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Scritti sparsi di politica William Vittore Longhi

scritti sparsi di politica

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articoletti di politica pubblicati su web e minuscoli quotidiani a diffusione risibile

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Scritti sparsi di politica

William Vittore Longhi

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intolleranza oscurantista ............................................................................................................................................. 3

le varie anime di un centro mobile .............................................................................................................................. 3

precari e filosofi .......................................................................................................................................................... 5

seppellire le scorie avvelenate della seconda repubblica ............................................................................................. 6

dal v-day ai socialisti redivivi ....................................................................................................................................... 6

l'evoluzione del pensiero: gli anarchici analitici ........................................................................................................... 8

organi: li compreremo al supermercato?..................................................................................................................... 9

e lo chiamano pli ....................................................................................................................................................... 11

quale sfida al pensiero liberale e libertario? .............................................................................................................. 12

radicali verso la diaspora? ......................................................................................................................................... 13

Governo del Cav. salvatore coi fiocchi ....................................................................................................................... 14

mesta involuzione del liberalismo italiano ................................................................................................................. 14

pannella ha detto stop .............................................................................................................................................. 15

referendum tra mare, montagne e urne .................................................................................................................... 16

una seconda fiuggi per an?........................................................................................................................................ 18

hayek. la grande società. ........................................................................................................................................... 19

paleolism. fine di un amore? ..................................................................................................................................... 20

politica, una bellezza sfregiata .................................................................................................................................. 21

i dieci anni di liberal: da giovane ci piaceva di più. ..................................................................................................... 22

radicali e sinistra: vaghezza e ambiguità .................................................................................................................... 23

dove andranno i radicali? .......................................................................................................................................... 24

i radicali furenti ......................................................................................................................................................... 25

june arunga e la povertà africana .............................................................................................................................. 26

ripensare salvemini ................................................................................................................................................... 27

il nuovo pli su un triciclo ........................................................................................................................................... 28

Il paese dei privilegi antichi ....................................................................................................................................... 29

recuperare il senso dello stato. minimo..................................................................................................................... 30

buttiglione oscurantista? .......................................................................................................................................... 31

grazie a tutti, tranne a chi ci ha liberate .................................................................................................................... 31

il difficile rapporto tra sinistra e autori libertari ......................................................................................................... 32

voteranno per bush i libertarians? ............................................................................................................................ 33

la casa laica verso i confini della coalizione di governo .............................................................................................. 34

il gran rifiuto ............................................................................................................................................................. 35

federalismo: quello vero e quello falso ...................................................................................................................... 37

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martedì 15 gennaio 2008

intolleranza oscurantista pubblicato su http://www.ilpungolo.com/ Il pensiero liberale e laico è in difesa. Accerchiato, affannato e ansimante, si è chiuso nella sua area e subisce il gioco dell'avversario. Appena può, butta la palla sugli spalti, per riprendere fiato. Uno spettacolo deprimente. Dalle unioni civili grottescamente archiviate dal centrosinistra prodiano, alla visita di Benedetto XVI all'Università La Sapienza, fino alla moratoria sull'aborto annunciata da Ferrara e celebrata al teatro Dal Verme a Milano, i laici italiani non sembrano più disposti a discutere. Non cercano la persuasione, non seguono la logica dell'argomentazione. Urlano e strepitano, battono i pugni e chiamano Voltaire a rivoltarsi nella tomba. Nel nome di un illuminismo razionalista cotto e decotto, e di diritti civili che lasciano ormai perplessa anche la borghesia più progressista, la laicità in Italia si è trasformata in laicismo duro e puro, e quindi in becero ideologismo blaterante, balbettante e petulante. Di fronte alla scommessa culturale neoconservatrice di Ferrara, e alla progressiva rimonta del cattolicesimo romano come riferimento valoriale imprescindibile, i laici si sono ritrovati nudi alla meta. Non hanno davvero più nulla da dire per contrastare efficacemente quest'onda montante. A renderli così insulsi nelle parole e nei fatti ci ha pensato il sostanziale abbandono dell'ispirazione liberale dell'originario laicismo italiano, che nacque anticlericale per ragioni storicamente contingenti e che non è mai stato antireligioso, neanche per sbaglio. Un'icona della laicità nazionale come Mazzini, per fare un esempio facile, ha sempre sottolineato l'importanza della religione come riferimento fondamentale per la crescita morale e l'elevazione spirituale dell'uomo. Il suo repubblicanesimo era intriso di religiosità. Il liberalismo laico ha sempre combattuto il bigottismo clericale e l'invadenza diretta e molesta di parte delle gerarchie ecclesiastiche nella sfera autonoma dell'attività legislativa dello stato. Ma non ha mai negato il ruolo fondamentale della religione tradizionale, che in Italia ha il suo punto di riferimento nella dottrina cattolica, nella formazione delle coscienze dei cittadini. Ha preteso, invece, che la Chiesa di Roma non monopolizzasse l'offerta religiosa, lasciando aperto lo spazio ad altre confessioni per fare proselitismo e diffondere i propri principi valoriali. Il liberalismo autentico non ha mai impedito alla Chiesa di intervenire, con il ruolo che giustamente le spetta per l'importanza che il cattolicesimo indiscutibilmente riveste nella tradizione culturale e spirituale della nostra nazione, al dibattito pubblico sui temi che oggi si definiscono eticamente sensibili. Anzi, si potrebbe dire che la partecipazione della Chiesa al dibattito pubblico è doveroso. Ciò che i liberali hanno sempre rifiutato di riconoscere alle gerarchie cattoliche, come a qualunque altra autorità religiosa, è il diritto di imporre il proprio sistema di valori come verità morale oggettiva non negoziabile. Un sistema valoriale solido, perché basato su secoli di comportamenti individuali rivelatisi adeguati al mantenimento di un buon ordine sociale, non necessita di imporsi attraverso la legge dell'uomo, di per se stessa fragile, parziale, temporanea e fallibile. Può, però, certamente richiedere di non essere contrastato apertamente, attraverso l'imposizione di norme che ne smontino le stesse fondamenta e ne incrinino pericolosamente i principi. Il liberalismo non può, per questo motivo, sconfinare nel relativismo più inquietante, lì dove i comportamenti personali diventano eticamente indistinguibili, per una falsa concezione della libertà individuale. Il liberalismo si trasforma in ideologia laicista proprio quando comincia a sfornare leggi che dilatano la sfera delle azioni umane legittime fino a far sparire i confini con ciò che è moralmente dubbio, se non del tutto riprovevole, non solo alla luce degli imperativi morali cattolici, ma anche di fronte al senso morale più comune e diffuso. Le leggi possono soltanto trovare, quando ci riescono, limitati compromessi fra diverse opinioni su ciò che è bene. Spingersi oltre significa superare i concetti primari del pensiero liberale e sconfinare nell'ideologia costruttivista che pretende di riscrivere ex novo le norme di comportamento, con l'illuminazione della ragione. Una pretesa manifestamente illiberale e apertamente antireligiosa. Per questo il liberale non ama l'attività legislativa. Se poi è proprio costretto a legiferare, preferisce abrogare e snellire i codici. E se potesse richiedere una moratoria, chiederebbe una moratoria sulla produzione di leggi, a cominciare proprio da quelle che investono i cosiddetti temi eticamente sensibili, restituendo la regolazione dei rapporti interpersonali all'autonomia privata. Allora, è liberale e laico lasciare che Benedetto XVI vada a parlare alla Sapienza, è liberale e laico discutere della legge 194, così come è liberale e laico parlare di unioni civili. Il ruolo dei liberali è contrastare con durezza sia chi vuole trasformare il peccato in reato, sia chi pretende il lassismo morale di stato. Il liberale e laico non ha altri obiettivi se non quello di impedire che l'attività legislativa – sempre più coercitiva e pletorica nelle democrazie odierne - diventi strumento d'imposizione morale clericale o razionalista. Sembra, invece, che i liberali italiani riescano a sentirsi tali solo se si schierano con Ferrara o con Asor Rosa, abdicando di fatto, in entrambi i casi e nel modo più miserabile, al loro dovere antistatalista e libertario.

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le varie anime di un centro mobile pubblicato su http://www.ilpungolo.com/ e http://www.opinione.it/

Citiamo alla lettera l'On. Tabacci: "Finalmente il centrodestra è finito". Chiaro, perentorio e definitivo. È l'incipit dal sapore liberatorio del post datato 22/11 sul blog del deputato Udc, frondista della primissima ora. Nello stesso post troviamo citati un po' di nomi sparsi di coloro che potrebbero interessarsi ad una nuova formazione, già ribattezzata, con un gusto discutibile, la

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Cosa Bianca. Nomi ormai arcinoti dopo tutte le cronache di questi giorni. Ecco allora Savino Pezzotta e la sua Officina, movimento cattolico legato al Family Day. C'è l'altro Udc, Baccini, insieme al quale Tabacci aveva dato vita al Manifesto di Subiaco il 19-20 luglio scorsi. Ecco Gerardo Bianco e tutti i possibili transfughi della Margherita ormai dissolta nel Pd di Veltroni, e già si sussurra di Fioroni. Ecco Di Pietro, che ancora non si capacita di sedere fianco a fianco con la sinistra massimalista, e organizza cene di lavoro con Tabacci e Baccini perché, in fondo in fondo, il centrosinistra non lo regge più. Ecco, naturalmente, Casini, che dovrebbe gettare il cuore oltre l'ostacolo e sciogliere l'Udc dentro il nuovo contenitore più ampio. E poi, soprattutto lui, con la emme maiuscola, di Montezemolo Luca Cordero, di cui in molti sono pronti a giurare su un prossimo impegno diretto in politica, magari quando finalmente terminerà il suo mandato alla presidenza della Confindustria. Eppure proprio lui, quello con la emme maiuscola, smentisce, ma non del tutto, traccheggia, allude, dice e non dice, lascia intendere, ma non chiarisce. E allora ecco pronto un altro nome di peso, Mario Monti. Bel nome, ma i voti chi li porta? Dini e i suoi liberaldemocratici? Ma l'obbiettivo non era il 20% e oltre? E poi, Capezzone, che fine farà? E Zanone, che del Pd si è già abbondantemente stufato? La rivista Formiche di Paolo Messa e Carlo Romano, tanto sensibile a certe sirene neocentriste, sarà della partita? Organizzerà convegni, incontri, seminari? E a proposito di Formiche... e Follini? Ma ci sta poi così bene con Veltroni? Verranno Adornato e Sanza? Sono mille e poi mille ancora i nomi che si potrebbero fare e che Tabacci non cita esplicitamente, un po' per riguardo nei confronti di chi ancora non si è voluto esporre in modo diretto, un po' per non creare subbuglio in casa altrui. E un po' anche per scaramanzia. Quel che è certo è che dopo la rivoluzione proporzionalista di Berlusconi in piazza San Babila, che FI venga sciolta oppure no, la voglia di centro è riemersa in tutta la sua energia vitale. Un fenomeno carsico che forse, finalmente, ha trovato uno sbocco definitivo. Si parla di centro del riformismo temperato, della politica mite. Interviste, commenti, editoriali si sprecano ovunque. Tutti a fare outing, tutti moderati nel sangue, centristi da sempre. Tutti giù a rileggersi Sturzo e Rosmini. Tabacci e Pezzotta si stanno muovendo a passi decisi verso un comune obiettivo, anche se la concitazione del momento rivela un certo scarso coordinamento, con qualche contraddizione di troppo sulle linee generali, qualche accelerazione non del tutto voluta, e diversi ammiccamenti verso personaggi che definire di centro è quantomeno problematico. Ma, per l'appunto, è la concitazione del momento. La stessa concitazione che ha spinto Tabacci a parlare già di stati generali della Cosa Bianca per gennaio 2008, cioè fra un paio di mesi, un nanosecondo per i tempi della politica, costringendo Pezzotta a frenare immediatamente tanta esuberanza. In ogni caso, sono in tanti ad affollarsi davanti al portone di una casa che ancora non c'è, magari col piedino ben pronto al dietro front alle prime avvisaglie di flop. È il miraggio della balena bianca che non muore, a scuotere gli animi più sensibili al passato che non passa. Un miraggio che attira anche tanto vecchiume sparso. Ma Tabacci di cose passate non sembra interessarsi. Vuole una cosa nuova, altro che Dc rediviva. I vasi canopi con ciò che resta di biodegradabile della Democrazia Cristiana è probabile che li voglia lasciare davvero a qualcun'altro. Tabacci-prezzemolino vuole costituire un centro mobile di ispirazione cattolico-liberale che spinga Berlusconi verso l'angolo della destra populista e neoconservatrice. Alleanze possibili? Con Fini, innanzitutto, quasi ad ogni costo, nella prospettiva di accelerare l'ingresso di An nel Ppe e magari anche allo scopo di far emergere quella che Tabacci definisce, senza troppe remore, la natura populista del neonato movimento berlusconiano, partito, network, federazione, arcipelago o cos'altro sarà in futuro. Quel che conta è evitare l'impressione, anche solo minima, di voler riesumare la Dc. Ma la domanda a questo punto è: può interessare un simile progetto ai liberali? La questione non è di poco conto, dato che i liberali italiani, ormai dal 1994, si sono divisi in modo anche duro proprio su Berlusconi, e dato che, senza infingimenti, alcuni liberali già ci stanno pensando sù. La tentazione centripeta per i liberali ha due dimensioni, una culturale e l'altra legata alla leadership. Sotto il profilo culturale, una formazione di orientamento cattolico-liberale, profondamente e convintamente sturziana, porrebbe probabilmente alcune serie questioni sul fronte dei diritti civili, soprattutto per il peso specifico di Pezzotta e degli eventuali transfughi ex Margherita dal Pd. Ma con figure come Montezemolo, Monti e Tabacci stesso, l'indirizzo liberale sui temi economici fornirebbe un robusto connotato riformatore alla nuova formazione, non si può negarlo. Sotto il profilo della guida politica, invece, se dovesse emergere una figura credibile di leader, e Montezemolo o Monti possono esserlo effettivamente, per riferimenti ideali, esperienze e carisma, veramente per i liberali tutto sarebbe ancora come prima? Forse è ora di iniziare una seria discussione su cosa può significare in futuro, per l'attuazione concreta di progetti liberali, la costruzione di un incontro tra comunitarismo cattolico e individualismo liberale. Il rischio, si sa, è sempre quello di riassistere alla mesta riproposizione del Ppi di Martinazzoli o, peggio, dell'elefantino blu, probabilmente la crepa più larga e profonda nella carriera politica di Fini, che da allora ha dovuto ridimensionare l'ipotesi di smarcamento dalla leadership berlusconiana. Almeno fino all'evento di San Babila. Ma al di là di questo rischio, comunque presente, con le risorse e l'impegno giusto potrebbe realizzarsi un incontro pregno di cultura politica, in una formazione completamente nuova, davvero liberal-conservatrice, conservative in senso anglosassone, purché sganciata dalle logiche bipolari attuali, la cui efficienza, se vogliamo chiamarla così, è sotto gli occhi di tutti dal biennio forzulivista 1994/96, da quando cioè Berlusconi e Prodi hanno occupato interamente il proscenio, senza soluzione di continuità. Finalmente una soluzione sarebbe a portata di mano. O no?

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precari e filosofi pubblicato su http://www.ilpungolo.com/ Nel paese della precarietà le fazioni in campo si dividono in due: i fatalisti e i massimalisti. I fatalisti del precariato sono gli integrati, quelli che il mondo gira così ormai da almeno tre lustri e non possiamo farci più nulla. I massimalisti sono invece gli apocalittici, quelli che il mondo sono pronti a girarlo e rigirarlo a modo loro per evitare la catastrofe finale, finché non venga fuori la frittata che preferiscono. I fatalisti, da bravi ed onesti integrati, spesso si dissociano moralmente dai responsabili di questa rivoluzione dell'insicurezza globale. Dicono che loro avrebbero fatto le cose in modo più umano, più morale, più equo, ma che comunque ormai non c'è più niente da fare e si possono solo mettere delle pezze qua e là per tamponare le peggiori conseguenze dell'instabilità professionale. I fatalisti li trovi soprattutto a destra (Tremonti docet), ma li trovi anche al centro della sinistra moderata (Polito su tutti), sono un po' liberali e un po' comunitari, un po' cattolici e un po' protezionisti. Il problema per i fatalisti/integrati è tutto nel conservatorismo dei sindacati, sordi e cinici di fronte alle tribolazioni dei giovani, e forse anche nella finanziarizzazione dell'economia; ma il resto è nella natura delle cose e non poteva non avvenire. I massimalisti/apocalittici, invece, li trovi quasi tutti all'estrema sinistra, e per loro il problema è la globalizzazione tout court e qualunque forma contrattuale che non sia a tempo pieno e indeterminato. Integrati e apocalittici dominano il campo di gioco, sono le uniche due squadre in campo e il pallone lo scelgono loro. Tutti gli altri sono arruolati, volenti o nolenti, con i cattivi di turno, cioè il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, l'Ocse, la Bce, la Federal Reserve, le multinazionali, i commercianti d'armi, gli spacciatori di quartiere, la mafia russa e, immancabili, Mastella e la Cina. Ora, la compagnia dei cattivi, al netto dei cattivi davvero, è piuttosto sgradevole, anche perché puzza di tecnocrazia, plutocrazia, monopolio pubblico e privato. Ma la precarietà in Italia è un fenomeno nato soprattutto dallo scontro frontale tra il tentativo, mal riuscito, di liberalizzare il mercato del lavoro, che è andato a pesare unicamente sulla parte più debole degli occupati, e la reazione rigida dei sindacati e della politica, che hanno preferito non affrontare il nodo centrale della questione: alcune insostenibili prerogative del contratto a tempo indeterminato. In tutto questo contesto, fatalisti/integrati e massimalisti/apocalittici hanno elaborato i loro refrain che ripetono ad ogni occasione, tanto per distinguersi dal pensiero unico, cadendo però in un brodo retorico che ha francamente stufato, perché non rende onore a certe verità.Il primo refrain, quello degli integrati della destra e di certa sinistra emancipatasi in ritardo dal marxismo, afferma con borghese e distinta disinvoltura che in Italia sono in troppi a volere un lavoro che sia ad un livello adeguato al titolo posseduto, indicando sempre al pubblico ludibrio i laureati in lettere, e lamentando sistematicamente l'assenza di ingegneri se va bene, di elettricisti, idraulici, portieri e antennisti se va male. Che nel paese dal patrimonio storico, artistico, paesaggistico e culturale più ingente del mondo le esigenze professionali primarie debbano essere gli antennisti, gli idraulici e gli elettricisti lascia, con franchezza, un tantino basiti. E testimonia con chiarezza l'assenza di vedute strategiche di certi liberali dell'ordine spontaneo. Un paese come il nostro dovrebbe investire costantemente sulla propria ricchezza fatta di cultura paesaggistica e storica, e avere una necessità famelica di laureati in scienze dei beni culturali, filosofia, lettere. Anziché sfornare inflazionati e costosissimi master in finanza e risk management, sarebbe logico per le nostre scassate università produrre in dosi massicce lauree, master e specializzazioni di indirizzo archeologico, museologico, museografico, turistico, agrario, gastronomico. Eppure finanza e risk management sono i blockbuster del mondo universitario, i prodotti più ambiti dai rampolli emergenti, mentre i corsi di studio umanistico e più legati al territorio faticano a trovare una ragione professionalizzante, spesso incartandosi in indirizzi inservibili se non per le locali baronie, divenendo quasi uno sfizio intellettuale per chi li frequenta e non certo un investimento sul futuro. Il nostro paese dovrebbe rappresentare la punta di diamante internazionale della valorizzazione, della conservazione e del restauro dei beni culturali, in senso lato. Passiamo invece il tempo ad accusare i laureati in discipline umanistiche di essere dei perditempo; a leggere romanzi impossibili e saggi improbabili sui protagonisti assoluti della nostra cultura, ma sistematicamente scritti da stranieri; e a rincorrere, scoordinati e goffi, il resto del mondo che sembra occuparsi solo di tecnologia informatica e telecomunicazioni. Il refrain più noioso della sinistra estrema, degli apocalittici del precariato, è invece puro feticismo del contratto a tempo indeterminato, che pare l'unico contratto degno di questo nome. L'origine di questo ritornello sinistrorso sta però in una verità di fatto, cioè nell'eccessiva proliferazione dei contratti diversi da quello a indeterminato. Il ragionamento di chi difende l'attuale giungla contrattuale del lavoro è basato, effettivamente, su un paradosso indifendibile: se non ci fossero questi contratti precari, ci sarebbe più disoccupazione o solo lavoro nero. Una specie di ricatto politico. E però, con questo ragionamento si istituzionalizza il lavoro che sarebbe altrimenti a nero, ma non si cambiano le condizioni generali, segmentando il mercato del lavoro e dividendolo drasticamente in ultraprotetti e ultraprecari, con questi ultimi a pagare sempre per i primi, come sulle pensioni. Qui gli apocalittici hanno alcune buone ragioni di protesta, perché chiunque lavori in aziende di qualunque dimensione sa bene che la tendenza generale e diffusa è quella di sfruttare tutte le scappatoie che la legge Biagi mette a disposizione, per pagare i dipendenti e parasubordinati il meno possibile e sostituirli alla prima modesta rivendicazione retributiva o normativa. Le aziende italiane hanno imparato a vivere di turnover del personale, adattandosi darwinianamente alle leggi e scaricando in modo massiccio sul personale le fluttuazioni della domanda. È una politica aziendale che dà certamente benefici sul breve, ma che è destinata a produrre frutti marci – in azienda e nella società - su un orizzonte temporale più ampio. Ma i massimalisti/apocalittici commettono un errore madornale: il loro totem intoccabile del contratto a tempo indeterminato, così com'è oggi, rischia di trasformare il segmento del mercato del lavoro che poggia sui contratti precari in un comparto a tenuta stagna, lasciando solo a pochi fortunati il passaggio da un segmento all'altro. Invece, solo indebolendo il contratto a tempo

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indeterminato nelle sue condizioni più rigide è possibile ridurre grandemente le tipologie di contratto "flessibili"e incentivare gli imprenditori ad abbandonare progressivamente certe brutte abitudini. Fatalisti e massimalisti se ne facciano una ragione: il rilancio del paese passa anche attraverso una totale, quasi rivoluzionaria, rivalutazione del capitale storico-paesaggistico che abbiamo sotto i piedi e del capitale umano che non può essere svilito solo dicendogli che così va il mondo e solo una laurea in finanza e cinque anni da precario lo salveranno.

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seppellire le scorie avvelenate della seconda repubblica pubblicato su http://www.ilpungolo.com/ Riassumiamo: per Giavazzi, economista per il quale il liberismo è di sinistra, il governo Prodi è cinico ed inadeguato. Per Bonanni della Cisl il governo vuol fregare i lavoratori. Per Epifani della Cgil il governo è succube della sinistra estrema. Angeletti della Uil è amareggiato. Montezemolo della Confindustria è irritato e deluso. Rifondazione Comunista si astiene, che al Senato significa bocciatura. La Corte dei Conti è preoccupata, la Banca d’Italia spiazzata e sgomenta, la Banca Centrale Europea è costretta all’ennesimo richiamo. I riformisti del centrosinistra sono pronti alla battaglia in Parlamento, e Dini è prontissimo ad apparecchiare la caduta del governo. Pure Veltroni ci mette del suo, vagheggiando di nuove privatizzazioni e dismissioni, appellandosi alla straordinarietà della situazione. Politici, commentatori, osservatori, imprenditori, lavoratori, calciatori, filosofi, ladri, funamboli, nani e ballerine, ce ne fosse uno, dico uno, soddisfatto delle ultime scelte di Prodi e Padoa Schioppa. Il protocollo sul Welfare, già debole e accomodante nei confronti dei soliti noti (pensionandi a brevissimo termine) è stato votato inutilmente con un referendum, inutilmente perché ha già subito un’ulteriore revisione, naturalmente al ribasso. La finanziaria non muove di una virgola la tradizione spendacciona e fiscalmente onerosa dello stato italiano, basandosi su insulsi ritocchini qua e là dei conti pubblici. A questo governo non crede più nessuno, a cominciare proprio da chi lo aveva sostenuto fin dall’inizio. L’ala liberale, rappresentata dalla coppia Bersani-Bonino, è stata depotenziata e ridimensionata a mera suppellettile. La minoranza della sinistra anacronistica si è trasformata in illegittima proprietaria dei mezzi di produzione legislativa di questo paese, tenendo sotto scacco l’accoppiata Prodi – Padoa Schioppa, vero anello debole del centrosinistra riformista. Stretti fra la necessità improrogabile, eppur sempre prorogata, di risanamento dei conti pubblici da un lato, e dalle richieste di aumento dell’assistenza statale in tutte le sue forme più deteriori da parte dei massimalisti di sinistra, Prodi e Tps sono riusciti a realizzare un capolavoro di insipienza politica, plasmando nel tempo un governo privo di visione strategica. E l’unica visione strategica adatta al paese delle incrostazioni corporative, burocratiche e sindacali non può che essere quella della liberalizzazione diffusa che passa attraverso tre obiettivi: riduzione strutturale del carico fiscale su lavoratori, famiglie e imprese accompagnata da una durevole riduzione delle spese correnti; sforbiciata netta al groviglio di leggi e regolamenti che strozzano l’attività produttiva ed intellettuale; responsabilizzazione finanziaria degli enti locali, con attribuzione alla periferia di parte della potestà legislativa in materia fiscale. Meno tasse, meno leggi, più decentramento, punto. Il governo precedente, quello del Cav., in cinque anni ha prodotto in questa direzione solo la cosiddetta legge Biagi e un’aggrovigliata e prolissa riforma costituzionale, punita da un referendum. Questo governo, in un anno e mezzo, ha prodotto la mezza lenzuolata liberalizzatrice di Bersani e qualche mancia per gli indigenti, sfiorando appena i privilegi di chi non vuol competere. Questo governo ha dato quel che poteva dare, e deve chiudere ufficialmente il suo ciclo con questa finanziaria. Ma tornare alle elezioni con questa stessa legge elettorale (cosiddetta legge porcata) sarebbe semplicemente criminale. E anche se si andasse a nuove elezioni e la Cdl vincesse, ci ritroveremmo punto e a capo, con un centrodestra identico a quello già visto in azione – modestissima – tra il 2001 e il 2006. Perché perdere altro tempo? La priorità, a questo punto, come negli ultimi quindici anni, è avere un governo istituzionale, sì, ma non tecnico, per favore. Basta con i tecnici, basta con i Tps di ogni scuola ed età, buoni per la ragioneria spicciola, non certo per la strategia. Il Partito Democratico di Veltroni, invece di sproloquiare di rafforzamenti del governo Prodi, dimostrerebbe di essere un partito di sinistra liberale, così come lo vorrebbe quel simpatico velleitario di Salvati, se inaugurasse da subito una stagione del dialogo con la parte del centrodestra disponibile ad un governo di coalizione. Fini potrebbe cogliere l’occasione per costringere Berlusconi a seguirlo su un percorso veramente diverso dal passato, visti tutti gli sforzi che sta compiendo per dare idee nuove alla destra italiana (si pensi alla fondazione Fare Futuro o alla rivista Con – Conservatori Contemporanei). Si dia luogo finalmente, dopo quindici anni di cupo oblio per la cultura politica in questo paese, ad un reale processo costituente per seppellire le scorie avvelenate della seconda repubblica. La Terza Repubblica ora è una necessità vitale, e ha bisogno di una nuova legge elettorale, di un nuovo governo di transizione e di una nuova costituzione. E di un paio di leader pronti a scommetterci sopra.

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dal v-day ai socialisti redivivi pubblicato su http://www.ilpungolo.com/

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Mi sono sottoposto ad una maratona dello yin e dello yang, del sole e della luna, del rosso e del nero: sono andato allo spettacolo di Beppe Grillo alla Festa dell’Unità a Milano, pirotecnico e popolare, e la mattina dopo all’incontro della Costituente Socialista con Boselli, Locatelli e Angius, semiclandestino e minoritario. In poche ore sono stato spettatore schizofrenico di due spiriti opposti in azione. Da un lato, il protagonista dell’antipolitica di quest’estate – Grillo, il suo blog e i suoi volontari del V-Day - che ha rubato i titoli delle prime pagine ai soliti questuanti di governo e opposizione, e ha costretto gli ultimi residui della seconda repubblica a balbettare brodose giustificazioni contro gli attacchi ai loro vizi più classici: inefficienza, clientelismo, censura e corruzione. Dall’altro, in una sala gremita ma piccolina, i volontari del rilancio del socialismo italiano, alla ricerca di uno spazio laico tra la terza via della Cosa Rossa (terza tra movimentismo e socialismo imborghesito) e la terza via della cosa democratica (terza tra socialismo anacronistico e destra liberista). Diciamolo subito, Grillo è più divertente di Boselli e Angius. Infatti è un comico. E tra un insulto e l’altro al Prodi Valium e al Cavaliere Psiconano, ai partiti comatosi e alla separazione destra-sinistra, qualche spunto di riflessione è anche emerso. Direi che la questione dei bond argentini incostituzionali e il sistema dei prestiti tra cittadini che si sta istituzionalizzando in Gran Bretagna alla faccia delle banche esose, sono stati tra gli argomenti di maggiore interesse, ma l’idea dei partiti come un cancro della democrazia è parso piuttosto sgadevole. Eppure certi scivoloni sono più che accettabili da parte di Grillo che, per l’appunto, non è un politico né un politologo. È un comico. Non spetta a lui distinguere tra partiti e partitocrazia. Spetta ai partiti fare in modo che questa distinzione sia chiara alla cittadinanza. Se non lo è, la colpa è dei partiti, non di un comico. Grillo vorrebbe invitare i suoi spettatori a collaborare attivamente ad un piano di rilancio della democrazia degli antichi, quella della partecipazione diretta, e al diavolo la rappresentanza. I partiti, maledetti loro, servono solo a far fare carriera ai loro piccoli miserabili funzionari. Quasi sicuramente sbucheranno fuori liste civiche col bollino di garanzia di Grillo alle prossime amministrative. Dopo lo spettacolo, dovendo comprare casa anch’io fra pochi mesi, sono andato a dormire pensando a quella faccenda dei mutui britannici che by-passano le banche, ma il resto mi ha fatto solo capottare dalla sedia per le risate. Al mattino, l’incontro con gli anti-grillo per antonomasia, cioè i socialisti redivivi. Qui la faccenda si fa un po’ più seria, però. Ed è seria perché Boselli sta effettivamente cercando di creare qualcosa di nuovo. E d’antico. Le novità dovrebbero venire dalle esperienze socialiste degli altri paesi europei, quelle danesi, quelle tedesche e spagnole. Guardiamo sempre all’estero, dannazione. E così, mentre parlava l’europarlamentare Locatelli dello Sdi, mi sono un po’ distratto, pensando a quale possa essere il contenuto ideale e programmatico di un socialismo rinnovato in Italia. Niente elucubrazioni, solo socialismo. Caspita! ho pensato sollevato, il contenuto ideale non bisogna certo riscriverlo a tavolino: è il socialismo umanitario e gradualista di Salvemini, che definiva il primo partito socialista organizzato in Italia, quello di Turati, come un partito liberale con bandiera socialista, perché per difendere i lavoratori si batteva contro il protezionismo, il centralismo burocratico e il fisco, per il libero commercio e la pace. La Locatelli intanto arringa, ma non morde, né esalta. Ricorda alla platea l’importanza della Flex Security danese come naturale evoluzione del welfare del novecento. Già, Flex-security, che brutta parola. Torno ai miei pensieri vaporosi. Forse le parole chiave del socialismo ideale sono quelle ottocentesche, non marxiane, di libertà, laicità e lavoro. Mi sono distratto troppo, e nel frattempo la Locatelli ha passato la parola a Galbusera, della Uil lombarda, che difende a spada tratta la legge Biagi, lo stato d’Israele e sulle pensioni avrebbe preferito lo scalone. Interessante, ma non esaltante. Mi consento un’altra digressione e passo quindi mentalmente dagli ideali storici, ancora attualissimi in fondo in un era di forte polarizzazione dei redditi e insicurezza generazionale, a quelli programmatici, con qualche neurone ancora inebriato dalle battute fulminanti di Grillo. Oggi in Italia la libertà del socialismo rinnovato si traduce in liberalizzazione sociale. Se in Italia mancano sviluppo produttivo e spirito civico, il socialismo rinnovato non può che battersi per liberalizzare la società tutta, senza priorità specifiche, senza distinguo, contro ogni corporazione professionale, commerciale e sindacale. Per restituire alle professioni, ai commercianti e ai sindacati il ruolo originario, quello di competere fra loro per fornire ai cittadini servizi di qualità crescente a costi decrescenti. Poi c’è la laicità, anzi no, c’è Angius, un po’ malinconico. Parte piano e mette male il microfono, ma ha una certa presa sugli astanti, gradualmente s’impossessa degli umori incerti dei presenti, e li galvanizza nel nome del socialismo liberale (parla di liberalismo avanzato) e della laicità, dura e pura. Dopo un po’, applausi a scena aperta. Torno a me stesso. La laicità, dicevamo: liberalizzazione sociale significa anche diritti civili e libertà di ricerca scientifica. Divorzio veloce, eutanasia, staminali, coppie di fatto. Tutto, noi laici vogliamo tutto, altro che storie. Altro che Vaticano e cilicio e compromessi. Insomma, imparzialità dei pubblici poteri di fronte alle questioni etiche. Intanto Angius punta dritto al cuore e in un’assemblea di persone che politicamente tanto bene non se la passano, cita Tabucchi con quel “frequentare il futuro” che consente inconsapevolmente a Pereira di riconquistarsi un minimo di gioia di vivere. Frequentare il futuro, belle parole. Mi rubano un applauso sentito. A proposito di futuro, resta il lavoro come terza parola chiave del socialismo rinnovato: la legge Biagi è stato il tentativo, in buona parte riuscito, di dare una dose di flessibilità ad un mercato asfittico e rigido. Lo ha segmentato ulteriormente, ma qualche effetto lo ha ottenuto, nonostante Gallino, la Fiom e Bertinotti. Ma la flessibilità deve trovare un limite, e a pagare questo limite non devono essere i precari, devono essere gli iperprotetti, gli insiders. Qui il socialismo rinnovato deve battersi per la parzialità dei pubblici poteri a favore del mondo del lavoro, che è cambiato, si è frastagliato e disperso, si è terziarizzato e delocalizzato, ma resta pur sempre il suo mondo di riferimento. Perché credo che un socialista, per distinguersi dai liberali e dai conservatori, debba continuare a considerare il lavoro la parte debole del rapporto capitale-lavoro, o rischia di perdere l’anima. Ecco, un socialismo con l’anima, all’antica nel cuore e rinnovato nella testa. Ma le teste dove sono? Ci vorrebbero un po’ di teste pensanti a garanzia di un simile processo di rinnovamento: che so, Nicola Rossi, Biagio De Giovanni, Giulio Giorello. A questi socialisti del futuro manca un leader e un manipolo di intellettuali di garanzia. Ci penso, perché ora davanti a me c’è Boselli, sempre un po’ timido e misurato. Troppo. Angius, però, sotto sotto, si sta preparando al ruolo. In tanta e tale carenza d’uomini carismatici (qui si parla di restituire alla luce Bobo Craxi e De Michelis, mica si scherza…), ecco, un Angius ben determinato potrebbe anche assumere la guida di questo soggetto. Boselli intanto dice di temere gli attacchi dei nuovisti del Pd e la congiura del silenzio che si sta abbattendo strisciante sulla costituente socialista. L’appuntamento è ora per il 5/6 ottobre

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prossimi alla conferenza programmatica. Ci andrò sicuramente, mi sono preparato durante tutto il dibattito di oggi. Certo Grillo mi ha divertito di più, e poi quella cosa sui prestiti britannici tra cittadini… davvero una chicca. Però, un socialismo che frequenta il futuro, chissà.

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l'evoluzione del pensiero: gli anarchici analitici

pubblicato su www.ilpungolo.it

Eccoli, sono nati. Sono gli anarchici analitici. Anarchè? Sissignore, si chiamano proprio così, anarchici analitici. Il luogo dell’annuncio formale è il forum del sito di www.politicaonline.net, dove alla voce circoli politici si può trovare lo spazio di discussione degli Anarchici, e un post datato 29/08/2006 che presenta il relativo manifesto, firmato tra gli altri da Fabio Massimo Nicosia e Luigi Corvaglia. Gli anarchici analitici nascono per uno scopo ben preciso, a quanto pare, quello di tornare alla radice dei concetti fondanti del pensiero anarchico, per comprendere quali possano essere gli sviluppi più logici e coerenti di fronte alle sfide di oggi. Nascono quindi da una insoddisfazione di fondo sull’evoluzione dell’anarchia che ha preso indirizzi considerati inadeguati e persino incompatibili con i principi storici. Da un lato abbiamo in effetti le forme più aggiornate dell’anarco-comunismo e dell’anarco-sindacalismo declinate in direzione no-global e, a volte, anche vagamente eversiva. Dall’altro lato, si è affermata in Italia la versione più radicale del liberalismo classico, cioè l’anarco-capitalismo, antistatalista fino all’estremo in qualunque settore della vita pubblica, ma tendenzialmente incline a sostenere una legislazione conservatrice sui diritti civili. Questa biforcazione sul cammino della filosofia politica anarchica ha determinato la marginalizzazione delle sue correnti favorevoli, al contempo, al libero mercato e ai diritti civili, e quindi coerentemente libertarie in tutte le dimensioni della vita personale. I numi tutelari di questo nuovo movimento sono individuati dagli stessi promotori in alcuni esponenti di lusso dell’anarchismo individualista americano, come Benjamin Tucker, Josiah Warren e Lysander Spooner, ma anche in socialisti libertari di matrice culturale europea come Proudhon o Max Stirner. L’individualismo romantico ottocentesco viene quindi recuperato, nella speranza di potervi trovare gli strumenti utili per contrastare, da una posizione di anarchismo rinnovato e rinsaldato nei suoi principi cardine, i moderni centri di potere, pubblici e privati. È un anarchismo antistatalista, ma anche po’ sociale e antimonopolista; è antiautoritario, ma anche un po’ comunitario. È il tentativo di coniugare libertà economiche e libertà civili, rispolverando però una sensibilità anarchica forse più europea che statunitense. Ecco quindi che, in quest’ottica, il libero mercato dovrebbe essere difeso dalle grandi concentrazioni industriali, rifiutando l’identificazione tra capitalismo e libero mercato. E la dignità della persona dovrebbe tornare ad essere il fulcro della riflessione anarchica, consentendo la critica di qualunque forma di coercizione, sia essa economica, culturale, politica o religiosa. Si prospetta, quindi, un movimento di pensiero a metà tra l’anarco-collettivismo, incapace di liberarsi dall’abbraccio fatale con lo statalismo e l’autoritarismo; e l’anarco-capitalismo le cui tesi armoniciste inducono ad ignorare i pericoli per l’individuo derivanti dalla concentrazione di potere in mani private e i conseguenti fenomeni di manipolazione delle coscienze e di sfruttamento del lavoro dipendente. Se si aggiunge che la difesa del libero mercato secondo le tesi anarco-capitaliste, più che indirizzata alla libertà personale in se stessa, pare invece profondamente funzionale al ripristino di un ordine sociale di carattere conservatore (si parla di conservatorismo culturale), si può ben supporre che l’obiettivo primario delle future lotte degli anarchici analitici saranno proprio gli esponenti nostrani dell’anarco-capitalismo. Per saperne comunque di più, e certamente in maniera più corretta, si consiglia di dare un’occhiata ai testi di Luigi Corvaglia, come “Ripensare l’anarchia”, o La “Sovranità dell’individuo – Saggio sulla Libertà in America”. Di Fabio Massimo Nicosia, invece, è opportuno ricordare le pubblicazioni di riferimento come “Il Sovrano Occulto” Franco Angeli, e “Beati Possidentes”, Liberilibri, cui dovrebbe seguire a breve un saggio che completa il trittico (“Il Dittatore libertario”, o qualcosa di simile), a chiusura di un percorso intellettuale piuttosto travagliato, che ha visto Nicosia passare dal gruppo dei primi anarco-capitalisti, con Piombini, Vitale, Iannello e Bassani, alla fondazione, in questi giorni, dell’anarchismo analitico con Corvaglia, in polemica crescente con l’evoluzione catto-conservatrice di buona parte del libertarismo italiano. Questo sviluppo “paleo” sta del resto preoccupando anche liberali vicini al libertarismo dell’Ibl, come si evince da dichiarazioni come quelle fatte da Raimondo Cubeddu, che ha spesso parlato, a questo proposito, di liberalismo ridotto a versione secolarizzata del cattolicesimo.Che forme prenderà questo movimento in futuro è difficile dirlo. Sul forum di riferimento si parla, anche se con timidezza, della possibilità di dare vita ad un centro studi, o qualcosa di simile. Probabilmente lo scopo è quello di contrapporsi al referente in Italia del pensiero anarco-capitalista e più genericamente libertarian, e cioè l’Istituto Bruno Leoni. L’intento è senz’altro encomiabile, purché dia frutti anche solo paragonabili a quelli dell’Istituto diretto da Lottieri, Mingardi e Stagnaro, che sforna periodicamente studi di ogni tipo su temi dell’attualità politica, economica e finanziaria, per esprimere giudizi e fare proposte riformatrici concrete. Oddio, il termine “analitico”, a dire il vero, non si addice tanto alla concretezza mostrata invece dal lato destro del libertarismo italiano. Sa molto di profonde e dottissime elucubrazioni, e poco di realismo. Intendiamoci, gli anarchici analitici nascono da esigenze effettivamente sentite da alcune parti del mondo libertario italiano, come la necessità di avere un riferimento, in termini associativi, di ricerca e di proposta politico-culturale, per idee che potrebbero definirsi, citando Piombini, ultra-left-libertarian, e che dovrebbero porsi lo scopo di incidere sulla cultura politica italiana attraverso un libertarismo dalle venature progressiste, e cioè con obiettivi

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polemici centrati sul capitalismo di stato o assistito dallo stato, sulle forme più gravi di concentrazione capitalistica, oltre che sul fronte delicato delle libertà civili e della ricerca scientifica, combattendo ogni intromissione della religione, delle comunità locali, delle tradizioni conformiste e delle autorità governative nelle sfere più intime della vita delle persone. Un libertarismo a tutto tondo, quindi. Romantico, illuminista e pragmatico. Un tipo di libertarismo simile a quello che tanto disturbava il maestro dell’anarco-capitalismo americano, Rothbard, che amava parlare di nihilo-libertari per indicare i left-libertarians. Oggi i left-libertarians americani sono guidati da personaggi come David Boaz (autore di “Libertarianism: A primer”) e Clint Bolick, ma le loro posizioni paiono una versione edulcorata e laicizzata dell’anarco-capitalismo. È possibile che l’anarchismo analitico voglia posizionarsi alla sinistra dei left-libertarian americani, e quindi caratterizzarsi per un’anima più antidiscriminatoria, democratica ed egualitaria. Lo si potrebbe dedurre da affermazioni come questa, rilasciata da Corvaglia in un’intervista recente: “A differenza della buona parte dei "libertarians", che ritengono il welfare qualcosa di cui disfarsi senza mezzi termini, noi (su questi temi stiamo lavorando con Nicosia, La Conca e altri) stiamo immaginando una transazione al mercato delle funzioni dello stato sociale che permetta di mantenerne le caratteristiche "democratiche". Fra gli ingredienti di questa ricetta ci potrebbe stare l'idea warreniana del costo come limite del prezzo”. (l’intera intervista a è possibile leggerla su http://salentolibero.ilcannocchiale.it/).Avremo una versione italiana dei left-libertarian americani? Forse non è questo l’intento di Corvaglia e Nicosia, o forse lo è, ma solo in parte. Eppure, di un libertarismo progressista, che entri in contrasto fruttuoso con l’anarco-capitalismo già esistente e vitale nel nostro paese, sfidandolo sul suo stesso terreno, ma con sensibilità e finalità diverse, c’è senz’altro la necessità. Difficile dire se saranno Corvaglia, Nicosia e soci ad affrontare questa sfida. Le intenzioni, comunque, ci sono tutte.

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organi: li compreremo al supermercato? pubblicato su http://www.ilpungolo.com/ “The Ricardo Effect” è l’ultimo saggio pubblicato da Hayek con contenuti di teoria economica in senso stretto. Era il 1942, e gli interessi del filosofo austriaco avevano già cominciato a spostarsi verso altre direzioni. Di lì a poco sarebbe giunto il grande successo di pubblico di “The Road to Serfdom”, e dell’Hayek economista puro si sarebbero ben presto perse le tracce. Nel dopoguerra infatti, l’economista austriaco spostò i suoi interessi dalla teoria economica alla filosofia politica e sociale, in particolare allo studio dell’origine spontanea delle istituzioni sociali e ai problemi dei limiti della conoscenza individuale. Ma prima dell’Hayek filosofo, è bene ricordarlo, il pensiero liberale ha avuto come suo fuoriclasse l’Hayek economista, la cui attenzione era rivolta alla teoria monetaria e allo studio dei cicli economici. Era il tempo della Grande Depressione, e Keynes stava lavorando al capovolgimento del modello neoclassico, con il depotenziamento del tasso d’interesse come prezzo indispensabile al coordinamento sul mercato dei capitali. Ma prima che si giungesse alla sua General Theory, Hayek aveva già elaborato un suo modello di interpretazione della crescita equilibrata e delle fluttuazioni congiunturali, raccogliendo più spunti teorici: la lezione sulla moneta fornita da Mises nel lavoro del 1912, “Teoria della Moneta e dei Mezzi di Circolazione”; le intuizioni di Knut Wicksell sulle differenze tra tasso naturale e tasso di mercato, e i conseguenti processi cumulativi che conducevano all’inflazione; la teoria del capitale e della struttura produttiva di Bohm-Bawerk. Ne nacque un modello descrittivo delle dinamiche cicliche – oggi noto come modello Mises-Hayek o Austrian Business Cycle Theory - destinato a contrastare per alcuni anni le idee emergenti della Cambridge keynesiana, per poi finire malinconicamente nel dimenticatoio. Metodo logico-deduttivo e formalismo verbale erano gli strumenti di argomentazione tipici di questo modello, ma la matematica stava ormai diffondendosi tra gli economisti, rendendo difficile anche solo articolare un dibattito coerente tra esponenti di una stessa disciplina che cominciavano a parlare delle stesse cose, ma con lingue diverse. Keynes, sotto certi profili, parlava la stessa lingua di Hayek, e respingeva anch’egli di principio un uso eccessivo della matematica in economia. Ma il livello elevato di aggregazione con cui aveva presentato le sue idee risultò infine vincente. La vittoria fu anzi un cappotto. Hayek e Mises quasi scomparvero negli indici dei nomi dei manuali di economia. Oggi la situazione è mutata, e si è tornato a parlare della Teoria Austriaca del ciclo economico, dato che i cicli hanno fatto nuovamente capolino nelle vicende economiche più recenti. Pur essendo il modello denominato Mises-Hayek, fu però Hayek che più si ostinò nel difendere la Teoria Austriaca dei cicli. Sono diversi i saggi cui si potrebbe fare riferimento per ricostruire le idee di Hayek, dalla nota raccolta delle lezioni tenute alla London School of Economics, “Prezzi e Produzione”, del 1931; a “Monetary Theory and the Trade Cycle”, del 1933, e successivamente “Profits, Interest and Investment” del 1939, fino al quasi sconosciuto “The Pure Theory of Capital, del 1941”, cui si deve aggiungere un numero svariato di articoli. Una cosa andrebbe subito sottolineata: non esiste una cesura netta tra questi lavori di economia pura e la filosofia individualista espressa da Hayek negli anni successivi. L’ispirazione comune tra economia e filosofia in Hayek è data dalle sue riflessioni sulla conoscenza individuale. La conoscenza, per Hayek, è soggettiva e limitata, ed è dispersa tra gli uomini in maniera diseguale. Essa è inoltre il risultato dell’elaborazione e dello scambio di informazioni parziali e molteplici che individui dalla razionalità limitata devono selezionare continuamente in un contesto di incertezza. Di qui si comprende la necessità che le informazioni che circolano in un sistema sociale così complesso siano libere, e non manipolate. Ora, tornando all’economia, nei nostri ordinamenti sociali le principali informazioni sono incluse nei prezzi. Un prezzo particolarmente critico è il tasso d’interesse, che coordina il mercato dei capitali. Coordinamento su questo mercato

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significa che vi è un tendenziale incontro continuo fra le scelte di consumo e quelle di investimento. È un incontro intertemporale, poichè consente che la scelta del risparmio, cioè di differire nel tempo una spesa, si trasformi in una mobilitazione di risorse per un incremento della capacità produttiva, e quindi per una maggiore produzione futura, quando presumibilmente torneranno le spese a detrimento del risparmio. È un coordinamento complesso, e spetta al tasso d’interesse fornire chiarezza. In un’economia monetaria, se il sistema bancario si limitasse a svolgere una mera funzione di intermediazione, dall’incontro continuo tra domanda e offerta di fondi per l’investimento scaturirebbe un tasso d’interesse capace di coordinare le rispettive scelte individuali. Wicksell lo definiva tasso d’interesse naturale. Ma lo stesso Wicksell aveva compreso che le banche non si limitano all’intermediazione, e preferiscono giocare da protagonisti, occupandosi non solo di passare potere d’acquisto da una mano all’altra, ma anche di creare ulteriore potere d’acquisto ex novo. L’offerta di moneta, nelle nostre economie, viene cioè distorta da due fattori: il monopolio pubblico dell’emissione di moneta, che si accompagna all’inconvertibilità della stessa e dal ruolo della banca centrale come prestatore di ultima istanza per le banche commerciali; in secondo luogo, dal privilegio della riserva frazionaria accordato alle banche commerciali, che consente a queste ultime di detenere riserve inferiori al valore dei depositi a vista, e prestare la differenza a chi ne faccia richiesta, trasformando il loro ruolo di puro intermediario in creatore di mezzi di pagamento aggiuntivi. Ne deriva una notevole elasticità del credito bancario nei confronti della domanda di fondi delle imprese, poiché l’offerta di moneta può essere arbitrariamente estesa sia dalla banca centrale (operando sulla base monetaria inconvertibile), sia dalle banche commerciali (attraverso i prestiti). È questa la lezione di Mises e Wicksell raccolta da Hayek. Mises, in particolare, parlava di commodity credit come di risparmio genuino a disposizione degli investimenti, distinguendolo dal circulation credit, e cioè di fondi non prodotti da autentiche scelte di risparmio e non coperti da un collaterale reale. Abbiamo così il fenomeno descritto da Mises come “credit creation”, e cioé non si mette in circolazione moneta effettivamente risparmiata, ma moneta inventata, priva di una base reale. È denaro fiduciario (fiduciary media), e niente più. Il risultato di questo sistema è che il tasso d’interesse, così rilevante per il coordinamento del sistema economico, termina di essere un prezzo libero di oscillare, rimanendo frequentemente al di sotto del suo valore naturale. Troppa moneta in circolazione, insomma, rispetto alle risorse reali. L’esito di questo processo di manipolazione si riversa sulla struttura produttiva, secondo la lezione sul capitale di Bohm-Bawerk, recuperata da Hayek. La struttura produttiva di un’economia di mercato è rappresentabile come una complessa articolazione di più tappe produttive che utilizzano beni capitali e risorse umane, e i cui processi si svolgono nel tempo. Partendo dai comparti più vicini al consumo, ad esempio quelli delle vendite al dettaglio, si passa attraverso una catena varia e complessa di tappe intermedie della produzione, con una crescita continua nell’utilizzo del capitale e nell’orientamento a produrre beni finali in un tempo più lungo, fino a raggiungere i settori più lontani dal consumo presente, come i cantieri edilizi, o le attività di ricerca e sviluppo. Se questa è la struttura produttiva, la crescita sana di un’economia capitalista dipende dal risparmio. Il differimento del consumo, infatti, libera risorse per il sistema produttivo, e queste maggiori disponibilità di risparmio, segnalate da un tasso d’interesse più basso, vengono utilizzate soprattutto nelle fasi produttive più lontane dal consumo stesso, più sensibili alle variazioni del tasso d’interesse. La crescita di questi stadi produttivi, a maggiore intensità di capitale, consentirà all’economia di passare successivamente a condizioni di produzione finale superiori a quelli precedenti. Ecco che quindi un tasso d’interesse di mercato reso artificiosamente più basso del suo valore naturale fornisce informazioni errate agli imprenditori, rendendo profittevole investire su progetti industriali destinati a non incontrarsi con le reali preferenze dei consumatori. Ma il sistema non può tenere a lungo. La crescita determinata dal credito facile è insostenibile, si parla di investimenti errati, di malinvestments. Quando le preferenze effettive tornano a galla, le risorse cominciano a spostarsi nuovamente verso il consumo e i suoi settori produttivi, e inizia una competizione sul mercato dei capitali che fa rialzare il tasso d’interesse. Alcune imprese si ritrovano indebitate fino al collo per progetti mai terminati, o si ritrovano a fronteggiare mercati la cui domanda è decisamente inferiore alle attese. Il boom si rivela per una parte consistente una grossa bufala collettiva il cui prezzo è la liquidazione di investimenti errati e una disoccupazione più elevata. È la fase della crisi. E la crisi trae la sua origine nel boom artificiale precedente. Qualunque crisi è grave poichè abbiamo capitale umano che si è formato in settori insostenibili, e beni di produzione, specifici e durevoli, che bisogna riconvertire per poterli utilizzare in settori più vicini al consumo, e questo non sempre è possibile, se non in parte e a costi elevati. Questo è, in estrema sintesi, il modello cosiddetto Mises-Hayek dei cicli economici, caduto in disgrazia dopo il successo del modello keynesiano. Effettivamente, nonostante le diverse varianti presentate nel tempo da Hayek, la teoria presentava, diciamo, dei “buchi di sceneggiatura”. In particolare, questa teoria del ciclo è una teoria basata su variazioni relative degli investimenti in settori diversi, il cosiddetto malinvestment, e non considera seriamente il sovrainvestimento, cioè la possibilità che l’economia riesca temporaneamente a produrre persino al di là dei propri mezzi. Gli errori di investimento si possono effettuare solo in termini relativi (intertemporali), e non assoluti. Così come il sovrainvestimento non rappresentava un problema per gli Austriaci, così il fenomeno parallelo del sovraconsumo era un’idea che Hayek scartava a priori, e riteneva possibile solo in una fase finale del ciclo, fase che avrebbe segnalato le effettive preferenze temporali dei consumatori, mettendo in difficoltà gli imprenditori esposti su progetti industriali di lungo termine. Mises, d’altra parte, aveva considerato il sovraconsumo come un fenomeno sociale tipico delle fasi di crescita artificiale, ma senza considerarne le possibili conseguenze sulla struttura produttiva in termini di sovrainvestimento. Di più: Hayek ha per lungo tempo preferito parlare di risparmio forzato, per sottolineare proprio la distorsione temporale della struttura produttiva durante il ciclo, con imprese incapaci di soddisfare la domanda di consumi perché orientate a produrre per il futuro, con consumi correnti frustrati da una produzione insufficiente. Hicks fece notare ad Hayek che in realtà salari e stipendi pagati dalle imprese in errore nei loro investimenti di lungo termine sarebbero comunque confluiti sul mercato seguendo le preferenze effettive dei lavoratori, segnalando in poco tempo la giusta proporzione tra consumi e risparmi scelti dagli agenti.Roger W. Garrison, professore alla Auburn University, ha rielaborato di fatto il modello di ciclo Austriaco, rendendolo meno attaccabile su questi punti (introducendo l’ipotesi del sovrainvestimento e del sovraconsumo), e più confrontabile con le teorie macroeconomiche alternative moderne, senza per

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questo modificarne i principi di fondo. E molti economisti e analisti stanno ricominciando a guardare con serietà al modello Mises-Hayek, anche per interpretare meglio la realtà degli ultimi quindici anni. Se infatti andiamo riguardare il ciclo degli Usa negli anni ’90, culminato con la recessione della primavera 2001 e la ripresa successiva, possiamo individuare segnali classici del modello Mises-Hayek. Greenspan ha mantenuto il costo del danaro sistematicamente basso, come risulta dalla continua crescita dell’offerta di moneta in quegli anni, aiutato dagli incrementi di produttività determinati dalla rivoluzione tecnologica, e dalla forza del dollaro, valuta di riserva mondiale. Seguendo la logica Austriaca del ciclo, negli anni ’90 Greenspan ha creato il boom, lo ha calmierato solo in parte, per poi farlo ripartire. Ciò significa che in tutto il periodo di ribasso aggressivo dei Fed Funds (giunti all’1% nel 2003 e mantenuti tali per un anno) sono state mobilitate ulteriori risorse non solo per evitare la crisi, ma anche per dare carburante ad altri investimenti (privati e pubblici) sbagliati o eccessivi. Siamo passati dalla bolla di internet e delle telecomunicazioni della metà degli anni ’90 a quella delle obbligazioni e degli immobili del XXI secolo, dai forti livelli di indebitamento e speculazione tra le imprese durante la New Economy di Clinton, ai forti livelli di indebitamento delle famiglie e dello stato sotto l’amministrazione bellica di Bush junior. È difficile dire fino a quando e se la Fed potrà mantenere tutto in piedi senza che si giunga ad una crisi finanziaria. È invece sicuro che i testi di Hayek e Mises, grazie anche alle recenti modifiche di Garrison, continuano ancora a fornire, a 70 anni di distanza, una serie di spunti utili, e liberali, su cui ragionare.

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e lo chiamano pli pubblicato su http://www.ilpungolo.com/ "Non si entra veramente in politica se non ci si rende capaci di affrontarne i problemi, non in forma vaga e generica, ma con preciso senso di realtà, nelle loro concrete determinazioni di luogo e momento”. Sono parole di Olindo Malagodi, padre illustrissimo di Giovanni. Mi sembrano ottime per la circostanza. Intendo riferirmi alla recente reazione al vetriolo della segreteria del Pli all’esclusione dalle liste di Forza Italia dei suoi maggiorenti (leggi De Luca e Altissimo). Ecco, con quelle parole di Olindo Malagodi, liberale giolittiano, possiamo dire oggi che il Pli di De Luca nella politica italiana, in tutti questi anni, non è mai veramente entrato. Per carità, il partito del tempo che fu lo hanno rimesso in piedi. Il glorioso simbolo della bandierina tricolore ha nel frattempo assunto una forma di fiammella. A fianco, un po’ velleitaria, è stata aggiunta, una frasetta: Casa dei Laici. Qualcuno in Italia ci ha anche creduto per un po’, aprendo i cosiddetti presidi liberali. In Lombardia un gruppetto agguerrito ha dato vita ad una sezione regionale abbastanza attiva, anche se priva di una concreta visibilità di massa. Ma si sa, si deve iniziare dalla politica locale, porta a porta, organizzando convegni, incontri, piccole manifestazioni, petizioni, siti internet, forum. È lunga la strada per la costruzione di un partito senza i mezzi di cui godono a destra e a manca. Ma fuori dalla Lombardia, dove già c’è comunque assai poco, il Pli a guida De Luca è riuscito ad essere anche meno. Quasi nulla. Per l’esattezza, non ha saputo andare oltre il tentativo, mal riuscito, di recuperare qualche frammento sparso del passato. I fatti concreti, i problemi della quotidianità, la partecipazione alla vita delle amministrazioni locali, il coordinamento con le associazioni e le fondazioni liberali sorte negli ultimi dieci anni, la cultura liberale da diffondere e propagandare, di tutto questo non ci si è occupati. L’unica sensazione che si è avuta dall’esterno è stata quella di un Pli pronto a sostenere il Cavalier Berlusconi ad ogni mossa, ad essere parte integrante, non richiesta, della Cdl, chiedendo in cambio di questo impalpabile fiancheggiamento i soliti posticini sicuri in lista con Forza Italia, denominati “diritto di tribuna”. Ma sempre di posti regalati si tratta. Pare che nemmeno le firme siano state raccolte in modo indipendente, con i classici banchetti in piazza, ma richieste anch’esse al Cavaliere, in bianco e pronte per il deposito. È capitato che il Cavaliere abbia opposto un gentile, ma fermo diniego a queste richieste del Pli. In fondo, Berlusconi ha già Martino e Biondi dalla sua, che cosa avrebbe dovuto farsene di De Luca e Altissimo? E poi, qual è stato il contributo specifico del Pli negli ultimi anni alla politica della Cdl, nella quale comunque, acriticamente, si è sempre riconosciuto? Insomma, oltre la fedeltà, cos’altro? Perché premiare la fedeltà se la si può comunque ottenere gratis? si sarà giustamente chiesto Berlusconi. Tanto i liberali sono già dalla mia parte, avrà concluso. Ed infatti il premier ha ragioni da vendere. Il problema è solo del Pli. Solo ed unicamente della sua guida, che non ha colto l’unico drammatico errore di valutazione del Cavaliere: i liberali non sono tutti dalla sua parte. Ce ne sono, e non sono pochi, anche nella vasta area astensionista, e ci sono liberali che sostengono il centrosinistra perché non riconoscono qualità liberali a Berlusconi, senza per questo aver sposato la causa del partito democratico. E ci sono liberali che votano a destra, magari An e Udc, pur di non votare Forza Italia, che rimane comunque un partito privo di vera democrazia interna, tutto leadership, estetica e comunicazione. Esiste un’area liberale che stenta non poco a riconoscersi nelle due coalizioni maggioritarie, e che quando si schiera, lo fa con un peso sullo stomaco che poi resta lì per un’intera legislatura. Di questi liberali il Pli di De Luca si è di fatto disinteressato, dando per acquisita la ricostruzione del partito liberale in Italia e terminata la diaspora con una semplice correzione dell’acronimo da Pl a Pli. Ed invece l’area politica liberale in Italia non era da ricostruire, ma era da reinventare, letteralmente. Il liberalismo italiano si è totalmente rinnovato e rafforzato proprio dopo il 1994, soprattutto grazie all’impegno profuso da parte di una serie d’intellettuali e di volontari di ogni ordine e grado, capaci di creare nuove associazioni culturali e fondazioni di ogni tipo, e di dare vita a rapporti con altre associazioni liberali internazionali. Internet si è dimostrato un potente veicolo di divulgazione delle idee liberali che hanno assunto, nella loro veste più libertarian, un fascino particolare anche per i

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giovani. Ed anche il centrosinistra ha subito un’ampia contaminazione in questo senso, e non si può negarlo. Ad un partito liberale che avesse voluto dare un senso alla propria esistenza, sarebbe stato sufficiente un raccordo intenso e quotidiano con tutte le organizzazioni non partitiche, di ispirazione liberale, nate in Italia fino ad oggi. Tuffandosi a capofitto in tutti i documenti finora prodotti dalla vasta area intellettuale di riferimento – dall’Istituto Bruno Leoni, alla Società Libera, a Liberalcafé e via di seguito – il Pli avrebbe potuto trovare una serie sconfinata di proposte cui dare immediata concretezza e applicazione. Così il Pli avrebbe potuto divenire il baricentro delle svariate iniziative culturali di marca liberale, vivendo di una propria energia, di una propria autonomia. Guardiamo invece al Pli di questi anni. Autoreferenzialità al cubo, condita con un grigio appiattimento sulla Cdl. Per esistere un partito deve avere una sua originalità. In cosa si distingueva il Pli di De Luca rispetto al pensiero berlusconiano su economia e spesa pubblica? Il Pli di De Luca ha forse combattuto qualche solida battaglia nel nome, che so, di una riforma pensionistica più coraggiosa? Di una liberalizzazione degli ordini professionali davvero consistente? Ha mai fatto sentire la sua voce con qualche provocazione clamorosa, un convegno, una manifestazione? Il Pli si è fatto sistematicamente sorpassare dai Radicali nel far proprie certe lotte, come quelle di Giavazzi sulle liberalizzazioni, di Ichino sul decentramento della contrattazione collettiva, o persino di Boeri sulla riforma del welfare. E la politica estera? Ma siamo proprio sicuri che l’attuale appoggio del governo Berlusconi all’azione militare degli Usa nella lotta al fondamentalismo islamico sia condivisa da tutti i liberali in Italia? Perché non chiediamo a liberali come Lottieri e Mingardi cosa pensano di certi eccessi di militarismo degli americani? O loro sono meno liberali di De Luca e Altissimo? Negli Usa esistono fondazioni liberali che spesso esprimono opinioni dissonanti da quelle manifestate dall’amministrazione Bush, in materia di politica estera come di spesa pubblica, senza per questo essere accusate di cripto-comunismo. Ovvero, si può essere liberali senza per questo appoggiare, in tutto e per tutto, qualunque governo che si dica di centrodestra. Anzi, l’autonomia alla lunga paga. E paga anche l’inclusione delle energie giovanili nella vita di un partito. Qual è stato invece il contributo del Pli per i giovani? La solita, tristissima, Gioventù Liberale, buona solo, come tutte le Gioventù del resto, ad addomesticare le nuove leve, anziché renderle partecipi da subito del funzionamento del partito, con responsabilità dirette e ricambio assicurato per il futuro. Si potrebbe dire che, in tutti questi anni, il Pli sia stato l’esempio massimo di come ci si possa illudere di essere entrati nella politica, rimanendone invece ai margini, fino all’inevitabile, mortificante, espulsione finale dei residui. È quindi desolante il comunicato rilasciato dalla segreteria del Pli dopo che l’esclusione dalle liste di FI era stato ufficializzata. Si legge, tra le altre cose: “Il Pli non intende ulteriormente avallare i falsi liberali della Casa delle Libertà,che finiranno per consegnare l’Italia alla coalizione della sinistra” e ancora: “Con la forza economica e l’occupazione di posti chiave, Forza Italia ed i suoi alleati perseguono esclusivamente un cinico disegno di potere”. Mica roba da poco. Ci sarebbe solo da chiedersi cosa ci faceva il Pli nella Cdl fino all’altro ieri. I giudizi sulla Cdl sono sacrosanti, ma tardivi, e si basano non su un’analisi politica strategica, ma solo su una piccata e scomposta reazione a caldo ad un presunto sopruso. Dopo le elezioni del 9 aprile cosa lascerà l’attuale segreteria a tesserati e simpatizzanti? Un partito finto con un’oligarchia vera. Un grumo polveroso di liturgie antiche, senza più nulla di originale da dire. Uno sgabuzzino con qualche residuato bellico e tanta voglia di lasciar perdere una volta per tutte. Quanti anni sono stati buttati via senza dare visibilità, senza dare forza propulsiva ad un progetto che poteva fornire agli italiani un’alternativa di voto autorevole, coerente e credibile. L’alternanza no, ma un’alternativa, sì. Ed è inutile prendersela con La Rosa nel Pugno e la sua scelta a sinistra. Almeno i radico-socialisti possono vantarsi di rappresentare una rogna nel centrosinistra, quelli che rompono le scatole sui temi della libertà individuale. Il Pli di De Luca, nel centrodestra, non è riuscito neanche a diventare una rogna. Al limite, una tosse secca, quella imbarazzata e infastidita del dirigente forzista incaricato di trovare un posticino sicuro in lista per un rappresentante Pli, tra La Malfa e Nucara, un po’ più sotto di Rotondi. Ma sotto Rotondi non c’era davvero più posto.

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quale sfida al pensiero liberale e libertario? pubblicato su http://www.ilpungolo.com/

New democrats mediterranei? Clintoniani ritardatari? O Blairiani in versione pacifista? No, niente di tutto questo. Ma proprio niente. La semplificazione del sistema politico italiano passa certamente attraverso la costituzione di due fronti maggioritari, uno conservatore e l'altro progressista, che si contendano di volta in volta il governo del paese. E sia Berlusconi che Prodi lo hanno compreso da tempo, in netto anticipo rispetto alle presunte vecchie volpi che si annidano tra i due schieramenti, e vivacchiano come parassiti approfittando della frammentazione partitica. Ma entrambi non sono finora riusciti a dare un tono adeguato ai progetti di aggregazione definitiva. Il problema è che nel campo del centrosinistra la debolezza è più grave e profonda di quanto non sembri, poiché giocata in maniera tattica e utilitaristica, anziché strategica, innovativa ed identitaria. Se davvero Berlusconi riuscirà, vincente o perdente nel 2006, ad accelerare sulla strada della formazione di un partito dei moderati, è urgente che anche Prodi riesca a formare il suo partito dei riformisti. Ma mentre della identità politica della Cdl si sa ormai abbastanza, e si può identificare in senso genericamente cattolico-liberale, su Prodi e i suoi riformisti rimane una nebbia densa e fredda. E' senz'altro vero che sulla strategia politica del centrodestra pesano infatuazioni neoconservatrici e a volte teocon e tradizionaliste, che con la nostra cultura hanno radici un tantino posticce, ma i riferimenti ideologici della Cdl sono ormai largamente consolidati, ed esiste un network di fondazioni e periodici che si occupa di diffondere le idee del campo liberal-conservatore con continuità e spirito anglosassone. Il campo ulivista pare invece fossilizzato, stretto tra polverosi e rigidi

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orgogli identitari e una proposta di riformismo unitario davvero scialbo, dai contenuti vaghi, incerti. Tutto il gioco si svolge tra i cattolici democratici (Margherita) e i socialisti democratici (Ds). Ma né gli uni, né gli altri sono riformisti in senso moderno e liberale. Immaginare che Castagnetti e Marini possano essere i Clinton italiani del 2006, o che D'Alema e Fassino possano veramente riuscire a rappresentare la versione italica del Blairismo, significa coltivare un fantasioso ottimismo. Si tratta di dirigenti che non hanno mai potuto soffrire il liberalismo e che mai potranno farsene interpreti, neanche per finta. Il loro riformismo, anche in versione aggiornata, rimane un dirigismo soft privo di slanci, una politica dal grigio spirito amministratore, che guarda con occhio più attento del solito al bilancio pubblico, ma che non potrà mai cogliere davvero il nesso tra modernità, innovazione e liberalismo. Quelli che nel centrosinistra cercano di adeguare l’offerta politica ai tempi nuovi, e cioè Rutelli, Veltroni o Parisi, hanno slanci che però si infrangono contro le esigenze più pratiche del nostro paese, riducendosi a mere formule retoriche. Parlare di partito democratico, senza dargli contenuti in termini di politiche economiche e sociali, è un giochino che alla lunga annoia e porta a ben poco di innovativo. Manca, insomma, una visione del mondo, un'identità forte, che superi davvero le vecchie culture cattolica e socialista, stataliste e collettiviste nell'animo; manca una seria e consapevole apertura alle sfide poste dal pensiero liberale e libertario in materia di fisco, di diritti civili, di sistemi pensionistici, di autonomia tributaria locale, di liberalizzazione e privatizzazione dei servizi. Le idee forti hanno conseguenze radicali, mentre il riformismo prodiano sembra fatto di equilibrismi retorici che portano a proposte politiche impalpabili. I promotori a fasi alterne del Partito Democratico sono ancora alla ricerca del giusto punto d’incontro nella contaminazione tra due identità, quella dei popolari e quella dei diessini, che dovrebbero invece fare non uno, ma parecchi passi indietro, dato che la stessa realtà degli ultimi trent'anni le ha ridimensionate nel nome della dignità dell'individuo e della libertà negativa. Insomma, si spostano i vecchi mobili anziché ristrutturare i locali. Il sintomo più evidente di questo ritardo politico e culturale è tutto nella mancanza del termine liberalismo nelle interviste, nei colloqui, negli interventi e nelle discussioni dei dirigenti del centrosinistra. Se si escludono i soliti Salvati, Debenedetti, D’Amico o Rossi, il liberalismo sembra un problema retorico di Berlusconi, con cui i leader della sinistra non vogliono avere nulla a che vedere. E per dimostrarsi moderni ritirano fuori vecchie mummie del riformismo statalista, da Roosvelt a Wilson, da Kennedy a Palme o Brandt. Quando potevano essere kennedyani, negli anni sessanta e settanta, erano dossettiani, dorotei, morotei o eurocomunisti. Essere kennedyani nel XXI secolo, e considerarsi pure moderni, diventa grottesco. Blair ha rivoluzionato il laburismo introducendo una forma di post-Teatcherismo. Prodi a chi o cosa si ispira per il suo futuro Partito Democratico?

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radicali verso la diaspora? pubblicato su http://www.ilpungolo.com/ e http://www.opinione.com/ www.dellavedova2006.splinder.com. Eccolo il sito per chi non ci sta alla svolta sinistrorsa di Pannella e i suoi adepti. Il nuovo soggetto radico-socialista attrezzato in fretta e furia dalla classe dirigente radicale e dallo Sdi non scalda i cuori e per ora naviga incerto tra gli strali imbevuti di cattolicesimo al veleno di Castagnetti, i tentennamenti degli ulivisti duri e puri, l’accoglienza opportunista di Fassino e il rifiuto categorico di Mastella. Se poi si considera il sostegno non richiesto a Prodi, che pare anche un po’ schifato dei voti radicali, si comprende come la questione non poteva non scatenare reazioni nell’anima liberista dei Radicali Italiani. E cioè quelli che Benedetto Della Vedova, colui che ha portato il verbo liberista tra i pannelliani un decennio fa, lo vogliono a destra, lo vogliono candidato alle primarie della Cdl, lo vogliono alla guida di un movimento libertario che si posizioni a destra, e che esultano per la sua ufficiale e inevitabile presa di distanza dalle ultime evoluzioni radicali. È l’anima liberista del corpaccione pannelliano che si agita e trasuda voglia, quasi libidine, di crescere e diventare soggetto diverso e distinto dalla storia radicale più classica. È un’anima fatta da tutti quelli che tra Croce ed Einaudi scelgono Ricossa. E che non vedono l’ora di poter votare contro Prodi e i post-comunisti senza per questo dover fare la crocetta sul simbolo di FI o An o Lega. E così il sito personale di Della Vedova si è riempito di messaggi a sostegno della scelta personale del dirigente radicale e, come spesso capita in questi casi, in molti si sono lasciati andare alla più scintillante fantapolitica fatta di nuovi partiti libertari, di manifesti hayekiani e principi rothbardiani. Ma tutto questo fermento è del tutto naturale, e non bisogna meravigliarsi, né amareggiarsi per la prossima diaspora radicale, ormai quasi matura. È invece l’occasione buona perché da un fraintendimento nascano ottime occasioni di diffusione e applicazione delle idee liberali tanto a destra quanto a sinistra. Della Vedova, così come già Taradash o Teodori, ha sempre espresso preferenza per il centrodestra e simpatie per Berlusconi, seppur da posizione critica. Le convinzioni politiche e le simpatie umane lo hanno sempre collocato naturalmente più vicino ai conservatori che ai progressisti in un ideale bipolarismo fatto di liberali conservatori e liberali progressisti. Così come Pannella e la Bonino appartengono di diritto e di fatto alla storia della sinistra liberale e laica, e come tali non possono considerarsi che parte integrante di un futuro partito democratico. Al limite, i corpi estranei a tale progetto sarebbero i Mastella, i Diliberto e i Bertinotti. Quindi, tutto giusto così. Ognuno per la sua strada, senza forzature. Il problema è invece un altro, e riguarda lo spirito con cui il nuovo soggetto radico-socialista sta tentando di affermarsi. Uno spirito davvero scialbo e deludente. Il partito radico-socialista che verrà vorrebbe infatti affermarsi formalmente per dare rappresentanza partitica alla lunga storia del socialismo liberale italiano, fatto di tante voci spesso anche dissonanti, ma sempre autorevoli e originali, come Salvemini ed Ernesto Rossi, Bobbio e Calogero, Capitini e Fortuna. Ma da questa volontà di fondo è densamente offuscata dalle questioni più

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prosaiche che invece paiono ispirare maggiormente i promotori. Ad esempio, la maledetta necessità dei radicali di sopravvivere finanziariamente alla disastrosa gestione politica ed economica del grandioso successo delle europee del ’99 (8,5% che i liberali non avevano mai visto in Italia, neanche con Malagodi), sprecato in maniera ignominiosa. E dal disperato bisogno, anch’esso tutto materiale, dello Sdi di superare lo sbarramento della quota proporzionale, dopo il fallimento del progetto di Uniti nell’Ulivo, in cui erano coinvolti fino al collo. Insomma, nonostante i tentativi anche generosi di buttarla sul culturale per consolidare il progetto nelle radici storiche del socialismo liberale italiano, questa fusione rischia di nascere solo per ragioni di mera sopravvivenza. E poi, c’è la questione che più ha avvelenato il forum dei Radicali Italiani, l’abbandono sostanziale dell’ispirazione liberista degli anni novanta. A Fiuggi la convenzione socialista, liberale, laica e radicale ha confermato la malinconica archiviazione di tutte le tematiche liberiste del recente passato radicale nel nome dell’emergenza laica, di un Ruini qualunque da contrastare ad ogni costo, con il contorno, davvero inatteso, della Bonino che in un’intervista se la prende con il più classico dei feticci, il liberismo selvaggio. Eppure l’economia di mercato è parte a pieno titolo della tradizione della sinistra liberale italiana, che ha ospitato per parecchi anni tra le sua fila all’inizio del secolo scorso i radico-liberisti come De Viti De Marco, come Papafava o Pantaleoni. Questo annebbiamento della propria memoria storica, solo per non dispiacere al catto-comunista di turno, non rende onore ad un progetto che di per sé ha molti meriti e che rende anche più semplice un’operazione di segno opposto nel centrodestra. Sperando che Della Vedova e soci non decidano pure loro nel frattempo di buttare a mare le ispirazioni laiche per compiacere il clerico-fascista di turno, dedicandosi alle sole libertà economiche. E dimenticando, in un triste gioco di obnubilamenti simmetrici, le battaglie anticlericali di un tempo.

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Governo del Cav. salvatore coi fiocchi pubblicato su http://www.ilpungolo.com/ Altro che storie, il governo Berlusconi merita senz’altro il titolo di governo di salvezza nazionale. Li ha salvati tutti, gli amici intendo, ché la nazione italiana è da sempre piena di amici da salvare. Sarà infatti il governo Berlusconi a lasciare alla storia del paese il decreto salva-Scapagnini, (dalla bancarotta), così come prima c’era già stato il decreto salva-calcio (dalla bancarotta e dalle botte in piazza), e quello salva-Previti (dalla galera e da eventuali ripicche). Né di certo si può dimenticare la straordinaria capacità del governo Berlusconi di resistere, indomito, alle richieste di certi riformisti un po’ strambi, salvando le mille corporazioni professionali d’Italia dal rischio pazzesco di dover subire le regole selvagge e ineleganti della competizione. Berlusconi ha poi salvato la Rai dalla privatizzazione, il settore energetico dalla liberalizzazione, il deficit dal risanamento dei conti, il debito pubblico dal pericolo, che pareva imminente, di un ritorno sotto il 100% del Pil. Per non parlare del pio salvataggio del santo matrimonio dal divorzio veloce. Certo, non è riuscito a salvare Fazio dalle intercettazioni, proprio quel Fazio che aveva salvato Credieuronord, la banca dei leghisti che, a loro volta, hanno salvato l’Italia dal vero federalismo, propinandogli la devolution. Ma nel frattempo, evitando accuratamente, e con inerzia esemplare, di produrre qualunque legge di riforma sul risparmio, sempre il governo Berlusconi ha salvato le banche dalla vera concorrenza e le prossime, inevitabili, Parmalat da barbari risparmiatori inferociti. E i capitali costretti ad andarsene in esilio oltre confine per sfuggire al fisco dei comunisti? Salvati anche loro, per fortuna, anche se costretti, poveri!, a subire una lieve tassazione al rientro, giusto per non scontentare i soliti frignoni. Un salvatore con i fiocchi, insomma, il nostro governo. Del resto, non poteva essere diversamente, era nel destino. Non bisogna dimenticare, infatti, che tra le prime mosse della maggioranza berlusconiana c’è stata la madre di tutti i salvataggi, il salvataggio dei falsificatori di bilancio. E l’etica, poi? Non vogliamo parlarne? Non vogliamo ricordare tutte quegli embrioni, piccoli e indifesi, salvati dal nostro governo e dalla sua maggioranza dalle grinfie di ricercatori pazzoidi e di malati incapaci di rassegnarsi al proprio destino? Mica roba da poco, eh. L’identità occidentale, invece, la salverà Pera, ponendola al sicuro da tutti i meticci d’Europa. Se ne avesse avuto l’opportunità, sono sicuro che Berlusconi ci avrebbe anche salvato dall’euro. E lì avremmo avuto il capolavoro. Ma non bisogna disperare, c’è ancora un pugno di mesi di legislatura, e l’azione salvifica del governo Berlusconi, mercé di Tremonti, potrebbe ancora tentare quest’ultimo colpaccio.

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mesta involuzione del liberalismo italiano

pubblicato su www.ilpungolo.it

Di Pera, dell’identità occidentale e dei meticci si è già detto tutto. Non si è però sottolineato a sufficienza il significato delle parole in libertà dei Pera e di tutti gli intellettuali che gravitano nell’area destrorsa del panorama politico italiano. Questo continuo, incessante e stucchevole riscoprire un’identità, più per integrarla in un programma di governo e in una strategia politica che non per enfatizzarne la valenza culturale e spirituale, rappresenta il punto di non ritorno di uno schieramento che

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pareva avere il liberalismo come modello di riferimento. È l’abbandono consapevole dello spirito liberale che un tempo sembrava dover orientare Forza Italia. È la mesta involuzione del liberalismo italiano, che già non si è mai particolarmente distinto per forza filosofica o estro politico, e che con gli ultimi dieci anni, tutto preso dalla ricerca spasmodica delle radici dell’Occidente, ha nel frattempo dimenticato per strada le proprie origini classiche. Classiche nel senso dei nomi che hanno dato lustro al liberalismo italiano. E che con certe spirali tradizionaliste e un pochino reazionarie avevano scarsi rapporti di parentela. Mi viene in mente un liberale classico coi fiocchi, Francesco Ferrara. Altro secolo, il diciannovesimo, e soprattutto un altro livello intellettuale. Credente e liberista fino al midollo, si sentiva uno spirito affine all’economista francese Bastiat ( nella foto), liberista anch’egli, di cui amava sottolineare la sua lotta “...con le stranezze del socialismo, senza essersi però insudiciato in alcuno dei tre o quattro partiti reazionari che stanno dilaniando la Francia e calpestando ogni senso di libertà e giustizia”. Ferrara, un tipo incapace di star fermo su di un lato solo dello spettro politico, ma le cui solide convinzioni liberali non lo hanno mai portato a intrupparsi in certe avventure ultraconservatrici. Ferrara, un individualista, antimonopolista, autonomista, antiprotezionista e credente, è morto il 22 gennaio del 1900. Nel XXI secolo il liberalismo italiano si è definitivamente liberato dell’eredità ferrariana, e dei suoi epigoni radico-liberisti e cattolico-liberali. Oggi il liberalismo italiano annovera orgoglioso tra le sue fila un tradizionalista ateo, Pera, e un protezionista altezzoso, Tremonti. E se ne vanta. Contro il liberalismo debole di un Occidente sotto assedio e propenso ad un cupo e grottesco suicidio culturale, i Pera e i Tremonti propongono un rinnovato, muscoloso, virile conservatorismo tradizionalista e protezionista. Il liberalismo, frutto avvelenato dell’illuminismo, meglio lasciarlo ai deboli, ai tolleranti, ai pedanti propugnatori della società aperta. Viene allora in mente il Croce che nella sua “Storia d’Europa nel secolo decimonono” aveva gioco facile nel separare i cattolici-liberali e la loro capacità di dialogo con i laici e i democratici del loro tempo, dai clericali-liberali o liberaleggianti. E viene in mente anche il modo in cui lo stesso Croce si faceva beffe di certo atteggiamento interiore, che il nostro chiamava romanticismo morale, che infiammava allora le anime sensibili ad un passato idealizzato, e che pare oggi incendiare i cuori dei novelli crociati per i quali oltre la religione, nulla rimane. I clericali e i reazionari erano i De Maistre. Oggi abbiamo Pera. Ma date certe sensibilità populistiche e certi bollori sparsi, anche un Pera, per i nostri tempi, basta e avanza per fare danni. E per dare il senso di un liberalismo che si è involuto, depurandosi dello suo naturale spirito critico. I destri tradizionalisti, i nuovi ultras del cattolicesimo senza se e senza ma, della purezza cristiana, del ritorno alla virtù, si sono costruiti una opposizione politica e culturale di comodo, e l’hanno chiamata relativista e multiculturalista. E zompettando felici, ma seriosi e compunti, sembrano tutti insieme intonare ad ogni occasione l’immancabile: chi non salta, relativista è. E chissà se Antiseri, che da cattolico si sente relativista, salta anche lui insieme a Pera. Un passaggio del discorso di Pera può considerarsi emblematico di un nuovo modo di pensare al liberalismo dei nostri ex liberali: l’Occidente, per sfuggire alla propria dissolvenza morale, dovrebbe lasciar stare la democrazia del consenso per passare alla democrazia del senso. Una rivoluzione culturale? Sarà, ma così come si presenta non pare altro che un mesto passaggio da una concezione etica dello stato, ispirata al socialismo, all’altra, ispirata ai valori religiosi. È vero, l’astrattismo, il positivismo e il materialismo hanno indotto la sinistra italiana ed europea a ritenere fattibile la programmazione a tavolino della convivenza civile in tutti i suoi dettagli, alla ricerca della società giusta, producendo invece solo una legislazione abnorme e insultante per le nostre libertà fondamentali. Ma non si può pensare che la risposta migliore possa essere quella di riprendersi in mano lo strumento legislativo per creare invece la società virtuosa, ed immolare quindi le stesse libertà individuali alle tradizioni e ai valori che Pera ha riscoperto per noi comuni mortali, affaticando le membra in innumerevoli notti insonni. La democrazia del consenso, astratta e progressista, contro la democrazia del senso, tradizionalista e conservatrice, paiono nel discorso di Pera due concezioni che invece di scornarsi, si rafforzano a vicenda, vincolando, anche se in modo diverso, la vita delle persone alle preferenze etiche di chi si trova di volta in volta al potere. La democrazia liberale vorrebbe invece meno leggi, meno vincoli, meno interferenze, più autonomia territoriale, più rispetto per le innumerevoli visioni della vita e della verità. Una democrazia liberale dovrebbe lasciare che ognuno si sforzi liberamente di dare un senso alla propria esistenza, e cerchi il libero consenso degli altri sul mercato. Una democrazia liberale, per riscoprire comportamenti virtuosi e valori dovrebbe restituire spazi di libertà e attribuire solide responsabilità agli individui. Ma la democrazia liberale non sembra più interessare a Pera: la democrazia della virtù, la democrazia del senso, del bene cristiano è il nuovo orizzonte dei liberali italici del XXI secolo, felici di affidare il proprio destino politico e culturale a Pera e Tremonti. Che Francesco Ferrara non lo hanno mai letto. E si vede.

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pannella ha detto stop pubblicato su http://www.ilpungolo.com/ Pannella ha detto stop. Stop a Berlusconi che non è più quello del 1994, anche se nessuno sa più chi fosse questo fantomatico Berlusconi del 1994. Stop alle sacche di suburra nazista, che sarebbero poi i parlamentari della Lega Nord, e più specificamente la sua filiale a Strasburgo. Stop al clericalismo orgoglioso e dilagante dei cattolici come Casini, e stop pure al clericalismo culturale degli atei in piena crisi di coscienza religiosa, laici penitenti e teocratici impenitenti come Pera e i suoi luogotenenti. Stop a Tremonti che ha cuore solo per Bossi, e stop a Bondi che non gliela racconta mai giusta; e stop Fini, che forse sui referendum porta anche sfiga, altro che Mario Segni. Stop alla Cdl, alle mancate riforme, alla genuflessione istituzionale al

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Vaticano. Ora basta. I radicali tornano a sinistra, almeno così annuncia Giacinto Pannella detto Marco. Incontra Boselli, chiama De Michelis, ricorda Loris Fortuna e i bei tempi andati dei diritti civili, del divorzio, l’aborto, la fame nel mondo. L’emergenza in Italia non è più semplicemente quella economica, come vorrebbe dargliela a bere Della Vedova, che ha avuto il merito di portare il verbo di Hayek tra i libertari nostrani. La vera sciagura oggi, per Pannella, è il progressivo e inquietante assottigliamento delle libertà civili e degli spazi per la ricerca scientifica. Ergo, Della Vedova può anche continuare la sua catallassi cosmica, ma da un’altra parte. Perché i radicali da domani vanno a sinistra. In fondo, con i Ds è un annetto che ci sono convergenze sui diritti individuali. In fondo, Boselli è un bravo ragazzo, e De Michelis pure. E poi sono stati allevati dal Craxi riformista e liberalsocialista che un tempo, senza dirlo a nessuno, l’ha pure designato suo erede. Ecco quindi bell’e pronto il partito d’Azione del XXI secolo. Perchè in un paese in cui a sinistra Blair se lo schifano un po’ tutti, e Zapatero riceve solo insulti e minacce, qualcuno la parte del liberalsocialista dovrà pure farla. Eccolo dunque, Pannella, di nuovo su tutti i giornali, coccolato da Il Riformista di Polito, pronto alla sfida del 2006. Tutto bello, tutto coerente. Teoricamente, almeno. Perché a pensarci bene questa mossa, Pannella, la fa un tantino in ritardo. Doveva farla magari nel 1994, quando si poteva già provare a incidere sulla futura identità del centrosinistra attuale, rimasto poi malinconicamente invischiato nella solita minestra melmosa catto-comunista, nella sua rinnovata versione prodiana. Allora, nel ’94, avrebbe potuto infilarsi tra post-comunisti e cattolici democratici per creare subbuglio e fornire nuovi stimoli. Avrebbe potuto impedire l’ennesima riproposizione del compromesso storico, del centro che guarda a sinistra, dei dossettiani che non finiscono mai, e dei comunisti che non possono fare a meno dei cattolici perché fanno parte del popolo come loro. Per una politica impopolare e anticorporativa, come quella che continua a servire all’Italia da quindici anni, servono proprio idee lontane dal classico solidarismo cattolico e socialisteggiante. Servono idee che mettano al centro l’individuo, le sue scelte e le sue responsabilità. Servono idee liberali in senso pieno. E nel centrosinistra i liberali sono sempre stati pochissimi, tanti quanti è possibile vederne nel centrodestra. Ma allora potendo scegliere, dovendo portare il seme dell’individualismo, del laicismo e del mercato, perché andare a tentare la sorte a destra, quando a destra era da subito emerso un modello populista e clericale? Perché dare fiducia alla destra, con testardaggine, per anni, se la storia dei radicali è da sempre a sinistra, anche se in maniera conflittuale? Perché non contaminare e stimolare direttamente la sinistra, da trent’anni ormai allo sbando di fronte alla sfida post-industriale e post-moderna del conservatorismo anglosassone?I radicali sono parte della storia della sinistra, ma di una sinistra che in Italia è sempre stata minoritaria, la sinistra liberale, la sinistra del socialismo libertario. Una sinistra che considera il mercato non un male necessario, da accettare per ragioni di cruda efficienza, ma un ordinamento economico essenziale per la libertà e il progresso. È questa una sinistra attualmente assente, e che in Italia è esistita forse solo con i radico-liberisti e qualche frangia socialista che a cavallo tra il XIX e il XX secolo si battevano come leoni per l’autonomia territoriale, per il libero commercio e la laicità delle istituzioni pubbliche. Pantaleoni, De Viti De Marco, Giretti, Papafava, Pareto, Salvemini. Quest’area radico-socialista è rimasta a lungo fossilizzata nei ricordi degli storici e di qualche vecchio nostalgico. Quest’area, liberista in economia e progressista sulle libertà civili, è però sempre stata vitale nella società civile, è si è persino rafforzata, pur rimanendo politicamente apolide, senza un tetto partitico di riferimento. Oggi un partito (non una lista, ma un partito) radico-socialista potrebbe rappresentare il vero contrappeso nell’Unione alla sinistra estrema, marxista e no global, e al dossettismo residuale del centro rutelliano. Potrebbe rappresentare un alleato in più per i solitari liberal Ds e fornire finalmente i contenuti giusti al riformismo scialbo e molliccio finora partorito dal prodismo bollito. Tutto bello, tutto perfetto. Ma abbiamo a che fare con Pannella. Uno che il giorno prima dialoga felice con Boselli e fa l’occhiolino a Fassino, e il giorno dopo scrive una lettera aperta a Berlusconi. E se si dà un’occhiata al forum dei Radicali, non si avverte certo chissà quale strepitoso entusiasmo tra i militanti. Insomma, tutto può ancora finire in burletta, ma tutto può anche diventare un’opportunità per avere in Italia una sinistra nuova. I punti deboli dell’ipotesi radico-socialista sono noti: uno è dato dalla necessità di una candidatura radico-socialista alle primarie dell’Unione, per contarsi e contare davvero nelle successive scelte programmatiche, ma Boselli è legato mani e piedi alla candidatura di Prodi; il secondo punto debole è dato dal rischio di annacquare la caratterizzazione liberista, perdendo definitivamente Della Vedova; il terzo è quello di abbandonarsi ad una deriva laicista che in Italia non raccoglierebbe consensi, ma solo giuste batoste, dimenticando che il vero liberalismo whig con l’anticlericalismo aveva ben pochi rapporti. Se nonostante Pannella e i suoi vizi, il progetto prendesse comunque forma, ma senza affrontare seriamente questi tre punti deboli di partenza, ad ottobre rimarrebbero solo le cronache di un’estate afosa come le precedenti, con qualche traccia sparsa dell’ennesima occasione persa per restituire alla Rosa nel pugno il suo giusto ruolo nella storia politica di questo paese.

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referendum tra mare, montagne e urne pubblicato su http://www.ilpungolo.com/ Pettegolezzi, sordi ostracismi, silenzi imbarazzati e provocazioni irritanti, con l’amaro contorno di una contrapposizione fondamentalista e, diciamolo, anche un po’ rancorosa. Questo è ciò che spesso i media sono costretti a servirci da mane a sera per informarci sulla difficile convivenza tra etica, politica e scienza. Con molti politicanti che si comportano come se il prossimo referendum sulla legge 40 fosse più l’occasione buona per risolvere certi conti personali lasciati in sospeso, piuttosto che una straordinaria occasione di dibattito pubblico e di crescita civile. E così, nonostante l’opera meritoria di molti quotidiani,

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periodici e tv, che in fondo non hanno fatto mancare finora un minimo di attenzione alla questione, è però vero che a dominare incontrastata la scena abbiamo una madonna in copertina come testimonial iconografica della fecondazione eterologa; alcuni rumors rosa su improbabili rapporti sentimentali tra Fini e la Prestigiacomo; una maggioranza clericale più per forza che per convinzione, e che quasi ringrazia la recessione incipiente che distrae l’opinione pubblica dal referendum; e un fronte del sì spesso dominato da uno spirito anticlericale grezzo, aggressivo e alla lunga insostenibile anche dal più giacobino dei laici. La Chiesa, d’altro canto, conta ormai più per la classe politica che non per i cittadini, e avendo perso la guerra della secolarizzazione, si accontenta di vincere delle misere battaglie di potere arruolando i parlamentari. Se non si riesce nella persuasione, si può sempre attuare la coercizione. A sinistra il gioco le riesce un tantino meno, ma qualche punto la Chiesa lo ha messo a segno anche lì. Nella Margherita, ad esempio, dove una linea sul referendum semplicemente non esiste. Una senatrice dei Dl, Cinzia Dato, tanto liberale quanto isolata nel suo partito, si è detta pronta a votare quattro sì alla faccia di Rutelli, con quest’ultimo che ad ogni ardita domanda sui suoi programmi per il 12\13 giugno contorce indignato i lineamenti del faccione e, corrucciato e meditabondo, risponde poche parole vuote ma pensose, accompagnandole con lo sguardo di uno che la sa lunga sulla faccenda, ma non vuole farlo sapere a nessuno. Ma insomma, persino Fini, leader di un partito che non avendo identità chiara si nasconde spesso sotto le tonache dei preti, ha rischiato l’isolamento e lo sputtanamento dicendo non solo di votare, ma che voterà tre sì su quattro. Persino Prodi ha detto che, bontà sua, andrà a votare, e magari nei prossimi giorni, se facciamo i buoni, ci dirà pure che cosa. Gli astensionisti, poi, non ne parliamo: sono ancora in coda per far sapere alla Chiesa che sono prontissimi ad astenersi. C’è solo che non devono dirlo pubblicamente, o comunque devono dirlo senza fare troppo chiasso, chè poi la gente se ne accorge che c’è un referendum e potrebbe anche venirgli la voglia di informarsi, discutere e magari andare pure a votare. Insomma, Rutelli, lei che fa il 12\13 giugno? Mare? Montagna? Collina? Scheda bianca? Scheda nulla? Amato dice che non si dovrebbe insistere troppo a fare certe domande ai leaders, ma caro Amato, la questione è politica, e un leader dovrebbe sentire il dovere di dire non solo per cosa vota, ma soprattutto perché, in modo tale che le giustificazioni addotte possano essere materia di riflessione e di orientamento per i cittadini. La libertà di coscienza è un presupposto della democrazia, non la scusa per non esporsi troppo ogni volta che il tema dibattutto si fa incandescente. L’etica non è un argomento per soli preti e filosofi. Sull’etica spesso bisogna decidere, anche di non decidere affatto, e spesso quest’ultima opzione si rivela la migliore, e non solo in campo etico. Di fronte a questo astensionismo represso, lo schieramento dell’astensionismo espresso pare più divertente, più vivace. Possiamo vedere Ferrara che la sua battaglia “teocon” la sta facendo onestamente, addirittura in tour con Cl, ma il problema è che non ha capito lo schema di gioco, approntato dalla componente “teo” del conservatorismo casalingo.Lo schema è semplice: chi vuole conservare la legge 40 deve buttare la palla in tribuna. Punto e basta. Lui invece ci crede, e ogni volta che si ritrova il pallone fra i piedi, tenta una sortita in area avversaria, e dice che voterà no. I suoi compagni di gioco l’hanno capito meglio, invece: il no in Italia è minoranza, dunque astensione, palla in tribuna, in curva, fuori dallo stadio, sperando pure che la partita si svolga a porte chiuse. È una furbata pazzesca, e può pure funzionare. Ma è una furbata tanto legittima, quanto disonesta e illiberale. Una questione alla volta, per ordine di gravità crescente. È disonesta perchè l’invito all’astensione viene fatto in sordina, con comitati per il no ridotti all’osso e particolarmente riservati. Si spera che non se ne accorga nessuno dell’appuntamento di giugno, e che tutto si risolva in un bel weekend soleggiato al profumo di mare. Non c’è dunque alcuna mobilitazione delle coscienze, nessuna partecipazione attiva o discussione serrata. Solo mutismo. Poche apparizioni, basso profilo, un’unica verità cui appellarsi, quella di Benedetto XVI. Che non coincide necessariamente con quella dei cattolici, anzi. Invitare a non votare può essere anche una forma di obiezione di coscienza elevata e dignitosa, ma fatta così è solo strumentale alla vittoria di una minoranza consapevole di essere tale. E qui veniamo alla seconda più grave accusa. La posizione astensionista è illiberale proprio perchè è la battaglia passiva e silente di una minoranza organizzata a guidata da una Chiesa che sapendo di esprimere un punto di vista incapace di persuadere la maggioranza del paese, ha deciso che su certi principi non c’è dialogo possibile, e si può solo contare su espedienti, ignoranza e quorum. La Chiesa e i suoi alleati interessati (all’appoggio elettorale alle prossime politiche) sono così il simbolo dell’illiberalismo non per le loro posizioni sulla materia, ci mancherebbe altro. Ma perché sanno bene che nel grande fascio dell’astensione raccoglieranno anche i voti di chi in fondo non gliene cale granché della questione, e solo insieme all’indifferenza riusciranno ad accaparrarsi la vittoria, imponendo un punto di vista minoritario che non raccoglie più nemmeno la risicata maggioranza che l’aveva approvato a suo tempo. In materia di etica risulta più liberale o non legiferare affatto sulla questione, in attesa che emerga nella società civile una più diffusa e matura coscienza dei problemi e delle possibili soluzioni; oppure legiferare solo se si riescono a trovare intese tra le minoranze, cioè un equilibrio che, per quanto temporaneo e limitato, rispetti veramente il pluralismo dei valori, lasciando all’autonomia della società civile, alla ricerca scientifica e alla giurisprudenza le materie su cui non vi è accordo codificabile. In ogni caso, dovremmo anche chiederci se non sia il caso di rivedere la costituzione per modificare le maggioranze richieste per l’approvazione di leggi che investano la sfera etica. In un certo senso, tutti avvertiamo che non si tratta di leggi ordinarie. Eppure non è necessario essere dei giuristi per comprendere che non si può lasciare che sia una semplice maggioranza di legislatura a disegnare ogni volta l’identità culturale e morale di una nazione, in attesa che la maggioranza successiva ci passi sopra rabbiosa il suo bianchetto.

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una seconda fiuggi per an? pubblicato su http://www.terzarepubblica.it/ Un colpo di proboscide ogni tanto. Una frustata a destra e una a manca. Giusto per ricordare agli altri, quelli di Fiuggi, non tanto chi è che comanda, quanto chi è che prova a riflettere sui destini della destra italica. È l’elefantino blue che riemerge dalla coscienza politica di Fini, che si fa vivo quando le circostanze lo richiedono, come per questi referendum, ad esempio. L'annuncio a sorpresa di tre sì su quattro non è un sintomo di confusione mentale, e nemmeno una provocazione gratuita. E' l'elefantino che rispunta orgoglioso, per ricordare che per Gianfranco Fini la destra italiana avrebbe dovuto evolversi in ben altra direzione. Quel simbolo pachidermico portò alla sconfitta l’unico vero tentativo fatto dal leader di An per smarcarsi definitivamente da Berlusconi. Per creare in Italia il partito che non c’è mai stato, quel partito conservatore di cui Croce non si è mai voluto far carico; che Sonnino o Salandra non sono mai riusciti a consolidare; che Giolitti non ha mai neppure provato a creare; e che dopo il fascismo è diventato sospetto e innominabile. Era il 1999, c’erano le Europee e Taradash, il radicale Marco Taradash, aveva deciso insieme a Mariotto Segni di tentare la svolta definitiva: unirsi a Fini e regalare un partito reaganiano alla destra liberaldemocratica e libertaria, portando An oltre Fiuggi. Fare il partito repubblicano in Italia, per evitare la deriva neodemocristiana, per poter mettere in discussione la leadership carismatica di Berlusconi, per arginare il leghismo del localismo greve, per insufflare la cultura neoconservatrice e libertarian anglosassone nel paese del Vaticano, delle pensioni irriformabili, delle corporazioni imbattibili, delle privatizzazioni parziali e delle liberalizzazioni impossibili. Finì male, An perse molti voti, forse anche a favore della strepitosa lista Bonino dell’8,5%. E Gianfranco Fini, senza troppi clamori, archiviò definitivamente qualunque ipotesi conservatrice giocata contro il Cavaliere, rassegnandosi al ruolo di sdoganato silente. L’idea non era sbagliata, Anzi. mancavano solo tre elementi: una classe dirigente all’altezza, una schiera di intellettuali pronti alla sfida, una base elettorale disposta a recepire il messaggio. La classe dirigente era quella che è tutt’oggi: la stessa del Msi, corretta con qualche democristiano di destra, come Publio Fiori, o altri personaggi dalle idee non esattamente originali, come Rebecchini o Selva. E pensare di creare il primo vero partito conservatore in Italia con Alemanno, Storace, Gasparri, La Russa e Urso non è evidentemente una cosa umanamente possibile. L’oligarchia post-missina ha evitato accuratamente il ricambio interno, e ha coltivato una base giovanile in gran parte più tradizionalista che “conservative” in senso anglosassone. Stesso discorso vale per gli intellettuali di area, il secondo elemento mancante: Domenico Fisichella, padre nobile della svolta di Fiuggi, se ne va, ma il suo ruolo è stato per molte ragioni più di impedimento allo sviluppo di An che non di evoluzione. Il resto della galassia pensante di orientamento liberal-conservatore ha sempre guardato più a Forza Italia che non ad An, lasciando che il monarchico e cattolico Fisichella rimanesse il solo intellettuale organico della destra, privandolo di confronto interno, ma anche di ascolto sincero da parte del suo stesso partito. E poi la base elettorale: An non cresce più da quando è nata, avendo di fronte a sè la diga di Forza Italia. E anche quando Forza Italia ha cominciato a perdere voti, questi non sono andati verso An, perchè non c’erano ragioni per un travaso simile. Non c’erano ragioni culturali, politiche o morali. An a destra non è mai stata percepita come un’alternativa a Fi, ma solo come una zavorra inevitabile: la destra di cui non si può fare a meno, ma che sui problemi reali non ha niente da dire di originale, di diverso. L’Udc sì, la Lega sì, An proprio no. Al limite, ripete il verbo berlusconiano a memoria, solo con un vocabolario più ridotto e con toni meno mistici. A queste condizioni An è nata per rimanere comprimaria. Si è voluto costruire il partito dell’identità popolare italiana, identificando quest’ultima con un presunto carattere cattolico-nazionale prevalente tra la gente che guarda a destra. E Fisichella su questa idea ha creduto di poter dare all’Italia il suo personalissimo partito conservatore. Il solo risultato è stato il sostanziale appiattimento di An sul resto del centrodestra, con qualche patetico atteggiamento di accondiscendenza in più nei confronti delle gerarchie ecclesiastiche rispetto agli alleati. Fini tutto questo lo ha evidentemente digerito assai male, comprendendo gradualmente, e dolorosamente, che il futuro di un moderno partito conservatore non poteva e non può poggiarsi sulla morale unica di Benedetto XVI, sul centralismo pseudo-patriottico o sulla difesa ad oltranza degli statali e dei privilegi corporativi. Ma ha dovuto subire rassegnato l’involuzione di An, che molto probabilmente finirà fagocitata nel nuovo partito unico del centrodestra senza potersi caratterizzare per qualche apporto culturale significativo, avendo lasciato tutte le iniziative di questi anni a Bossi, a Follini, a Casini, ai berlusconiani di ogni ordine e grado. Le ultime uscite di Fini sul referendum, la sua propensione a votare tre sì su quattro, sono in fondo l’ennesimo colpo di proboscide di un politico che avrebbe voluto passare alla storia come il primo leader conservatore italiano, il primo politico capace davvero di porsi alla guida di una formazione orientata verso un franco conservatorismo cattolico-liberale e laico, tra don Sturzo, Einaudi e Malagodi. I suoi sì alla ricerca scientifica sono le convinzioni maturate lentamente da un politico che forse non si è ancora del tutto arreso al malinconico declino della destra post-missina; una destra che continua a guardare con ridicola disperazione ai Fisichella, ai Rebecchini, ai Fiori e ai Selva pronti ad uscire, ma non si preoccupa minimamente della sua spaventosa incapacità di attrazione e formazione di nuova classe dirigente.

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hayek. la grande società.

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Hayek nel 1944 dedicò il suo "La via della schiavitù" a tutti i socialisti del mondo. Alcuni decenni dopo, Helmut Schmidt, a quel tempo cancelliere socialdemocratico della Repubblica Federale tedesca, fece presente a Margaret Thatcher come ormai ci si potesse definire tutti hayekiani, ammettendo peraltro di aver avuto anche l'economista austriaco tra i suoi autori più letti. Ma i socialisti del XXI secolo, a cominciare da quelli italiani, hayekiani ancora non lo sono affatto, preferendo galleggiare in un limbo dove l'idealismo politico, per ora, è sospeso. Che la sinistra sia ancora alla ricerca di un modello culturale per i prossimi decenni, infatti, non c’è dubbio. Definire oggi i caratteri essenziali del progressismo politico è semplicemente impossibile. O tragicamente banale. Si potrebbero ancora, stancamente, tirare in ballo gli sforzi di Giddens di andare oltre la destra e la sinistra, ma già siamo ai ripensamenti. Si potrebbe rinverdire il mito dell’ulivismo mondiale o del clintonismo, ma solo per verificare come, in fondo, la forza dei new democrats, così come degli ulivisti nostrani, fosse inesorabilmente legata al riciclo forzato delle politiche liberali iniziate negli anni ’80 dai neoconservatori. Si potrebbe infine far finta di niente e continuare a parlare di nuovo socialismo, di riformismo o neolaburismo, spacciandoli tutti per una versione ritinteggiata di fresco della socialdemocrazia dominatrice del secolo scorso, magari ammantandoli di un aggiornato solidarismo più sociale e meno statale, giusto per guadagnare un po’ di voti tra l’associazionismo religioso. Ma per cosa, poi? Per rischiare di farsi comunque definire pragmatici senz’anima? Non è il caso, ed infatti si sprecano le iniziative volte a trovare nuovi argomenti per far sopravvivere il socialismo sotto nuove forme. Un po’ meno a sinistra, senza mai però sforare a destra. Al centro insomma, ma non centristi, per carità. Progressisti, diciamo, ma senza utopie. Ma non per questo moderati. Ma neanche radicali. Alla fine si giunge alla solita terza via, ma di terze vie tra capitalismo e socialismo è lastricato tutto intero il ventesimo secolo. Paolo Borioni aveva parlato in un suo saggio poco fortunato di socialismo post-moderno, ma sembrava una categoria più adatta alla critica letteraria che alla filosofia politica. Dentro tutte queste definizioni nuove di zecca, tutti questi palloncini colorati di rosso e gonfi di astrattismo ambiguo e obliquo, si nascondeva in fondo solo il fallimento del socialismo storico, e l’incapacità di dirlo a chiare lettere. Quel che manca alla sinistra allora è una presa di posizione consapevole del fatto che la sinistra di domani è necessariamente quella dell’altro ieri. Così come la destra anglosassone ha ripreso a vincere le elezioni e, soprattutto, a produrre nuove idee e nuove energie intellettuali grazie al recupero pieno delle radici culturali dell’occidente giudaico-cristiano, mettendosi alla ricerca di un punto di equilibrio tra libertà individuale e tradizione, la sinistra dovrebbe ammettere innanzitutto a se stessa che lo stesso identico percorso politico e culturale è davanti a lei. In realtà lo ha già iniziato, senza neanche accorgersene. Diversi passi in avanti sono già stati fatti da molti esponenti politici della sinistra anglosassone e continentale. Ma i suoi intellettuali, le sue riviste, i suoi circoli e le sue fondazioni sono ancora indietro. Bisogna infatti ricordare che le rivoluzioni reaganiana e thatcheriana sono state soprattutto il frutto dell’ampio dibattito portato avanti dalla destra intellettuale (in senso ampio) per la ricostruzione dei principi alla base dell’azione politica dei suoi leader. I think tanks hanno cioè giocato un ruolo fondamentale per la modernizzazione del campo conservatore. Questo a sinistra non è ancora avvenuto. Molti suoi leader sembrano anzi più avanti dei loro ideologi di fiducia. Blair, tanto per capirci, è certamente andato non solo oltre la destra e la sinistra, ma anche ben oltre Giddens. Per sua fortuna, e della Gran Bretagna tutta. La sinistra, a cominciare da quella intellettuale, dovrebbe allora organizzarsi per riconoscere che la sua identità, depurata delle ultime vecchie scorie socialdemocratiche, assolutamente inutili per la gestione del futuro, è in gran parte immersa nella stessa cultura popolare della destra conservatrice, e che la ricerca dell’equilibrio tra libertà individuale e tradizione è una questione politica che riguarda anche lei. Qualcosa lo aveva in fondo già accennato il buon Peter Singer, che liberale non è, nel suo “Per una sinistra darwiniana”. Mettere Darwin insieme a “sinistra” nello stesso titolo era già una bella provocazione. La sua posizione non era però così originale: si limitava infatti a rammentare ai progressisti di non sottovalutare la natura umana, che è in gran parte immodificabile. Ma la sinistra questo lo aveva già capito da trent’anni, senza dirlo troppo in giro, però. Ora basterebbe solo avere il coraggio di tornare a qualche momento prima della grande sbornia socialista. La sinistra, italiana o inglese o tedesca non importa, dovrebbe cioè tornare whig. Significherebbe tornare a celebrare i suoi antichi principi anticonservatori nel nome della libertà individuale, anche fino ad assumere toni radicali, ma per la libertà, per l’appunto, e non nel nome di ideali costruiti a tavolino dall'oggi al domani. E parafrasando Singer, una sinistra whig sarebbe certamente una sinistra Hayekiana, più che Darwiniana. In Hayek l’evoluzionismo è culturale, non biologico, e il trittico pace, libertà e giustizia non è il più facile degli slogan no-global, ma un insieme di valori imprescindibili per una società libera. La stessa libertà viene declinata secondo una sensibilità che dimostra non solo la necessità di premiare il talento e l’impegno, ma anche, più volte, di avere al suo centro i più deboli e i più sfortunati. Hayek parlava di Grande Società capace anche di permettersi politiche di sicurezza sociale (non giustizia, ma sicurezza) assai ampie, e dove il mercato poteva anche coniugarsi con la produzione di beni pubblici, purché tale intervento fosse sottoposto a norme generali e astratte, e non ad hoc o ad personam. Hayek parlava di necessità di decentramento del potere e di meccanismi costituzionali più forti contro ogni privilegio di classe o corporazione, e sosteneva persino l’opportunità di un reddito minimo ben prima che Van Parijs, nuovo faro intellettuale della sinistra radicale, scrivesse il suo Real Freedom for All. Con Hayek la solidarietà sociale si prende una rivincita netta su quella statale, fredda, impersonale e deresponsabilizzante, che viene ridimensionata, ma non annullata. La welfare society era già scritta tra le sue riflessioni, ancora prima che fallisse il welfare state, rigido, costoso, inefficiente, iniquo. Nei suoi scritti la sinistra, ormai non più socialista se non di nome, e a volte nemmeno di nome, troverebbe molti argomenti su cui discutere e, soprattutto, ritrovarsi senza troppi imbarazzi. Si tratterebbe

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probabilmente degli stessi argomenti che stanno portando una parte della destra a volgersi verso altri autori, dandosi una connotazione più conservatrice. Il ritorno – perché di ritorno si tratterebbe - al pensiero whig comporterebbe per la sinistra un riorientamento non tanto della prassi politica, in realtà già ben avviata, anche se con lentezza e tra mille incomprensibili rimorsi, ma un rinnovamento del mondo intellettuale che gira intorno alla politica. Come già detto, in ritardo sono i pensatori, assai meno i politici, costretti a misurarsi quotidianamente con la storia che pare aver improvvisamente accelerato il passo. Ma il recupero consapevole della cultura whig fornirebbe quella spinta ideale, quell’anima culturale senza la quale una sinistra semplicemente, e glacialmente, pragmatica si troverebbe prima o poi a fare i conti con se stessa e la sua parte più utopistica, che sotto la cenere del socialismo reale continua a masticare amaro e a cercare un modo per risorgere.

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paleolism. fine di un amore? pubblicato su http://www.ilpungolo.com/ Fine di un amore? O magari solo un flirt? Parliamo di quello tra Libertarians e ultraconservatori che negli Usa, dopo la caduta del muro di Berlino e il disfacimento dell’Urss, aveva portato il libertarismo di marca anarco-capitalista e il conservatorismo vecchia maniera, quello che un tempo amava definirsi antiroosveltiano e antiwilsoniano, a tentare un matrimonio politico nel nome di radici filosofiche affini. Oggi però, a distanza di un quindicennio circa, i rapporti sembrano essersi piuttosto deteriorati. Il divorzio è alle porte. In amicizia, s’intende, ma la separazione pare definitiva e irreparabile. Ma andiamo con ordine, e partiamo dalle origini del connubio. Lo spirito comune che guidava questo tentativo di alleanza aveva un nome, paleoism. Da un lato avevamo il paleolibertarismo, guidato da Rothbard e Rockwell, in polemica con le versioni più sinistrorse del libertarismo americano. Dall’altro c’era invece il paleoconservatorismo messo in piedi da Patrick Buchanan, Paul Gottfried e Tom Fleming in onore dell’antica tradizione della Old Right. Come? Cosa? Libertari e conservatori insieme? Ebbene sì, e poi la cosa non dovrebbe apparire così curiosa. Dopotutto, la stessa Old Right, la gloriosa Old Right, era nata a suo tempo come luogo politico di incontro tra il libertarismo di Nock e Menken e l’isolazionismo. Nel secondo dopoguerra erano poi stati fatti altri tentativi di alleanza. Basti pensare a Frank Meyer, il quale ci aveva provato con alterne fortune sulle pagine della mitica National Review fondata nel 1955 da William Bukley, e su cui scrivevano autori tradizionalisti come Russell Kirk e libertari come Hayek e Mises. Era il cosiddetto “fusionismo”. Ma l’anticomunismo viscerale di Meyer lo portava a giustificare una politica estera fin troppo militarista e interventista, soprattutto per i libertari, i quali consideravano ben più pericoloso il governo federale di una tirannia comunista dall’altra parte del globo. E il fidanzamento fusionista fallì miseramente. Ma i rapporti a destra tra libertarismo e conservatorismo trovarono altre forme di convivenza. Diversi esponenti libertarian hanno infatti simpatizzato per politici della destra made in Usa. Il libertarian di scuola utilitarista David Friedman, ad esempio, figlio del più noto economista di Chicago, aveva una passione sfrenata per il conservatore dell’Arizona, Goldwater. Il padre, Milton, non ha mai negato di avere la tessera repubblicana in tasca. Ayn Rand, regina dell’oggettivismo, ha sempre appoggiato candidati del Gop o, in alternativa, nessuno. Curioso che alla fine l’alleanza più destrorsa l’abbia fatta proprio Rothbard, politicamente il più poliedrico dei libertari americani. L’economista è infatti passato dalle simpatie per il senatore repubblicano Robert Taft all’antipatia per Goldwater, dopo aver amoreggiato negli anni sessanta con la New Left e vissuto un’incerta sbandata per il democratico pacifista McGovern. Lo stesso Rothbard ha poi ammesso di aver dato il suo voto a Nixon nel ’72, mentre negli anni settanta ha preferito rappresentare l’anima culturale del Libertarian Party. Finché non è arrivato Gorbaciov e tutto il resto, e Rothbard ha deciso per una drastica svolta a destra guidando la nascita, alla fine degli anni ottanta, insieme a Lew Rockwell, del paleolibertarismo e della sua alleanza con il paleoconservatorismo nel nome della Old Right rinascente. Il suggello a tale alleanza fu il supporto elettorale dato da Rothbard alla campagna del conservatore repubblicano Pat Buchanan per le presidenziali del 1992, con tanto di manifesto populista e tradizionalista, e molta indulgenza nei confronti del suo protezionismo economico. Questa fusione “paleo” tra libertarismo e conservatorismo non era dunque cosa del tutto nuova. Ciò che sembrava renderla più solida era la struttura filosofica che l’accoppiata Rothbard-Rockwell aveva predisposto all’uopo. In realtà, alla base vi era il tentativo di fornire un’interpretazione autentica del pensiero libertario anarco-capitalista, la cui coerenza interna richiedeva l’unificazione logica della libertà economica con i valori tradizionali della cultura occidentale giudaico-cristiana. In un certo senso, i libertari dovevano considerarsi gli unici conservatori coerenti. Rothbard e i suoi allievi si impegnarono alacremente per dimostrare che se si aveva a cuore l’ordine naturale delle cose e le tradizioni del proprio paese, allora bisognava essere radicalmente libertari, cioè anarco-capitalisti. Ciò significava affermare che soprattutto lo stato, e il suo sistema di protezione sociale, era alla base del declino della cultura occidentale, delle sue tradizioni, dei valori morali. Ciò che aveva distrutto il principio della responsabilità personale, incrinato l’istituto della famiglia e messo in pericolo la sopravvivenza dei valori più tradizionali era stato proprio lo stato attraverso il suo incentivare comportamenti scorretti sotto il profilo economico. Una società che decide di sussidiare comportamenti passivi, pigri, alternativi e improduttivi disincentiva al contempo, senza rendersene conto, i comportamenti più virtuosi come il risparmio per il proprio benessere futuro, la propria salute e per i propri figli, o

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l’investimento per ottenere redditi futuri e innovazione. È questa una società che lentamente si suicida. Dunque, la difesa dell’ordine naturale delle cose passerebbe attraverso la difesa delle leggi naturali dell’economia, e quindi del mercato e della proprietà. Il paleolibertarismo rothbardiano, così strutturato, cercò un’alleanza con i paleoconservatori. Ma non andò a finire bene. Soprattutto per colpa del lato conservatore del Paleoism. Giungiamo così all’atto finale di questa faccenda. Al divorzio annunciato all’inizio. Che in realtà si è già consumato da tempo, ma che ottiene sempre nuove conferme. L’ultima, il 4 marzo scorso: sul sito del Mises Institute è infatti apparso un articolo dell’allievo di Rothbard, Hans-Hermann Hoppe, dal titolo “The Intellectual Incoherence of Conservatism”. In questo articolo, dopo aver liquidato brevemente i neoconservatori che oggi vanno di gran moda, tutti inesorabilmente statalisti in politica estera e probabilmente conservatori culturali più per motivi strumentali che per ragioni di principio, Hoppe si dedica al buon vecchio Buchanan, alleato di un tempo ormai passato. Per dargli il colpo di grazia. Anche il suo conservatorismo, un tempo paleo, è per Hoppe una forma riveduta e corretta di statalismo. La sola differenza è che Buchanan e compagnia alle tradizioni americane e ai suoi valori morali ci credono davvero. Peccato che, come fa notare Hoppe, entrino in contraddizione logica volendo conservare le cause del decadimento morale, e cioè tutte le strutture pubbliche preposte alla sicurezza sociale, e contemporaneamente ripristinare l’ordine morale tradizionale. Botte piena e moglie ubriaca. Pretendono infatti di tornare all’ordine morale tradizionale attraverso la coercizione, sfruttando il potere dello stato sia in economia che nell’educazione. Ma delle due l’una, o si è socialisti in economia, e si ottiene una società senza spina dorsale, oppure si punta al ripristino della morale tradizionale della responsabilità individuale, e allora può esserci solo il mercato e la proprietà privata. Questo Buchanan, nonostante la vecchia alleanza con Rothbard nei primi anni novanta, proprio non lo ha capito, per questo non è un conservatore genuino. Ma se qualunque speranza di alleanza per il futuro tra paleolibertarians e paleoconservatori può dirsi esaurita, si è però consolidato nel frattempo un tema destinato a creare conflitti intestini nel pensiero libertario di non poco conto. Con questo articolo Hoppe ha infatti confermato un fatto ormai assodato: l’anarco-capitalismo, culturalmente conservatore, di Rothbard, Raico e Rockwell, pare voler assurgere al ruolo di unica forma di conservatorismo coerente. La libertà economica non è richiesta per una tutela integrale della libertà individuale, ma perché utile per il ripristino spontaneo dell’ordine morale tradizionale su cui dovrebbe basarsi la responsabilità personale e la crescita materiale e spirituale di una società. Il libertarian, dunque, è un anarchico culturalmente conservatore? Leggendo Hoppe, parrebbe proprio di sì. Eppure, non sembra una necessità. Esistono altri libertarismi, e le differenze dipendono soprattutto da come ci si intende rapportare alle istituzioni pubbliche non eliminabili dall’oggi al domani. Se il paleolibertarismo preferisce sempre simulare i possibili esiti del mercato, con la massima decentralizzazione delle scelte su qualunque materia, per depotenziare i poteri legiferanti e il controllo centrale, altri libertari preferiscono invece una soluzione improntata all’imparzialità delle istituzioni statali esistenti, allo scopo di neutralizzarle rispetto al pluralismo delle preferenze e dei valori. Siamo sicuri che il paleolibertarismo sia proprio la soluzione migliore per giungere alla privatizzazione della società? E, soprattutto, siamo sicuri che l’unico modo per essere dei libertari coerenti sia quello di essere anche dei conservatori culturali?

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politica, una bellezza sfregiata pubblicato su http://www.ilpungolo.com/

La concezione della politica, pulita, semplice, pratica, nel nostro paese semplicemente non esiste. La repubblica fondata sul lavoro partorita dalla carta del 1948, oggi meglio nota come prima repubblica, nonostante i suoi numerosi e sgradevoli difetti, aveva avuto il merito di porre all’ordine del giorno uno scontro culturale vivace tra una pluralità di visioni del mondo. Convivevano e si scornavano fra loro idee forti sull’organizzazione delle relazioni sociali, sugli ordinamenti economici, sulle libertà civili. Queste idee attiravano interesse, appassionavano anche i semplici, suscitavano riflessioni e dibattiti, mobilitavano le coscienze. L’Italia di oggi è invece il regno dell’indifferenza rabbiosa. Tutto è ridotto a contrapposizione personale, mentre i vizi del passato sono rimasti intatti.I nomi dei partiti e delle alleanze sembrano voler offendere l’intelligenza degli elettori. I richiami a idee e culture sono ridotti all’osso.“La libertà è partecipazione” cantava Giorgio Gaber qualche tempo fa. Va bene, la cosa è opinabile. Si potrebbe ad esempio dire “non è vero, la libertà è potersi fare gli affari propri, e basta”. Senza troppe discussioni. Il resto è retorica democratica buona per il demagogo di turno. Eppure nell’Italia dell’ultima decade persino al liberale più classico, anche al conservatore più rigido, o al libertario più paleo, la politica, ogni tanto, manca. La politica intesa appunto come partecipazione, come impegno diretto e trasparente negli affari pubblici della propria comunità. La politica come scelta in comune su questioni che riguardano un’intera collettività, e che possono incidere sul livello di benessere e prosperità futura di ciascuno dei suoi membri, o per le generazioni a venire. Questa concezione della politica, pulita, semplice, pratica, nel nostro paese semplicemente non esiste. La repubblica fondata sul lavoro partorita dalla carta del 1948, oggi meglio nota come prima repubblica, nonostante i suoi numerosi e sgradevoli difetti, aveva avuto quantomeno il merito di porre all’ordine del giorno uno scontro culturale vivace tra una pluralità di visioni del mondo. Convivevano e si scornavano fra loro idee forti sull’organizzazione delle relazioni sociali, sugli ordinamenti economici, sulle libertà civili. Queste idee attiravano interesse, appassionavano anche i semplici, suscitavano riflessioni e dibattiti, mobilitavano le coscienze. Tra gli intellettuali come tra i

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pensionati, tra gli operai come tra i dirigenti. I partiti dominavano la scena in maniera autoritaria e con scelte che, al di là delle contrapposizioni, erano spesso impregnate di compromessi e collusioni, è vero. Ma questi partiti creavano classi dirigenti e quadri di assoluto rilievo, interagivano con le classi intellettuali dell’epoca, stimolavano dibattiti, producevano cultura e controcultura. Costruivano un’ortodossia, ma davano spazio all’eresia. I militanti non necessitavano di incentivi economici per partecipare ad assemblee a sbracciarsi ai comizi, e il rapporto tra dirigenti e la base era diretta, quasi fisica. Il comizio in piazza era il simbolo della necessità di un contatto diretto e crudo con la propria gente. Riti e simboli dei partiti avevano radici profonde, le idee politiche erano quasi religioni civili che chiedevano passione ed impegno, e restituivano emozioni e speranza nel futuro. Era un paese diviso in chiese e classi, centralizzato e censurato, che non affrontava le questioni chiave e si accontentava di crescere per inerzia, ma almeno offriva ogni santo giorno una vita politica densa, passionale e sanguigna. E la gente ne parlava, ne discuteva, ne scriveva. E votava.L’Italia di oggi è invece il regno dell’indifferenza rabbiosa. Tutto è ridotto a contrapposizione personale, mentre i vizi del passato sono rimasti intatti. Oggi bandiere e simboli sono inventati sul momento dagli studi di grafica pubblicitaria. I nomi dei partiti e delle alleanze sembrano voler offendere l’intelligenza degli elettori. I richiami a idee e culture sono ridotti all’osso. I gesti sono studiati a tavolino, monitorati, verificati. Le parole sono valutate con attenzione certosina, e l’impressione è che neanche la punteggiatura sia lasciata al caso. Per riempire un misero teatro di periferia bisogna mobilitare intere sezioni, e le sezioni sono vuote e mute. I congressi non si chiamano più congressi, si chiamano conventions, e hanno i palloncini colorati e le bandiere che sventolano a comando, come gli applausi e le risate alle trasmissioni in tv. E la tv domina incontrastata sulla comunicazione politica: detta i ritmi, guida le presenze, seleziona i problemi, sanziona il guizzo e premia la noia. Da destra a sinistra tutti ben attenti a quel che si dice, come lo si dice, perché lo si dice. E tutti pronti a smentire, correggere o ribadire. Che cosa, però, non si sa. E se lo si capisce, lo si dimentica facilmente. La seconda repubblica si basa sulla personalizzazione spinta della politica, e le categorie classiche di conservazione e progresso hanno perso totalmente significato. Berlusconiani e antiberlusconiani, comunisti e anticomunisti. Fine delle trasmissioni. Di fronte a questo squallore culturale, a questo deserto politico e a questa maleodorante dialettica fatta di intransigenze e moralismi calibrati secondo le convenienze, pretendere pure che i cittadini continuino a mantenere un minimo di tensione ideale e di passione per la vicende pubbliche, è davvero segno di insipienza. Decidere di militare in un partito, di organizzare convegni e seminari di studio su questioni di interesse pubblico, o dare vita a comitati e raccogliere delle firme è oggi in Italia una forma di disperato volontariato. È necessario avere dentro di sè una coscienza politica profondamente radicata, che necessita di mobilitazione e impegno per sentirsi viva. Ma di certo gli stimoli non possono venire dallo sguardo perso nel vuoto, un po’ sprezzante e un po’ lesso, di Prodi, e nemmeno dal sorriso plasticoso e finto di un Berlusconi capace di farsi i suoi interessi spacciandoli per liberalismo reale. Una patina collosa e sporca è rimasta sotto il make up della seconda repubblica, e ci si lordano le mani i pochi che ancora tentano di dare un senso civico alla politica italiana. Per ritrovarsi immersi nel solito acquitrino di sfacciati clientelismi e privilegi intoccabili.Un ritorno alla politica, alla politica come partecipazione e passione, è però ancora possibile. E la speranza riposa forse sulla vitalità diretta, spontanea e necessaria delle comunità locali, delle migliaia di realtà territoriali, dove i legami e le relazioni sono più strette, le solidarietà più naturali, la conoscenza dei problemi più diffusa e il dibattito sui temi della convivenza civile più pratico e, in un certo senso, crudo. La comunità più piccola può ridurre l’intermediazione e sottrarre potere al centro, può trovare nuovi strumenti di democrazia diretta e fornire nuovi spazi di libertà individuale. È forse al livello più decentrato e periferico che si può ancora tentare una ricostruzione della democrazia basata sulla persona, che non si riduca ad un eterno giro di Monopoli tra compagni di merende, tra soldi finti e interessi spacciati per idee.

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i dieci anni di liberal: da giovane ci piaceva di più.

pubblicato su http://www.ilpungolo.com/

Sfogliavo le pagine del Corriere, credo, o forse di un altro giornale, non ricordo. Anzi no, era certamente il Corriere. Tra un morso al cornetto e un sorso di cappuccino mi capita davanti agli occhi una bella paginona dedicata alla festa di Liberal, la rivista diretta da Adornato, un tempo luogo di incontro tra laici e cattolici, oggi rivista berlusconiana infarcita di monsignori, vescovi e cardinali, con Novak, sponsor della guerra preventiva biblicamente giusta, spesso in pole position. Ora, francamente non ricordo con precisione, anche perché ho girato alla svelta per concentrarmi sulla cronaca nera. Ma credo che il paginone fosse per i dieci anni dalla fondazione. Ci ho ripensato qualche minuto dopo, quando mi ero già avviato verso l’ufficio, nel freddo gelido di questi giorni. Ho ripensato, malinconicamente, al Liberal delle origini. Era il 1995. “Ehi, hanno fatto il tuo giornale, lo sai?” mi disse Emiliano, con cui facevo finta di studiare all’Università. Di questo progetto di rivista ne avevo già sentito parlare qualche settimana prima, ma a quel tempo di periodici nuovi di zecca ne uscivano a bizzeffe. Andai all’edicola e presi il primo numero, che custodisco tuttora insieme ad una gran quantità di periodici dell’epoca dentro uno scatolone malconcio in cantina. Li volevo ripescare tutti qualche tempo fa, per farmi quattro risate su quello che si scriveva mentre la prima repubblica era ormai collassata e la seconda già urlava dalla culla tutta la sua fame e la sua sete di potere. Non ricordo

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una sola riga del primo numero di Liberal, ma ho ancora in testa delle schegge di memoria che vagano alla ricerca di un filo conduttore. All’inizio erano in tre, Giorgio Rumi, Galli della Loggia e Adornato, mi pare. Si tentava l’incontro liberale tra cattolici e laici, e del resto i primi cattolici liberali stavano tirando fuori la testa dopo un intero dopoguerra passato a subire il cattolicesimo sociale e i suoi vizi sinistrorsi. Antiseri era il capofila e ficcava Popper da tutte le parti, (e lo fa ancora). Non sono affatto sicuro, ma credo che per l’esordio di Liberal nelle edicole nazionali sia stata organizzata una festa con tanto di balli, e mi pare che furono Galli della Loggia e consorte ad aprire le danze. Ma mi sto appoggiando a ricordi tremuli, può darsi che non vi sia stata alcuna festa e che Galli della Loggia sia scapolo. E però voglio provare a ricordare senza andare a riguardare le cronache dell’epoca. Cosa portò all’allontanamento di Rumi e Galli della Loggia? Quello il grande mistero. Ad un certo punto Liberal subì una chiara involuzione. Fuori i due condirettori e redini in mano all’Adornato che nel frattempo, se la memoria non mi inganna, aveva anche guadagnato una laurea in Filosofia, mettendosi in tasca il pezzetto di carta più desiderato d’Italia. Ma credo che la memoria mi stia facendo confondere le cose, perché è probabile che la festa con tanto di danze, di cui ho parlato prima, sia stata in realtà organizzata proprio per festeggiare la laurea di Adornato e non il primo numero di Liberal. Bah, onestamente non me lo ricordo più. Mi ricordo però gli sfottò de L’Espresso, che ironizzava sui numeri, scarsini, relativi alle vendite di Liberal. Io ero fra quei numeri, e un po’ mi adontavo, lo ammetto. Il problema, però, è che Adornato, un certo giorno della sua vita, si è svegliato e ha detto basta. Si è stufato di starsene all’incrocio tra due culture, quella laica e quella cattolica, e a furia di ripescare i testi sacri del liberalismo, probabilmente mentre sistemava gli ultimi dettagli della tesi di laurea, ha deciso di sceglierne una fra le due, quella cattolica. Avrà letto troppo Lord Acton, avrà fatto indigestione di Sturzo, o si sarà magari intrattenuto troppo a lungo al telefono con il buon Antiseri, liberale popperiano ligio alle indicazioni vaticane in materia di diritti civili. Boh, non so. In ogni caso, ad un certo punto è giunta anche per lui la fatidica folgorazione, sulla via di Arcore però. Da esponente della sinistra laica e liberale, da leader di una formazione sfigata, ma con una sua dignità come Alleanza Democratica (un partito dove sembrava ad un certo punto che potessero militare insieme Segni e Occhetto), Adornato ha subito una sorta di sublimazione, e senza passare per lo stato liquido del perfetto liberale terzista (a la Mieli, per capirci), ha raggiunto lo stato gassoso forzista, abbandonando definitivamente, senza scorie o detriti, lo stato solido, e scomodo, del post-comunista che si atteggia a liberale. Proprio come Peter Parker con la sua amata Mary Jane, ha deciso infine di rivelarsi al suo amato Cavaliere, indossando senza timidezze la tuta azzurra del perfetto cattolico liberale di scuola forzista. È così divenuto uno dei tanti cantori delle gesta berlusconiane, un passetto dietro Guzzanti e Baget Bozzo, ma comunque in buona posizione. Dunque, chi lo accusava di cripto-berlusconismo, in fondo in fondo, non aveva tutti i torti? O forse tutte queste accuse lo hanno spinto all’outing finale, dopo una travagliata presa di coscienza? In ogni caso, le prime avvisaglie avremmo dovuto notarle anche noi comuni lettori di Liberal. E in effetti le avevamo notate, anche se provavamo a chiudere un occhio. Ricordo ad esempio, ma giusto per dirne una, un numero particolarmente cattolico-conservatore con la questione della donazione degli organi, in stile Celentano. Ma in realtà già da tempo i liberal-giacobini di Critica Liberale sfottevano Adornato parlando di Clerical: scrive Clerical, dice Clerical, abbiamo letto su Clerical, e via di seguito. Hai voglia a far finta di niente. Ad un certo punto non l’ho comprato più. Non ricordo neanche più il perché. Così come muoiono certi amori, senza una vera ragione, ma per mille piccole ragioni sedimentate nel tempo. E se fino a qualche anno fa Liberal poteva essere la speranza di un periodico liberale e non schierato da leggersi al weekend con un certo orgoglio e molta curiosità, ora Liberal è solo l’ennesima voce dell’arcipelago cattolico-popolare che fa esplicitamente, orgogliosamente, faziosamente riferimento a Berlusconi e compagnia, al netto di qualche puntatina indipendente in campo libertarian. “Ideazione”, periodico di centrodestra, è più equilibrato nel suo liberalismo conservatore. Ad ogni modo, buon compleanno Liberal. Ma da giovane ci piacevi di più.

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radicali e sinistra: vaghezza e ambiguità pubblicato su http://www.ilpungolo.com/

Non sono maturate le condizioni sufficienti per un'intesa. Con queste scarne parole pare si sia chiusa la questione dell’alleanza alle regionali tra Radicali e Unione. Intendiamoci, abbiamo a che fare con Pannella, tutto dunque è possibile. Lo stesso monarca radicale si è infatti affrettato a confermare, già poche ore dopo la chiusura delle trattative, che il discorso non poteva considerarsi ancora del tutto archiviato. Ma comunque vada a finire, a qualcosa è servito tutto questo estenuante gioco delle parti, ad aiutare la sinistra a conoscersi meglio. Si è infatti consentita l’emersione alla luce del sole dell’anima più profonda e radicata del cosiddetto ulivismo. Che di fatto non corrisponde per niente alla speranza del riformismo. L’ulivismo è una cosa, il riformismo un’altra. Ma è l’ulivismo che permea la coalizione di centrosinistra nei suoi gangli più influenti, radicati ed incisivi, che ne stabilisce gli indirizzi politici di fondo, che giudica e vincola, che classifica, accoglie ed esclude. E se qualcosa non funziona, si appella alla libertà di coscienza. Questo ulivismo si confonde furbescamente con il riformismo, vestendone i panni e comunicando all’esterno della coalizione un’identità che si vorrebbe ampiamente condivisa a sinistra, ma che in realtà è patrimonio di pochi, ma influenti personaggi dell’entourage di Prodi. I pochi legittimati a rappresentare la coalizione davanti a coloro che più pesano nelle scelte decisive, e cioè i movimenti pacifisti, i sindacati, le corporazioni protette, le gerarchie e le

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associazioni cattoliche. Questi pochi sono riusciti a tutelare perfettamente le rendite di posizione di cui godono a sinistra grazie alla sempre più sorprendente inerzia dei Ds. Ora, è del tutto evidente che i pannelliani avevano sin dall’inizio intenzione di sovrapporre il piano delle regionali con quello referendario, lanciando le liste Coscioni e dando da subito visibilità al tema della fecondazione assistita. Ma in una coalizione dominata quantitativamente dalle posizioni laiche, se non laiciste in tema di diritti civili, e con articolazioni politiche interne profondamente differenziate, la posizione catto-ulivista è riuscita lo stesso a far passare l’immagine di una coalizione fin troppo coesa al suo interno per poter accogliere una truppa di liberali d’assalto. Dimostrando in tal modo a tutti (a Fassino in particolare) chi è che comanda a sinistra. Presunte incompatibilità politiche con una coalizione in realtà sbrindellata come e più del centrodestra sono state utilizzate abilmente, nonostante tutti gli sforzi profusi da Marini per dimostrare l’esatto contrario. Lì dove la presunta coesione interna appariva più debole di fronte alle contestazioni più facili, si è lanciato in campo quell’irritante oggetto contundente rappresentato dalla scelta di campo, facendo passare per virtuoso un argomento, come l’antiberlusconismo a priori, che è pura intransigenza morale distillata, così comodo da consentire a persone del tutto differenti di simulare amore e accordo reciproco. Si è così evitato che emergesse nell’alleanza di sinistra un forte soggetto liberale, con una propria forza contrattuale, una storia di libertà e, soprattutto, un rapporto privilegiato con i Ds. Per questo i Ds sono i veri sconfitti di tutta questa faccenda. Portano voti, forniscono classe dirigente, quadri e cultura politica, ma subiscono la visibilità, il controllo sociale e la capacità di mobilitazione del cattolicesimo militante, del sindacalismo e dei cosiddetti movimenti. Proprio ai Ds spetta ora una prova di reazione rapida. Se è vero che il riformismo non coincide affatto con l’ulivismo, ed anzi entra spesso in contraddizione con esso, è necessario che proprio il soggetto che più fatica ad assumere un’identità chiara provi a accettare la sfida radicale, provando persino a mettere a rischio la stessa Federazione, in fondo così artificiale e culturalmente gracile. Il riformismo, nella sua inaccettabile e tremenda carica di vaghezza e ambiguità, continua a non tracciare i propri confini per paura di perdere contatto con i movimenti a sinistra e i cattolici a destra. Sarebbe invece auspicabile, perché in futuro si possa avere anche in Italia una sinistra di socialismo liberale, che non si lasci al correntone la resistenza alla Federazione. Possono esserci ragioni moderne per sottolineare che il riformismo, se è liberale e laico, non corrisponde di certo a questo miscuglio di antiberlusconismo e clericalismo che trova nel personalismo solidale, tanto sbandierato da Parisi e prodiani sparsi, la sua presunta declinazione filosofica. Blair si definisce in Gran Bretagna un radicale di centro, e il neolaburismo ha saputo affermarsi superando il socialismo statalista e facendosi scavalcare a sinistra dai liberaldemocratici. Finché i Ds non riescono a ritrovare una proprio autonomo percorso di sviluppo dell’idea di socialismo liberale e libertario, finché non prenderanno atto che esistono molti più punti di contatti con i radicali che non con Mastella, Cossutta, Bertinotti e Castagnetti, non riusciranno ad uscire dalla loro palude. Il riscatto è possibile, ad esempio cominciando ad aiutare autonomamente le liste Radicali-Coscioni, e magari riflettendo sull’opportunità di trasformarsi in una specie di partito radicale di massa. Lasciando la Federazione appiccicata ai suoi manifesti color arancio scialbo.

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dove andranno i radicali? pubblicato su www.ilpungolo.com Con la rosa nel pugno. È forse questo il simbolo che più di ogni altro illude ancora quella frazione probabilmente minoritaria, ma neanche tanto, dei radicali italiani che spera in un accordo a sinistra dell’arcipelago radicale. Ed è il simbolo che questa stessa minoranza amerebbe forse rivedere sulle schede elettorali per poterci apporre, con mano tremula per l’emozione, la croce in grigio delle matite nazionali. Impossibile? Forse no. Diciamo improbabile. In molti tra i radicali iscritti, militanti o simpatizzanti sperano da tempo nella possibilità di poter inviare nelle istituzioni locali dei rappresentanti della tradizione italiana laica, autonomista e liberista. Antimoderato per eccellenza e per questo, senza tema di contraddizione, antigiacobino, il partito radicale è assente, ormai da tempo dalla vita istituzionale del paese. L’appello di Pannella e soci per un accordo sia per le regionali che per le politiche del 2006 ha naturalmente il sapore un po’ asprigno e fastidioso della periodica manovra solo tesa ad un recupero di visibilità mediatica. E però qualche briciola di speranza che vi sia anche una sola, remota disponibilità reale ad accordi di “ospitalità”, come li ha chiamati Pannella, rimane tra le righe delle agenzie quotidiane che scorrono sul blog dedicato alla questione. Disponibilità dei radicali, s’intende, ché da entrambe le parti una manciata di voti in più non farebbe certo schifo. Ma la vera novità in tutta questa manfrina, tra ipocrisie e dissimulazioni, è lo spiraglio che si è aperto sul lato sinistro dello schieramento. Qualcosa in Europa si era già mosso dopo le elezioni del 2004 per il parlamento continentale, con la nascita dell’Alde che unisce in un solo gruppo i liberali di Watson con i democratici di Rutelli e Bayrou. In questo calderone sono infatti finiti anche i radicali. Si sa inoltre che alcuni esponenti liberali di Margherita e Ds, per quanto minoranza nelle rispettive formazioni, sono da sempre in attività per un coinvolgimento dei radicali nella coalizione. Natale D’amico è la testa di ponte di questo progetto mai formalizzato ma sempre latente, e confermato dal suo recente intervento su Il Riformista a favore di un’alleanza a sinistra. Curiosamente a questo intervento è seguito un appello esplicito su L’Unità di Colombo, in nome dei diritti civili conculcati negli ultimi anni da governo e maggioranza. Sono seguite dichiarazioni interessanti, come quelle di D’Alema, improntate ad una apertura pragmatica, senza illusioni, regione per regione. Il problema è che tutti questi elementi di possibile raccordo tra le due parti paiono assai difficili, poiché fondati, secondo i casi, su simpatie personali, necessità organizzative o

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convergenze occasionali. E anche perché se i radicali sono davvero antimoderati e antigiacobini nello spirito e nei programmi di riforma, è anche vero che le componenti più in vista della coalizione sono, per l’appunto, i moderati di Marini e Castagnetti e i giacobini del correntone Ds e di Rifondazione. Sono minoranze, ma minoranze attive e ben visibili. Colpa della mancanza di succo nel riformismo ulivista, maggioritario ma privo di coraggio. Ma tant’è. E però le tattiche adottate tra i radicali che vorrebbero l’unione con la destra, francamente, fanno ancora più acqua e tendono anche a dare l’orticaria. Taradash ha sottolineato in un intervento del 26 gennaio su Il Giornale come le differenze programmatiche siano più estreme con l’Ulivo che non con il centrodestra, dando in tal modo un supporto alla tesi di Della Vedova (un futuro da forzista?). Quest’ultimo ha infatti sottolineato più volte la necessità di un accordo con Berlusconi per la netta convergenza sui temi economici e di politica estera con la destra, reclamando l’opportunità di derubricare le questioni legate alle libertà civili, lasciandole ammuffire dentro le coscienze di ognuno. Per quanto monco, a destra, e solo a destra, ci sarebbe dunque lo spazio per un accordo altrimenti impossibile a sinistra, dove alloggerebbero invece tutti gli oppositori naturali alle politiche radicali. Sarà vero? A ben guardare, sulle libertà civili esistono quantomeno delle possibilità di iniziative congiunte insieme a buona parte della sinistra, e l’argomento non è tabù. Ad esempio, i referendum parziali sulla fecondazione ammessi dalla Consulta sono stati presentati da un comitato composto in gran parte da parlamentari dell’opposizione, con l’appoggio esplicito dei Ds e la firma di Fassino, mentre molti prodiani, a cominciare da Parisi, hanno sulle stesse questioni posizioni decisamente più laiche di buona parte dei forzisti cattolici e dell’Udc. Ed è stato il governo Berlusconi a contestare e impugnare lo statuto della Toscana in materia di coppie di fatto, non una lobby integralista di passaggio. Ma proviamo ad affrontare il tema forte dei radicali che guardano a destra a priori: l’economia. Dire che questo governo abbia atteggiamenti liberali, alla luce di quanto visto finora, pare una forzatura non da poco. Cosa ha fatto questo governo per liberalizzare gli ordini professionali, o il settore dell’energia? Cosa ha fatto questo governo sul fronte delle privatizzazioni rispetto ai governi dell’Ulivo? E sul mercato del lavoro con la legge Biagi, per quanto vi siano stati dei passi in avanti, resta, come sottolineato dal commissario per gli Affari Economici Almunia solo pochi giorni fa, un livello di frammentazione e iniquità di trattamento che ha maggiori rapporti con la precarietà che non con la flessibilità. Per non parlare dei conti pubblici: una tantum a iosa, condoni edilizi senza freni morali, riforma pensionistica al palo, debito pubblico che non scende abbastanza e disavanzo che sale a sufficienza per legittimare Berlusconi a chiedere una revisione del Patto contestata da Commissione e Bce. E il decreto salva-calcio? E il falso in bilancio? E le leggi ad personam contestate anche da Feltri su Libero? Anche volendo chiudere un occhio sul proibizionismo dilagante in materia di droghe leggere e fumo; anche volendo chiudere l’altro occhio sul fatto che grazie a questa maggioranza è stata promulgata la legge 40 sulla fecondazione assistita e non si sono potuti abbreviare i tempi della separazione da tre ad un anno (mi pare, se non ricordo male, con relativa bocciatura accolta con un lungo applauso dei deputati del centrodestra, in piedi per l’occasione); anche riuscendo a chiudere entrambi gli occhi di fronte a queste sconcezze illiberali, se si spostano gli sguardi verso l’economia più spicciola, c’è solo da chiedersi cosa vi sia di liberale nella destra attuale. Ora, che il centrosinistra abbia problemi altrettanto complessi su tutti questi fronti, non v’è dubbio alcuno. Ma che i radicali non possano proprio per questo contribuire a dare un’iniezione di liberalismo alla futura alleanza post-ulivista in nome di un supposto maggior tasso di liberalismo a destra pare davvero pretestuoso. O forse surreale.

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i radicali furenti pubblicato su http://www.ilpungolo.com/ La Corte costituzionale ha dichiarato ammissibili quattro dei cinque referendum sulla procreazione assistita. Il quesito che proponeva l’abrogazione totale della legge, di marca radicale, è stato rispedito al mittente. I referendum prevedono quindi solo l'abrogazione parziale del provvedimento, la famigerata legge 40, su questioni che vanno dai limiti alla ricerca sugli embrioni al divieto di fecondazione eterologa. Il governo Berlusconi aveva presentato ricorso alla Corte costituzionale contro i cinque referendum abrogativi, ed evidentemente un successo minimo è riuscito ad ottenerlo, e proprio contro quei radicali che curiosamente insistono nel voler cercare una piattaforma comune per le prossime regionali con una Cdl il cui esecutivo si è invece dimostrato assolutamente fazioso proprio su una vicenda tanto delicata e rilevante per la politica radicale. Luca Coscioni e Marco Cappato hanno subito denunciato il carattere illiberale delle scelte della Consulta: “La Corte Anticostituzionale italiana ha emesso una volta di più una sentenza eversiva della legalità costituzionale, ha deciso di promuovere ulteriormente il proprio potere politico e partitocratico sganciandosi dalla lettera della Costituzione e rafforzando il margine di arbitrarietà delle proprie decisioni”. Venerdì, sabato e domenica 21-22-23 gennaio a Milano, presso l’Hotel Leonardo da Vinci, si svolgerà il terzo Congresso dell’Associazione Luca Coscioni. Saranno certamente scintille e non mancheranno gli appelli per un impegno diffuso per dare visibilità e promuovere una discussione pubblica franca e trasparente sui quesiti sopravvissuti alla falcidia antidemocratica dei giudici costituzionali. Il parlamento potrebbe ora disinnescare i referendum, modificando la legge 40. Ma è difficile che le modifiche eventuali possano andare in una direzione accettabile sotto il profilo liberale, soprattutto ora che il governo si è allineato alle scelte del potere legislativo. Il governo Berlusconi, infatti, presentando ricorso alla Corte Costituzionale contro i cinque quesiti, ha messo esplicitamente la propria firma su una legge restrittiva, lasciando emergere con

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chiarezza la propria natura confessionale su un tema così delicato. Scrive acutamente Ostellino sul Corriere del 13 gennaio: "In realtà, il quesito sul quale il Paese potrebbe rischiare di spaccarsi non è quello strettamente referendario ("sì" o "no" all'abrogazione della legge), ma un altro e di ben più pregnante importanza: se, in un sistema di democrazia liberale, sia legittimo approvare (o respingere) una legge destinata a valere per tutti sulla base unicamente di ragioni religiose valide solo per una parte". Lo stesso Ostellino denuncia poi i pericoli del laicismo giacobino ed estremista, che tutto semplifica ed appiattisce, auspicando che il parlamento si affretti a darci un'altra legge, nel nome dell'interesse generale e di una non meglio precisata razionalità pubblica. E però la prima osservazione cozza in modo assai stridente con l'auspicio finale. È infatti del tutto evidente che su tali temi, che investono direttamente la coscienza morale di ciascuno di noi, e che dovrebbero rimanere di dominio esclusivamente individuale, il parlamento attuale, per come è strutturato e rappresentato, non può che legiferare in una direzione, in qualche modo, confessionale e ultraconservatrice. Ora, è assolutamente indispensabile respingere nel XXI secolo le forme più deteriori del pensiero laico, e cioé il laicismo giacobino, estremista, razionalista e in un certo modo costruttivista in materia morale in modo analogo a come Hayek intendeva il costruttivismo in materia economica. Queste forme di laicismo alle volte spingono con arroganza verso esagerazioni che destrutturano, o mettono pesantemente e gratuitamente in crisi, le fondamenta consuetudinarie e le tradizioni più diffuse su cui la società civile vive e si evolve. Ma una legge che altrettanto gratuitamente restringe nella sostanza la libertà individuale sulla base di motivazioni morali condivise solo da una parte seppur maggioritaria del paese, è infinitamente peggiore di una legge che invece allarga le libertà civili incontrando però la mera riprovazione morale di una parte anche maggioritaria del paese. Insomma, meglio recare una qualche offesa al giudizio morale, comunque discutibile, di una parte dei cittadini per lasciare libertà alle minoranze dissenzienti, piuttosto che restringere quelle libertà per rispettare lo stesso giudizio. Quest'ultimo tipo di legge lascerebbe convivere entrambe le posizioni morali, anche se in conflitto aperto, senza dare però forza di legge e relativa inviolabilità ad una di esse in particolare, escludendo la legittimità dell'altra. In assenza di una simile ragionevolezza pubblica da parte delle nostre istituzioni, meglio nessuna legge. I vuoti legislativi alle volte hanno maggiore spirito liberale rispetto a certe ansie legiferanti che spesso si risolvono in pure e semplici limitazioni del libertà personale.

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june arunga e la povertà africana pubblicato su http://www.ilpungolo.com/ C’è una bella ragazza nera, di soli 23 anni, che gironzola per l’Europa e il resto del mondo per portare un messaggio semplice e chiaro alle orecchie occidentali tappate di cerume no-global. È June Arunga (nella foto), è africana e divide le sue giornate impegnandosi in Kenya nelle attività della fondazione Inter-Region Economic Network, ma anche all'International Policy Network di Londra, mentre tra una pausa e l’altra studia legge all'università di Buckingham in Gran Bretagna. June Arunga si batte strenuamente contro i tristi luoghi comuni del pensiero unico terzomondista imperante sul vecchio e sul nuovo continente, perché spera che l’Africa ritrovi la dignità e l’orgoglio per risollevarsi da sola e non si rassegni a vivere dei sussidi periodici elargiti dal mondo occidentale, che agendo in tal modo soddisfa i suoi problemi di coscienza, ma condanna il continente nero alla schiavitù perenne. June Aringa, nei suoi studi internazionali, ha assimilato le lezioni del liberalismo, e ora vuole vederle applicate alla sua terra. Qual è dunque il problema dell'Africa? Il deserto che avanza? Le malattie? La globalizzazione infame? Il neoschiavismo delle multinazionali? Nient’affatto, replica la nostra, questi sono solo gli effetti più evidenti di un altro problema che è alla radice della miseria africana e di tutto il resto, è il problema della cultura africana. Perché l’Africa possa liberarsi delle sue miserie e possa divenire creatrice ed esportatrice di ricchezza è necessaria la diffusione e il consolidamento dei principi base del rispetto dell'individuo e dei suoi diritti fondamentali, a cominciare dalla proprietà privata. Altro che elemosine periodiche, frutto della nostra comoda pietà, miope e senza futuro. La questione africana parte dalle consuetudini e dalle tradizioni locali, prive di sensibilità individualistiche, e giunge alla violenza autoritaria dei governi, sempre tirannici e sempre al servizio dei potenti di turno. È lì quindi che bisogna agire, trasformando progressivamente la cultura africana in senso più liberale.No money, just capital, così si potrebbe riassumere il suo messaggio: è necessario un cambiamento culturale che faciliti la formazione di capitale, umano e materiale, ed è quindi vitale un'iniezione non di liquidità, ma di idee del vecchio continente liberale, laico e giudaico-cristiano, che fonda lo sviluppo sul rispetto della persona e delle sue proprietà, materiali e intellettuali. In Africa ci vuole una svolta umanista più che umanitaria. I no global sbagliano su tutta la linea, la globalizzazione - intesa come apertura delle frontiere e eliminazione di dazi, contingentamenti e qualunque altra forma di protezionismo da parte dei paesi occidentali - è assolutamente necessaria all’Africa, almeno quanto è poco fruttuoso continuare a sperare su piccoli progetti di interscambio non basati sul mercato, come il commercio equo e solidale, al cui riguardo la Aringa sottolinea, in un’intervista a Tempi, che ”… se gli artigiani in Kenya o in Uganda fanno borse o scarpe brutte, con materiali peggiori o con una lavorazione di bassa qualità, perché stupirsi se il mercato preferisce le altre? L’Africa potrà fare davvero concorrenza ai prodotti occidentali quando offrirà prodotti competitivi. Ma per questo ci servono conoscenze tecniche”. L’Istituto Bruno Leoni l’ha invitata a Milano alcuni giorni fa anche per presentare il suo recente documentario, “Il sentiero del Diavolo”: partendo dall’Egitto è arrivata in Sud Africa per testimoniare la grande assente sul continente africano, l’idea di libertà. E per ricordare a

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chi lo sperimenta ogni giorno senza averne coscienza che, invertendo il titolo di un celebre saggio dell’economista indiano Sen, la libertà è sviluppo. All’Università di Pavia c’è una laurea specialistica in Studi Afro-asiatici; un titolo esotico e fascinoso, non c’è che dire, ma chissà se conoscono June Aringa e discutono di politiche sociali liberali. Vogliamo scommettere?

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ripensare salvemini pubblicato su http://www.ilpungolo.com/

Che cosa significa essere di sinistra oggi in Italia? A cosa pensa un marchigiano, o un calabrese, o magari un lombardo di sinistra nel ventunesimo secolo? Cosa leggono i socialisti italiani? Che libri hanno i diessini di Fassino sui loro comodini? La sinistra che naviga a vista, senza riferimenti, senza una meta, priva di una matrice culturale chiara e distinta, rischia di divenire definitivamente incapace di una proposta politica riconoscibile e dai contenuti forti. In fondo, se ciò che resta del vecchio Pci si vede costretto a dare sangue elettorale a un leader come Prodi, che di fatto non gli appartiene neanche antropologicamente, fino a far impallidire il proprio profilo ideologico, un motivo c’è. Ed è nel fatto brutale che la sinistra italiana, impaludatasi nel moderatismo più bolso e nel sinistrume più insulso, non è ancora riuscita a ricostruirsi un’identità post-marxista. La cosa sconcertante di tutta questa faccenda è però un’altra, e cioè che tale identità non solo esiste già, ma è quanto di più moderno si possa ancora trovare nel mondo delle idee della sinistra democratica. E non è necessario andare a ripescare nomi sofisticati oltreoceano, rovistando goffamente tra la dottissima e fumosa produzione filosofica del pensiero liberal americano, e perdersi così, inevitabilmente, tra l’ultima svolta realista di Walzer, o cercare faticosamente di leggere tra le righe di un Rawls d’annata. La sinistra in Italia potrebbe tranquillamente vivere di rendita se solo sapesse volgere il capo verso la sua stessa storia, che non è fatta per fortuna solo di Gramsci, Togliatti e Berlinguer, che niente avevano da dire sulla modernità. Sarebbe sufficiente, ad esempio, tornare a Molfetta, dove nacque Gaetano Salvemini. Il pensiero politico salveminiano, se ripensato adeguatamente e rimodellato per riadattarlo ai nostri tempi, sarebbe sufficiente alla sinistra per liberarsi finalmente dall’ossessione del cavaliere nero, che la condanna a giocare solo di rimessa, e proporre invece una solida e coerente idea del mondo ai suoi concittadini. La modernità e l’attualità del pensiero di Salvemini è tutta riassumibile in tre principi cardine dell’azione intellettuale e politica del pugliese: liberoscambismo in economia contro ogni protezionismo e contro ogni privilegio parassitario, sindacale o padronale; decentramento e potenziamento delle autonomie locali, per esaltare l’autogoverno in perfetta aderenza agli insegnamenti di Cattaneo, che Salvemini riconobbe come suo maestro; federalismo europeo nello spirito di Mazzini e del rispetto delle identità nazionali contro ogni imperialismo e contro ogni tentazione colonialista. Salvemini è stato infatti un interventista democratico durante la Grande Guerra, contro il facile pacifismo senza se e senza ma del suo tempo, ma anche contro l’interventismo nazionalista e violento delle destre dell’epoca. Salvemini è stato capace di scandalizzare i socialisti ortodossi propugnando un liberoscambismo il cui scopo era il contrasto duro con le posizioni di rendita dell’industrialismo potente e protetto del Nord, che controllava il Parlamento e aveva creato un’oligarchia operaia padana, le cui rivendicazioni sindacali, particolaristiche e miopi, offuscavano le esigenze delle masse rurali del Sud. Il suo meridionalismo appassionato era antipaternalista e basato sulla fiducia nell’autogoverno e nella piccola proprietà contadina. Armato del suo liberismo pragmatico, che lo accomunava a radicali come De Viti De Marco e cattolici liberali come Einaudi, si scagliava contro le condizioni di facile parassitismo in cui vivevano i latifondisti meridionali grazie ai dazi sul grano. Quello di Salvemini era il coraggio di un liberalismo necessario ad un’Italia bloccata e immiserita dagli interessi corporativi, capitalistici e sindacali, e da uno stato centralista: cosa c’è di più attuale nell’Italia imballata di oggi? Il suo spirito polemico era la più moderna declinazione illuminista e progressista del liberalismo italiano, e rappresentava il più sanguigno e vivace impulso all’azione per socialisti della libertà come Carlo Rosselli ed Ernesto Rossi. Salvemini si definiva un socialdemocratico d’altri tempi, ma era un socialista libertario dalle idee avanzatissime, salvo qualche caduta in tema di socializzazione delle grandi industrie monopolistiche. La sua fase migliore è stata probabilmente quella de L’Unità, rivista da lui stesso diretta tra il 1911 e il 1920. Durante quella decade si era trasformato in un democratico radicale che aveva fatto del “concretismo”, dell’empirismo, il suo metodo di riflessione e di azione politica. Aveva coniugato la sensibilità per la povera gente, la politica dei sentimenti popolari, che conosceva bene essendo nato in una famiglia di nove fratelli, con gli insegnamenti pratici e federalistici di Cattaneo, con lo spirito patriottico di Mazzini e con gli argomenti economici liberal-radicali di De Viti De Marco. Antifascista senza tentennamenti e anticomunista in nome della libertà, Salvemini è stato federalista prima dei leghisti, liberista prima di Forza Italia e riformista prima degli ulivisti. Una sinistra salveminiana sarebbe una sinistra all’avanguardia anche nel 21° secolo. Ne avremo mai una in Italia?

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il nuovo pli su un triciclo pubblicato su www.ilpungolo.com Febbraio 1994: il Pli, quello vero, quello che era stato di Croce e Malagodi, di Einaudi e Valitutti, di Bozzi, di Sogno e Lucifero, proprio quel Pli, guidato da neanche un annetto da Raffaele Costa, chiuse ufficialmente i battenti. Era il ventiduesimo congresso e nel frattempo, altrove, e con altro spirito, nasceva il cosiddetto partito liberale di massa, Forza Italia per le schede elettorali. Il Pli era nato durante il primo Congresso Nazionale Liberale Democratico svoltosi l’8, 9 e 10 ottobre del 1922 a Bologna, per poi essere sciolto dal fascismo nel 1925. Era nato per affrontare il proporzionale dell’epoca con un’associazione che avesse almeno la parvenza di un partito. Stefano De Luca ha annunciato sabato 4 dicembre 2004 di averlo ricostituito e gentilmente restituito ai liberali italiani, probabilmente per affrontare il proporzionale prossimo venturo, in preparazione nel fantasmagorico cantiere berlusconiano delle riforme elettorali per il 2006. O magari anche solo per affrontare le tante soglie di sbarramento previste dalle leggi elettorali per le prossime regionali. Ma il congresso della presunta rinascita del Pli è per ora solo il terzo congresso del Pl, ora ridenominato Pli, e non il ventitreesimo congresso del vecchio Pli, che comunque ai veri liberali manca assai poco, dato che il suo buon contributo negli anni ‘80 allo sfaldamento delle finanze pubbliche lo diede per certo, mentre Zanone si concentrava pensoso sui testi di Darhendorf e Altissimo si assopiva nudo sotto l’ennesima lampada. A proposito, proprio Altissimo si è fatto rivedere; commosso ed emozionato, nella due giorni del Pl che si trasformava in Pli, ha anche trovato il tempo per fare una visita di cortesia a Berlusconi, ché non si sa mai. Mentre Zanone continua a sfornare associazioni: l’ultima si chiama, per l’appunto, Associazione per la Democrazia Liberale; non è ancora nota la sua funzione. Comunque al congresso del nuovo Pli di gente ce n’era, almeno per gli standard di un’assemblea liberale: 400/500 partecipanti, anche se poi al voto avevano diritto circa duecento delegati. Gli ospiti non sono mancati: Tremonti su tutti, che se l’è presa col maggioritario, che una volta era la bandiera dei liberali, ora un po’ meno. È stato ricordato Malagodi, che forse meriterebbe ben altri riguardi che non una tavola rotonda al terzo congresso del Pl, ora Pli. Gli interventi non hanno brillato per acume o trasgressione, tranne quello del delegato Luca Tentellini, con un piede nel Pl e l’altro nei radicali pannelliani, che si è sentito tradito dai compagni radicali inesistenti al congresso. Tentellini è stato forse l’unico ad infiammare la platea (che non gli era favorevole) ricordando alcuni tratti illiberali di questo governo, citando a caso la bocciatura del divorzio breve e la legge sulla fecondazione assistita, e dicendosi stufo di votare Forza Italia turandosi il naso, dando per scontato (giustamente) che la gran parte dei convenuti avesse una certa predilezione per le truppe berlusconiane. Lo stesso Tentellini se l’è poi presa con la rinata Gioventù liberale, sottolineandone il carattere di puro ghetto, e rilanciando l’effettiva partecipazione dei giovani agli organi del partito. I congressisti non hanno esattamente gradito il tono effervescente e poco consono al clima festoso; a questo Pli rinascente un Tentellini qualunque, che va a rompere le scatole giusto il giorno della resurrezione liberale, quando si dovrebbe restare tutti uniti, senza dubbi e incertezze, è risultato da subito indigeribile. E così il nostro si è giocato il posto nell’abnorme Consiglio Nazionale, ben 130 membri, in un partito che conta un numero di tesserati non molto superiore. La linea programmatica di De Luca è stata poi approvata senza troppe lentezze organizzative, e prevede la partecipazione alla Casa Laica, insieme a Repubblicani e Socialisti di De Michelis, mentre sul fronte nazionale non è stata messa in discussione una collocazione, per quanto critica, nell’ambito, o ai confini, in prossimità o comunque nelle amichevoli vicinanze della Cdl. Del resto a questa platea di liberali il forzista rinato Tremonti, neocolbertista, proporzionalista e anticinese a la Calderoli, è piaciuto assai, visto che gli applausi convinti al suo intervento non sono mancati, mentre hanno brillato per la loro assenza non solo i radicali pannelliani, ma anche altre organizzazioni, associazioni e individualità realmente indipendenti che potessero fornire un contributo serio di democrazia interna. Il Pli risorto ha i classici fichi secchi in cassa, e sembra che per ora dipenda strettamente dalle gentili attenzioni finanziarie di De Michelis, mentre la sua risonanza mediatica è semplicemente nulla. Il Pli si avvia a creare un triciclo con repubblicani e socialisti che, così congeniato, ricorda la brutta copia del trifoglio di Cossiga, solo per mercanteggiare qualche posticino di sottogoverno dal Cavaliere. Capezzone ha già emesso la sua sentenza sui laici che Diaconale sta cercando disperatamente di tenere insieme: li chiama i nani del giardino di Arcore. Curiosamente, l’unica fronda interna nel nuovo Pli è rappresentata da Pagliuzzi della Destra Liberale. Pur essendo entrata nel Consiglio Nazionale del Pli di De Luca, la Destra Liberale, fuoriuscita da An, è l’unica veramente interessata a garantire un terzismo liberale senza altri aggettivi, fuori da qualunque logica di schieramento precostituito. E poi ci sono i liberali che ad accontentarsi di questo nuovo Pli non ci stanno. Non ci stanno quelli che si preparano agli Stati Generali Liberali per febbraio 2005. Non ci stanno i liberali di Raffaello Morelli, che fino a qualche settimana fa amoreggiava con Sgarbi, domani chissà. Ma soprattutto non ci stanno i liberali rassegnati da tempo a turarsi il naso e votare Margherita o Forza Italia, o non votare affatto. A la Tentellini, insomma. Pare che siano tanti. Tutti li cercano ma, almeno negli organigrammi, nessuno li vuole.

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Il paese dei privilegi antichi Pubblicato su http://www.ilpungolo.com/

Più un arcipelago di isolotti fortificati che una società, quella italiana. Un’economia segmentata, frammentata, un arcobaleno di privilegi sparsi, dove se ci si trova sull’isolotto sbagliato e si ha il bisogno di acquistare qualcosa, un prodotto, un servizio, una zucchina, un litro di benzina, una polizza assicurativa, un passaggio in tassì alla stazione o la firma di un notaio, si vive frequentemente la frustrante sensazione che il potere d’acquisto sia solo un concetto metafisico e il dominio del consumatore un’irritante utopia. Quella che dovrebbe assomigliare ad un’economia libera ha invece l’aspetto variegato e cristallizzato di una rete di categorie a compartimenti stagni dove i privilegi sono assegnati in via definitiva e le ingiustizie, in termini di prezzi e qualità dell’offerta, sono il destino ineluttabile di chi le subisce. In Italia si respinge da sempre qualunque idea di convivenza economica e civile basata sul movimento, sulla concorrenza, sull’innovazione e la mobilità trasversale, e si interpreta qualunque concetto di riforma come una fotografia di ciò che esiste, o al limite, giusto per cambiare il look, una passata di gel sui capelli. E se il gel proprio non basta, che la riforma sia pure l’amaro calice che deve sorbirsi l’ultimo arrivato, ché i diritti acquisiti sono, per l’appunto, acquisiti e guai a chi li tocca. La statica prevale sulla dinamica, e lo spazio per il cambiamento, per l’iniziativa e il rischio, per il successo e il fallimento, è talmente ristretto che chi decide di vivere diversamente la sua vita, provando a mettersi in gioco, scommette contro un sentimento comune. E, soprattutto, mette a dura prova la pazienza di una classe politica che sa ben valutare i vantaggi derivanti dal curare i rapporti con ciascuna corporazione, sulla base di prebende e tutele, e non ci pensa nemmeno a dover convincere ogni singolo cittadino della necessità vitale di un mutamento strategico, da sempre reclamato, da sempre impedito. Non c’è verso, ogni volta che si tenta una deviazione dal solito tragitto neocorporativo, si alzano immediatamente i lai di chi si sente assediato dalla precarietà incombente. Al minimo segnale di riforma dal pallido spirito liberaleggiante da subito, ovunque ci si giri, è possibile ascoltare qualcuno che urla lamentoso il suo allarme disperato contro il continuo tentativo insidioso, volgare, antisociale, anticristiano, antisindacale, criptofascista e pure liberista, magari un po’ edonista, di mettere a repentaglio la base essenziale della pacifica convivenza italiana, e cioè l’esclusione pregiudiziale del conflitto dalla vita sociale. Il conflitto in economia si traduce in una parola semplice e per nulla minacciosa: competizione. Per carità, non garantisce miracoli, ma quantomeno obbliga i partecipanti ad impegnarsi per migliorare ciò che si offre al prossimo in cambio di qualcosa (denaro, di solito). Ma la competizione non è parte della cultura italiana, anzi, è un’idea considerata il fulcro essenziale del misticismo neoliberista, una sconcezza morale che induce il prossimo a sprecare le proprie energie per gareggiare con chi gli sta di fianco, anziché più cattocomunisticamente solidarizzare con lui e spartirsi il bottino della pigrizia protetta. Il risultato di questa repulsione sociale per un’organizzazione più vitale degli affari privati è la cristallizzazione delle condizioni personali e sociali, la mortificazione sistematica della ricerca del nuovo, la mancanza di sensibilità per la creatività imprenditoriale e, volendo badare al sodo, prezzi decisamente troppo alti in troppi comparti dell’attività economica. La lotta delle idee, dei prodotti, dei servizi, dei gusti e delle preferenze è ciò che anima e rende realmente viva la società moderna. L’Italia pare invece strutturata esattamente per ammorbidire, calmierare, soffocare, imbrigliare o, se possibile, sopprimere del tutto qualunque forma, anche blanda, di competizione. Del resto, anche quando è finalmente giunta l’era delle privatizzazioni nel nostro paese, di rado si è assistito a liberalizzazioni del settore di riferimento. Si è passati frequentemente e malinconicamente dai monopoli pubblici ai monopoli privati, nel nome dell’importanza strategica di talune attività, dell’efficienza, del welfare, dei conti pubblici, del pericolo dell’invasione straniera, dell’ottimo paretiano e altro ancora. Più in generale, esiste una facile retorica nazionale della protezione delle categorie lavorative e professionali e dei rispettivi centri di potere, siano essi costituiti da imprenditori, managers, artigiani, tassisti, commercianti, notai, farmacisti, operai qualificati o insegnanti; è una retorica che rovescia da sempre la logica della crescita economica e del benessere pur di conservare se stessa, ritenendo la qualità e i prezzi dell’offerta di beni e sevizi strettamente legata all’onestà, alla buona volontà e alla buona fede di chi produce e commercializza. Seguendo i suoi contorsionismi filosofici, questa retorica raccomanda dunque di evitare che i signori produttori di qualunque servizio, galantuomini come sono, siano disturbati in continuazione nella loro benevola attività professionale dalla sporca necessità di confrontarsi con altri soggetti pronti ad offrire al pubblico le loro stesse cose, magari a prezzi inferiori o con qualità superiori. Qualunque azione volta a liberalizzare viene pertanto associata non ad un (giusto) attacco ai privilegi della singola corporazione, del piccolo oligopolio protetto, ma viene invece presentata pubblicamente come un feroce e vile assalto al consumatore finale, all’utente, a chi domanda un servizio di qualunque tipo. Sono questi ultimi, secondo i corporativisti italici, il vero bersaglio della liberalizzazione, mica loro. Sono i consumatori, gli utenti, poverini! che da soli non sanno scegliere, non sanno valutare, non riuscirebbero mai e poi mai a confrontare, a scartare, a selezionare. Vanno aiutati, gli sciocchini, e a questo ci pensano loro. Se si liberalizza, sai che confusione per i poveretti! Se poi proprio il ragionamento non convince gli infedeli, si può sempre ricordare al popolo bue che la liberalizzazione è un passo verso il baratro della degenerazione liberistica, dell’impoverimento dell’offerta produttiva, della dequalificazione professionale, del caos cosmico, della confusione morale, probabilmente anche del buco nell’ozono. E allora? Allora autorizzazioni, regolamentazioni, vigilanze, licenze, dazi, barriere, statuti, monopoli, concertazioni, concorsi, abilitazioni e nazionalismi sparsi. E quando qualche liberalizzazione riesce a passare, spesso anziché aprire la società alla competizione, mantiene i privilegi antichi lasciando sulle spalle degli ultimi arrivati il peso della liberalizzazione, che così accentua la segmentazione sociale e precarizza di fatto i pochi costretti a vivere una vita flessibile in mezzo ad una folta schiera di privilegiati a vita. E poi dicono che risparmiare diventa sempre più difficile. Chiedetelo ai notai.

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recuperare il senso dello stato. minimo. pubblicato su http://www.ilpungolo.com/ La moderna idea di società laica e democratica ha forse smarrito le sue radici liberali? Probabilmente sì. Il laicismo del novecento ha di fatto invertito i piani delle priorità, e tutto preso dalla smania di sterilizzare la società civile da perniciose invadenze spirituali e ideologiche, ha smarrito nel frattempo la necessità di sterilizzare lo stato e i suoi poteri da quelle stesse invadenze. Con questo laicismo la democrazia ha smesso i panni di mera procedura decisionale vincolata da una costituzione e si è gradualmente fatta contenuto ideale di particolari principi politici ispirati ad un concetto di neutralità statale pericolosamente vago. È un’etica comune elaborata a tavolino che dovrebbe ispirare l’azione della classe politica. Ma questo laicismo, essendo una teoria di gestione e allargamento e non di limitazione del potere politico, ha perso per strada il suo carattere liberale, mettendo inconsapevolmente tra le mani dei suoi diretti avversari, comunisti, clericali e conservatori, i migliori strumenti per approfondire la loro influenza sulla società. Questa evoluzione non liberale del laicismo ha trovato un gemellaggio logico con l’egualitarismo in economia, dando luogo ad un’enorme produzione legislativa da parte degli stati. Un’inflazione di leggi prodotte dai parlamenti nazionali e sovranazionali, una maremoto di codificazione dalle dimensioni spropositate che anziché fornire riferimenti per la vita dei cittadini, ha soltanto distrutto ogni certezza sul futuro e ampliato a dismisura i poteri di intervento statale su affari che dovrebbero riguardare esclusivamente i singoli individui e le loro privatissime relazioni sociali, fatte di accordi, controversie e mediazioni. Se poi si osservano le questioni su cui il laicismo è più sensibile, e cioè le leggi in materia di diritti civili, ci si accorge di come le relazioni interpersonali si ritrovino sperse sotto l’oscillazione confusa della legislazione statale tra rivendicazioni di minoranze plurime ed ecclesiastici rigurgiti oscurantisti, tra ateismo giacobino e moralismo bigotto, tra crociate antivelo e crociate antiaborto. La ricerca spasmodica di una difficile neutralità statale si è rivelata controproducente, generando incertezza e realizzando potenti strumenti di intromissione nella vita privata della gente. Le leggi dello stato, anziché garanzia di libertà, sono divenute una mera questione di maggioranze e minoranze transitorie che emergono e si sfilacciano dentro un’assemblea. E non sempre le maggioranze sono sensibili alle ragioni dell’individuo, anzi.Bruno Leoni, un laico e un liberale, per primo ha sottolineato la stretta e logica analogia tra pianificazione economica e legislazione, dove un’autorità centrale pretende in entrambi i casi di organizzare la vita delle persone, indirizzando e limitando le libertà economiche, civili e politiche. Se il mercato è la risposta liberale alla pianificazione economica, il diritto consuetudinario e l’autonomia contrattuale tra privati è la risposta liberale – e quindi autenticamente laica - alla legislazione ipertrofica, al positivismo giuridico, al normativismo kelseniano e cioè al diritto artificialmente prodotto dalle maggioranze cangianti. Il laicismo liberale e libertario dovrebbe quindi recuperare il senso dello stato minimo restituendo al corpo sociale la capacità di organizzare le proprie interazioni privatamente e affrontare le questioni morali in una dimensione più individuale, nel rispetto della libertà di coscienza, togliendo al contempo dalle mani dei politici gli strumenti per applicare presunte etiche pubbliche, di ispirazione atea o religiosa. È un laicismo liberale che conduce al decentramento dei processi legislativi e alla drastica riduzione degli ambiti su cui è possibile legiferare, restituendo al diritto il ruolo di istituzione evolutiva destinata a fornire aspettative tendenzialmente stabili sui comportamenti degli altri nei diversi campi del vivere. Il diritto, diversamente dalla legislazione, è infatti prodotto da consuetudini e trasgressioni, tradizioni e disubbidienze, giurisprudenza e dottrina, in un eterno e complesso gioco di interazione sociale, che solo lentamente e gradualmente dovrebbe poter essere codificato dai parlamenti. A questi ultimi, numerosi e decentrati, dovrebbe quindi rimanere, in un’ottica laica e repubblicana, la necessità razionalista (minima) di garantire i cittadini da derive collettivistiche e confessionali, fissando i limiti invalicabili della libertà individuale. Niente infatti (e qui un po’ di relativismo anti-rothbardiano non guasta...) garantisce che possano generarsi ordini giuridici spontanei che conducano a trasformare i peccati in delitti o, viceversa, ad abbattere le madonne per sostituirle con le marianne rivoluzionarie. Un processo di sterilizzazione dello stato paternalista e interventista dovrebbe dunque ottenersi attraverso il passaggio dal centralismo al decentramento, dalla legislazione al diritto, dal welfare al mercato. Resterebbe solo un bisogno intenso di laicità capace di impedire l’emersione di pulsioni anti-individualistiche. Una barriera contro il dominio delle idee forti, anche in comunità ristrette. È ciò che dovrebbe rimanere alla politica in termini di protezione dell’uomo da qualunque aggressione alla sua sfera personale. Una politica laica, intesa come tutela dell’individuo in tutte le sue espressioni, e quindi naturalmente antiproibizionista, necessita di istituzioni pubbliche liberali e repubblicane che siano la via di fuga certa per coloro che si sentono stretti in gabbia da evoluzioni sociali e giuridiche che non condividono. Ecco quindi che i processi politici possono ritrovare un ruolo davvero laico solo nella tutela dei principi di non interferenza e di non aggressione. Ma è necessario un capovolgimento delle nostre costituzioni perché tornino a proteggere le nostre coscienze e le nostre azioni dai moralismi spirituali e secolari. E non ne diventino invece, come spesso accade oggi, il braccio armato.

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buttiglione oscurantista? pubblicato su http://www.ilpungolo.com Oscurantista! Urla Bruxelles in faccia a Buttiglione che, bocciato da chi non conta e poi ripescato da chi decide, non si scompone. Oscurantista! Ribatte Berlusconi in faccia all’Europarlamento socialista e laicista che, convinto della battaglia di civiltà che conduce, si indigna. E mentre il governo italiano e gli euro-socialisti si sbattono il medioevo addosso come un oggetto contundente, sempre ottimo in caso di rissa tra cose terrene e cose dello spirito, Barroso se ne frega e si tiene il suo Buttiglione, sognandosi la notte il feroce antimonopolista Mario Monti. Anche Galli della Loggia lo sottolinea sul Corriere della Sera: Buttiglione, da buon cattolico penitente non poteva dire altro sull’argomento omosessualità. Per la sua morale è peccato, ma non è illegittima. Francamente, dal suo punto di vista non fa una piega. Poteva dirlo diversamente, poteva ammorbidire i toni e scegliere parole diverse, ondeggiare vago tra perifrasi enigmatiche o perdersi tra i mille rivoli dell’ambiguità politicante. Ma Machiavelli ha perso e la coscienza di Buttiglione, intrisa fino all’osso di ortodossa passione cristiana, travolgendo gli argini della moderazione intesa come finzione, non ha potuto tacere. Socialisti e liberali che hanno fatto del laicismo l’ultimo residuo di un progressismo sempre più scollato dalla realtà e privo di principi politici autentici e coerenti, si sono sfogati contro il nostro quasi increduli di tanta ingenuità. Ma il laicismo che si crede individualismo perde su tutti i fronti. Non si può giudicare un uomo di governo dalle sue convinzioni morali, ma solo dalle sue azioni politiche effettive. La bocciatura a priori, basata sull’esplicitazione di un giudizio morale peraltro abbastanza diffuso tra i credenti (non solo cattolici), testimonia più la debolezza della politica che la forza della ragione. Chiedere una discontinuità etica al politico che vota una legge è quanto di più astratto si possa immaginare. Solo la schizofrenia potrebbe condurre un cattolico a votare una legge riguardante faccende su cui la Chiesa ha qualcosa da dire, ignorandone totalmente il magistero. O esprimere un giudizio politico separandosi giudiziosamente e saggiamente dalla propria coscienza morale per ricercare una logica astratta che lo aiuti a separare ciò che è socialmente giusto da quello che invece gli appare personalmente sbagliato. Ci vorrebbe il famoso velo di ignoranza in posizione originaria di Rawls che gli oscurasse l’anima per dare risalto alla sua razionalità pura. È questo probabilmente non basterebbe ancora. Così come da un laicista non possiamo che attenderci una continuità etica che lo conduce verso la massima coerenza tra le proprie idee (di società tendenzialmente atea, mantenuta unita da una religione civile) e le proprie scelte politiche, così non possiamo attenderci qualcosa di diverso da un credente. Forse il problema è dato dal fatto che la politica si occupa di vicende che non dovrebbero riguardarla. Forse troppo si legifera anche in materia di diritti civili. E spesso non ci si accorge che quello stesso potere legislativo che consente alle minoranze di ottenere maggiori spazi di libertà, quando passa tra le mani di chi con le tradizioni religiose sente di avere un rapporto privilegiato, può diventare l’arma per restringerle nuovamente, anche contro i sentimenti più diffusi e le convinzioni più radicate. La battaglia contro lo stato (europeo e nazionale) economicamente assistenziale e paternalista, per essere coerente deve rivolgere la sua forza anche contro lo stato moralista, sia esso bacchettone e clericale che laicista e giacobino. Dietro la libertà di coscienza, tanto invocata a destra e a sinistra per ragioni opposte, si maschera spesso una concezione della società antipluralista e nostalgica di un ordine armonioso dove tutti vivono in pace con se stessi e con il prossimo, in nome di dio o della ragione. Tanto il Vaticano antiabortista che la Francia antivelo sono in fondo due facce della stessa medaglia. E con poteri legislativi meno invadenti anche su tali materie forse persino l’illuminata Bruxelles avrebbe digerito meglio il reazionario Buttiglione.

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grazie a tutti, tranne a chi ci ha liberate pubblicato su http://www.ilpungolo.com/ Grazie a tutti. Tranne a chi ci ha liberate. Grazie tante. Mille grazie. Quanta solidarietà. Che bei festeggiamenti. Che belle parole. E poi i rapitori, che dire, davvero dei galantuomini. E ora, senza fare troppo i capricci, via quei filibustieri che provocano l’orticaria solo a guardarli: i famosi militari italiani per i quali la sinistra non trova pace, ma solo battaglie intestine acide e quotidiane. Hanno detto: ” I nostri carcerieri-rapitori erano gentili, religiosi osservanti che ci hanno insegnato i principi dell’Islam e ci hanno regalato il Corano”Le due Simone, liberate per fortuna e per soldi, forse ancora troppo emozionate, non trovano le parole giuste per ringraziare chi si è mosso con la diplomazia in faccia e i quattrini in tasca per tirarle fuori dal quel pasticciaccio brutto in cui si erano ficcate per solidarietà umana col popolo iracheno. Anzi, le parole non le hanno proprio trovate. Complimenti. Il governo Berlusconi, ringraziato pure da Bertinotti, non trova spazio nei cuori delle due volontarie, già pronte a tornare lì dove la ragione minima vorrebbe che non rimettessero più piede. Una scena, la loro, di pessimo gusto, che rovescia la realtà in maniera irritante anche per coloro che questa guerra l’hanno considerata un maledetto errore sin dall’inizio, che non poteva che produrre orrori in serie.Hanno detto: “Grazie a tutto il popolo iracheno, ai pacifisti ed ai musulmani. Grazie di cuore”I ringraziamenti omessi ricompattano la sinistra radicale, quella dell’abbandono umanitario dell’Iraq, e consentono a Rutelli di smarcarsi ulteriormente nel centrosinistra, ribadendo la necessità dei militari in questa fase delicata di transizione, alla faccia di chi proprio non resiste alla tentazione di fare il pacifista integrale.La carica solidaristica e il senso del sacrificio personale delle due Simone non sono in discussione. Ci mancherebbe. Ma ci si chiede come mai queste

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ragazze, Stradiste nel senso più deteriore, non riescano a mantenere un minimo di sobrio silenzio, aspettando di conoscere meglio gli avvenimenti che scorrevano sulle loro teste mentre i banditi le mantenevano in prigionia. Fiumi di retorica pacifista hanno subito riempito le loro bocche, mentre la sindrome di Stoccolma mieteva nuove vittime, lasciando in loro un ricordo gentile dei rapitori. I quali, bisogna dirlo, si sono pure scusati e hanno offerto delizie di pasticceria e proposto gradevoli letture per ingannare il tempo. I loro volti sorridenti dopo 21 giorni di prigionia contrastano con il terrore che sfigura le facce e piega le ossa di tutti i rapiti che ci guardano ogni giorno dalla tv e ci chiedono, ci urlano di fare qualcosa, qualunque cosa, perché una morte orrenda, la più orrenda li attende. Ignorare il ruolo di chi ha salvato la loro vita con comportamenti concreti, aggiungendo sgraziatamente nelle prime dichiarazioni un implicito giustificazionismo nei confronti dell’islam che rapisce, è esattamente il modo migliore per non rendere un buon servizio alle ragioni della pace in Iraq, offendere le famiglie che hanno già subito gravissimi lutti, e una mancanza di buona educazione. Comunque, ben tornate.Hanno concluso: “Pensavano che fossimo spie.Poi hanno capito che eravamo volontarie ed hanno cambiato atteggiamento. E nostro intendimento tornare laggiù. Chiediamo a tutti di non dimenticare l’Iraq perché in questo momento , in quel Paese, stanno succedendo cose molto brutte. Siamo d’accordo sul ritiro delle truppeIntanto “Un Ponte per…” non dimentica di essere riconoscente ai ‘’resistenti iracheni".

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il difficile rapporto tra sinistra e autori libertari pubblicato su http://www.ilpungolo.com/

Il libertarismo, questo oggetto misterioso. Almeno a sinistra. Curioso, perché l’idea dell’uomo libero dai poteri coercitivi dello stato dovrebbe rappresentare l’inarrestabile spinta propulsiva, l’ispirazione più solida e la visione più concreta di una forza di sinistra. Eppure nisba, niente. Centocinquantanni di idee libertarie non riescono a scalfire l’indifferenza snobistica dei progressisti. Impermeabile a visioni non esplicitamente sociali, egualitarie e solidali, il centrosinistra italiano – innanzitutto nelle sue retroguardie culturali - preferisce occuparsi delle eteree circonvoluzioni di pensatori oscuri piuttosto che aprire le finestre per cambiare l’aria, e dare magari un’occhiata in giro per cercare nuove idee da metabolizzare. Neanche la nascita di qualche iniziativa culturale posizionata in maniera critica (Il Riformista, il periodico Reset, il sito accademico www.lavoce.info) è in effetti riuscita a imprimere un’autentica svolta ideologica all’area di centrosinistra. Fastidio e rancore sembrano anzi i sentimenti espressi più frequentemente dalla stessa parte che dovrebbe assorbire le nuove idee. Ma c’è di più: queste stesse iniziative editoriali non presentano arditi riferimenti anarco-capitalisti, ma si ispirano ad un più civile ed educato riformismo appena appena inumidito nella letteratura liberale “light”, più digeribile per il popolo di sinistra. Sfortunatamente dietro questo liberalismo ingentilito ritroviamo un puzzle scomposto e arruffato di contributi diversi e spesso incompatibili, dal comunitarismo democratico di Walzer all’equità neocontrattualista di Rawls e i suoi epigoni, dall’egualitarismo liberale di Sen fino al buon vecchio liberalsocialismo dei fratelli Rosselli e di Calogero, con spruzzatine di liberismo sociale a la Ernesto Rossi e saggezza social-democratica bobbiana. Darendhorf andava di moda dieci o quindici anni fa, ora è un po’ in ombra, mentre il terzismo di Giddens va e viene secondo le alterne fortune del suo braccio esecutivo Blair. I nuovi keynesiani non mancano mai, capeggiati dal globalismo con i se e i ma di Stiglitz. Difficile insomma riuscire a ricostruire un quadro coerente. Ma è soprattutto difficile rintracciare autori dallo spirito libertarian tra tanto egualitarismo sparso: persino il classico liberalismo, anche in queste declinazioni soft e progressiste, continua ad essere percepito dalla classe politica del centrosinistra come un avversario filosofico, portatore di immoralità e indifferenza alle questioni della convivenza civile. E chi (Debenedetti, Salvati, Morando, Polito...) cerca faticosamente di importare il liberalismo e tradurlo in un linguaggio vicino alle più classiche sensibilità della sinistra, si ritrova ad essere isolato e dileggiato, accusato di intelligenza col nemico o di criptoberlusconismo. In un ambiente così ostile per i liberali all’acqua di rose figuriamoci che vita sarebbe per liberali duri e puri. Per i libertari, per intenderci. La conseguenza più malinconica è quindi la totale assenza tra i nuovi contributi teorici progressisti di elementi autenticamente innovativi e, perché no? rivoluzionari. E se la sinistra non è almeno un po’ rivoluzionaria, rischia di spegnere i suoi tradizionali ardori riformisti in quel brodo stucchevole di conformismo buonista, ben educato e un tantinello saccente dell’ulivismo prodiano. Dalla liquefazione del marxismo-leninismo sembra essere emersa una stretta collaborazione tra il conservatorismo socio-economico del cattolicesimo democratico e il pragmatismo arido del socialismo non più marxista; una collaborazione che tende ad escludere l’emersione di idee che si oppongano al piatto e bolso moderatismo botanico del nuovo Ulivo. E gli apporti provenienti dalla cultura individualista e libertaria, già poco orientati a confrontarsi con la cultura di sinistra, trovano una diga quasi più politica che non filosofica. La destra affonda a piene mani in questo cesto pieno di prelibatezze intellettuali, provocatorie e razionali al contempo. La libertà dell’individuo come valore di riferimento per l’azione politica svolge da tempo un ruolo da finto protagonista nella retorica - e solo in quella - della destra di governo italica e delle destre anglosassoni. Ma quel che più conta, i nomi di Hayek e Mises, di Rothbard e del nostro Leoni, di Nozick e Block invadono sempre più frequentemente le letture di chi compra il Domenicale o il Giornale, L’Opinione o Libero, Ideazione di Mennitti e Liberal di Adornato. Questi stessi nomi sono invece tabù tra le pubblicazioni di sinistra, anche della sinistra più liberal, al netto di qualche

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comparsata di Mingardi su Il Riformista. Se poi si passa ai militanti e alla base, l’intera cultura libertaria o è ignota (ed è un caso fortunato) oppure è disprezzata e rigettata a destra con sdegno. La dimensione “sociale” pare essere il destino ineluttabile del fronte progressista. L’individuo e la sua carica autenticamente rivoluzionaria non trova spazio tra le anime dell’ulivismo, e coloro che più dovrebbero essere interessati a veicolarla e diffonderla, i giovani, preferiscono farsi uno spinello con gli amici e infilarsi la maglietta ormai lisa del Che, ereditata dal fratellone che negli anni settanta cavalcava una scrambler e inneggiava al sesso libero col pugno chiuso. Di giovani e battitori liberi capaci di trasmettere nuove idee sotto le fronde uliviste non se ne scorgono, mentre i pochi ragazzi ancora politicamente impegnati continuano ad essere o burocraticamente allineati e coperti nelle sezioni, o tristemente affascinati dai miti della sinistra eternamente adolescenziale, intimorita da libertà e responsabilità, e alla ricerca di licenza e protezioni.Una forza progressista dovrebbe vivere dell’energia provocatoria e visionaria che solo può scaturire dall’idea di libertà individuale. Possibile che a sinistra nessuno si renda conto del grande contributo che i teorici del libertarismo potrebbero dare per la costruzione di un nuovo paradigma centrato sulla preminenza dell’individuo? Possibile che per leggere articoli sui teorici più noti del pensiero libertarian si debbano necessariamente acquistare riviste dell’area di centrodestra? C’è forse una necessità logica e filosofica che imparenta il libertarismo all’area conservatrice? Intellettuali come Lottieri, Antiseri, Infantino, e case editrici come Facco, Liberilibri e Rubbettino stanno offrendo al mondo cattolico-conservatore spunti per un ammodernamento dei propri riferimenti e delle proprie riflessioni. A sinistra per il libertarismo c’è solo il vuoto pneumatico. In questo modo si regala una intera galassia di autori e una gran messe di teorie sulla libertà a chi in futuro vorrà tradurlo in un linguaggio conservatore. Eppure vi è uno spazio enorme per una inclinazione progressista, laica e repubblicana del libertarismo. Ma si sa, la sinistra è troppo presa dalla primarie. Chissà chi le vince?

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voteranno per bush i libertarians? pubblicato su http://www.ilpungolo.com/ In Texas, è vero, non ci sarà storia, tutti per Bush. A New York, intellettuale, nevrotica e liberal, Kerry avrà vita facile. E questa prevedibile distribuzione di voti fra i due antagonisti riguarda un notevole numero di Stati. Ma ci sono anche gli stati “battleground”, dove pochi voti decidono il risultato finale, e non si tratta necessariamente di voti centristi e moderati. Esiste una fascia dell’elettorato americano che ha particolarmente a cuore la libertà individuale in tutte le sue espressioni, e che se ne vale la pena, va pure a votare. Sono i “liberarians minded voters”, sono estremisti della libertà, anarchici amanti del capitalismo, che guardano in cagnesco qualunque forma di intrusione pubblica nella vita privata. Hanno il loro referente partitico ormai dagli anni settanta : è il Libertarian Party, e quando il candidato del Libertarian Party non li soddisfa – abbastanza spesso - tendono di solito a orientare il voto con più facilità verso il Partito Repubblicano che non nei confronti dei Democratici. A pesare nella scelta è senz’altro un atteggiamento più restrittivo e severo da parte del Gop in materia di spesa pubblica federale e tasse, tutto quello che negli Usa si chiama Big government: via Washington dai bilanci di famiglie e imprese sembra essere, almeno dall’avvento di Roosvelt e dei suoi (falliti) piani di rilancio dell’economia negli anni ’30, la linea guida dei conservatori statunitensi. Ma i repubblicani non sono mai stati molto coerenti con i loro proclami. E se Nixon, mentre sganciava il dollaro dall’oro, poteva tranquillamente affermare che ormai “siamo tutti keynesiani”, Reagan costruì la sua vittoria tagliando sì le tasse, ma senza proccuparsi troppo di un enorme buco che nel frattempo emergeva nel bilancio pubblico federale, nella speranza che gli offertisti avessero ragione nel profetizzare incrementi degli introiti fiscali derivanti da un’economia più performante. Avevano torto, e ci volle il New Democrat Clinton insieme ad un Congresso a maggioranza repubblicana per rimettere a posto i cocci, con le tasse di nuovo in rialzo, e tagli alle spese per la difesa. Eppure i libertarians americani, di solito, guardano con una certa simpatia l’elefantino e tendono a snobbare l’asinello. Di solito, appunto. Perché da un po’ di anni la questione è alquanto mutata, soprattutto per l’avvento di neoconservatori e paleoconservatori, che ormai stringono d’assedio il partito repubblicano, conducendolo su strade che non necessariamente convergono con quelle tracciate dalle idee libertarian. Anche perché non tutti i libertarian sono uguali, anzi, si dividono pure. Alcuni di loro sembrano volersi accasare nel Partito che un tempo era dei Kennedy, e che oggi è proprietà dei coniugi Clinton, per rivoltarlo come un guanto nel nome della costituzione americana e soprattutto del Bill of Rights, la dichiarazione dei diritti approvata nel lontanissimo dicembre del 1791 per tutelare meglio le libertà fondamentali dei singoli cittadini dai possibili soprusi dei poteri centrali federali. Conservatorismo fiscale e liberalismo sociale in un aggregato di progressismo libertario da contrapporre al conservatorismo compassionevole di Bush e soci. Quelli del Democratic Freedom Caucus (www.progress.org/dfc/), una specie di corrente interna al partito democratico di ispirazione libertarian, ci credono e hanno un manifesto che cerca di conciliare le sensibilità più tipicamente liberal con le proposte più classicamente libertarie, per restituire sfere di libertà agli individui e ai singoli stati. In un articolo del Washington Post dell’ottobre del 1998 “Core Beliefs Recast Party Lines”, emergeva ancor più nitidamente la presenza, anche piuttosto corposa, di libertari nel Partito Democratico. Si tratta dei cosiddetti Libertarian Democrats che guardano a sinistra, eppure odiano il big government; sono conservatori in economia, ma insofferenti nei confronti dei gruppi religiosi che cercano appoggi e sussidi dalla politica; svolgono professioni di livello elevato, ma non

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sopportano i moralisti e i tradizionalisti; pensano che il welfare disincentivi la responsabilità individuale, ma considerano ancor più pericoloso il corporate welfare, e cioè i sussidi e le protezioni accordate alle imprese. E sono circa il 9% del partito, non poco. Alle libertà civili ci tengono, esattamente come alle libertà economiche, per questo di fronte alla deriva ultraconservatrice del partito dell’elefantino preferiscono orientarsi verso i democratici. E l’accoppiata Kerry-Edwards sembra poterli soddisfare (anche se forse il focoso Dean piaceva di più, e non mancavano i Libertarians for Dean con il loro immancabile blog). I Libertarian Democrats resteranno dove già sono, tra i Democratici, e negli stati dove si combatterà all’ultimo voto potrebbero regalare brutte sorprese al cristiano rinato George W. Bush. Ma a dargli una sorpresa anche peggiore questa volta potrebbero essere quei libertarians del tutto indipendenti, che i candidati li valutano di volta in volta, senza pregiudizi, e con una marcata attenzione ai fatti economici. E l’esplosione di retorica della convention della settimana scorsa potrebbe impallidire di fronte ai fatti duri e puri di una gestione dell’economia americana che con i principi libertari non ha niente a che vedere. Durante l’amministrazione Bush non sono infatti mancati gli aiuti di stato,tra i sussidi all’agricoltura e il protezionismo per l’acciaio, mentre le tasse le hanno tagliate sul serio, è vero, ma ottenendo cosa? Una spinta artificiale sui consumi privati, già gonfiati da livelli di indebitamento da record per le famiglie, e soprattutto un deficit pubblico in crescita vertiginosa. Gli stessi istituti di ricerca statunitensi di orientamento libertarian non hanno potuto far altro che prendere nota dei risultati in materia di bilancio, e dedurne che peggio difficilmente si poteva fare, o meglio, qualcuno ha fatto di peggio, ma solo nel lontano 1966 e nel 1967: è stato Lyndon Johnson che per quei due anni fiscali detiene infatti il record degli ultimi 40 anni di incremento annuale della spesa federale discrezionale, cioè quella approvata anno per anno dal Congresso. Dopo di lui, solo Bush junior: terzo, quarto e quinto posto sono tutti per lui, con quello spendaccione di Carter ben distanziato in classifica. Gli anni fiscali 2002, 2003 e quest’ultimo 2004 sono stati un disastro per le spese federali, cresciute senza ritegno. Colpa della guerra in Iraq! ti diranno i repubblicani ortodossi. Nient’affatto, sottolinea Veronique de Rugy del Cato Institute nel suo paper di sei mesi fa “The Republican Spending Explosion”. L’analista libertarian fa tristemente notare, dati alla mano, che le spese discrezionali per la difesa sono certamente esplose dopo l’11 settembre (si stima un + 36 % tra il 2001 e il 2005) per una politica estera bellica comunque agli antipodi dal libertarismo isolazionista o comunque non interventista, ma le spese non legate alla difesa hanno fatto registrare incrementi di tutto rispetto. Si stima infatti un aumento in termini reali del 25% per tali spese tra il 2001 e il 2005, e cioè in coincidenza del primo mandato di George W. Bush. Queste cifre da capogiro associate poi alle mancate riforme del welfare, e quindi del Social Security, del Medicare e del Medicaid, in tremebonda attesa dei ritiri annunciati della generazione del baby-boom, e potenziate dagli sgravi fiscali indiscriminati, hanno creato alla velocità della luce un buco nel bilancio federale proprio dopo che il democratico Clinton nel 1998 aveva riportato alla luce il surplus, un termine di cui non si aveva più memoria negli Usa dalla fine degli anni sessanta. La stessa de Rugy, con malinconica rassegnazione, fa poi notare nello stesso paper come alcuni dipartimenti, la cui chiusura era stata invano annunciata già dal mitico Reagan negli anni ottanta, come quelli dell’Istruzione e dell’Energia, non solo sono rimasti in piedi, ma proprio con Bush junior, il neoconservatore Bush junior, hanno visto incrementi di spesa da favola: si stima un aumento dei costi federali per l’Istruzione dal 2001 al 2004 del 75%, mentre per l’Energia invece i repubblicani si son mostrati un po’ più “braccini”: solo il 26% in più in tre anni, quelli di Bush junior, naturalmente. Insomma, tra soldi restituiti a pioggia alle famiglie senza farsi troppi problemi, soldi indirizzati verso nuovi programmi di spesa per dimostrare di essere più compassionevoli (soprattutto con le grandi aziende), e soldi non risparmiati per colpevole inerzia sul fronte delle riforme del welfare, il buco del bilancio federale diventerà probabilmente un nuovo fardello sulle spalle dei cittadini negli anni a venire. In conclusione, libertà economica e responsabilità fiscale sono entrate un po’ in ombra nel programma di questa amministrazione, tanto che John Samples, altro autorevole analista libertarian del Cato Institute, si è visto costretto a lanciare il suo urlo di dolore per il tradimento subito, parlando di Bush come del miglior presidente Democratico della sua vita in “Progressive President”, articolo dello scorso aprile.E se dal fronte economico ci spostiamo poi su quello delle libertà civili, tra guerra in Iraq, guerra interna ai terroristi, guerra alle droghe, guerra al porno e guerra all’aborto, il pluribellicismo dei repubblicani comincia a mostrare un volto inquietante anche per il libertarian più conservatore.Insomma, voteranno per Bush i libertarians? Forse molti di loro cominciano a pensare che una presidenza democratica associata ad un congresso repubblicano sarebbe forse l’arma migliore per ridurre le spese federali e conservare (o riconquistare) i diritti civili. E lì dove il loro voto può fare la differenza le urne potrebbero regalare agli americani un altro “divided government” come quello che negli anni ’90, in fondo, non aveva poi così sfigurato.

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la casa laica verso i confini della coalizione di governo pubblicato su http://www.ilpungolo.com/ L’insostenibile destrismo naturale che guida da sempre l’azione politica della maggioranza dei liberali italiani ha colpito ancora. Già nel biennio della diaspora definitiva, il 1993-94, buona parte delle truppe orfane del Pli aveva frettolosamente traslocato verso il sedicente partito liberale di massa, anche detto Forza Italia, indossando gaiamente la casacca azzurra, pronta a celebrare i nuovi riti mediatici della seconda repubblica, nascosta in un angolino del Polo delle Libertà per non irritare i maggiorenti democristiani. Qualcuno aveva persino preferito cercare vitto e alloggio direttamente dentro An, nella speranza che la destra storica potesse rifiorire sotto la guida post-fascista di Fini. Altri ancora non hanno provato alcun imbarazzo a

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sperimentare audaci affinità con la Lega Nord. Ben pochi avevano preferito continuare a cercare una via autonoma e indipendente, trasformando i propri movimenti in circoli culturali o poco più.Ora, immemori degli errori di un’intera decade, gli stessi liberali ci riprovano, ancora guidati dall’istinto destrorso. Mentre la natura, che aborrisce il vuoto, chiama per una riconciliazione dei liberali dispersi per riempire lo spazio di un voto liberale privo di riferimenti credibili, i liberali sensibili alla maggioranza berlusconiana preferiscono invece costruire una quarta gamba per la CdL, lasciando di fatto il panorama politico italiano ancora privo di un partito liberale autentico e indipendente. La Casa Laica proposta recentemente da Diaconale su L’Opinione ha infatti, e purtroppo, tutti i caratteri di un’operazione destinata a mantenersi entro i confini dell’attuale coalizione di governo. Le intenzioni sono anzi quelle di rafforzarla con un contributo liberale più strutturato, e quindi capace di confrontarsi alla pari almeno con gli alleati cattolici dell’Udc e i secessionisti della Lega. L’orizzonte è assolutamente interno al centrodestra, in direzione di un aumento della propria forza contrattuale (attualmente quasi nulla) e non solo non contempla un’uscita dalla maggioranza, ma prevede la costruzione di un ponte verso i radicali, per integrarli sotto un tetto scomodo e paradossalmente illiberale. Se infatti la sinistra ulivista vaga ancora incerta alla ricerca di un riformismo tutto da costruire, la destra di oggi riesce a fare di peggio, parlando una lingua distante anni luce da una qualunque visione liberale della politica e della società. La destra di Berlusconi, Fini, Follini e Bossi è tradizionalista (su famiglia, fecondazione assistita e aborto), proibizionista (sulle droghe), populista (sulle tasse), lobbistica (sulla mancata liberalizzazione degli ordini professionali), antifederalista (nessuna apertura al trasferimento della potestà legislativa in materia fiscale agli enti locali e interventismo sulle scelte statutarie regionali), antiriformista (reintroduzione del proporzionale, una manna per i partiti), leaderistica (incapacità di mettere seriamente in discussione la guida di Berlusconi), fiscalmente lassista (tentazioni colbertiste ai tempi di Tremonti, tendenze alle una tantum e ai condoni, attacchi continui al patto di stabilità e crescita nonostante il nostro sia uno stato oberato dai debiti), monetariamente irresponsabile (richieste berlusconiane di controllo politico della Bce la cui indipendenza è invece garanzia di inflazione sotto controllo).A tutte queste contraddizioni politiche insanabili, perché parte integrante delle strategie del centrodestra a maggioranza ex democristiana ed ex fascista, si aggiunge peraltro un’asimmetria tra gli obiettivi dei liberali di destra e quelli schierati a sinistra. Mentre i primi (Diaconale, Biondi, Costa, Del Pennino e i socialisti di De Michelis) sentono forte la necessità di darsi una casa comune, un partito da aggiungere agli altri della coalizione, possibilmente reintroducendo alla prima occasione utile il proporzionale, i liberali a sinistra (D’Amico, Maccanico, Debenedetti, Morando, Salvati) hanno orizzonti esattamente opposti, vedono cioè una maggiore forza per la loro coalizione di riferimento proprio nel maggioritario e nella possibilità che si dia vita ad un partito riformista unitario. Questo significa semplicemente che qualunque tentativo di riconciliazione tra queste anime perse è ormai impossibile, e in un certo senso è anche meglio così. Forse la semplificazione del panorama partitico prevede l’integrazione dei liberali e della cultura liberale in ognuno dei due poli contrapposti, ed esclude la formazione di un polo integralmente liberale. Ma queste evoluzioni (e circonvoluzioni) fanno anche capire che a destra i liberali se la passano peggio rispetto alle difficoltà vissute quotidianamente dai pochi liberali che militano a sinistra, tanto da sentirsi persino estranei rispetto ai progetti unitari all’insegna del Ppe promossi dai loro alleati Fi e Udc. I liberali a sinistra cercano un loft per una convivenza complicata, ma non forzata; i liberali a destra una loro stanzetta, anche uno sgabuzzino, purché ci siano mura divisorie.

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il gran rifiuto pubblicato su http://www.ilpungolo.com/ L’improvvida intervista rilasciata il 7 giugno dal capogruppo Eldr, Graham Watson, al Corriere della Sera, in cui si prefigurava la possibilità di accordi futuri dei liberali europei con i vincitori annunciati delle prossime elezioni continentali, i popolari, per spartirsi poltrone di prima, seconda e terza fila, ha ottenuto solo reazioni negative e imbarazzate. Altre sono evidentemente le prospettive per i popolari che non intendono morire neoconservatori, né fondersi con i socialisti duri e puri. Pannella ha colto al volo l’occasione, commentando con ruvido sarcasmo su L’Opinione dell’8 giugno le parole di Graham Watson. Chiaramente, ne ha anche approfittato per ricordare l’ostinato rifiuto di del leader euroliberale ad integrare i radicali nel suo gruppo, solo per accondiscendere ai voleri rutelliani, e il cambio di orizzonte ideologico dei libdems anglosassoni, divenuti ormai una sorta di nuova sinistra statalista al posto del sempre più centrista Labour party. Questo ci garantisce contro la possibilità che i radicali eventualmente eletti a Strasburgo facciano parte del variegato e mutante gruppo Eldr per la prossima legislatura. Difficilmente la cosa produrrà scoramento tra le fila radicali, ma resta il problema del loro isolamento europeo.Alla militante nebulosa radicale, infatti, manca in Europa un tetto comune sotto il quale accomodarsi, e degli alleati continentali con cui interloquire e coordinarsi in modo stabile.Applicarsi nell’edificazione di una casa liberale europea tutta nuova, decretando il fallimento, per bieco opportunismo e vaghezza ideologica, di ciò che resta del gruppo e del partito liberaldemocratico, consentirebbe ai pannelliani di trovare alleati più coerenti per combattere delle battaglie che in futuro avranno una valenza più europea che nazionale, e armerebbe i principi libertari di una presenza più strutturata per affrontare quel leviatano emergente che è la burocrazia comunitaria. Di più, una simile avventura costituente potrebbe scompaginare certi equilibri nascenti che vedono

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Rutelli, Bayrou e Graham Watson protagonisti, all’ombra di Prodi, di seri tentativi di costituire un partito tutto nuovo.In particolare Graham Watson, ben prima della famosa intervista al corrierone, si era già distinto per un attivismo sospetto ed un’attenzione certamente non gratuita verso le iniziative politiche del Prodi nazionale. Il 3 marzo scorso, ad esempio, si è svolto a Bruxelles un seminario sponsorizzato dal gruppo liberale dal titolo innocuo: “Le relazioni esterne nell’Unione europea allargata”. Ma dietro questo innocente appuntamento si nascondeva un incontro simbolicamente significativo: Graham Watson, Bayrou e Prodi hanno infatti trovato il tempo anche per discutere della creazione di un movimento che riuscisse ad esprimere l’ideale federalista europeo delle origini. Gli ultimi incontri tra queste forze inquiete ha prodotto l’appuntamento parigino del weekend del 9 maggio scorso che ha dato vita a un sostanziale accordo a favore di un nuovo partito democratico ed europeista. Questa nuova creatura - che vedrà la luce probabilmente solo dopo le elezioni di giugno – avrà come suoi membri certi i francesi di Bayrou, gli italiani di Rutelli e Prodi, i popolari catalani, quelli belgi e altri partiti minori. Ma la fondazione del nuovo partito “democratico” non risolve ancora il problema dell’organizzazione di una sua rappresentanza in parlamento. E qui entra in gioco Graham Watson. I libdems britannici saranno infatti della partita, ma al momento paiono più interessati a trovare qualche forma di federazione con la nascente creatura catto-democratica che non ad uscire dall’Eldr per una nuova avventura. L’impressione è che Graham Watson sia pronto a fare carte false pur di vedere raggiunta quota 100 per il suo eurogruppo. Un centinaio di voti, dal liberalismo sbiadito, da far contare nella prossima legislatura con atteggiamenti strabici ma produttivi. Si preannunciano, infatti, alleanze tattiche e ideologiche con la sinistra socialdemocratica e ambientalista, così come già sperimentato nella scorsa legislatura; e al contempo la definizione di aridi giochi di potere con i popolari, per dividersi un bottino fatto di poltrone, cariche e privilegi. La politica dei due forni in salsa anglosassone. La sciagurata apertura di Graham Watson verso i democristiani recalcitranti al neoconservatorismo, e verso i prodiani senza fissa dimora, solo per incassare qualche parlamentare in più, potrebbe scatenare una serie di forze centrifughe il cui approdo è tutto ancora da verificare. E determinare un certo interessamento per un progetto politico nuovo. Ben prima che si giunga a questa ristrutturazione dal rosato colore riformista, ci saranno infatti liberali dentro l’Eldr che si chiederanno il motivo di una loro ulteriore permanenza. E cominceranno a riflettere sull’opportunità di una fuga verso qualunque altra riva. Può dunque aprirsi un nuovo spazio politico, che abbia come parametri fissi l’indipendenza dell’azione politica e il principio fondante della libertà individuale in ogni campo della convivenza civile. È qui che il sesto congresso del Partito Radicale Transnazionale, svoltosi dal 7 al 9 maggio, ha rappresentato una straordinaria opportunità mancata in pieno. I radicali ci avevano ragionato sù alcuni mesi fa. Si era proposta la creazione di un nuovo soggetto liberal-radicale. Era chiaramente più una ripicca per la mancata accettazione della loro tardiva richiesta di sedere tra i liberali, che non un progetto seriamente fondato. Ora, invece, questo argomento, se ripreso, potrebbe rappresentare l’occasione per i radicali di ritagliarsi un ruolo da protagonisti in una fase successiva alle elezioni. La creazione di un gruppo politico, secondo l’articolo 29 del regolamento del parlamento europeo, così come modificato dal 1° maggio 2004, richiede l’adesione di almeno 16 deputati eletti come minimo in 5 paesi della nuova Europa a 25. Un’impresa difficile, ma francamente non impossibile. I radicali finora si sono banalmente limitati a ripresentare lo stesso simbolo di cinque anni fa, sopra le smorfie di una Bonino che disapprovava rassegnata. È senz’altro ridottissimo l’interesse dei radicali per i giochino politici che si svolgono a Strasburgo per questioni di mero equilibrio tra popolari e socialisti. Ed è proprio questa indifferenza che li rende politicamente raffinati, ma debolissimi. Sarebbe invece utile e strategico – in un’ottica ormai post-elettorale - cercare di cogliere ciò che l’Europa offre potenzialmente in termini di opportunità politica di lungo periodo. Potrebbe quindi essere il momento opportuno per tentare la creazione di una nuova forza liberale e libertarian (sì, proprio libertarian, per fare un riferimento esplicito, non ambiguo, all’anarchismo americano e alle sue radici austriache), per rilanciare in Europa la libertà degli individui, le istituzioni laiche e le autonomie territoriali. E magari raccogliere in tal modo buona parte dei liberali aderenti all’Eldr che non intendono seguire i libdems anglosassoni nel tragico deragliamento culturale rispetto alle loro stesse origini, fatte di common law e libero scambio.Dall’inizio di quest’anno la sinistra radicale e i verdi hanno già saputo riorganizzarsi, presentando alla stampa delle formazioni più strutturate e più orientate all’Europa. Il nuovo European Green Party ha persino fatto qualcosa che ci saremmo potuti aspettare da un nuovo soggetto radicale: la costituzione di un partito europeo cui si possa aderire anche da singoli cittadini, senza passare per le formazioni di livello nazionale. Lo European Green Party, con un girasole come simbolo, sarà dunque il primo vero partito politico europeo. Il secondo è il partito della Sinistra Europea, costruita con pazienza e determinazione da Bertinotti, con una parte della sinistra estrema, pacifista, no global e comunista. Per i radicali sarebbe uno sforzo notevole, soprattutto se si considerano gli interessi e i comportamenti strettamente pratici dei pannelliani; ma uno European Libertarian party (con relativo gruppo) rappresenterebbe una concreta prospettiva di rinnovamento organizzativo e uno strumento utile per il potenziamento delle iniziative radicali a livello continentale e internazionale. Oltre che una pepata provocazione nei confronti di chi, come Graham Watson, interpreta il liberalismo come una comoda forma ideologica di opportunismo politico.

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federalismo: quello vero e quello falso pubblicato su http://www.ilpungolo.com/ La devolution in salsa italica non attraversa un gran momento. Dopo aver vissuto un periodo di straordinaria accettazione politica, con un consenso tanto generalizzato tra i poli, quanto vago nei contenuti, ha successivamente trovato una confusa e labirintica applicazione, cominciando dalla Costituzione. E altre ne troverà ancora, a giudicare dal nevrotico dinamismo del centrodestra in materia di modifiche costituzionali. Superata però la fase in cui chiunque avrebbe potuto fornire le sue buone ragioni per cui “non possiamo non dirci federalisti”, è rimasta solo la mesta sensazione di un fallimento annunciato. Un pasticcio di servizi tagliati, costi in rialzo, trasferimenti in rapida riduzione, lamentele continue dei sindaci e strapotere delle regioni, il tutto condito dalla greve retorica leghista. A raccogliere le testimonianze di chi la devoluzione più che reclamarla la subisce, e cioè i sindaci, ci ha pensato proprio recentemente la Repubblica, pubblicando un’inchiesta articolata, anche se un bel po’ orientata al pessimismo generalizzato e alla lamentazione. E però, va detto, il federalismo così come è stato concepito a sinistra e a destra è riuscito solo a fornire delusioni, tanto che il pericolo di un riflusso centralista è sempre dietro l’angolo. Per capire le ragioni di questo mezzo fallimento è utile andarsi a leggere il quinto capitolo, dedicato al federalismo fiscale, del recente libro di Antonio Martino, “Semplicemente liberale”, pubblicato presso Liberilibri proprio quest’anno, e messo on line dal sito dell’istituto Bruno leoni (www.brunoleoni.it) come Occasional Paper. Martino, quando impugna la penna anziché passare in rivista le truppe italiche al fronte, recupera almeno in parte il suo spirito libertario, ed in questo caso ci racconta in modo chiaro dove sono gli errori di una devoluzione maccheronica verso i livelli più bassi della decisione politica, e della sua omologa europea verso i livelli più alti, in direzione sovranazionale. Lo stato nazionale è in rotta, e perde pezzi di potere economico verso famiglie e imprese con i processi di privatizzazione, e spezzoni di potere politico verso gli enti locali e sovranazionali con la devoluzione. Questo processo di ridimensionamento dello stato, con dispersione centrifuga del potere, ha però assunto un carattere squilibrato e direzioni controproducenti. In particolare, guardando alla devoluzione verso i livelli politici periferici, le recenti riforme presentano caratteristiche volte ad ampliare le sfere di competenza riducendo al contempo le fonti centrali di approvvigionamento, creando in tal modo degli squilibri tra fabbisogno ed entrate effettive; se si osserva invece il processo di assegnazione di competenze verso l’Unione europea, esiste il pericolo che si attuino progetti di armonizzazione che riducono anziché ampliare le condizioni di libertà individuale e di autonomia territoriale. Se guardiamo a casa nostra, di fronte alla recente evoluzione squilibrata della devoluzione, si rischia che i cittadini percepiscano solo i costi di un processo altrimenti virtuoso. Il federalismo concepito come tagli ai trasferimenti ai comuni per far quadrare i conti al centro, e costringere i sindaci a rimettere in ordine i bilanci senza poter decidere quasi nulla, se non in modo assai vincolato e ridottissimo, sul versante delle entrate, parte col piede sbagliato. Non si può dire ai comuni di organizzare le spese senza attribuire loro anche la possibilità di stabilire autonomamente forme e contenuti del prelievo fiscale. Si mortifica il ruolo del sindaco, mentre il presidente della regione assurge al ruolo di vero contraltare al centralismo romano, costituendo però un nuovo potere centrale contro cui i comuni rischiano di entrare in conflitto. Ecco allora che dall’inchiesta su la Repubblica del 25 maggio veniamo a sapere ciò che i nostri portafogli già sanno: aumentano le tariffe dell’acqua e dell’immondizia, l’Ici si abbatte pesantemente sulle seconde case, si inventano nuovi sistemi per far pagare caro il desiderio di possedere un’automobile e volerla persino lasciare in strada. I comuni tagliano i servizi e aumentano tutto quello che possono far aumentare in termini di prelievo locale. Ma a loro rimangono comunque soltanto le briciole. E a farne le spese sono i soggetti meno tutelati, dando così fiato ad una retorica centralista, statalista e nazionalista che fa passare il combinato disposto della privatizzazione dei servizi e la devoluzione dei poteri come un processo che pesa complessivamente sulle spalle dei più deboli, attraverso un aumento dei costi e una diminuzione dei servizi pubblici erogati. È il risultato grottesco di un tentativo non riuscito di ridimensionamento delle funzioni statali, senza che si sia giunti agli obiettivi ultimi del decentramento, cioè la responsabilizzazione delle classi politiche locali e il controllo sul bilancio da parte dei cittadini. Le spese affrontate da una città in termini di servizi, strutture e sicurezza per la persona e la proprietà privata sono infatti immediatamente percepibili nella loro efficacia e nel rapporto costo-beneficio. Il cittadino paga per un bilancio comunale “leggibile”, e quindi controllabile. I comuni sono senz’altro le entità comunitarie in cui il rapporto tra elettori ed eletti è più ravvicinato. Non resta che esaltare le condizioni spontanee di accountability che emergono in queste situazioni di convivenza civile, non costringendo i sindaci a difficili equilibrismi contabili, ma attribuendo loro la potestà legislativa in materia tributaria, letteralmente capovolgendo il sistema attuale. Questo significherebbe avere comuni che scelgono quali tributi applicare, e come spenderli. Niente di meglio dunque, per Martino, che seguire la ricetta radicale dell’economista Dwight Lee che propone di attribuire agli enti locali la massima potestà tributaria, e lasciare che poi siano gli stessi enti a decidere cosa dare allo stato centrale. È un sistema che peraltro esalta il meccanismo di tax competition, mettendo cioè in concorrenza gli enti locali sulla politica fiscale, in modo tale che chi si permette di esagerare nel prelievo si ritrova con i cittadini in fuga verso altri lidi, meno avidi, privando in tal modo l’ente locale spendaccione di base imponibile, e costringendolo a ritornare sui suoi passi. A dire il vero, Lee prevede anche l’obbligo del pareggio di bilancio, ma questo vincolo sembrerebbe più testimoniare una recondita sfiducia nei meccanismi di selezione del mercato, che non un elemento essenziale della proposta. Ipotesi realizzabile? Per Martino sì, quantomeno come indirizzo di fondo di una politica di autentica devoluzione. Peraltro, la concorrenza fiscale tra enti locali autonomi in materia tributaria è un principio applicabile non solo alla devoluzione verso il basso, ma anche alla devoluzione verso enti sopranazionali, rifiutando quindi qualunque tentativo (costruttivista) di armonizzazione fiscale, che avrebbe come unico vero risultato, ci dice Martino, quello di impedire che i diversi sistemi fiscali entrino in concorrenza tra loro. Solo con una simile competizione, e quindi un processo evolutivo a la Nozick, è possibile giungere al sistema fiscale “giusto”, altrimenti ignoto anche al più brillante trust di cervelli. A parte il fatto che per un libertario vero l’unico sistema fiscale giusto è quello azzerato, l’idea (evoluzionista) che un’unione di comunità diverse possa

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vivere solo se amplia gli spazi di libertà, e non se ricerca appiattimenti forzosi, è forse l’unica vera “idea filtro” cui un liberale autentico possa ispirarsi. william vittore longhi