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Tabata Baietti, sentimentale. A volte il fato è clemente. Capita che trovi la tua anima gemella dall'altra parte della strada. Non la stavi cercando e non volevi trovarla, ma poi eccola lì. Sola e fragile, arrampicata sul tetto di una casa, nel silenzio della notte. A volte, ancora più rare, capita che le due metà di una mela siano così vicine che si trovano a condividere lo stesso utero. Capita che siano così simili, che a volte anche la loro madre li confonde. Nascono insieme e per sempre staranno insieme, nessuna distanza basterebbe a separarli. Gemelli, talmente simili, talmente vicini, che sembrano una sola persona. Sono, una sola persona. E ciò che il Destino ha unito, l'uomo non osi dividere.
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TABATA BAIETTI
STORIA DI ANIME GEMELLE
www.0111edizioni.com
www.0111edizioni.com
www.quellidized.it
www.facebook.com/groups/quellidized/
Serie BIG‐C Grandi Caratteri, lettura facilitata
STORIA DI ANIME GEMELLE Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni
ISBN: 978-88-6307-694-3 Copertina: immagine di Simona Cané
Prima edizione Marzo 2014 Stampato da
Logo srl Borgoricco - Padova
Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e
avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono
usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o
persone reali, viventi o defunte, è del tutto casuale
A chi è tornato a galla,
a chi sta andando avanti.
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01
DOMINOS
Si sentì di nuovo a casa. Si aspettava di vedere la sveglia a
forma di rana che teneva sul comodino quando era
bambino. Si aspettava di vedere i contorni della sua
cameretta e il sorriso di suo fratello nel letto accanto al
suo. Ma una volta aperti gli occhi, ognuna di quelle
immagini svanì, risucchiata nei buchi della memoria.
Quella che aveva davanti agli occhi non era certo la sua
cameretta. Quella era sabbia. Davanti ai suoi occhi e
dentro la sua bocca.
Sabbia straniera di un paese straniero.
E man mano che riacquistava i sensi, iniziava a sentire
anche il garrito dei gabbiani e il soffice rumore delle onde
che si infrangevano sulla battigia.
Per un momento si rattristì. Non era a casa. Non avrebbe
potuto, essere a casa. Tanto dolce quanto doloroso, il
sogno che aveva fatto. «Ma questo è quello che hai, Matt,
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questo è quello che ti meriti» si disse, e poi sospirò.
Rotolò sulla schiena e si mise sdraiato, a osservare il cielo
infinito dell'alba. Sfumature di rosa e di giallo e di azzurro
si mescolavano intorno al sole pallido. Nell'aria vi era
ancora il profumo della notte, ma i deboli raggi del sole
spazzavano via il buio e ogni ombra. Un nuovo giorno era
appena cominciato. Quante volte aveva già assistito a
quello spettacolo? Innumerevoli volte, in altrettanti punti
del globo terrestre. E ogni alba lo lasciava senza parole,
senza fiato, senza energie, come se tutto scomparisse di
fronte a quella bellezza. La natura onnipotente.
Fu guardando il cielo che, tanto tempo prima, si rese
conto dell’inferiorità dell’essere umano su tutto ciò che lo
circonda. Fu guardando il cielo che si rese conto di quanto
gli stava sotto.
E adesso come allora.
Si mise seduto, demoralizzato. Aveva smesso di sognare,
eppure il gusto dolce‐amaro dei ricordi continuava ad
assillarlo. Si guardò intorno perplesso e si portò una mano
alla testa, come se quell'unico, inutile, gesto potesse
contribuire a ricordargli gli eventi della sera prima. Come
era arrivato in spiaggia? E cosa l'aveva convinto a dormire
sulla sabbia?
7
Domande che, probabilmente, si facevano anche quei
pochi coraggiosi mattinieri che vedeva correre sul
bagnasciuga, in quel momento. Lo guardavano con la
stessa dubbiosa espressione.
Notò il suo cappello, poco lontano, e lo scrollò dalla
sabbia che lo aveva inghiottito durante la notte. “Il Re del
Mondo” lesse e voltò lo sguardo verso il bar alle sue
spalle. Anche lì, sull'insegna, c'era scritto “Il Re del
Mondo”, e inevitabilmente spuntò un sorriso sulle sue
labbra. “Noi siamo infinitamente piccoli” pensò.
“Talmente piccoli da essere insignificanti, rispetto a tutto
ciò che c'è intorno a noi. E non esiste modo per vivere, se
non lasciarsi trasportare dalla corrente”.
Si alzò in piedi, barcollando. Si accorse che la testa gli
girava, ma non ci fece caso. Che cosa poteva significare
una testa che gira in confronto al sistema gravitazionale?
Camminò, facendo affondare i piedi nella sabbia per
tenersi in equilibrio. Si accorse che la schiena gli doleva,
ma poco gli importò. Pensò ai terremoti, alle maree, ai
vulcani in eruzione.
Il “Re del Mondo” lo accolse sotto il suo tetto di legno e
paglia, rovinato dagli anni, dalla salsedine, dalle tempeste,
dalla meraviglia della natura. Un bar, lo chiamavano, ma
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forse era nato come magazzino. Aveva sedie, e tavoli,
bicchieri e spillatori per la birra, ma mai si sarebbe potuto
definire un luogo accogliente. Quegli stracci appesi alle
finestre che filtravano la luce del sole in un altro mondo
avrebbero dovuto chiamarsi tende, ma lì erano solo
stracci. E le luci al neon, così fredde e così anonime, ti
facevano sentire in un obitorio. Questo aveva pensato,
quando per la prima volta entrò nel “Re del Mondo”.
Quanti mesi prima? Quattro? Cinque? Aveva perso il
conto.
Matt sorrise di nuovo, mentre superava il bancone e
scendeva nello scantinato. Per assurdo, erano quelle
quattro pareti di compensato che a Matt piacevano di più.
Non pretendevano di essere altro rispetto a quattro
pareti di compensato e a lui non serviva di più. Si lasciò
cadere sul materasso buttato a terra in un angolo, il vero
e unico pezzo di mobilia che conteneva quella stanzetta
scavata nella sabbia. Si mise comodo, appoggiando la
testa a un mucchio di vestiti che usava come cuscino, poi
sciolse sotto la lingua un sottilissimo strato di felicità
effimera e aspettò che lo scantinato scomparisse.
All'improvviso galleggiava nel nulla. Galleggiava nel vuoto
cosmico. Senza tempo, senza ossigeno, senza eventi. Non
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esisteva né il prima, né il dopo. Tra le stelle troppo vicine,
e i pianeti troppo grandi. Era felice. Era felice perché era
nello spazio e aveva raggiunto il Suo obiettivo.
Lo desiderava da tanto. E questo voleva. Questo si
meritava.
Nuotò a rana. Poi a stile libero. Ridendo. Ridendo a
crepapelle. E dall'alto osservava la Terra, così piccola.
Chiamò Sam, urlò il suo nome. «Ce l’ho fatta. Sam! Hai
visto?».
Poi diventò pesante e si sentì precipitare. Sentiva lo
scorrere del tempo sulle ossa e sulla carne, sentiva che le
cose non stavano andando come lui aveva sperato.
Sentiva che tutta la sua felicità veniva risucchiata in un
buco. E la Terra si avvicinava pericolosamente. Sapeva che
si sarebbe schiantato e aveva paura. Urlò. Cercò di
arrestare la caduta. Gridò che non voleva tornare laggiù,
in basso. Ma non poté far nulla per evitarlo.
Niente ha importanza rispetto all'immensità dello spazio,
della natura, del ciclo della vita, dello scorrere del tempo.
Non quello che desideri, non quello che vuoi, non quello
che meriti. Gli eventi accadono e si succedono, il tempo
passa inesorabile, e mai una volta si riavvolge. Mai una
volta ha il potere di cambiare le cose, il misero,
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insignificante, essere umano.
Mai, per quanto possa impegnarsi.
E quando il caldo e duro asfalto di Los Angeles lo
raggiunse, si svegliò.
Era di nuovo nello scantinato. Fissava il soffitto marcio e
ammuffito, come molte volte prima di quella. Si ricordò
perché una sera, non sapeva quale, decise di dormire sulla
spiaggia. Il soffitto lo relegava in un ambiente chiuso, lo
confinava, il soffitto significava fallimento, e lui non
voleva fallire di nuovo. Respirò piano per scacciare il
terrore nel suo cuore. Non sapeva quanto tempo era
passato. Ore? Giorni? Non sapeva quanto era alto il sole
nel cielo. Ma niente di tutto questo aveva importanza.
Aveva ancora l’ago nella vena e il laccio annodato al
braccio. Un viaggio sempre più corto dei precedenti.
Di più. Gliene serviva di più.
A volte scommetti con uno sconosciuto che riesci a bere
più birre di lui. A volte capita che vinci. Succede che lo
sconosciuto che ti sfida non sappia niente della tua vita.
Non sa che hai guidato un camion su per le vette cilene
masticando foglie di coca per tenerti sveglio. Non sa che
sei stato piegato sul tuo stomaco per un anno intero a
raccogliere la pianta del peyote. Non sa che quando
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finivano i sigari, c’era il rum a tenerti in vita. Non sa che
sei sopravvissuto ai peggiori liquori di tutto il continente
sudamericano.
Lo sconosciuto non sapeva niente della tua vita, e non
avrebbe dovuto sfidarti.
Così succede che vinci il suo bar sulla spiaggia. Non che tu
l'avessi desiderato, non che tu l'avessi voluto, non che tu
l'avessi previsto. É successo e basta, perché il Caso ha
voluto così. Il tempo ha voluto così, e niente può impedire
al tempo di scorrere, niente può costringerlo ad
avvolgersi su stesso.
L’asfalto di Los Angeles lo accarezzò ancora una volta. Lo
toccò appena, ma il solo contatto bastò a terrorizzarlo. Il
suo cuore si fermò per qualche istante. Qualche istante,
che durò più di una vita intera. Quando riprese a battere e
l'ossigeno fluì di nuovo nelle sue arterie, si sentì
trascinare. All'improvviso veniva risucchiato nel vortice
del tempo. Volò. Volò a mezz’aria. Entrò con i piedi dal
parabrezza sfondato della sua Mercedes, sentì il vetro
tagliare gli strati più profondi della sua vita e il sangue
caldo tornargli in corpo. Sentì la fredda sensazione che
tutto sarebbe finito.
“Oh Sam. Non era previsto tutto questo”.
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E ancora il soffitto dello scantinato. Brutto e marcio. E
fallimentare.
Di più. Gliene serviva di più.
A volte capita che ti innamori di una ragazza. Te ne
innamori dal primo momento in cui la vedi. Quando sei
così piccolo, che neanche sai cos'è l'amore. Succede che
diventi grande. Succede che, per qualche misterioso
motivo, lei ti corrisponde. Succede che ci fai l’amore.
Succede che lei ti faccia sentire come sospeso nel vuoto.
Nel vuoto cosmico. Ed era tutto quello che desideravi. Sei
felice, come mai potrai esserlo ancora.
Succede che poi tutto quello che fai, lo fai per lei. Tutto
quello che dici, lo dici per lei.
Ma tutto è così imprevedibile. E così fuori dalle tue
possibilità, anche se l'amore ti faceva pensare di essere
invincibile. Folle, folle, misero, essere umano!
Così dici una parola di troppo, fai qualcosa che non
andava fatto. Uno stupido errore, poi un litigio, che ne fa
nascere altri, che diventano altri errori, che si trasformano
in altri litigi e in altri errori. E all'improvviso arriva una
tempesta e tu non hai niente sotto cui ripararti. La bella
dai capelli biondi come la paglia, lunghi come gli steli del
granoturco pronti per il raccolto, se ne va. E quegli occhi
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azzurri, nei quali una volta vedevi il cielo, all’improvviso,
non sono più limpidi. Ma solcati da un mare di lacrime.
“Oh Sam. Non era previsto tutto questo”.
Ancora il soffitto dallo scantinato.
Di più. Ancora di più.
A volte il fato è clemente. Capita che trovi la tua anima
gemella dall'altra parte della strada. Non la stavi
cercando, e non volevi trovarla, ma poi eccola lì. Sola e
fragile, arrampicata sul tetto di una casa nel silenzio della
notte. Volte ancora più rare capita che le due metà di una
mela siano così vicine, che si trovano a condividere lo
stesso utero. Capita che siano così simili che a volte anche
la loro madre li confonde. Nascono insieme, e per sempre
staranno insieme, nessuna distanza basterebbe a
separarli. Gemelli, talmente simili, talmente vicini, che
sembrano una sola persona. Sono una sola persona. E ciò
che il Destino ha unito, l'uomo non osi dividere.
Poi l’Audi davanti alla loro Mercedes inchiodò, Matt frenò
di conseguenza, e Sam venne sbalzato fuori dal
parabrezza. Il tempo rallentò di colpo e la scena proseguì
lentamente, fotogramma dopo fotogramma. Più e più
volte Matt rivide l'incidente, in ogni singolo, crudele,
dettaglio. Gli occhi mentivano e i sensi vacillavano, questo
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credette. Quelle immagini, quegli istanti di morte,
dovevano essere il frutto di qualche incubo, effetti
collaterali di qualche sostanza, ma non realtà. Definitiva e
immutabile. Perché niente poteva separare ciò che il
Destino aveva unito. Non una cintura slacciata, non uno
stupido incidente su un'altrettanta stupida autostrada,
non una litigata senza alcun valore.
Non quegli splendidi capelli color della paglia. Non quegli
occhi azzurri che riflettono il cielo.
No. Nemmeno lei.
Di nuovo. Il soffitto lercio. Per l'ennesima volta, per
l'ennesima dose.
Il tempo passa e gli eventi accadono. E tu sei impotente.
Niente che tu possa dire, niente che tu possa fare, se non
osservare immobile quanto accade attorno a te, lo
scorrere della vita, lo scorrere del tempo, e lasciarti
trasportare. Mai una volta ha il potere di cambiare le cose,
il misero, fallace, essere umano. Mai, per quanto possa
impegnarsi. E se il Destino ha deciso, l'uomo non potrà
opporsi.
Potrà solo seguire la sua strada fino alla Fine.
Matt non aveva previsto quell'incendio sulle colline, e
tutto quello che successe dopo. Non aveva previsto
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l'amore, così come non avrebbe mai potuto prevedere
l'incidente. Suo fratello non sarebbe dovuto morire. Ma
cosa poteva fare lui? Così piccolo, così impotente? Le
parole erano state dette, le cose erano state fatte.
Quante volte sognò di afferrare suo fratello per la spalla e
dirgli: «Resta, e beviamo ancora un'altra birra. Non dirmi
che ti ho deluso, non dirmi che non mi perdonerai mai,
che non te lo saresti mai aspettato da tuo fratello. Diamo
tempo al tempo. Lasciamo passare qualche minuto,
qualche ora, qualche giorno, e vedrai che tutto si
sistemerà!». E l'incidente avrebbe coinvolto altri, e loro
due sarebbero ancora in quell'angolo di paradiso, a
vivere.
Matt non aveva previsto tutto questo.
Ma quando, dopo l'ennesima dose, Matt non riaprì gli
occhi, questo sì, che l'aveva previsto. Questa era la sua
strada, il suo Destino. Era la sua Fine.
Era previsto che Matt morisse di overdose. In quel
secondo, uno dei tanti, quando il suo cuore smise di
battere, senza più ricominciare, e lui, finalmente,
incominciò a volare per sempre.
Erano stelle troppo vicine e pianeti troppo grandi quelli
che lui vedeva. E andava bene così. Era leggero. Era senza
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tempo. Era senza eventi. E niente avrebbe potuto
rimandarlo a terra. Fluttuava nello spazio inconsistente.
Era lassù, oltre le nuvole e guardava in basso. Ed era
felice. Chiamò a gran voce suo fratello.
«Sono qui. Per sempre, questa volta».
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02
VICTIMS
Hocus Pocus. La porta si apre. Decine di pensieri affollano
la mia testa. Decine di persone si muovono. Teste che
sobbalzano. Parlano. Si agitano. Ballano. Fanno rumore.
L’afa, e la puzza di sudore, e il caldo. E questa musica, che
mi sfonda i timpani. Ma è la musica o il mio cuore a fare
questo rumore? Sta battendo così forte che sento la mia
mano rimbalzare sul mio petto. Il mio cuore sta per
esplodere. Credo che farà male.
“Denti da cavallo” afferra il mio braccio, mi chiede se sto
bene. Ancora questa domanda. Il mio cuore sta
esplodendo e qualcuno mi chiede se sto bene. Sarebbe
una bella ragazza se non fosse per i denti da cavallo e la
criniera. «Nitrisci allora!». Mi scosto.
Non mi sono mai piaciuti i cavalli.
Hocus Pocus. Dove sono? Sono nella cucina di qualcuno.
Sto mangiando patatine al formaggio. Una dopo l’altra.
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Non mi sono mai piaciute, eppure continuo a mangiarle.
La mia mano si abbassa, il pugno afferra, la bocca si apre, i
denti masticano. Sorprendente! Sono io a volerlo? Sto
facendo davvero tutti questi movimenti? Ho fame. Forse è
la fame a muovere i miei muscoli. E credo che queste
patatine starebbero benissimo con la panna spray sopra.
Ho voglia di panna spray.
Hocus Pocus. Perché la mia maglietta è bagnata? Sento lo
stomaco freddo e la bocca asciutta. Ho la sensazione che
qualcosa sia andato storto, ma non riesco a capire cosa.
Perché la mia maglietta è bagnata? Questa puzza di alcool
brucia i polmoni e tutto quello che incontra prima. Non
riesco a respirare. Mi sento andare a fuoco. «Portate
dell’acqua!».
Mi serve dell’acqua, sto cercando un bagno. Sto andando
al piano superiore, e mille persone inevitabilmente mi
toccano. Mi sento a disagio. Mi sento strana. Nauseata.
Hocus Pocus. Dove sono? Sono davanti a un quadro. Il
leone che rincorre la gazzella. Il leone corre e corre e
corre, ma la gazzella è sempre più veloce. E sta per
travolgermi. Non ha intenzione di fermarsi, o verrà
mangiata dal leone.
«Kobe, eh?». Mi distraggo e la gazzella scompare. Chissà
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se è riuscita a sopravvivere. Chi mi sta parlando? Ah.
“Boston Celtics” mi sta parlando. Cos’ho in mano? Ah. Un
bicchiere di plastica rossa.
“Boston Celtics”, un bicchiere, e un fusto di birra. Le tre
cose sono collegate, ma non riesco a capire come. Poi
tutto si fa più chiaro. I pensieri, all'improvviso, seguono
una linea precisa.
«Vorrei della birra! Ho sete!». Ho davvero tanta sete!
«Lo so. Me l’hai già detto!». Ma io non ricordo di averlo
fatto.
Hocus Pocus. Dove sono? Davanti a un frigorifero. Non è il
mio frigorifero.
Se fosse il mio frigorifero troverei la panna spray nel
ripiano a destra. Non è il mio frigorifero e non sono a casa
mia. A casa mia non c’è tutta questa gente. Tutta questa
musica. Tutto questo caldo. Tutte queste luci che si
accendono e si spengono. Perché sono davanti a un
frigorifero e di cosa avevo fame?
Hocus Pocus. Dove sono? Sono su un divano. Chi è il
ragazzo che siede di fianco a me? «Che cosa bevi?» mi
chiede. Sto bevendo qualcosa? Sì. Ho un bicchiere in
mano. Che cosa sto bevendo? Il braccio si alza, la bocca si
apre, la lingua assapora e butta giù.
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Brucia. Potrei incenerire qualcuno con il fiato. Mi sento
come un drago. E allora rido. E la mia lingua butta giù
ancora una volta. Brucia!
«Credo che sia fuoco!» gli dico. Ecco quello che sto
bevendo.
Hocus Pocus. Dov’è la birra? Non preoccuparti di come
sto, Denti da cavallo. Il mio cuore esploderà. Ma prima
voglio farmi una birra. Dimmi dov’è la birra, Denti da
cavallo!
Mi guardo intorno. Decine e decine di persone. Mi
assottiglio per non toccarne nessuna, ma queste toccano
a me. Mi sento nauseata. Mi sento disgustata.
Cerco un bicchiere di birra. Ho la bocca secca e sto
morendo di sete.
Sto morendo di sete. E il mio cuore sta per esplodere.
Resisti e avrai da bere!
«Vorrei della birra! Ho sete!» dico, sperando che qualcuno
mi ascolti.
Un ragazzo, con la maglia dei Boston Celtics, mi sorride,
guardando la mia maglietta di Kobe. Gli do il mio
bicchiere. Finalmente, birra!
Hocus Pocus. Perché ho una panna spray in mano? Non ne
ho idea. Ho la sensazione che qualcosa sia incompleta ma
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non capisco cosa. Un tizio davanti a me sorride. Poi urla.
Vuole che mangi la panna. Il braccio si solleva, la mia
bocca si apre, il dito preme. Una dolce inconsistenza mi
riempie la bocca. Non so perché avessi una panna spray in
mano, ma è stata una bella sorpresa.
Il tizio mi sorride ancora, poi applaude dicendomi che
sono stata brava. Vuole fare un brindisi. Alzo il mio
bicchiere.
Hocus Pocus. Dove sono? Sono in un bagno. Perché sono
in un bagno? Perché sono sul pavimento di un bagno?
Non è casa mia.
Se fossi a casa mia ci sarebbe un tappeto di colore azzurro
sul pavimento. Invece qua è freddo e non c’è nessun
tappeto di colore azzurro. E mi fa male la mano. La pelle si
è arrossata sulle nocche. Mi ricordo che è questo
l’aspetto di una mano quando si prende a pugni qualcuno.
Ho preso a pugni qualcuno?
E chi è quello?!
Hocus Pocus. Perché questo ragazzo mi sta applaudendo?
Alzo il mio bicchiere e lo porto alla bocca, come fa lui. Ma
nella mia gola non scende niente. Mi rattristo. Il bicchiere
è vuoto.
«Tieni! Prendi questo! Te lo sei meritato!» dice.
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Mette un altro bicchiere nella mia mano. «E’ buono!
Bevi!».
Il braccio si alza. La bocca si apre. Chi, per l’amor del cielo,
sta controllando il mio corpo, mentre io non ci sono?
Ingoio. La mia gola immediatamente brucia.
«Non è birra!».
«No che non lo è!» dice. «É fuoco, ragazza mia!».
Hocus Pocus. Che cosa sto facendo? Il mio dito preme il
numero tre. Poi il numero uno. Poi lo zero. Il resto del
numero lo so a memoria. Ma era da anni che non lo
componevo. Chi diavolo sta controllando il mio corpo,
mentre io non ci sono? “Il telefono della persona da lei
chiamata non è al momento raggiungibile”. Ma certo.
Come potrebbe essere altrimenti.
Che cosa sto facendo?
Perché ho un cellulare in mano? Di chi è questo cellulare?
Inorridisco davanti al registro delle chiamate. Matt?
Hocus Pocus. Chi mi sta parlando all’orecchio? Chi ti ha
dato il permesso di avvicinarti così tanto a me? Non lo sai
che è vietato? «Ti va di restarcene un po’ da soli?» mi dice
questo tizio con la maglia dei Boston Celtics. Mi vengono
in mente le Hawaii, non so perché.
«C’è una stanza libera di sopra!». Mi viene in mente il Lau
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Lau che ho mangiato a Log Cabins. Lo preparava la moglie
di quel pescatore americano che abbiamo conosciuto
nella baia. Il Lau Lau è il piatto più buono che io abbia mai
mangiato.
Credo di avere fame. Ho una fame da lupi.
Devo cercare del cibo. Probabilmente è tempo di cercare
una cucina.
Hocus Pocus. «Stai bene?» gli chiedo. É svenuto. Ha
vomitato ed è svenuto. Questo tizio, in questo bagno,
svenuto. Lo scrollo. Lo tiro per i pantaloni. Ma non riesco
a svegliarlo. Poi capisco. Anche lui deve avere problemi
con il controllo del suo corpo. Poi capisco. «Hocus Pocus,
amico!». Lo tiro per la maglietta. Sfilo il suo cellulare dalla
tasca dei jeans, e poi anche il suo portafoglio. Solo venti
dollari. Perché ha già speso tutto.
Sei anche tu una vittima di Hocus Pocus, eh? Finirò anch’io
come te, a vomitare nel bagno di qualcuno? A svenire sul
pavimento di un cesso non mio?
Spero di divertirmi ancora un po’ prima.
Hocus Pocus. Cosa vedo? Scale che salgono. Al piano di
sopra c’è il bagno. Dovevo andare in bagno, ma non
ricordo perché. Qualcuno mi sta toccando. Qualcuno mi
afferra per un braccio e mi allontana dal mio obiettivo.
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Non ho mai sopportato essere toccata dagli estranei.
Serro i pugni. Che finisca presto. Serro i pugni. Che finisca
presto. Ma c'è troppa gente intorno a me, e questa mano
continua a trascinarmi. Vedo una maglia sportiva verde. É
un tizio con la maglia dei Celtics che mi sta toccando, e
questo qualcuno che mi sta parlando. Chi cazzo ti ha dato
il permesso di toccarmi?
Vedo il mio pugno incontrare la mascella di Boston Celtics.
Sento un improvviso dolore alla mano. Vengo spinta
indietro. Atterro su qualcuno. Altra gente mi tocca. Mi
risolleva.
«Non toccatemi, cazzo! Non toccatemi».
Altra gente mi afferra. Devo andarmene, o mi faranno del
male.
«Matt!». «Aiutami!».
Vedo un uscita. Ci sono delle scale. Vedo il pavimento
molto più vicino. Vedo le mie mani su quel pavimento,
mentre velocemente salgo le scale.
Hocus Pocus. Dove sono? Sono su un divano. Chi è il
ragazzo che siede di fianco a me?
«Mi chiamo Mike. Vengo dall’Oregon».
«Non mi interessa come ti chiami». Né da dove vieni.
Fa un sorriso. Un sorriso falso. Mi alzo disgustata. Non mi
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sono mai piaciute le persone false, quelle che fingono,
quelle che ti ingannano. Sento che mi rimetto a sedere,
ma contro la mia volontà. Sento freddo allo stomaco,
all’improvviso.
«Credi che esista il libero arbitrio, Mike? Credi che sia
veramente io a muovere il mio corpo?».
«Come?».
Mi hai fatto un sorriso falso, ma ci sono passata sopra. Mi
hai toccato il braccio per rimettermi a sedere, ma ci sono
passata sopra. Ti ho fatto una domanda e non mi hai
risposto. Non va bene, Mike dall'Oregon. Non va affatto
bene!
«Guarda! Ti sei rovesciata il bicchiere sulla maglietta!» mi
dice.
Ho un bicchiere in mano. É vuoto?
É vuoto! Qualche tipo di liquido è finito sulla mia
maglietta. Qualche odore di fuoco è nella mie narici. Non
riesco a respirare!
Hocus Pocus. Perché Boston Celtics mi sta abbracciando?
Mi vengono i brividi. Mi sento sporca, ora. L’ultima volta
che ho abbracciato qualcuno è stato anni fa. Ma mi era
sembrato così bello farlo, quasi naturale. Non mi sono mai
piaciuti i contatti con gli estranei. Neanche quelli
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accidentali.
«Matt!». Lui lo sapeva che a me non piace essere toccata.
«No! Mi chiamo Jordan!».
«Non mi interessa come ti chiami!» gli dico. Lui fa un
sorriso, è sincero. Probabilmente neanche a lui interessa
come mi chiamo. Si avvicina al mio orecchio. Lo tollero
solo perché il basket è sempre stato il mio sport preferito,
dopo il surf, s'intende. Il surf migliore l’ho fatto alle
Hawaii. Non perché ci fossero onde migliori, rispetto
all'Australia o al Sud Africa, ma perché fui talmente felice
lì, che tutte le tappe successive mi sembrarono noiose.
«Log Cabins!» gli dico. É dove ho fatto surf. Quell’estate,
quella prima estate senza Sam.
Sarei dovuta andare con lui. «Si fa surf anche in Florida,
Heidi!», questo aveva detto prima di partire. «Vieni con
me, e tentiamo di risolvere le cose. Siamo fatti per stare
insieme, noi due». Ma io sono partita per le Hawaii,
perché ci sarebbe stato tempo per rimettere a posto le
cose, per rimettere a posto noi due, tutta una vita. E dopo
le Hawaii c'è stato il Messico, e la Gold Coast, e tanti
tantissimi altri posti. Cavalcavo tutte le onde che riuscivo
a prendere, prima di crollare sulla spiaggia senza forze.
Quella prima estate senza Sam, con tanto, tantissimo,
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tempo davanti a me.
Hocus Pocus. Perché sta squillando un cellulare? É quello
che ho in mano, ma non è il mio. É quello che ho preso
dalla tasca del tizio svenuto. Il mio compagno di Hocus
Pocus, già!
Numero sconosciuto. Forse è il suo spacciatore. Mi
farebbe comodo un’altra dose al momento. Sento che la
magia sta svanendo, e io vorrei che lo spettacolo non
finisse mai.
Una voce femminile parla una strana lingua.
«Non capisco un cazzo di quello che dici!».
Una voce femminile, allora, tenta di parlare uno stralciato
inglese.
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