Chicago, Milwaukee, Filadelfia:«Keep him clean, don’t get him dirty». Imafiosi si convinsero: Rocky doveva re-stare pulito, per tutti gli sporchi delmondo. Puro e immacolato. Lui era ri-spettoso, baciava i padrinisulle guance: RaymondPatriarca, Carlo Gambi-no, Frank Costello. Andòanche a trovare Vito Ge-novese, ormai in fin di vi-ta, nel carcere di Lea-venworth. Don Vito avevachiesto il favore, volevavedere i filmati dei suoimatch. La mafia invitavaRocky a pranzo, gli consi-gliava i sarti, gli compravaogni volta sei vestiti e do-dici camicie.

Francesco Rocco Mar-chegiano nasce il primosettembre ‘23 a Brockton,paese a sud di Boston, nelMassachusetts, alle porte della De-pressione. La sua famiglia è di origineabruzzese, di Ripa Teatina. Da ragazzovede il padre Pierino al lavoro nella fab-brica di scarpe, quasi incatenato albanco, mani e piedi si muovono allostesso ritmo. Dice: «Io lì dentro mai».Brockton, città di italiani e irlandesi, hastrade dure e rissose. Rocco va a gioca-re al James Edgar Playground, gli piaceil baseball, si allena molto: due ore algiorno di tentativi, ma il suo tiro è de-bole. Nel ‘43 durante il servizio militarescopre il pugilato. Boxa da dilettante,

ma quando si tratta di tirar su soldi è ca-pace di tutto, infatti per trentacinquedollari a Holyoke sale sul ring con il no-me di Rocky Mack contro Lee Epper-son. Nel ‘48 decide di passare profes-sionista. Il primo a cui lo dice è GoodyPetronelli, che lavora nella sua stessapalestra e che sarà allenatore di MarvinHagler. Petronelli è sorpreso. «Nonpensavo avesse molte possibilità. Ave-va venticinque anni, era troppo vec-chio, corto e leggero. Senza stile, né fi-nezza».

Già, per tutti non ha abbastanza do-

ti. Anche se nei primi cinque mesi salesul ring dieci volte, vince sempre per ko,e sette incontri non vanno oltre la pri-ma ripresa. Diventa Rocky Marciano il13 settembre ‘48, per colpa di un an-nunciatore che non riesce a pronun-ciarne bene il nome. I tifosi italiani si di-vertono, Rocky picchia duro e a casac-cio. Lou Duva, che quarant’anni dopoavrebbe portato Evander Holyfield altitolo mondiale, ricordava quando conVic Marsillo, manager di Sugar Ray Ro-binson, andò a vedere uno dei primi in-contri di Marciano: «Non faceva che

mancare i colpi, volare sulle corde, sen-za coordinazione. Gesù, dissi, è fortecome un toro. Vic mi rispose: stai scher-zando, non sa combattere».

Marciano comincia a sgrezzarsi conCharley Goldman, con cui lavora ancheil giovane Angelo Dundee, più tarditrainer di Muhammad Alì. Dundee ri-corda: «Goldman mi disse: ho un tipopiccolo, dalle spalle curve, con due pie-di sinistri, ma con un cazzotto micidia-le». Goldman gli insegna a schivare, adabbassarsi, quasi a inginocchiarsi e acolpire da quella posizione. Rocky nonha un gran fisico, ma sopperisce conumiltà e voglia di lavorare. Le braccia,anzi le clave, fanno il resto. Nel ‘49 alMadison Square Garden quasi ammaz-za Carmine Vingo, di vent’anni. Dopoappena due minuti gli frattura la ma-scella, Vingo cade e ricade. Alla sesta ilragazzo ha gli occhi vitrei. Il pugile va incoma, gli ci vorranno due anni per ri-prendersi, nel frattempo Marciano pa-ga le spese mediche.

A New York nel ‘51 Rocky manda ko,all’ottavo round, Joe Louis, poi correnello spogliatoio e si mette a piangere.Gli dice tra i singhiozzi: «Quando eroragazzo, tu eri il mio idolo». Marcianodà il suo meglio quando è in difficoltà,indietro con i punti, spellato nell’orgo-glio. La sera del 23 settembre 1952 a Fi-ladelfia affronta il campione dei massi-mi Jersey Joe Walcott. Alla tredicesimaripresa Marciano è in affanno, dispera-to. Per la prima volta nella sua vita è an-dato al tappeto (al primo round). Hauna brutta ferita sull’arcata sopracci-gliare sinistra che richiederà quattordi-ci punti di sutura. Walcott è in vantag-gio, ha più classe, Marciano ha un solomodo per vincere: attaccare. AppenaWalcott indietreggia verso le corde,Rocky piomba avanti e gli tira un destrocorto così potente che la mascella del-l’altro sobbalza e il viso si distorce. Wal-cott cade, quasi svenuto, con un brac-

EMANUELA AUDISIO

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ANTONIO MONDA

Ma film e libri cantano l’uomo al tappeto

NEW YORK

La spiegazione più efficace del perché il cinema ela letteratura subiscano in modo così prepotente il fa-scino del pugilato la diede George Foreman a Joyce Ca-rol Oates, che lo intervistava per il suo libro On Boxing:«Il pugilato — spiegò il campione con orgogliosa sem-plicità — è lo sport al quale tutti gli altri vorrebbero so-migliare». Esistono sport più raffinati e popolari, manon c’è altra disciplina che riesca a condensare coneguale intensità l’essenza simbolica di strategia guer-riera e di superiorità fisica. Con rare eccezioni, gli in-contri che passano alla storia terminano con un uomoche alza le braccia al cielo in segno di trionfo e con unaltro costretto all’umiliazione indelebile del tappeto.

I registi e i romanzieri sanno bene che la boxe è dram-ma nella sua realtà più intima e forma nella sua esecu-zione, e intuiscono le potenzialità di coinvolgimentocatartico di quella che non a caso è definita “the nobleart”. È questo il motivo per cui, nel cinema e nella lette-ratura americana i personaggi prediletti non sono icampioni circondati da un’aura di invincibilità comeRocky Marciano, ma quelli che alternano momenti digloria ad altri di disfatta, e smentiscono con la loro osti-nazione il principio di Francis Scott Fitzgerald: «Nonesiste un secondo atto nelle vite americane».

Esemplare il film che Michael Mann ha dedicato aMohammad Ali, che ignora il terribile declino fisicodel campione e si chiude con la riconquista del titolomondiale ai danni di George Foreman nello stadio diKinshasa. Norman Mailer ha scritto su quell’incontrouno dei suoi libri più appassionanti, Il Match, e ha poipartecipato a Quando eravamo re, un documentariodalle potenti suggestioni ancestrali e metaforiche cheracconta lo scontro di due giganti di colore nel cuoredell’Africa.

Un altro elemento di fascino è offerto dalla possibilità

di raccontare attraverso la boxe la storia delle emigra-zioni e delle emarginazioni: ai pugili ebrei ed irlandesisi sono sostituiti nel tempo gli italiani e i latini, mentre èrimasta costante la presenza degli atleti di colore. I pu-gili immortalati sono generalmente degli sconfitti, co-me il protagonista di Una bistecca di Jack London, o diFat City di John Huston; oppure uomini alla ricerca diuna rivincita (è il caso di Lassù qualcuno mi ama, ispi-rato alla storia di Rocky Graziano); o ancora atleti cheriescono ad avere il loro momento di trionfo a dispettodi ogni previsione, come Jim Braddock nel recente Cin-derella Man, e il Rocky Balboa di Sylvester Stallone, cheè nello stesso tempo l’“underdog” che sconfigge atletipiù forti di lui ma anche la “grande speranza bianca” chericonquista, almeno sullo schermo, un titolo che daitempi di Rocky Marciano è pressoché sempre nelle ma-ni dei campioni di colore.

È certo uno sconfitto Jake La Motta, che rifiuta di ac-cettare l’umiliazione del tappeto, ma perde ai puntiquattro incontri su cinque contro Ray Sugar Robin-son. Martin Scorsese, che ne ha fatto il protagonistadel suo film più grande, Toro scatenato, ha intuito chenella violenza e nella rabbia dell’italo-americano c’e-ra un materiale straordinario per raccontare un uomodal solo talento di fare del male al prossimo. E sonosconfitti tutti i personaggi di Million Dollar Baby, l’ul-timo grande film realizzato sulla boxe, nel quale il pu-gilato offre l’illusione di riscatto di fronte ai tradimen-ti della vita.

Raramente la “noble art” offre opportunità di ri-scatto morale: in Stasera ho vinto anch’io, il protago-nista rifiuta di sottostare a una combine che lo vor-rebbe perdente, e paga lo scatto d’orgoglio con unaterribile punizione da parte di alcuni gangster. Sa chelo sgarro sul ring distruggerà per sempre la sua carrie-ra, ma gli darà la possibilità di vincere, per una volta,nella vita.

che non sapeva perdere

Si faceva pagaresolo in contantie nascondevai pacchi di banconotenegli sciacquonidelle stanze d’albergo

cio ancora sulle corde. La rivincita du-ra appena due minuti e venticinque se-condi. Poi per Rocky vengono RolandLa Starza e due volte Ezzard Charles.Nelle seconda sfida il naso di Marcianosi spacca a metà, servono quarantaseipunti di sutura. Nel ‘55 allo Yankee Sta-dium affronta Archie Moore, un mitoda duecentosei combattimenti, cento-quaranta vinti per ko. Moore riesce amandare Rocky, per la seconda volta incarriera, al tappeto. Marciano diventauna furia. Le sue mazzate sono terribi-li. Alla nona il vecchio Moore è sfinito.

Rocky è alla sesta e ultima difesa deltitolo mondiale. Ha promesso alla mo-glie Barbara che si ritirerà. Ha ottenutoquello che sognava: soldi e donne, fa-ma e rispetto. E i soldi, solo in contanti.Ha questa ossessione. Bigliettoni, nonassegni. Quando sta negli alberghi na-sconde il gruzzolo nello sciacquone. Ildenaro accumulato è tanto: tre milionidi dollari, senza parlare dei centomilaprestati ad un mafioso. Ha altri soldi,depositati in cassette di sicurezza: aCuba, in Florida, in Alaska. Non pagamai, agli altri piace offrire, a lui riceve-re. Risparmia su tutto, in maniera esa-gerata. Da povero, appunto. Se parla daun telefono a gettoni, chiama la com-pagnia per dire che è stato derubato evuole i soldi indietro. Quando lo invita-no a fare conferenze, gli offrono il bi-glietto prepagato sui voli di linea. Luichiama qualche pilota privato, si fa da-re un passaggio sui velivoli da turismo,ma prima passa all’aeroporto a farsirimborsare il biglietto. A Montreal l’or-ganizzatore di una conferenza gli dà uncheck di cinquemila dollari. Marcianogli chiede d’incassare lui l’assegno,preferisce i contanti. «Le banche sonochiuse a quest’ora», risponde l’altro.Marciano insiste: «Va bene anche lametà, ma in biglietti». Per Rocky gli as-segni sono un pezzo di carta. L’altra os-sessione sono le ragazze, anzi le mino-renni. Fanno parte del suo cachet. Lecambia sempre, in maniera compulsi-va, mai due volte la stessa.

È il 31 agosto ‘69. Il giorno dopo avràquarantasei anni. Marciano che vive aFort Lauderdale chiama la famiglia daChicago: «Devo andare a Des Moines afare un’apparizione, poi torno dritto davoi e festeggiamo i compleanni». Quel-lo suo e della moglie. Frankie Farrell, ni-pote del mafioso Frankie Fratto, amico

di Marciano, ha aperto unacompagnia d’assicurazione eha chiesto a Rocky di tenerla abattesimo. In premio c’è unadiciassettenne. Farrell ha af-fittato un pilota, Glenn Belz,in realtà impresario edile, chenon è abilitato al volo stru-mentale e che di notte ha solotrentacinque ore all’attivo. IlCessna 127 decolla da DesMoines alle sei di sera, nono-stante le minacce di nubi e ditemporale, tre ore più tardiviene visto volare in Iowa.Troppo basso. L’urto è violen-to. Contro una quercia, in uncampo di grano. Un’ala sistacca, la carlinga viene tran-ciata, il resto si accartoccia. Itre muoiono nell’impatto.Marciano viene trovato attac-cato al sedile. L’unico. Tipicodi lui, non mollare mai. Quan-do la polizia suona di sera allaporta di casa a Fort Lauderda-le, trova la tavola con le torte egli ospiti con le candeline inmano. La signora Barbara

chiede: «Siete sicuri che sia lui e nonRocky Graziano?». Così morì Rocky cheper la boxe era troppo basso, ma cheaveva le misure giuste per la vita.

SUL RING E FUORIRocky Marciano. A sinistra, il campionecon la moglie Barbara e (sotto) l’aereosu cui morì. In alto, l’incontro con Joe Louis

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 49DOMENICA 23 APRILE 2006

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I genitori ricchi ma distratti, l’istruzione negata, la solitudine tra governanti e bambinaie. E poi la passione per scrittura e disegno,il primo libro pubblicato a proprie spese, un amore osteggiato

dalla famiglia. La storia della grandissima autrice di fiabe sta per sbarcare al cinema,dove scopriremo la genesi di personaggi mitici come Peter Rabbit ma anchei segreti di una femminista ed ecologista ante-litteram nell’Inghilterra vittoriana

50 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 APRILE 2006

ENRICO FRANCESCHINI

La signora delle favoleora è un’eroina da film

PotterBeatrix

LONDRA

C’era una volta… «Un coni-glietto!», diranno subito inostri piccoli, e non tantopiccoli, lettori.

No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una voltauna povera bambina. Non povera nel sensoche aveva pochi soldi, perché i suoi genitori, alcontrario, erano ricchissimi, così ricchi da vi-vere di rendita, in una magnifica casa di moltipiani, serviti e riveriti da cameriere, cuochi,giardinieri, a Kensington, nel cuore di Londra.Ma quella bambina era povera lo stesso, nelsenso di sfortunata, perché faceva una vitamolto triste. I genitori non la mandavano ascuola, sostenendo che per una donna l’istru-zione non era importante, per cui la costrin-gevano a restare in casa tutto il giorno. Maga-ri immaginate che, in compenso, passavano iltempo con lei? Sbagliate di nuovo: non la ve-devano quasi mai, affidandola a governanti ebambinaie. A un certo punto, con grande gioiadella bambina, nacque un fratellino, e così perun po’ ebbe un compagno di giochi: ma i ge-nitori, siccome era maschio, ritennero che l’i-struzione fosse per lui assai più importante epresto lo spedirono a una “boarding school”,una di quelle scuole in cui gli alunni vanno avivere, oltre che a studiare. Sicché la bambinasi ritrovò di nuovo sola. Poiché era intelligen-te e di buon carattere, si industriò a studiareper suo conto, imparando un sacco di cosesulla natura e sugli animali, le sue uniche di-strazioni. Gli anni passavano, lei continuava avivere isolata, trascorrendo lunghi pomerigginei musei e lunghe estati in campagna. Ormaidonna fatta, un giorno le venne l’idea di scri-vere un raccontino sugli animaletti che eranoi suoi soli amici: conigli, papere, gattini. Lo il-lustrò lei stessa, visto che le era sempre pia-ciuto disegnare, e lo inviò a tutti gli editori del-la città: ma nessuno lo volle. Allora lo pubblicòda sola, a sue spese; e dopo un po’ trovò un edi-tore disposto a ristamparglielo. L’editore si erainnamorato del libro, ma pure dell’autrice: di-fatti la chiese in sposa. «Stampare libri non èuna degna professione, non se ne parla nem-meno», rispose suo padre. Forse per caso, for-se per dolore, l’editore innamorato morì. E labambina, o meglio l’ex-bambina, perché aquel punto aveva già trentasei anni, si sentìmorire anche lei, uccisa da tanta cattiveria esolitudine…

Se finisse così, la nostra favola lascerebbedecisamente l’amaro in bocca, sia ai piccolilettori, sia a quelli grandicelli. Fortunatamen-

te, non finisce così. E tra parentesi,non è una favola. È la storia di

Beatrix Potter, una delle piùfamose scrittrici per bam-

bini del mondo, le cui fia-be illustrate e rimate suPeter Coniglio, Jeminala papera, Hunca Mun-cha e i topini birbanti, loscoiattolo Nutkin, Tomil gatto e il ranocchio Mr.

Fisher, hanno venduto oltre cento milioni dicopie e sono state tradotte in tutte le lingue delglobo, da quando fu pubblicata quella primaedizione di Peter Rabbit a spese dell’autrice,nel 1901. Da allora, anno dopo anno, i libri diBeatrix Potter continuano a venire ristampa-ti per nuove generazioni di bambini, al puntoche in Inghilterra esistono intere librerie de-dicate esclusivamente a lei; dai libri sono sta-ti tratti cartoni animati di altrettanto succes-so e innumerevoli gadget, souvenir, giocatto-li; le sue illustrazioni sono finite al Victo-ria&Albert Museum; la sua casa di campagna,nel Lake District, è diventata a sua volta unmuseo, visitato da centinaia di migliaia difans ogni anno; su di lei sono usciti studi criti-ci e biografie; e l’anno prossimo sulla stranafavola della sua vita uscirà anche un film, MissPotter, interpretato da Renée Zellwegger, lacarismatica attrice premio Oscar del Diario diBridget Jones e di tante altre pellicole, direttoda Chris Noonan, il regista del Maialino Babe,le cui riprese sono iniziate in questi giorni.

Non tutti vanno a leggere la biografia diuna pur popolarissima scrittrice per l’infan-zia, ma molti di più impareranno sicura-mente a conoscerla grazie al cinema: e poi-ché ogni genitore è stato bambino, anche sespesso non se lo ricorda, come direbbeSaint-Exupery, molti spettatori adulti e pic-cini faranno fatica a riconoscere l’autrice diquelle deliziose favolette a lieto fine nell’e-sistenza a lungo funesta e disperata di MissPotter. Sulle orme di Peter Coniglio che s’in-trufola nel giardino di Mr. McGregor per ru-bargli l’insalata, in effetti, si finisce per sco-prire uno spaccato dell’Inghilterra vittoria-na, dominata dalla ferrea disciplina, dal-l’obbligo di non lasciar trasparire i senti-menti, da un feroce classismo, in cui emer-ge sorprendentemente una caparbia eroinacapace di affermare la propria voce, unafemminista ed ecologista ante-litteram,una donna che pur avendo ricevuto poco af-fetto ne distribuisce a piene mani, rimanen-do generosa sino alla fine. Una figura fem-minile, insomma, non troppo dissimile dal-la quasi contemporanea Virginia Woolf, perquanto la sua “fattoria degli animali” sem-bri distante dal circolo Bloomsbury come laterra dalla luna.

Beatrix Potter, come s’è detto, nasce aLondra, nel 1866, da una famiglia moltoagiata e ancora più fredda, perlomeno neiconfronti dei figli. Cresce tra “nannies” eistitutrici, completamente autodidatta, ep-pure rivelando sin da piccola un occhio at-tento ai dettagli della natura(le bestiole delle sue fa-vole, anche se vestitein abiti umani e ca-paci di reggersi sudue zampe, sonoanatomicamen-te perfette) e undono per il dise-gno. Ogni estate,i Potter affittano

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LA DOMENICA DI REPUBBLICA 51DOMENICA 23 APRILE 2006

una casa nel Lake District, una delle regionipiù incontaminate e selvagge dell’Inghilter-ra, quattrocento chilometri a nord della ca-pitale: ed è in quel piccolo paradiso che nel-la mente di Beatrix nascono le storie di co-niglietti e paperotti. A quindici anni comin-cia a scrivere un diario, con un codice segre-to di sua invenzione e una calligrafia cosìminuta che si può leggere solo con la lented’ingrandimento: continua a scriverlo finoa trent’anni, non avendo altri amici a cuiconfidare i suoi pensieri, e smettesolo quando comincia a scrivere

le favole di Peter Rabbit. Laprima è in una lettera scrittaal figlioletto di una sua go-vernante, per di-

strarlo perché il bim-bo è malato: poi ne sa-rebbero seguite altreventidue. Dovendopubblicare la primaedizione a sue spese,in appena 250 copie, èlei a scegliere il forma-to: convinta che ibambini siano a disa-gio con libri troppovoluminosi e pesanti,pretende dal tipo-grafo che il suo sia pic-colo e leggero, inven-tando così di fatto,senza accorgersene, illibro tascabile.

La morte dell’edito-re innamorato nonferma il successo dellaprima serie, che è im-mediato. I libri dellaPotter vanno a ruba.In breve tempo, Bea-trix dispone di un pa-trimonio autonomoda quello dei genitori.Con quei soldi com-pra una fattoria e un po’ di terra nel suo ama-to Lake District, e più guadagna, più acqui-sta case e terreni nella zona, per impedireche speculazioni immobiliari deturpino ilpaesaggio. Finché una volta, acquistandouna casa, conosce un avvocato del posto chefa da mediatore, trai due nasce una simpa-tia, quindi molto di più. «Un avvocato dicampagna? Non è una degna professione,non se ne parla nemmeno», reagisce Potterpadre, invecchiato ma affatto cambiato, al-la proposta di matrimonio. Ma a questopunto è cambiata Beatrix Potter, che a qua-

rantasei anni, ricca e famosa, decide di spo-sarsi lo stesso. In campagna si dà all’agricol-tura, si scopre un talento come “farmer” eallevatrice di pecore e maiali: mestieri nonproprio femminili, all’epoca. Diventa la pri-ma presidente donna dell’associazione al-levatori di pecore Herdwick, e i suoi maialisono altrettanto belli. Insieme all’amore pergli animali sviluppa quello per la natura, so-stiene il movimento per la conservazione

del Lake District, contribuisce a farne unparco naturale e quando muore, nel

1943, lascia tutte le sue proprietà,quattromila acri di terra, al Na-

tional Trust, l’ente pubblico perla protezione dei tesori nazio-

nali. Beninteso, non èuna santa: ha un ca-rattere burbero, rin-corre i monelli perstrada col suo basto-ne da passeggio. Tut-tavia non serba ran-core: quando è il tur-no dei genitori, anzia-ni e malati, di sentirsisoli, li prende a viverein una casa accantoalla propria, nellaquiete del Lake Di-strict.

Beatrix Potter, na-turalmente, non è lasola scrittrice per l’in-fanzia che abbia avu-to un’esistenza diffi-cile o infelice. Bastapensare a un altro ce-lebre scrittore ingle-se, James MatthewBarrie, l’autore di Pe-ter Pan, la cui vita pri-vata fu contrassegna-ta da scandali, umi-liazioni e patimenti.Ma se la fiaba di Peter

Pan lascia dietro di sé un alone di struggen-te malinconia, le avventure di Peter Rabbit,progenitore di tutti i conigli delle fiabe e deicartoni animati, diffondono invece calore,candore, letizia. La differenza, forse, è cheBarrie era il «bambino che non voleva cre-scere», e l’età adulta, per lui, equivalse a unacondanna; mentre Beatrix Potter, la donnache non è stata mai bambina, riuscì a ricrea-re l’infanzia perduta soltanto da adulta: sul-le pagine dei suoi magnifici libri illustrati epoi, più tardi, fra i coniglietti della sua vec-chia fattoria.

LA PROTAGONISTANel film Beatrix Potterè interpretatadal premio OscarRenée Zellwegger(foto), che ha legatoil suo nome a pellicolecome “Il diariodi Bridget Jones”e “Chicago”. L’attriceè stata preferitaa Cate Blanchett

IL REGISTALa regia è stataaffidata all’australianoChris Noonan (foto),regista dei film chehanno per protagonistail Maialino BabeNoonan ha giratoil primo film a 16 annie vinto un premiocoi suoi cortometraggial Sydney Film Festival

I LUOGHILe riprese di “MissPotter” sonocominciate a marzoscorso in Inghilterra.Le prime scene sonostate girate a Londra,dove la scrittrice ènata e vissuta finché,dopo il matrimonio,non si trasferiscenel Lake District (foto)

LO STILEIl film, per renderepiù evidenteil rapporto tra realtàe fantasia nella vitadi Beatrix Potter, saràgirato con una tecnicamista: alle ripresecon gli attoriin carnee ossa si alternerannocartoni animati

A differenza di Matthew Barrie, l’autore di “PeterPan”, incapace di crescere, Beatrix diventò adultasenza essere mai stata bambina. Riuscendo peròa ricreare l’infanzia perduta sulle pagine dei suoi

volumi illustrati e fra gli animali della fattoria in cuivisse il periodo più felice della sua vita

LA PELLICOLANon sarà una grossa produzione,

ma per gli inglesi coinvoltinella realizzazione di “Miss Potter”è un progetto molto sentito. Perchénon c’è bambino che non conoscaBeatrix Potter (nella foto qui sopra).Il film biografico che esplora la vita

della scrittrice e illustratriceper bambini sarà nelle sale nel 2007e racconta la lotta della Potter controla società dell’epoca e una famiglia

troppo chiusa e conservatrice persinoper l’età vittoriana. Accanto a Renée

Zellwegger nei panni dell’autrice,ci sarà l’affascinante Ewan McGregor

nel ruolo di Norman, editoree compagno della Potter

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i saporiProdotti di stagione

Coltivati in origine nell’antica Cina, i “turioni” al loro arrivosulle tavole europee sono stati subito adottati dai potenti:ne andavano ghiotti, tra i tanti, Camillo Benso di Cavoure Otto von Bismarck. Ma in queste settimane,una raffica di feste e sagre consente a tuttidi conoscerli al meglio, approfittandodella breve finestra della loro maturazione

L’ortaggio più amato dai potenti, uno dei piùantichi. Sicuramente il più festeggiato nellesettimane che seguono la Pasqua. Da Schro-benhausen a Fossalon, da Nantes a Boroned-du, ovvero dalla Germania al Friuli, passandoper Francia e Sardegna, è tutto un rincorrersi

di feste-mostre-concorsi-sagre, con oggetto gli asparagi.Che hanno radici affondate molto lontano nel tempo — benprima di Cristo — e nello spazio (prime coltivazioni in Cina).

Subito adottati al loro arrivo in Europa, se è vero che i mo-naci li servirono spesso e in abbondanza durante il Conciliodi Trento. Ma a essere conquistati dai turioni— termine bo-tanico del germoglio dell’asparago — sono stati in egual mi-sura prelati e laici. Tanto che il cancelliere Otto von Bismarck,folgorato insieme a molti esponenti dell’aristocrazia euro-pea durante un pranzo di corte, si arrogò la primogenituradella preparazione con le uova fritte, arrivata fino a noi comeuna delle ricette che meglio fa risaltare il gusto originale e de-licato degli asparagi (bianchi, nella sua terra natale).

Dalla Baviera al Piemonte, altro statista fulminato sulla viadegli asparagi, Camillo Benso di Cavour, politico con un de-bole dichiarato per la buona cucina e fortemente impegna-to nello sviluppo dell’agricoltura. Nel suo epistolario france-

LICIA GRANELLO

se con il naturalista inglese William de la Rive, tornano spes-so considerazioni appassionate sulla coltura degli asparagi,«source de la prospérité de Santena».

Del resto, difficile trovare verdura più sana e appetibile a360 gradi, con la sola riserva nei confronti di chi ha problemiai reni. Una miniera di vitamine, a cominciare dalla C, an-tiossidante per eccellenza. E poi carotenoidi, fibre, sali mi-nerali: quegli stessi — potassio in primis — responsabili deicrampi da sudorazione. Molto meglio arricchire la dieta quo-tidiana con asparagi, banane e cocomeri che ricorrere agli in-tegratori tanto pubblicizzati all’arrivo dei primi caldi… Pergli stoici che li consumano rigorosamente “nature” — resi-stendo alla tentazione di gustarli con maionese o uova fritte— l’apporto calorico è ridottissimo. In quanto alla sua atti-vità “appetizzante”, è ampiamente bilanciata dalle pro-prietà diuretiche e depurative.

Una gradevolezza assoluta arrivata intatta fino a noi,espressa in oltre duecento varietà coltivate soprattutto nelnord e centro Italia, ma con gu-stosissime aree dedicate anche alsud, isole comprese. Vero è che nemangiamo pochini, meno di unchilo a testa all’anno: vuoi per lastagionalità abbastanza com-pressa, vuoi perché non sonoesattamente degli ortaggi a buonmercato. Vuoi anche perché odo-re e sapore particolari (quello del-l’asparagina si avverte perfinonelle urine) destano qualche in-quietudine.

Li mangiamo perché sanno diprimavera come forse nessun al-tra verdura sul mercato. Ma sic-come la raccolta è manuale, i ter-reni hanno caratteristiche parti-colari (sabbiosi, drenanti), le resesono meno incoraggianti di altriortaggi, non ne coltiviamo abba-stanza. Li importiamo soprattut-to dal resto d’Europa — Spagna,Francia, Olanda, Germania —malgrado il primo produttoremondiale (con ben il 70 per cento) sia in realtà la Cina.

Quasi mai il gusto è paragonabile a quelli nostrani. E infat-ti, appena i turioni affiorano dalla terra delle asparagiaie, par-te la corsa degli chef per accaparrarsi le migliori produzioniitaliane. Contemporaneamente, proliferano le gite familiarie sociali verso le enclavesdegli asparagi, dove vengono decli-nati senza limiti di creatività, dagli antipasti più sfiziosi ai dol-ci più insoliti (budini, crostate, creme).

Se volete unire l’utile al dilettevole, allungate l’itinerario:dopo le tappe doverose nelle terre degli asparagi certificati,Emilia e Veneto, sconfinate in Germania e andate a visitarel’Europäisches Spargelmuseum, il museo europeo dell’a-sparago di Schrobenhausen. Il 27 maggio, poi, la cittadinabavarese si riempirà di ceste, bancarelle, menù a tema. Pervere abbuffate vegetariane, con la benedizione di Otto vonBismarck.

Bianco di BassanoIl simbolo della varietà

bianca – coltivato

tra Veneto e Friuli, e da

poco Dop – si raccoglie

ancora sotto la terra

che copre le asparagiaie,

per mantenerlo tenero

Verde di AltedoCertificato Igp, è ricco

di sali minerali e vitamine

In Italia dal 1923, quando

alcuni agricoltori

bolognesi andarono

a Nantes a imparare l’arte

dell’asparagicoltura

Violetto di AlbengaIl suo colore unico

è dovuto a un corredo

cromosomico doppio

che vieta di ibridarlo

Ha gusto delicato e un po’

dolce. Lo protegge

un presidio Slow Food

SelvaticoLungo, sottile, tra il verde

pastello e il verde violaceo

scuro. Cresce spontaneo

in tutta la fascia

mediterranea

È perfetto per cucinare

zuppe e frittate

Il più aristocratico degli ortaggisvela i misteri della primavera

LE VARIETÀ

Asparagi

52 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 APRILE 2006

È difficile trovareuna verdurapiù sanae appetibile:ricca di vitaminee antiossidante,piena di fibree sali minerali,tanto da risultareintegratore naturale

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AgroSi bolliscono

nella asparagiera (pentola

stretta, alta, con cestello)

o in una casseruola legati

e in piedi, le punte fuori

dall’acqua. Aggiungere

olio e limone emulsionati

ParmigianaCotti al dente in acqua

salata, gli asparagi vanno

allineati nella pirofila unta

e cosparsi di fiocchetti

di burro. Grattugiare

sopra ugual peso

in parmigiano e gratinare

BismarckPer mantenere vivo

il colore nella bollitura,

si aggiunge metà quantità

del sale in zucchero

Si coprono di parmigiano

e vi si appoggia un uovo

fritto col burro di cottura

MinestraInsaporire in un soffritto

leggero di burro e cipolla,

gli asparagi a tocchetti

Salare, pepare e coprire

di brodo. Poi addensare

con un paio di uova

sbattute con parmigiano

itinerari

LE COTTURE

Conosciuto come “il paesedegli asparagi”, ha avutocome mentore CamilloBenso di Cavour, che lidefiniva “nostra sorgentedi prosperità”. La varietà

Argenteuil, di origine francese, è molto pregiata

DOVE DORMIREANTICO PIOPPOLa Carolina, Via Badini 28Tel. 011.9454467Camera doppia da 55 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREROMAVia Cavour 71Tel. 011.9491491Chiuso domenica sera e lunedì, menù da 20 euro

DOVE COMPRAREL’ORTO DELLA STRADA ANTICARegione Cascinetta, via Marconi 88, Piobesi TorineseTel. 011.965095

Santena (To)Affondata nella Marcatrevigiana, dopo un periododi emigrazione è statarecuperata a zona agricoladi eccellenza. Ospitala coltivazione di una varietà

di asparago bianco Igp, detto l’Oro di Cimadolmo

DOVE DORMIRELOCANDA GAMBRINUSvia Roma 20, località San Polo di Piave Tel. 0422.855043Camera doppia da 90 euro, colazione inclusa

DOVE MANGIAREANTICA OSTERIA ZANATTAlocalità Varago Sud, Maserada sul Piave Tel. 0422.778048 Chiuso domenica sera e lunedì, menù da 26 euro

DOVE COMPRAREAGRITURISMO AL SILE (con cucina)via Cornarotta 36, S. Cristina di Quinto Tel. 0422.477102

Cimadolmo (Tv)Fondata dagli abitantidi Tharros – città punicae romana della vicinapenisola del Sinis –e bonificata nel 1920,è centro di produzioni

di eccellenza,tra le quali asparagi e fragole

DOVE DORMIREIL GIGLIOStrada Provinciale 9, località MassamaTel. 349.1447955Camera doppia da 35 euro

DOVE MANGIAREANTICA TRATTORIA DEL TEATROvia Parpaglia 11Tel. 0783.71672Chiuso mercoledì, menù da 30 euro

DOVE COMPRAREAGRITURISMO LA MIMOSAStrada Privinciale 10 km13.800, San Vero Milis Tel. 0783.411442

Oristano

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 53DOMENICA 23 APRILE 2006

Le qualità coltivate soprattuttoal Nord e al Centro sonopiù di duecento. Ma la produzioneitaliana è ridottae dobbiamoimportarli dal resto d’Europa

Ernesto Iaccarino, chef-patron con la famigliadi “Don Alfonso”, a Sant’Agata sui Due Golfi,è il giovane, talentuoso figlio di Alfonso,storico interprete della cucina mediterraneadi alta qualità

RISOTTO PRIMAVERA CON TARTUFI DI MARE E ASPARAGI

200 gr riso Carnaroli, 100 gr olio extravergine, 2 spicchi aglio,½ bicchiere vino bianco secco, 1 litro brodo di pesce,200 gr asparagi a pezzetti, 50 gr fave fresche sgusciate,500 gr tartufi di mare

Scaldare l’olio con l’aglio, poi togliere lo spicchio

Tostare il riso

Unire il vino bianco e sfumare

Aggiungere lentamente il brodo

A metà cottura, unire asparagi, fave, salare e pepare

Intanto, spazzolare, lavare e fare aprire i tartufi

Dividere il risotto nei piatti, appoggiare i molluschi

sgusciati e decorare con le conchiglie

Chef Ernesto Iaccarino

Appassionati cultori della cucina di territorioin versione creativa, Marcello Leonie il fratello Gianluca (pasticciere) si dividonola cucina del “Sole” di Trebbodi Reno, a due passi da Bologna

ZUPPA DI BACCALÀ CON ASPARAGI VERDI DI ALTEDO

300 gr baccalà, 300 gr latte, 3 scalogni,1 spicchio aglio, olio extravergine quanto basta,10 asparagi verdi di Altedo, 5 carciofi,1 cubetto di lardo

Soffriggere gli scalogni tritati, l’aglio e l’alloro

Aggiungere il filetto di baccalà a cubetti dissalato e spellato

Insaporire, aggiungere il latte e cuocere circa 7 minuti

Togliere l’alloro, frullare e passare al setaccio

Scottare in acqua salata gli asparagi pelati e a pezzetti

Spadellarli coi carciofi tagliati e infarinati con lardo e aglio

Salare, pepare, eliminare aglio e lardo, disporre asparagi

e carciofi nelle fondine e velare con la crema di baccalà

Chef Marcello Leoni

la produzione annuadegli asparagi in Italia

33mila tonnil consumo annuopro capite degli italiani

500 grquelle contenute in centogrammi di asparagi

35 calorie

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Sofà

le tendenzeOggetti vincenti

AURELIO MAGISTÀ

54 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 APRILE 2006

SU E GIÙPanca o sofà: una sedutaversatile realizzatain poliuretanoSi chiama Double up,qui in versione“arlecchino”Anche da esterniDi Sturm und Plastic

LA FIERADELLE VANITÀLa classica VanityFair, icona di PoltronaFrau nata nel 1930,si veste a nuovocon il rivestimentoHousse, che citae rivisita i tipicimotivi a fioricon spirito giocoso

Dove trova riposoil guerriero urbano

PONTE ECLETTICOHi-bridge è un sistemadi elementi componibili,di Ferruccio Lavianiper Molteni. In pelle,alcantara o tessuto

Divani, super-poltrone, chaise longue, dormeuse: l’offertanon è mai stata così ricca e le nuove forme tendonoall’abbondante e al sontuoso. Frutto di un segmento di mercatovivace e degli stili di vita metropolitani in rapido cambiamento

Lev TolstojAvevo pulito in camera,e fatto il giro della stanza

mi sono avvicinatoal divano senza riuscirea ricordarmi se l’avevospolverato o no. Poichésono movimenti abituali

e inconsci, ormaiera impossibilericordarsene

Da DIARIO (1895-99)

Grandi manovre in soggiorno. Grandi per due ragioni. La prima:l’offerta di divani, sofà, poltrone, chaise longue, dormeuse non èmai stata così ricca, interessante e diversificata. La seconda: do-mina la magniloquenza. Che si traduce in grandi dimensioni,grandi sedute, forme sontuose, incisive, talvolta così formalmen-te ambiziose da apparire eccessive. La ricchezza e la varietà del-

l’offerta hanno origine nel fatto che nel settore degli imbottiti stanno entran-do marchi un tempo alieni o specializzati in altri ambiti. E questo perché latendenza del design è il total look: creare un’immagine coordinata e integra-le del proprio marchio attraverso l’articolazione dell’offerta in tutti i princi-pali tipi di arredi. Inoltre divani e poltrone, in un momento di relativa diffi-

coltà del settore, continuano a vendere. Inevitabile, quindi, un certo so-vraffollamento. Tanto più che ad attirare l’attenzione sul sofà contribui-

scono mostre come Die Couch: vom Denken im Liegen (Il divano: del pen-siero disteso), che apre il 5 maggio nella casa viennese di Freud a cento-cinquant’anni dalla nascita del padre della psicoanalisi.

La magniloquenza invece riguarda lo stile di vita. Le grandi dimensionisono adatte a un living in cui stare insieme agli amici, conversare, incon-trarsi, è ormai solo una delle attività e nemmeno quella principale. L’homeentertainment e l’home theater influenzano profondamente questo spa-zio, trasformandolo in luogo deputato al divertimento, dove si guardanofilm su grandi schermi a cristalli liquidi o al plasma che simulano il cinema,

si gioca in gruppo con i nuovi videogame, si ascolta musica con gli impiantipiù sofisticati e con il massimo coinvolgimento dei sensi. Il living, dunque, co-

me spazio di socialità, svago, diletto e cibo estemporaneo: per esempio l’happyhour o l’aperitivo che, coerentemente sontuoso, si fa piccola ma voluttuosa ce-

na prima di uscire insieme. Proprio per adattarsi a queste molteplici esigenze i divani modulari sono am-

piamente rappresentati: uno, due, tre moduli standard che possono essere com-binati diversamente, e possibilmente con grande facilità, in modo che si possacambiarne l’assetto rapidamente, per esempio passando dalla conversazione,in cui occorre guardarsi in faccia, al film, quando tutti gli sguardi devono poterfacilmente convergere verso lo schermo.

La profondità della seduta, fenomeno dominante al punto che diventa diffici-le trovarne l’eccezione, è una tendenza di lungo periodo: continua da tempo, e siè enfatizzata. Non si sta più seduti ma semisdraiati: è il trionfo di un’informalitàche, esibita tra persone che si conoscono poco, rischia a volte di sconfinare nel-la maleducazione.

Infine la magniloquenza formale, il segno ridondante, la foggia sorprendente,il dettaglio bizzarro e stravagante, sono la conferma che il minimalismo non pa-ga più. C’è bisogno di emozione e calore, soprattutto nella propria casa, rifugioin cui trovare conforto dopo le quotidiane, piccole e grandi, battaglie urbane.

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EVOLUZIONE DELLA SPECIELa classicità è solo apparente:la seduta è profonda ed ergonomica,i grandi cuscini sono in piuma d’ocae i braccioli e la spalliera, modernamentesvasati, citano ali d’uccello. Darwinè di Carlo Colombo per Arflex

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VARIAZIONI SUL TEMALa panca diventa sexyDix è una sedutamonoscoccasfoderabile Di Antidiva

Le grandi misure, le sedute ampie si adattanoa una zona living trasformata da un mododi stare insieme legato alle novitàdell’home theater, dell’home entertainment,dell’aperitivo-cena prima di uscire in gruppo

LA DOMENICA DI REPUBBLICA 55DOMENICA 23 APRILE 2006

PUNTO E VIRGOLAVisto dall’alto sembraun’interpunzioneIn realtà Mister B,divano monovolumea scocca unicain poliuretano,è di imponentidimensioni. Di PepeTanzi per Mos Italia

Crébillon fils era fatto come un pioppo; a 34 an-ni, quando scrisse Il sofà, era già stato in car-cere. Le sue opere infatti erano indecenti, e lui

insolente con le istituzioni — e anche con le donne(«senza averne di che», diceva il suo migliore amico).Così, quando, nel 1742, per il SofàCrébillon fu man-dato in esilio a trenta leghe da Parigi, fu, definitiva-mente, la fama. Una nobile inglese giacobita, incu-riosita da certi passaggi di quel romanzo libertino,andò a raggiungerlo, e lo sposò. In breve, la trama delSofà era questa.

Tanti secoli fa, lo scià Baham regnava sull’India, eera preda della noia. Nipote del magnanimoScharyiar, il sovrano delle Mille e una notte, Bahamchiede ai suoi cortigiani di svagarlo con delle storie.Amanzéi crede nella metempsicosi e racconta che,in una vita precedente, è stato un divano. Come sofà,ha accolto tra le sue braccia donne graziosissime; eassistito a incontri indecenti — perché, «chi ha maivisto un sofà in anticamera?». Anche Fatma, unasposa modello, tiene Amanzéi in una camera priva-ta; e segue il racconto dei suoi incontri con un negropossente e ottuso, un bramino serio, e un braminogalante: tutti le mancano di rispetto. Quando il ma-rito sorprende Fatma e ovviamente la uccide,Amanzéi passa di casa in casa, e assiste a abbraccisempre più scabrosi; una volta si innamora dellacandida e voluttuosa Zeini, e la turba nel sonno. «Sefossi stata donna, credete che sarei stata virtuosa?»,lo interrompe d’improvviso il sovrano. «Ma che do-mande», commenta la sultana. «Nessuno vi ha in-terrogato», le ricorda il marito. «Mah, penso di sì»,azzarda il cortigiano. «Io credo invece di no», affer-ma il sultano: «Badate, non dico questo per disgu-starvi della fedeltà», corregge, rivolto alla moglie.Continua, piccante e incantevole, il girotondo degliamori; ma lo scià alla fine sospira: «Ah, nessuno rac-conta come la nonna» (la nonna, beninteso, èShéhérazade).

Tutt’altro carattere aveva il poeta preromanticoWilliam Cowper; temperamento malinconico, esempre in preda a ossessioni religiose. Un’amicache adorava i versi liberi, lady Austen, gli suggerì untema svagato, pensando che l’avrebbe tenuto alle-gro. Il tema fu: il divano. The Task, il compito, inti-tolò gravemente il poemetto Cowper, e si mise all’o-pera: era il 1785. «I sing the Sofa. I who lately sang /Truth, Hope, and Charity…/ Now seek repose uponan humbler theme»: «Canto il sofà. Io che ultima-mente ho cantato la Verità, la Carità e la Speranza, /Ora trovo riposo su un più umile tema».

I primi settanta versi sono in effetti la storia burle-sca del divano: quando gli antenati, vestiti solo del-le loro pelle dipinta, riposavano sulla rude roccia,venne l’invenzione del treppiede, rustico di forme edi fattura. Ma arrivati ai rivestimenti e alle imbotti-ture, Cowper devia; e perpetra uno sterminato poe-ma che bacchetta il clero mondano, le metropolipeccaminose, le università indisciplinate e ogni sor-ta di disordine e peccato; trova venia solo la campa-gna: «God made the country, and man made thetown». Più spettrali e deliziosamente scucite Le not-ti fiorentine (1836) di Heinrich Heine, versato nellapoesia sepolcrale. Un giovanotto deve coi suoi rac-conti far volare con la fantasia una bella signora chela tisi incolla a un divano verde. Goethe, intanto, ave-va composto il Divano occidentale-orientale, ispira-to ai canzonieri (“divani”) abbasidi.

Prezioso nel Settecento, dove non c’è seduzionelaboriosa che non profitti della favorevole posizio-ne in cui si trovi, rispetto alla ritrosa, un pretenden-te inginocchiato, il divano dell’Ottocento intimo èironizzato negli imbottiti di Savinio, su cui si affac-ciano i volti severi dei genitori. Oggi il divano evocala seduta psicanalitica, o notti disordinate — sbor-nie di feste consumate sui sofà, o mariti découchés:come il principe Stiva in Anna Karenina. Del restoTolstoj era un patito del «divano basso con le molle»:e una volta che era rimasto inebetito davanti a quel-lo del suo studio, chiedendosi se lo aveva già spolve-rato o no — lo racconta nel diario — cambiò la nar-rativa del Novecento. Perché il formalista Sklovskijne trasse la teoria futurista che solo le emozioni in-tense erano vita, e, soprattutto, letteratura.

La voluttuosa arenadi tutti i libertini

DARIA GALATERIA

GIRI D’AUTORETondo e girevole,contrapponela seduta circolareai cuscini quadratie a contrastocromatico. Si chiamaSimplice, di AntonioCitterio per Maxalto

MORBIDA COME IL PANEIronica già dal nome,

La Michetta è una sedutacon elementi componibili

di formati diversi,rettangolari o quadratiDisegnata da Gaetano

Pesce per Meritalia

SPETTACOLARE TENTACOLARESi ispira alle stelle marinela nuova seduta AsterPapposus di Edra, in tessutosquamato e iridiscente

SPAZI PUBBLICIPresentato al Salonedel mobile 2006, è pensatoper gli spazi pubblici:locali e sale d’attesaSi chiama Flashmob,è fatto di elementiaccostabili e ha i cusciniin poliuretanoDi Saporiti Italia

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56 LA DOMENICA DI REPUBBLICA DOMENICA 23 APRILE 2006

l’incontroMaturità d’attore

PARIGI

Bisogna stare attenti. Tut-to farebbe pensare che ilpadrone di casa si credaNapoleone. La famosa

feluca dell’imperatore è appoggiatain cima a una scultura in legno e sulmuro un’antica stampa lo raffigura acavallo. Qualcuno dovrebbe dire aDaniel Auteuil che non è Napoleone.Perché lui, a distanza di quasi un an-no, parla del film di Paolo Virzì (N. Na-poleone dovrebbe uscire in ottobre,dopo i festival di Venezia o di Roma)come se l’avesse girato ieri, e parla diquell’angolo di Toscana che lo credel’imperatore redivivo. «Durante le ri-prese mi urlavano: “O’Napoleone, o’c-che’ttu’ffai”? E il mio cane era il cane diNapoleone e la mia fidanzata, la fi-danzata di Napoleone».

L’appartamento che Daniel Auteuildivide con la sua giovane compagna,scultrice e pittrice, racconta di un uo-mo che non ha perduto curiosità nel-la vita, nella professione e nelle perso-ne. E anche di un uomo senza pregiu-dizi. Il suo unico ritratto professiona-le è infatti in un grandissimo manife-sto incorniciato: quello di L’ottavogiorno di Pascal Van Dormael, Palmadella migliore interpretazione ma-schile a Cannes nel ‘96, assieme all’al-tro protagonista del film, Pascal Du-quenne. Coraggioso, viene da pensa-re: attaccato al muro mentre cammi-na in un prato accanto a un giovane at-tore down, e non con le bellissime at-trici dei suoi settanta film in più ditrent’anni di carriera: EmmanuelleBéart, Juliette Binoche, Vanessa Para-dis, Laura Morante, Isabelle Adjani,Anna Mouglalis…

«Le cose erano cambiate. Avevo fat-to una scuola di teatro, vivevo a Parigi,non ero più un ragazzo». Il ‘68 aveva la-sciato a Parigi disordine e libertà e ne-gli anni Settanta uno strascico di Nou-velle Vague percorreva ancora il cine-ma francese. Ma Auteuil non ha maifatto distinzioni tra cinema d’autore enon. «Io no, ma i critici sì. Quando eroun “jeune homme” si chiamava cine-ma “d’art et d’essai”. Ora, secondo me,c’è il cinema noioso e quello non noio-so. Non ho mai scelto un ruolo pen-sando: farò un film d’autore. Ho sem-pre funzionato con l’istinto. Non sem-pre mi innamoro di un personaggio.Anzi, non accade spesso. I ruoli entra-no ed escono. Lo trovo sano. Sono po-chi a essermi rimasti dentro. Forsel’Ugolin di Jean de Florette di ClaudeBerri (1986), o Martial di Qualche gior-no con me(1988) e Stéphane di Un cuo-re in inverno, entrambi di Claude Sau-tet. Ma decidere di fare un film è spes-so la voglia di un’avventura con un re-gista, con un paese».

Siamo sull’Ile Saint Louis, sotto le fi-nestre scorre la Senna e il riflesso delfiume inonda di luce un ampio sog-giorno costruito attorno a un enormeschermo televisivo. Un camino, un di-vano, un tavolo coperto di sculture,una libreria piena di libri, di film e difotografie. Davanti al divano, su un ta-volo basso, attendono una piccolatazza di caffè (fatto con la moka) e unvassoio di datteri non ancora secchi,grandi come prugne. «È il sud. È il Me-diterraneo», dice quando gli si fa no-tare che il caffè all’italiana e i datteriben rappresentano la sua fascinazio-ne per il Belpaese e la sua nascita adAlgeri. Una venuta la mondo piutto-sto nomade. Auteuil avrebbe dovutonascere ad Avignone, città di famiglia.Ma in quella fine di gennaio del ‘50 suopadre cantava in un teatro di Algeri, esua madre lo partorì davanti allo stes-so mare della Provenza; dall’altra par-te, però.

Figlio di cantanti d’opera e di ope-retta, quindi spesso in tournée, Da-niel Auteuil spiega il destino con leorigini. «Sono cresciuto nei teatri,quando non avevo scuola stavo sulpalco durante le prove, o nei cameri-ni. Sono stato un figlio unico amatis-simo. I miei genitori mi hanno sempreportato con loro, e dopo, fin quandoho potuto, ho fatto lo stesso con le miefiglie». Due, le figlie: Aurore (con An-ne Jousset) che quest’anno compirà26 anni e Nelly (con EmmanuelleBéart) che ne avrà 14. Le fanno do-mande? «No. Hanno già tutte le rispo-ste. E con me sono estremamente pro-tettive». Non le chiedono perché han-no un padre così diverso dagli altri, unpadre che fa l’attore? «Sanno che nonavrei potuto fare altro. Non avevoscelta. In più abitavo ad Avignone, lacittà del festival teatrale. I miei geni-tori cercavano di dissuadermi. È unlavoro precario, faticoso, dicevano. Ioprovavo a crederci, ma poi li vedevouscire ogni sera per andare in teatro.Erano sempre di buonumore. Rideva-no uscendo e ridevano rientrando. Eio mi chiedevo: perché non voglionoche rida anch’io?».

Il giovane Daniel cresce con «operee operette in inverno e troupe teatraliin estate». «Era un bisogno irreprimi-bile. Recitare era come un’ossessio-ne». E proprio al Festival di Avignonearriva il primo ruolo, nel ‘66, a sedicianni. Una domanda di matrimonio diCecov. Una sola rappresentazione.Sufficiente a fargli abbandonare lascuola e rivelargli l’attore che diven-terà. Ancora teatro nel ‘70 con unBond diretto da Georges Wilson, unodei grandi registi teatrali francesi. Poinel ‘74, finalmente, il cinema. L’ag-gressione di Gérard Pirès, poco più cheuna comparsata, ma accanto a De-neuve e Trintignant. Un thriller constupri e ammazzamenti: inizio con-traddittorio per un «attore per alle-gria».

Si sussurra che per il Napoleone diVirzì lei abbia abbandonato un altrofilm poco prima delle riprese. «Può ac-cadere quando mi propongono un’av-ventura che mi eccita di più, perché siparte per un posto che mi piace di più,con persone che mi piacciono di più.Io credo che in questo mestiere gli in-contri siano importanti. Un film è fat-to di mille presenze e tutte indispen-sabili. È un’esperienza emotiva moltoforte». Lo è sempre? «È sempre un mo-mento eccezionale, anche perché ilnostro mestiere riunisce persone chenon sono nella normalità delle cose. Ioadoro iniziare un film, ma adoro an-che terminarlo. Non sono più tormen-tato come quando ero un “jeune hom-me”. Mi sono costruito diversamente,oggi sono più strutturato. Anche per-ché so che, finito un film, ce ne sarà unaltro da fare subito dopo».

Infatti sembra non fermarsi mai.Quest’anno ha sei film in uscita. «No-nostante tutto lavoro meno di chi faun mestiere più regolare. Ho ben piùdi un mese di ferie all’anno». All’iniziodi aprile è uscito in Italia Incontri d’a-more dei fratelli Larrieu; il 12 maggioarriverà Una top model nel mio letto,la nuova commedia di Francis Veber.Prima c’era stato Cachè. Niente da na-scondere di Michael Hanecke. Poi, do-po l’estate, N. Napoleone. Analizzia-mo: un film durissimo, quello di Ha-necke, sulle conseguenze drammati-che e ancora attuali della guerra d’Al-geria; un piccolo film da camera, quel-lo dei Larrieu, sulla vita sessuale diuna coppia di cinquantenni; un filmstorico (Virzì) e un ciclone commer-ciale da milioni di spettatori (Veber).Vede una linearità nelle sue scelte?«L’unico denominatore comune è ilpiacere che ho provato a fare questifilm così diversi. Adoro il rigore di Ha-necke e il suo rispetto per gli attori. Ve-ber è un grande classico della comme-dia e con lui avevo già girato L’appa-renza inganna. Trovo Incontri d’amo-re un film importante sulla rinascita diuna coppia. Due quasi vecchi che si ri-trovano attraverso una coppia piùgiovane. Due persone che tornano avibrare l’una per l’altra, che tornanoadolescenti. In Francia ha innervositomolta gente, perché l’idea di scambiosessuale è ancora scioccante in unasocietà cattolica. Ma è un film elegan-te, delicato e, di base, i Larrieu non so-no certo due “partouzeur”. Infine: ol-tre al piacere di girare con Virzì e conMonica Bellucci, il “Napoleone” miha offerto anche la soddisfazione diun desiderio: lavorare in Italia. Vorreifare in Italia almeno un film all’anno.Adesso posso parlare in italiano, nonho più bisogno di doppiatori».

N. Napoleone è il suo quarto film nelnostro paese dopo Sostiene Pereira diRoberto Faenza (1995), Vajont di Ren-zo Martinelli (2001) e Sotto falso nomedi Roberto Andò (2003). Come spiegaquesta sua fascinazione? «Prima di

tutto perché la mia generazione è cre-sciuta, si è mischiata con i figli degliimmigrati. Tanto che ho cugini Rosa-ti e Mariani. Poi perché nel momentoin cui ho aperto gli occhi alla vita misono apparse le migliori ambasciatri-ci dell’Italia: le attrici. Monumenti dibellezza assoluta, di divertimento, divita. Per forza di cose queste attrici titrascinano nel loro cinema e scopriche dietro ci sono registi prodigiosi».Ha scoperto il cinema attraverso ledonne? «Ho scoperto la vita attraver-so le donne. Per molto tempo, co-munque, l’Italia è stata per me un fan-tasma cinematografico. La prima vol-ta che ho messo piede a Roma avevovent’anni, cercavo una piazza con i ta-voli bianchi di un ristorante e tante al-tre cose che non esistevano perché leavevo viste in un film di Fellini. A Ro-ma, però, lavoravo: cantavo al TeatroSistina in una commedia musicaleche si chiamava Godspell e la plateaera sempre piena di preti».

Dicono che gli attori vivano spessoin un mondo a parte. Lei, in più, abitasu un’isola. Si sentiva da qui il rumoredelle manifestazioni contro il Con-tratto di Primo Impiego (legge oggi ri-tirata) che poche settimane fa hannoinfiammato Parigi? «Sono d’accordocon gli studenti. È scandalosa questapaura che si è creata attorno all’idea diassumere un giovane. Se io avessivent’anni e non trovassi il lavoro adat-to ai miei studi sarei il più disperatodegli uomini. In Francia c’è abbastan-za denaro per tutti. Perché allora pro-vocare tutte queste insicurezze nellenuove generazioni?». Sembra unapersona molto equilibrata. «Diciamoche me ne frego un po’. Non ricordocome stavo dieci anni fa, ma oggi, no-nostante gli anni passino, mi sentobenissimo».

Quando ero giovanesi distinguevatra il cinema d’autoree quello “non”. Oggic’è il cinema noiosoe quello non noiosoIo i miei ruoli li hosempre scelti d’istinto

Figlio di cantanti lirici, è cresciutotra ribalte e camerini teatrali“I miei genitori mi dissuadevano:lo spettacolo è un lavoro precarioMa loro erano sempre di buonumore

e io mi chiedevo: perchénon vogliono che ridaanch’io?”. Adessoche ha girato settantafilm accanto alle attricipiù belle del mondoe che ha appenaimpersonato Napoleone

per la regia di Paolo Virzì, raccontala sua ultima passione: lavorarein Italia e recitare in italiano

LAURA PUTTI

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