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LA MAGIA DI UN GIORNO IMPERFETTO

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La magia di un giorno imperfetto

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LYdia netZer

La magia di un giornoimperfetto

Traduzione didaniele a. gewurz

e isabella zani

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titolo originale dell’opera: Shine Shine Shine © Lydia netzer, 2012. published by arrangement with St. martin’s press LLC. all rights reserved.

Questo romanzo è un’opera di fantasia. personaggi e situazioni sono invenzioni dell’autore e hanno lo scopo di conferire veridicità alla narrazione. Qualsiasi ana-logia con fatti, eventi, luoghi e persone, vive o scomparse, è puramente casuale.

realizzazione editoriale: Elàstico, Milano

iSBn 978-88-566-3341-2

i edizione 2014

© 2014 - ediZioni piemme Spa, milano www.edizpiemme.it

anno 2014-2015-2016 - edizione 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

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in fondo al buio c’era una lucina. in quella lucina c’era lui, che galleggiava in un’astronave. Sentiva freddo, sospeso così. Sentiva dentro di sé il gelo dello spazio. guardando fuori dagli oblò del razzo riusciva a ve-dere la terra. a tratti scorgeva anche la luna, sempre più vicina. La terra ruotava lenta e la navicella pro-cedeva lenta rispetto a ciò che la circondava. in quel momento lui non poteva fare nulla, proprio nulla. era parte dell’astronave diretta verso la luna. non portava scarpe, ma babbucce di carta bianca. non indossava biancheria, ma una tuta. era un semplice essere umano fatto di povera carne e ossa lunghe, con gli occhi velati e il corpo fragile. era stato lanciato dalla terra, e ora galleggiava nello spazio. era stato spinto via, con forza.

ma nel profondo della sua mente maxon pensava a casa. Lasciando fluttuare i piedi dietro di sé, si ag-grappò ai lati dell’oblò. guardò fuori, in basso, verso la terra. Lontana, a una distanza gelida, la terra ribolliva avvolta dalle nubi. Scarabocchiate sotto quel merletto candido c’erano tutte le nazioni della terra. al di sotto dello strato tempestoso, le città di questo mondo sbuf-favano e rifulgevano, collegate da strade, collegate da

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cavi. in Virginia sua moglie Sunny era viva e attiva. ac-canto a lei c’era il suo bambino, dentro di lei c’era la sua bambina. non li vedeva, ma sapeva che erano lì.

Questa è la storia di un astronauta che si perse nello spazio e della moglie che lasciò sulla terra. oppure è la storia di un uomo coraggioso che sopravvisse al naufragio del primo razzo mandato nello spazio per colonizzare la luna. È la storia della razza umana, che lanciò nelle vaste distese buie dell’universo una folle scheggia di metallo e qualche cellula pulsante, nella speranza che la scheggia colpisse qualcosa e ci rima-nesse attaccata, e che le piccole cellule pulsanti riuscis-sero in qualche modo a sopravvivere. È la storia di una protuberanza, di un bocciolo, del modo in cui la razza umana cercò di suddividersi, del bocciolo che formò nell’universo, di che cosa fu di quel bocciolo e di che cosa fu anche della terra, della madre terra, una volta che il bocciolo si aprì.

in un quartiere storico di norfolk, sulla costa della Virginia, nella sontuosa cucina di una villa georgiana ristrutturata, tre teste bionde erano chine su un’isola di granito. una era quella di Sunny, la più bionda. una luce discreta le illuminava dall’alto, dov’erano appesi in file opache e perfette i tegami di rame. Sulle pareti erano allineati pensili lucidissimi; incassato nel piano da lavoro c’era un lavello rustico riprodotto in silicio, con sopra una finestra a serra che ospitava vere erbe aromatiche. il sole splendeva. il granito era tiepido. dalla macchina del ghiaccio uscivano cubetti rotondi e quadrati. Le donne appollaiate sugli sgabelli intorno all’isola della cucina avevano i capelli lunghi e lisci, piastrati con cura o appena arricciati. erano raccolte

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attorno alla più minuta, che era in lacrime: stringeva con tutte e due le mani la tazza di tè posata sul piano e ci singhiozzava dentro, le spalle che andavano su e giù, mentre le amiche le ravviavano i capelli e le asciugavano gli occhi. anche Sunny si ravviò i capelli e si asciugò gli occhi.

«non riesco proprio a capire» disse la più minuta tirando su col naso. «aveva detto che quest’estate mi portava in norvegia. in norvegia!»

«in norvegia» ripeté quella con il cardigan verde lime, poi alzò gli occhi al cielo. «Che buffone.» aveva gli occhi piccoli e il naso a becco, ma il trucco e i capelli perfetti, il corpo snello e le scarpe costose la rende-vano comunque una bella donna allo sguardo altrui. Si chiamava rachel, per le amiche rache, ed era stata la prima della via a farsi una palestra in casa come si deve.

«ma io volevo andarci, in norvegia!» precisò la pic-colina. «i miei vengono da lì! È bellissima! Ci sono i fiordi.»

«Jenny, cara, qui non si tratta della norvegia» disse rache, chinandosi in una cascata di chiome bionde, che le si raccoglievano ad anelli attorno al viso e sopra il petto abbronzato e pieno. «non farti sviare.»

«no, infatti» concordò Jenny riprendendo a sin-ghiozzare. «Si tratta di quella stronza con cui si è messo a fare il cretino. Chi è? Lui non me lo dice!»

Sunny si staccò dal gruppo. avvolta in uno scialle di ciniglia, con una mano azionava gli elettrodomestici mentre teneva l’altra posata sul pancione. prese il bol-litore elettrico, rabboccò il tè di Jenny e le porse un fazzolettino di carta. Jenny e rache erano le sue mi-gliori amiche, e Sunny sapeva che quel dialogo tra loro sull’infedeltà del marito di Jenny era normale. era un

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normale argomento di conversazione. Lei però, ferma al solito posto, una mano sul bollitore e l’altra sul pan-cione, notò una cosa allarmante: una crepa nel muro, proprio accanto alla dispensa. una crepa in quell’an-tico muro georgiano.

«non si tratta nemmeno di lei, Jenny, chiunque sia» replicò rache. Sunny le scoccò un’occhiata severa, alle spalle dell’altra amica. rache gliela restituì spalancando gli occhi con fare innocente.

«ma di lui che è un coglione» disse Jenny. «di questo si tratta.» e si soffiò il naso.

Sunny si chiese se le ragazze avessero notato la crepa: risaliva lungo tutta la parete, squarciando la li-scia distesa d’intonaco del colore della crema al burro. il giorno prima non c’era, e adesso pareva già larga. profonda. pensò alla casa, divisa in due da un terribile zigzag, metà della dispensa separata dall’altra. Sacchi di lenticchie biologiche. Vasetti di barbabietole. radici e tuberi. Come rimediare?

Jenny non la finiva più di piangere. «non so che cosa fare!» gorgogliò per la terza volta. «devo pensare ai bambini! perché si è fatto scoprire così? non poteva stare più attento?»

Sunny vide davanti a sé la casa che crollava, e lei era la linea di faglia. Con maxon nello spazio, forse la casa aveva rinunciato a salvare le apparenze; forse senza la sua presenza, senza una persona a occupare il posto del marito, si sarebbe sgretolata. tutto cambia, tutto cede: il marito di Jenny, i razzi diretti sulla luna, il muro della dispensa.

«Sst» fece rache. afferrò il telecomando e alzò il volume della tv.

Sunny guardò l’ora sul microonde: mezzogiorno in

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punto. Si strinse per bene nello scialle e con due dita re-stituì un po’ di volume alla frangia. Stava cominciando il telegiornale.

«ah,» disse Jenny «c’è Les Weathers.»«ecco uno che non ti farebbe mai un torto» com-

mentò rache, inclinando il capo e strizzando l’occhio al televisore.

Le tre amiche rimasero a guardare in silenzio per qualche minuto quell’uomo alto e biondo, con i li-neamenti squadrati e un paio di scintillanti occhi az-zurri, che riferiva di un incendio nella zona. Si appog-giava appena alla scrivania, e faceva ampi gesti con le mani possenti: sembrava realmente preoccupato per il rogo, la sua ammirazione per i vigili del fuoco era tangibile. aveva il petto ampio e vigoroso, e un gran bel paio di braccia. ma per loro era qualcosa di più che un mezzobusto televisivo: per loro era presente e prossimo, perché abitava tre numeri civici più in là, in un’impeccabile villetta grigia chiusa dietro un pesante portoncino rosso.

«assomiglia a ercole» disse Jenny fra le lacrime. «ecco chi mi ricorda. Les Weathers è ercole.»

«però truccato» osservò Sunny, secca.«ma se sei pazza di lui!» l’accusò rache.«falla finita. io non sono tra le sue adoratrici. Ci ho

parlato una volta sola, in gennaio, quando gli ho chiesto di tirare giù la ghirlanda.»

«Bugia! Weathers era anche alla festa di Halloween a casa di Jessica!» ribatté Jenny, scordando per un istante le sue pene. «e poi ti ha intervistato quando maxon faceva pubblicità alla missione!»

«intendevo parlare a quattr’occhi» precisò Sunny, in piedi a gambe divaricate. Le pareva di sentire un

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tremore nella casa (o no?): dall’intercapedine sotto al pavimento arrivava una specie di vibrazione, come di qualcosa che si disfaceva. era passato un treno troppo vicino e la crepa si era allargata. arrivava fino al fregio del soffitto. era così anche il travaglio? La prima volta aveva partorito con l’epidurale, senza nemmeno sba-varsi il rossetto; alla seconda contava di farsi aumentare la dose e partorire con le perle al collo.

«non ci ho mai parlato a quattr’occhi...» le fece il verso rache, tutta pudica. «Secondo me sei la sua ami-chetta.»

«possiamo lasciar stare le amichette?» disse Sunny, accennando con decisione verso Jenny.

«magari dovrei dargli un colpo di telefono» mormorò quest’ultima, lo sguardo ancora incollato alla tv. «tutto solo in quella bella casa a curarsi il mal d’amore.»

dal televisore, Les Weathers sorrise mostrando due file di denti scintillanti e lasciò la parola alla cocondut-trice con una battuta da caserma.

«per carità» disse rache. «non dare a tuo marito altre scusanti.»

«perché, ha delle scusanti?» ribatté Jenny.partì uno spot di pannolini.«Comunque sia,» disse Sunny portando via le tazze

«devo andare a prendere Bubber all’asilo, e poi a tro-vare mia madre in ospedale.»

«già, come sta?» le domandò rache. Le signore si alzarono dagli sgabelli e cominciarono a ricomporsi: raddrizzarono i polsini, abbottonarono i cardigan.

«Bene. decisamente bene. migliora quasi a vista d’occhio, giorno dopo giorno.»

«ma non era in terapia intensiva?» chiese Jenny.«infatti, e funziona» rispose Sunny a entrambe.

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poi le mise frettolosamente alla porta, e nel tornare in cucina ispezionò la crepa con le dita. non era tremenda, non stava peggiorando. forse era sempre stata lì. o forse lei non l’aveva vista salire sempre più su, al-largarsi nella sua casa e nella sua vita, ora minacciata da quella spaccatura invalicabile. Sunny si sedette dove prima c’era rachel, e si sciolse i capelli sulle spalle come li portava l’amica; poi tese la mano curatissima verso il posto che aveva occupato Jenny, come ad abbracciare una spalla fantasma, annuendo e aggrottando le soprac-ciglia proprio come rache. alzò lo sguardo: la crepa era sempre là. drizzò la schiena, avvicinò le ginocchia e si ravviò la frangia. Sullo schermo Les Weathers stava salutando i telespettatori. Secondo i pettegolezzi di quartiere sua moglie, incinta, lo aveva lasciato per an-dare a vivere con un altro in California. non gli aveva mai fatto vedere il bambino. un brutto colpo, anche se adesso qualunque femmina nel raggio di sei isolati voleva rammendargli i calzini. Sunny si domandò come si rammendano i calzini: fosse capitato a lei, ne avrebbe comprati di nuovi e ciao. avrebbe sotterrato quelli bu-cati in fondo al giardino e nessuno si sarebbe accorto di niente.

dopo aver finalmente dato un’ultima, lunga occhiata alla dispensa e aver spento la luce, Sunny radunò la borsa, le chiavi e i libri di Bubber e salì sulla monovo-lume, facendo scivolare il pancione dietro il volante. Si risistemò i capelli nello specchietto, mise in moto e si avviò verso l’asilo.

i robusti alberi del Sud si allungavano sopra le strade del quartiere, gettando le loro ombre sulle facciate delle imponenti dimore di mattoni. i bombi ronzavano tra cascate di azalee bianche e di tutte le sfumature del rosa.

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i marciapiedi puliti si scaldavano al sole di primavera. a ogni incrocio Sunny pigiava il pedale del freno e poi ridava gas; la monovolume avanzava nello spazio come un soggiorno mobile, un trapezio d’aria in levitazione da un punto all’altro sulla terra, con lei seduta dentro a spingerlo in avanti. Si scordò della crepa, si scordò della moglie di Les Weathers. Le case erano rettangoli perfetti, esercizi di matematica.

il mondo esterno era luminoso e pieno di meccani-smi mobili. da ogni lato della strada davanti a lei, da ogni lato della strada dietro di lei, le abitazioni storiche si ergevano in prospettive maestose, sovrastate dalle querce, mentre i rami squamati delle lagerstroemie si allungavano sui marciapiedi. Le linee parallele incro-ciavano quelle perpendicolari formando una griglia in cui ci si orientava seguendo i numeri: i pari a destra, i dispari a sinistra. maxon aveva detto una volta: «il numero di lotti nell’isolato di una città moltiplicato per la radice quadrata delle mattonelle del marciapiede da-vanti a ciascun lotto dev’essere uguale alla larghezza di un vialetto per auto espressa in decimetri, più francis Bacon». non aveva alcuna stima per la magnificenza dei quartieri residenziali. tanta gente che vive a schiera. Che mangia, dorme e inforna a schiera. Che guida a schiera e parcheggia a schiera. Lui diceva che avrebbe preferito un casino di caccia in turenna, con un fossato per le tigri e una saracinesca di fuoco. però si adeguava. Come avrebbe potuto fare altrimenti? Quella città era una dichiarazione d’amore per la geometria piana.

pochissimi vicini avevano rivolto la parola a maxon; eppure chiunque abitasse in quella via prendeva molto sul serio le opinioni di Sunny. Lei era nata per vivere lì. era una vera professionista. i vicini dicevano che da

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quando si era trasferita in città tutto si era sistemato. organizzazione di barbecue. acquisto di tupperware. Le donne guidavano monovolume di fabbricazione asiatica e gli uomini berline tedesche. attorno all’unico cinema d’essai si erano raccolti ristoranti indiani, chioschi di gelato e boutique per animali. nessuno re-stava senza pranzo quando aveva un bambino malato o doveva farsi una cura canalare; nessuno restava senza baby sitter se aveva un appuntamento dal dottore, una gomma a terra, o un ospite. Le case avanzavano compo-ste nello spazio a ritmo regolare, mentre la terra ruotava e lo stato della Virginia ruotava con lei. in Virginia, si dice, si può mangiare in giardino tutto l’anno.

anche per Sunny c’erano baby sitter quando succe-deva qualcosa di brutto. C’erano gli stufati che arriva-vano con un colpetto discreto alla porta. Quando sua madre era stata ricoverata le avevano dato una mano. Quando maxon era stato lanciato sulla luna a bordo di un razzo le erano venuti in soccorso. C’era un sistema collaudato, che funzionava come doveva, alla perfe-zione, e tutti facevano la loro parte.

Sunny sedeva al capezzale della madre ammalata. Se-deva in golfino estivo color pesca e pantaloni capri color kaki, in sandali infradito di cuoio intrecciato e occhiali da sole di tartaruga. Sedeva sotto una morbida cascata di capelli biondi, nel corpo di una figlia premurosa e amorevole. Sedeva con suo figlio in grembo e un bebè nella pancia. Sua madre era distesa nel letto, coperta da un lenzuolo. non portava né cardigan né occhiali da sole, ma solo quello che le mettevano addosso a sua insaputa. non si svegliava più da settimane.

all’interno di sua madre stava andando in scena la

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morte. ma Sunny non ci pensava davvero. all’esterno di sua madre, dov’era scontato che fosse, c’era ancora molta bellezza. dal corpo sul letto, dalla bocca e dal to-race, Sunny vedeva spuntare rampicanti in fiore. erano i rampicanti che tenevano in vita sua madre: drappeg-giati sul petto, risalivano fino all’albero accanto al letto. erano attorcigliati lungo tutto il pavimento, delicata-mente aggrovigliati, intrecciati a fiori rugiadosi e viticci arricciati. Contro le pareti, erano schierati fasci di rami che si piegavano al vento lieve e da cui cadevano tutt’in-torno foglie dorate. in un angolo della stanza un tordo boschereccio cantava i suoi accordi, che si fondevano alla risatina e al pigolio di Bubber.

Bubber era figlio suo e di maxon. aveva quattro anni e i capelli color carota, dritti sulla testa come setole di scopa. ed era autistico. era ciò che sapevano di lui. Con i farmaci era molto tranquillo: riusciva a percor-rere in silenzio una corsia d’ospedale e a leggere libri alla nonna mentre Sunny lo teneva in braccio. Qualche volta riusciva anche a farsi passare per un bambino normale. C’era una medicina a colazione, una a pranzo, una per controllare la psicosi, una per aiutarlo nella di-gestione. Sunny era seduta con la schiena dritta e teneva in braccio Bubber, che leggeva ad alta voce, spedito e monotono. il bebè dentro di lei si stirò e si girò, incerto se diventare autistico oppure no; se assomigliare più a maxon, o più a lei. Se ambientarsi nel quartiere. era ancora tutto da decidere.

il gorgoglio ciarliero del respiratore le placava la mente, e Sunny pensò di sentire profumo di conifere quando un refolo d’aria le scompigliò i capelli biondi che le sfioravano le spalle. Se si fosse messa gli occhiali scuri sulla testa e avesse chiuso gli occhi, avrebbe po-

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tuto credersi in paradiso. avrebbe potuto credere che in questa foresta incantata ci sarebbe sempre stata una mamma, e lei sarebbe potuta andare ogni giorno a con-templare il suo viso sereno.

Sunny uscì dall’ospedale. Quando avvenne l’inci-dente, Sunny era già sulla via di casa. teneva il volante con le sue mani bianche, lisce, curatissime. il piede sini-stro posato sul tappetino. La testa dritta, vigile, concen-trata. dal finestrino aperto entrava un profumo di bar-becue. eppure l’incidente capitò comunque. all’angolo tra la maestosa Harrington Street e l’imponente gates Boulevard, un suv nero si schiantò contro la fiancata della sua grossa monovolume argento. proprio sulla via dove c’era la sua casa. proprio quel pomeriggio, il primo giorno dopo che maxon era andato nello spazio. nessuno morì nell’incidente, ma la vita di tutti ne uscì cambiata. non si poteva più tornare all’istante prece-dente. non si poteva fingere che non fosse avvenuto. Le macchine degli altri sono meteoriti: certe volte ti si schiantano addosso e tu non puoi farci proprio nulla.

dopo la visita alla madre aveva sistemato il piccolo sul seggiolino e gli aveva legato il casco sotto il mento. purtroppo lui sbatteva spesso la testa, soprattutto in auto. Lei guidava e intanto gli raccontava qualche ba-nalità. passava un sacco di tempo a parlare ad alta voce con Bubber, benché lui non ne dedicasse altrettanto a risponderle: parlargli in quel modo rientrava nelle cose che facevano per aiutarlo.

«non importa che sedia ti capita» gli stava dicendo. «Basta che dici “eh, vabbè”, e ti metti sulla prima sedia libera. perché se ti arrabbi per la sedia, poi ti perdi la lezione di disegno, no? in fondo è solo una sedia, sba-

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glio? È bello avere sedie di colori diversi, non importa quale ti capita. devi dire “eh, vabbè, è solo una sedia. La prossima volta mi capiterà quella azzurra!”, e poi ti siedi su quella rossa. dillo, Bubber: “eh, vabbè!”.»

Bubber ripeté: «eh, vabbè».aveva la voce da anatra, se le anatre parlassero come

i robot. e doveva mettersi il casco. Solo per stare in macchina. altrimenti sbatteva la testa contro il sedile, continuamente, ogni volta che le ruote incontravano un’asperità dell’asfalto. era terribile anche solo il suono, e Sunny non voleva sentirlo. mai.

«poi ti siedi» proseguì «e al colore della sedia non ci pensi più, pensi solo al tuo disegno. perché scusa, è più divertente arrabbiarsi o fare un bel disegno?»

«fare un bel disegno» rispose Bubber come un’anatra.«Quindi basta dire “eh, vabbè!”, poi sedersi.»Sunny sventolò una mano dall’alto in basso per sot-

tolineare l’affermazione; sul seggiolino Bubber cantic-chiava. era già parecchio presa a fare da mamma a lui, ma ora dentro di lei c’era qualcos’altro: il bebè da cui dipendeva il suo essere incinta. un bebè che aveva un cuore, un cuore che batteva. Sui macchinari del dottore si vedeva piuttosto bene. fuori di lei invece c’era quel pancione gigante, posato sul suo grembo come una ce-sta; la cintura di sicurezza doveva passargli sopra e sotto. impossibile tornare indietro. ormai era lì. malgrado ciò che si sarebbe potuto fare per evitarlo, o la sua opinione che avere un altro bambino non fosse una buona idea, ormai il confine era stato superato. Sarebbe stata ma-dre di due figli, sotto i capelli biondo chiaro, a bordo della sua monovolume a trapezio, nella sua imponente dimora. nonostante Bubber non fosse venuto bene, nonostante fosse saltato fuori con alcuni fili del cervello

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incrociati e logori, qualcuno di troppo qui e qualcuno in meno là, lei sarebbe diventata mamma un’altra volta. perché tutti vogliono due figli, uno non basta.

Quand’era bambina, Sunny non aveva mai visto figli nel suo futuro. non aveva mai giocato a fare la mamma. Spesso giocava ad avere una sorella, ma a fare la mamma mai. forse per quello voleva un altro bimbo: per risparmiare a Bubber una vita da figlio unico come la sua.

L’incidente avvenne a un incrocio con quattro stop. Sunny guardò a sinistra, a destra, di nuovo a sinistra. ai suoi occhi la via era tutta libera. ma poi dalla strada che stava attraversando sbucò una Land rover nera, che in-vestì la sua monovolume con una forza tremenda. “È la fine” pensò Sunny. “È finita. per me e per il bambino. e anche per Bubber.” niente più famiglia. dopo tutta quella fatica, un risultato pessimo. era una cosa mo-struosa, impossibile: solo a pensarci le tremava il cer-vello, le si scuotevano le ossa. “povero maxon” pensò poi, mentre l’airbag le comprimeva il torace. “Che cos’abbiamo combinato?” C’era qualcosa di brutale nella particolarità di un incidente d’auto a quell’ora e in quel posto, e sotto il peso di tanta realtà Sunny ebbe davvero la sensazione che il cuore le cedesse.

in quel momento la luce del sole cadeva ancora per migliaia di chilometri nello spazio fino a scaldare il parabrezza davanti al suo viso, ma con quella brutta smorfia sulla bocca lei sembrava un mostro. gli oc-chiali scuri sul viso puntavano in avanti, nel verso in cui procedeva la monovolume, ma la terra ruotava nel verso opposto. La monovolume procedeva sulla terra a un’angolazione assurda. dopo lo schianto le auto conti-nuarono ad avanzare un poco, ma in direzioni diverse.

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i vettori erano cambiati. gli airbag sibilavano. un al-berello si era piegato fino a terra. e in quel tremulo istante, una perfetta parrucca bionda schizzò via dalla testa di Sunny e fuori del finestrino, e atterrò sulla via in una pozzanghera piena di foglie. Sotto la parrucca, lei era completamente calva.

Sua madre era moribonda, suo marito era nello spa-zio, suo figlio indossava il casco perché era costretto, e lei era calva. esiste davvero una donna così? e una donna così può davvero fornire delle spiegazioni? Sunny, in quel momento, ebbe il tempo di chiederselo.

nel cielo, nello spazio, maxon ruotava come da programma. Sapeva sempre che ore erano, sebbene si trovasse oltre il giorno e la notte. al momento dell’inci-dente erano le 15.21, ora di Houston. ripensò a come lo aveva salutato Bubber, il suo piccolo, senza tante cerimonie: «Ciao, papà». alla guancia che il bimbo aveva porto, come gli avevano insegnato, e al bacio che lui gli aveva dato, come gli avevano insegnato. Così si comporta un padre, così si comporta un figlio, e così si fa quando il papà parte per lo spazio. rivide gli occhi del piccolo attirati da un altro richiamo, a contare le piastrelle del pavimento, a misurare le ombre, mentre con le braccia restava attaccato al collo di maxon, per non lasciarlo mai più.

un giorno di lavoro qualunque. risentì le proprie parole tranquille: «di’ ciao al tuo papà». Così abituali. a quattro anni la mente può capire, ma il suo piccolo non afferrava. perché salutarsi? e poi che vuol dire “ciao”? perché dirlo? non fornisce alcuna informa-zione; dicendo “ciao” o “arrivederci” non si stabilisce alcun nesso. Certo, ovvio, una futile convenzione. Là

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in alto, sopra la terra, maxon provò un concreto senso di fame. fame di vedere sua moglie e suo figlio; fame del loro profilo, della sagoma che la soglia di una porta avrebbe incorniciato al loro ingresso. fra le stelle, ac-cucciato in quella minuscola scheggia di metallo, per-cepiva la loro differenza rispetto al resto del pianeta. era come se Sunny fosse uno spillo su una cartina, e Bubber il perimetro colorato del territorio che lei indi-cava. non poteva vederli, ma sapeva dov’erano.

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