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da Storia sociale dell’arte di Arnold Hauser Storia dell’arte Einaudi 1

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da Storia socialedell’arte

di Arnold Hauser

Storia dell’arte Einaudi 1

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Edizione di riferimento:Arnold Hauser, Storia sociale dell’arte. Volume se-condo. Rinascimento. Manierismo. Barocco, trad. it.di Anna Bovero, Einaudi, Torino 1955, 1956 e1987Titolo originale:Sozialgeschichte der Kunst und Literatur, C. H. Beck,München

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Indice

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IL RINASCIMENTO

I. Il concetto di Rinascimento 4

II. Pubblico di corte e pubblico borghese nel Quattrocento 18

III. La posizione sociale dell’artista nel Rinascimento 56

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il rinascimento

Capitolo primo

Il concetto di Rinascimento

Quanto di arbitrario ci sia nell’uso di dividere ilMedioevo dall’età moderna e quanto fluido sia il con-cetto di Rinascimento, lo si avverte soprattutto nella dif-ficoltà che si incontra nell’inserire nell’una o nell’altracategoria personalità come Petrarca e Boccaccio, Gen-tile da Fabriano e il Pisanello, Jean Fouquet e Jan vanEyck. Se si vuole, Dante e Giotto appartengono già alRinascimento, Shakespeare e Molière, ancora al Medioe-vo. Né si può metter senz’altro da parte l’opinione chela vera e propria svolta si compia solo nel Settecento el’età moderna cominci con l’Illuminismo, l’idea del pro-gresso e l’industrializzazione1. Converrà piuttosto anti-cipare questa fondamentale cesura situandola fra laprima e la seconda metà del Medioevo, cioè alla fine delsecolo xii, quando rinasce l’economia monetaria, sorgo-no le nuove città e la moderna borghesia acquista i suoicaratteristici lineamenti: in nessun modo comunque saràda porre nel Quattrocento, epoca in cui molte cose giun-gono a maturazione, ma non comincia quasi nulla dinuovo. La nostra concezione naturalistica e scientificaè in sostanza una creazione del Rinascimento, ma ilprimo impulso a quel nuovo orientamento, nel qualequesta nuova concezione ha la sua radice, è stato datodal nominalismo medievale. L’interesse per l’individua-lità, la ricerca della legge naturale, il senso della fedeltàalla natura nell’arte e nella letteratura non cominciano

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affatto con il Rinascimento. Il naturalismo quattrocen-tesco non fa che continuare il naturalismo gotico, in cuigià è manifesta l’interpretazione individuale delle coseindividuali. E se gli apologeti del Rinascimento voglio-no vederne un preannuncio o una prefigurazione in tuttoquanto nel Medioevo è spontaneo, progressivo e perso-nale, se per il Burckhardt già la poesia dei vagantes è unaprima manifestazione rinascimentale, e Walter Paterscorge un’espressione del Rinascimento in un’operaancor cosí intimamente medievale come il chante-fabledi Aucassin et Nicolette, questo modo di interpretarenon fa che mettere in luce, sia pure dal lato opposto,l’intima connessione e continuità esistenti fra Medioe-vo e Rinascimento.

Nel suo quadro del Rinascimento, il Burckhardt insi-ste soprattutto sul naturalismo e indica nel volgersi allarealtà empirica, nella «scoperta del mondo e dell’uomo»l’elemento essenziale della «rinascita». Cosí egli, comei piú dei suoi seguaci, non ha visto che nell’arte rina-scimentale non il naturalismo in sé e per sé era nuovo,bensí solo il suo aspetto scientifico, metodico, integra-le; che non l’osservazione e l’analisi della realtà supe-ravano i concetti medievali, ma solo la coerente consa-pevolezza con cui il dato empirico era registrato e ana-lizzato; che il fatto rilevante del Rinascimento è statoinsomma non che l’artista sia diventato un osservatoredella natura, bensí che l’opera d’arte sia diventata uno«studio della natura». Il naturalismo gotico cominciaquando le rappresentazioni dell’arte cessano di essereesclusivamente simboli e acquistano senso e valoreanche senza un preciso rapporto con la realtà trascen-dente, come pure riproduzioni delle cose terrene. Lesculture di Chartres e di Reims – per quanto fosseancora cosí palese in esse la visione oltremondana – sidistinsero dalle opere romaniche per il loro senso imma-nente, separabile dalla loro significazione metafisica.

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violento perverso, quale lo dipinge la storia del costumerinascimentale; e se questo «malvagio tiranno» sia maistato altro che il sedimento di reminiscenze lasciatodalle letture classiche degli umanisti12.

In questa concezione sensualistica del Rinascimentoamoralismo ed estetismo s’intrecciavano in una manie-ra piú propria della psicologia ottocentesca che di quel-la rinascimentale. La visione estetica del mondo, che futipica dell’età romantica, non si esauriva affatto in unculto dell’arte e dell’artista, implicava anzi una nuovaimpostazione, secondo criteri estetici, di tutti i proble-mi della vita. Ogni dato reale diveniva per essa il sub-strato di un’esperienza artistica, e la vita stessa un’ope-ra d’arte, in cui ogni elemento non era che uno stimoloper i sensi. I peccatori, i tiranni e i malvagi del Rina-scimento apparivano ad essa come grandi, pittoresche,impressionanti figure, protagonisti adatti al coloritosfondo dell’epoca. Quella generazione che, ebbra di bel-lezza e avida di morte, voleva morire «incoronata dipampini», era ben pronta e disposta a perdonare ognicosa di un’epoca che si avvolgeva nell’oro e nella por-pora, trasformava la vita in una splendida festa, e in cui,come si pretendeva, anche il semplice popolo si entu-siasmava per le piú squisite opere d’arte. La realtà sto-rica corrispondeva ben poco a questo sogno d’esteti, eancor meno all’immagine del superuomo in figura ditiranno. Il Rinascimento fu duro e freddo, pratico etutt’altro che romantico; anche sotto questo rispettonon differiva troppo dal tardo Medioevo.

I caratteri che l’individualismo liberale e l’estetismosensualistico hanno attribuito al Rinascimento, in partenon gli si adattano affatto, in parte convengono ancheal tardo Medioevo. Pare che il limite sia qui piuttostogeografico e nazionale che storico. Nei casi discutibili– ad esempio, quelli del Pisanello e dei van Eyck – siriferiranno al Rinascimento i fenomeni del Sud, al

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Medioevo quelli del Settentrione. Le spaziose rappre-sentazioni dell’arte italiana, con il libero movimentodelle loro figure pur nell’impianto unitario della costru-zione, appaiono rinascimentali; l’angustia spaziale dellapittura fiamminga, le sue figure timide, un po’ goffe, isuoi accessori meticolosamente accumulati, la sua leg-giadra tecnica militaristica, danno invece senz’altrol’impressione di qualcosa di medievale. Ma se anche quisi può concedere un certo peso ai fattori costanti dellosviluppo, cioè al carattere etnico e nazionale dei grup-pi che guidano la cultura, non si dovrebbe dimenticareche l’ammissione di un fattore di questo genere signi-fica in sostanza una rinunzia al proprio ufficio di sto-rici: ed è rinuncia questa cui si deve consentire piútardi possibile. Per lo piú si scopre infatti che tali fat-tori presunti costanti non sono che sedimentazioni dicerti stadi dello sviluppo storico, o il frettoloso surro-gato di condizioni storiche che non si sono indagate, mache sono perfettamente indagabili. Comunque, il carat-tere individuale delle razze e delle nazioni ha nelle sin-gole epoche della storia un significato di volta in voltadiverso. Nel Medioevo è insignificante, poiché in quel-l’epoca la grande collettività cristiana è cosa ben piúreale che non l’individualità dei singoli popoli. Ma sulfinire del Medioevo, al feudalesimo, comune a tuttol’Occidente, e alla cavalleria internazionale, alla Chie-sa universale e alla sua cultura unitaria, subentrano laborghesia nazionale con il suo patriottismo cittadino, lesue forme economiche e sociali diverse da luogo a luogo,le anguste sfere d’interessi delle città e delle province,il particolarismo dei principati e le varietà del volgare.Solo allora il carattere nazionale ed etnico emerge piúdecisamente come fattore distintivo; e il Rinascimentoappare come quella forma storica particolare in cui lospirito della nazione italiana si individua dal fondo del-l’unità culturale europea.

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Col Rinascimento le cose cambiano solo nel senso cheil simbolismo metafisico svanisce del tutto e l’artista silimita sempre piú risolutamente e coscientemente a rap-presentare il mondo sensibile. Nella misura in cui lasocietà e l’economia si sciolgono dalle catene della dot-trina ecclesiastica, anche l’arte si volge sempre piú libe-ra all’immediata realtà; ma il naturalismo non è certouna novità del Rinascimento, cosí come non lo è l’eco-nomia mercantile.

Fu il liberalismo ottocentesco ad affermare che ilRinascimento ha scoperto la natura: in realtà quandoesso contrappose al Medioevo quest’epoca schietta eamante della natura, lo fece anzitutto per polemica con-tro il Romanticismo. Quando il Burckhardt sostiene chela «scoperta del mondo e dell’uomo» è opera del Rina-scimento, la sua tesi è un attacco alla reazione romanti-ca e insieme una difesa contro la propaganda ch’essaconduceva servendosi del Medioevo. La teoria dellospontaneo naturalismo rinascimentale ha la stessa fontedi quella che considera conquiste del Quattrocento lalotta contro lo spirito di autorità e di gerarchia, l’idea-le della libertà di pensiero e di coscienza, l’emancipa-zione dell’individuo e il principio democratico. In que-sto quadro la luce dei tempi nuovi contrasta dappertut-to con le tenebre medievali.

Il rapporto di questo concetto del Rinascimento conl’ideologia del liberalismo, appare, ancor piú chiara-mente che in Burckhardt, in Michelet; a lui si deve laformula della «découverte du monde et de l’homme»2.Già il modo in cui egli sceglie i suoi eroi – unendo Rabe-lais, Montaigne, Shakespeare e Cervantes a Colombo,Copernico, Lutero e Calvino3; il fatto che persino inBrunelleschi egli veda solo il distruttore del gotico, econsideri il Rinascimento essenzialmente come l’iniziodi quel processo evolutivo che si concluderà con la vit-toria dell’idea di libertà e ragione, mostra che ciò che

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gl’importava era anzitutto trovarvi l’albero genealogicodel liberalismo. Anche per lui si trattava della lotta con-tro il clericalismo e di quella lotta per il libero pensieroche già aveva rivelato agli illuministi del secolo xviii illoro contrasto con il Medioevo e la loro affinità con ilRinascimento. Infatti tanto per Bayle (Dict. hist. et crit.,IV) quanto per Voltaire (Essai sur les moeurs et l’esprit desnations, cap. 121), il Rinascimento era indiscutibilmen-te irreligioso, e tale si è continuato a considerarlo finoad oggi, benché in realtà fosse soltanto anticlericale,antiscolastico, antiascetico, ma niente affatto miscre-dente. Le idee sulla salvezza, sulla vita futura, sullaredenzione, sul peccato originale, che impegnavano tuttala vita spirituale dell’uomo medievale, diventano, sí,«puramente secondarie» nel Rinascimento4, ma dell’as-senza di ogni sentimento religioso non si può certo par-lare. Perché «se si tenta, – come nota Ernst Walser, –di considerare con metodo puramente induttivo la vitae il pensiero delle personalità piú significative del Quat-trocento, come Coluccio Salutati, Poggio Bracciolini,Leonardo Bruni, Lorenzo Valla, Lorenzo il Magnifico oLuigi Pulci, di regola si dà il caso strano che quelli chesi considerano i segni caratteristici [dell’irreligiosità delRinascimento] non si ritrovano nella persona studia-ta...»5. Il Rinascimento non era neppur cosí ostile all’au-torità, come affermarono illuministi e liberali. Si attac-cavano i chierici, ma si risparmiava la Chiesa come isti-tuzione, e nella misura in cui la sua autorità si restrin-geva, la si sostituiva con quella degli antichi.

Il radicalismo della concezione illuministica del Rina-scimento si acuì ancora verso la metà del secolo scorso,per influsso delle lotte per la libertà6. La battaglia con-tro la reazione ricorreva al ricordo delle repubbliche ita-liane del Rinascimento e incoraggiava l’idea che il lorosplendore culturale fosse in rapporto con l’emancipa-zione dei loro cittadini7. In Francia fu il giornalismo

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antinapoleonico, in Italia quello anticlericale ad aiutarel’acuirsi e il diffondersi di questa concezione8, e ad essapoi si attennero tanto gli storici borghesi-liberali quan-to quelli socialisti. Il Rinascimento ancor oggi si celebranei due campi come la grande lotta della ragione per lalibertà e come il trionfo dello spirito individuale9, men-tre, in verità, né l’idea del «libero esame» fu un porta-to del Rinascimento10, né l’idea della personalità eracompletamente estranea al Medioevo; l’individualismodel Rinascimento era nuovo, non come fenomeno, masolo come programma cosciente, come strumento dilotta e grido di guerra.

Nel suo concetto di Rinascimento il Burckhardt col-lega l’individualismo a una visione sensuale della vita,l’idea dell’autodeterminazione della personalità all’ac-centuata protesta contro l’ascesi medievale, l’esaltazio-ne della natura al nuovo vangelo della gioia di vivere edell’«emancipazione della carne». Da questa connessio-ne di concetti sorge – in parte sotto l’influsso dell’im-moralismo romantico di Heinse e anticipando Nietz-sche e il suo amorale culto dell’eroe11 – l’immagine bennota del Rinascimento come età senza scrupoli, violen-ta e gaudente, un’immagine i cui tratti libertini nonhanno veramente alcun diretto rapporto con la visioneliberale del Rinascimento, ma sarebbero inconcepibilisenza il liberalismo e l’individualismo ottocentesco.Infatti è proprio dal disagio della morale borghese edalla ribellione contro di essa, che venne quella corren-te di esuberante paganesimo che trovava nella rappre-sentazione degli eccessi del Rinascimento un surrogatoa piaceri mancati. In tale quadro il condottiere, con la suademoniaca brama di piaceri e la sua sfrenata volontà dipotenza, diventava il prototipo del peccatore irresisti-bile, che nella fantasia dei moderni consumava tutte leimpossibili mostruosità del sogno borghese. Ci si èdomandato con ragione se sia esistito in realtà questo

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I tratti piú caratteristici dell’arte del Quattrocentoitaliano sono la libertà e scioltezza nei modi espressivi,originali sia rispetto al Medioevo sia rispetto al Nord,la grazia e l’eleganza, il rilievo statuario, la linea ampia,piena di vita. Tutto vi è chiaro e sereno, ritmico e melo-dico. La rigida, misurata solennità dell’arte medievalesvanisce per cedere il posto a un linguaggio libero, lim-pido, ben articolato; e in confronto persino l’arte fran-co-borgognona dell’epoca pare abbia «un tono fonda-mentalmente fosco, un fasto barbarico, forme bizzarree sovraccariche»13. Con il suo vivo senso per i rapportisemplici e grandiosi, per la misura e l’ordine, la plasti-cità monumentale e la salda costruzione, il Quattrocen-to anticipa – nonostante occasionali durezze e una certadispersione che spesso ancora non riesce a superare – iprincipî stilistici del pieno Rinascimento. E proprio que-sta immanenza del «classico» nel preclassico divide net-tamente le creazioni del primo Rinascimento italianodall’arte del tardo Medioevo e dalla contemporanea artedel Nord. Quello «stile ideale» che unisce Giotto a Raf-faello, domina l’arte di Donatello e di Masaccio, diAndrea del Castagno e di Piero della Francesca, diSignorelli e del Perugino; e nessun artista italiano delprimo Rinascimento sfugge del tutto al suo influsso.L’elemento essenziale di questa concezione artistica è ilprincipio dell’unità, la forza dell’effetto complessivo –o almeno la tendenza all’unità e l’aspirazione a un effet-to unitario, pur moltiplicando forme e colori. Di frontealle creazioni artistiche del tardo Medioevo, un’operadel Rinascimento par sempre una cosa di getto, nellaquale un carattere di continuità lega l’insieme, e la rap-presentazione, per quanto ricca, appare sostanzialmen-te come qualcosa di semplice e di omogeneo.

La forma tipica dell’arte gotica è invece l’addizione.Sia che l’opera consti di piú parti relativamente indi-pendenti, o che di parti non si possa propriamente par-

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lare, che si tratti di pittura o di scultura, di poema o didramma, prevale sempre l’espansione sull’accentramen-to, la coordinazione sulla subordinazione, la serie aper-ta sulla chiusa forma geometrica. Le opere gotiche, o leparti di esse, sono come tappe e momenti di una via checi porta a una visione per cosí dire panoramica dellarealtà, quasi una rassegna, e non già un’immagine uni-laterale, coerente, dominata da un unico ed esclusivopunto di vista. La pittura predilige la rappresentazioneciclica, il dramma tende a mettere in scena tutti gli epi-sodi della vicenda e favorisce, anziché l’accentrarsi del-l’azione in pochi momenti critici, il succedersi dellescene, dei personaggi e dei temi. Quel che conta nell’artegotica non è il punto di vista soggettivo, non la volontàcreatrice, che si afferma nel piegare decisamente a sé lamateria, ma proprio la ricchezza dei motivi che si tro-vano dispersi nella realtà e di cui artista e pubblico nonarrivano mai a saziarsi. L’arte gotica conduce l’occhio daun particolare all’altro e, come si è notato, lo porta a leg-gere l’una dopo l’altra le parti della scena; l’arte delRinascimento, invece, non consente indugi sul partico-lare, non lascia separare alcun elemento dal complessofigurativo, obbliga anzi a cogliere simultaneamente tuttele parti14. Come la prospettiva centrale nella pittura,cosí nel dramma l’unità spaziale e temporale della scenaè il mezzo specifico della visione simultanea. Il nuovomodo di concepire lo spazio, e quindi l’arte in genera-le, si rivela soprattutto nella consapevolezza improvvi-sa dell’incompatibilità dell’illusione artistica con lo sce-nario medievale, fatto di quadri indipendenti15. IlMedioevo, che pensava lo spazio come un aggregato dielementi e quindi scomponibile in questi, non solo pre-sentava l’una accanto all’altra le diverse scene di undramma, ma permetteva agli attori di rimaner sul palcoper tutta la durata della rappresentazione, cioè anchequando non erano di scena. Infatti lo spettatore, come

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non guardava il tratto di palcoscenico sul quale in uncerto momento non si recitava, cosí trascurava la pre-senza degli attori che in quel momento non agissero. AlRinascimento pare impossibile che si possa sezionare inquesto modo l’attenzione. Il mutamento di sensibilità sipalesa in modo inequivocabile nello Scaligero, che trovaappunto ridicolo che «i personaggi non lascino mai il pal-coscenico e quelli che tacciono non sian considerati pre-senti»16. Per la nuova estetica l’opera d’arte costituisceun tutto indivisibile: l’intero campo d’azione del palco-scenico deve offrirsi allo spettatore alla prima occhiata,appunto come lo spazio di un dipinto costruito secondola prospettiva centrale17. Ma l’evolversi dell’arte dallasuccessione alla simultaneità implica una minor com-prensione per quelle «regole del gioco» tacitamenteaccettate su cui, in ultima analisi, riposa ogni illusioneartistica. Perché, se il Rinascimento trova assurdo chesulla scena «si faccia come se non si potesse udire ciò chel’uno dice dell’altro»18, benché i personaggi siano gli uniaccanto agli altri, questo può considerarsi segno di unpiú evoluto verismo, ma senza dubbio implica un certodeclino dell’immaginazione. Comunque, l’arte del Rina-scimento deve soprattutto a questa unitarietà della rap-presentazione l’effetto di totalità, cioè l’apparenza di unmondo naturale, equilibrato, autonomo, e quindi la suamaggior verità rispetto al Medioevo. L’evidenza dellarappresentazione, la sua verosimiglianza, la sua forza dipersuasione risiedono anche qui – come spesso avviene– nell’intima logica dell’immagine, nella concordanzadi tutti gli elementi, ben piú che nella loro corrispon-denza con la realtà esteriore.

L’Italia con la sua arte unitariamente concepita anti-cipa il classicismo rinascimentale, come anticipa l’evo-luzione capitalistica dell’Occidente con il suo razionali-smo economico. Infatti il Quattrocento è essenzialmen-te italiano, mentre sono comuni a tutta l’Europa il Cin-

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quecento e il Manierismo. La nuova cultura artistica siafferma prima in Italia, perché questo paese precedel’Occidente anche sul piano economico e sociale: di quiinfatti s’inizia la rinascita dell’economia, qui trovano laloro organizzazione tecnica, soprattutto per quantoriguarda il finanziamento e i trasporti, le Crociate19; quicomincia a svilupparsi la libera concorrenza in contra-sto con la struttura corporativa del Medioevo, e quinasce la prima organizzazione bancaria d’Europa20. Nonsolo, ma qui la borghesia urbana si emancipa prima chealtrove anche perché fin dall’inizio feudalesimo e caval-leria vi erano meno sviluppati che al Nord, e la nobiltàterriera molto presto si è trasferita in città, assimilandosicompletamente all’aristocrazia del denaro; infine, quidove i monumenti superstiti sono visibili a tutti non siè mai interamente perduta la tradizione classica. Si saquale importanza sia stata attribuita a quest’ultimo fat-tore nelle teorie sull’origine del Rinascimento. Sembra-va infatti la cosa piú semplice ricondurre a un unico,diretto influsso esteriore l’inizio di quel nuovo stile cosídifficilmente definibile. Si dimenticava per altro chenella storia un influsso esterno non è mai la ragioneultima di un mutamento spirituale, perché un influssodiventa attivo solo quando già esistono le premesse peraccoglierlo. La sua stessa attualità dev’essere spiegata:non è quindi un influsso a poter spiegare come diventi-no attuali i fenomeni concomitanti. Se dunque l’anti-chità da un certo momento cominciò a essere ben altri-menti efficace che prima non fosse, occorre anzituttochiederci perché sia avvenuto questo mutamento, per-ché a un tratto la stessa cosa abbia prodotto reazioninuove. Ma questa domanda è altrettanto ampia, gene-rica e difficile quanto quella iniziale, cioè perché e comeil Rinascimento sia diverso dal Medioevo. La sensibilitàall’antico fu solo un sintomo, essa aveva radici profon-de in fenomeni sociali, esattamente come il rifiuto del-

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l’antico al principio dell’era cristiana. Ma neppure ilsuo valore di sintomo dovrà esser sopravvalutato. Certogli uomini dell’epoca avevano chiara coscienza di unarinascita e, con essa, il senso del rinnovamento provo-cato dallo spirito classico, ma questo lo aveva anche ilTrecento21. Invece di citar Dante e Petrarca come pre-cursori, sarà meglio – come hanno fatto gli avversaridella teoria classicista – rintracciare l’origine medievaledi questa idea di rinascita e dedurne la continuità fraMedioevo e Rinascimento.

I piú noti sostenitori di uno sviluppo ininterrotto dalMedioevo al Rinascimento assegnano un valore decisi-vo al movimento francescano, collegando la sensibilitàlirica, il senso della natura e l’individualismo, di Dantee di Giotto, e anche dei maestri piú tardi, con il sog-gettivismo e l’interiorità del nuovo spirito religioso; econtestano che la «scoperta» dell’antichità classica abbiapotuto provocare, nel Quattrocento, una frattura nel-l’evoluzione che già era in corso22. Questa connessionedel Rinascimento con la cultura della cristianità medie-vale e il passaggio senza fratture dal Medioevo ai tempinuovi, è stata sostenuta anche partendo da altre posi-zioni. Per Konrad Burdach il cosiddetto fondamentopagano del Rinascimento è pura leggenda23, e Carl Neu-mann non solo afferma che esso sorge «dalle immenseenergie suscitate dall’educazione cristiana», che l’indi-vidualismo e il realismo del Quattrocento sono «l’ulti-ma parola dell’uomo medievale giunto a maturità», masostiene anche che l’imitazione dell’arte e della lettera-tura classiche, che già aveva portato all’irrigidimentodella civiltà bizantina, anche nel Rinascimento fu piúuna remora che uno stimolo24. Infine Louis Courajodgiunge a negare ogni intimo rapporto fra antichità clas-sica e Rinascimento, e interpreta questo come lo spon-taneo rinnovarsi del gotico franco-fiammingo25. Neppurquesti studiosi, però, che pure affermano la prosecuzio-

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ne senza fratture del Medioevo nel Rinascimento, sirendono conto che la connessione delle due epoche staessenzialmente nella continuità del loro sviluppo eco-nomico-sociale, né intendono che lo spirito francescano,messo in evidenza dal Thode, l’individualismo medie-vale del Neumann, o il naturalismo del Courajod hannola loro origine prima in quel dinamismo sociale che segnala fine dell’economia curtense e muta il volto dell’Occi-dente.

Il Rinascimento intensifica questo processo di svi-luppo dell’economia e della società medievale verso ilcapitalismo solo per l’indirizzo razionalistico che viporta, indirizzo che d’ora in poi sarà predominante intutta la vita intellettuale e materiale. E ad esso si ispi-rano anche i principî che di qui in avanti saranno nor-mativi per l’arte: la coerente unità dello spazio e delleproporzioni, l’accentrarsi della rappresentazione su di unsolo tema principale e l’ordinarsi della composizione inuna forma immediatamente afferrabile. Vi si esprime lastessa avversione per tutto quel che sfugge al calcolo ealla prova, che si ritrova nell’economia del tempo, cheappezza il metodo, il calcolo, la convenienza; lo stessospirito che pervade l’organizzazione del lavoro, la tec-nica commerciale e bancaria, la contabilità a partitadoppia, i metodi di governo, la diplomazia e la strate-gia26. Tutta l’evoluzione artistica s’inserisce nel genera-le processo razionalizzatore. L’irrazionale perde ogniefficacia. «Bello» appare l’accordo logico fra le singoleparti di un tutto, l’armonia dei rapporti che si esprimein numeri, il ritmo matematico della composizione, lascomparsa delle contraddizioni nei rapporti tra le figu-re e lo spazio e tra le singole parti di esso. E dato che laprospettiva centrale non è in sostanza che la riduzionedello spazio in termini matematici, e la giusta propor-zione un ordinare in sistema le singole forme di un qua-dro, cosí a poco a poco tutti i criteri del valore artistico

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e le leggi dell’arte si subordinano a motivi razionali.Questa tendenza non è affatto peculiare dell’arte italia-na; ma al Nord assume aspetti piú grossolani che in Ita-lia, si fa piú materiale, piú ingenua. Un caratteristicoesempio transalpino della nuova concezione artistica èla Madonna londinese di Robert Campin: nel fondo,l’orlo superiore di un parafuoco è anche il nimbo dellaVergine. Il pittore sfrutta una coincidenza formale peraccordare con la realtà consueta un elemento irraziona-le e irreale, e sebbene sia evidente ch’egli è fermamen-te persuaso tanto della realtà soprasensibile del nimboquanto della realtà sensibile del parafuoco, il solo fattoch’egli creda di far piú attraente l’opera sua dando alfenomeno una giustificazione naturale, è il segno diun’epoca nuova, se pur già da tempo in gestazione.

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Capitolo secondo

Pubblico di corte e pubblico borghese nel Quattrocento

L’arte del Rinascimento ha il suo pubblico nella bor-ghesia urbana e nella società delle corti principesche.Quanto al gusto, i due ceti hanno molti punti di con-tatto, nonostante l’originaria differenza. L’arte borghe-se conserva ancora elementi cortesi del gotico; e, in piú,con il rinnovarsi dei costumi cavallereschi, che del restomai avevano perduto una loro attrattiva per i ceti infe-riori, nuove forme di tipico gusto cortese vengono accol-te dalla borghesia. D’altro canto neppure gli ambienti dicorte possono sottrarsi al dominante realismo razionali-stico della borghesia e finiscono per collaborare al costi-tuirsi di una visione del mondo e dell’arte che ha le suepiú profonde radici nella vita urbana. Alla fine del Quat-trocento le due correnti sono cosí commiste, che ancheun’arte profondamente borghese, come quella fiorenti-na, finisce per assumere un carattere piú o meno aulico.Ma questo fenomeno non fa che riflettere la generaleevoluzione e lascia intravvedere il cammino che dallademocrazia comunale porta al principato assoluto.

Già nel secolo xi sorgono in Italia piccole repubbli-che marinare, come Venezia, Amalfi, Pisa e Genova,indipendenti dai feudatari circostanti. Nel secoloseguente si costituiscono altri liberi Comuni, fra gli altriMilano, Lucca, Firenze, Verona, e si formano organismistatali socialmente piuttosto indifferenziati, retti dal

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principio dell’uguaglianza fra i cittadini, che esercitanoil commercio o le industrie. Ma presto divampa la lottafra i Comuni e i feudatari del contado, lotta che finiscecon la vittoria dei cittadini. La nobiltà terriera s’inurbae cerca di adeguarsi alla struttura sociale ed economicadella città. Ma quasi contemporaneamente s’accendeanche un’altra lotta, assai piú dura e non cosí prestodecisa. È la duplice lotta di classe, da un lato fra l’altae la piccola borghesia, dall’altro fra la borghesia nel suocomplesso e il proletariato. La cittadinanza, che nellalotta contro il nemico comune, la nobiltà, era ancoraunita, non appena l’avversario pare sconfitto si scindein gruppi mossi da opposti interessi, che si fan guerra nelmodo piú spietato. Le primitive democrazie già alla finedel secolo xii si sono trasformate in autocrazie militari.Non sappiamo esattamente quale sia stata la causa di taleevoluzione né si può dire con sicurezza se siano state lefaide delle furenti fazioni nobiliari, o i conflitti di clas-se all’interno della borghesia, o forse i due fenomeniinsieme, a rendere necessaria l’istituzione del «podestà»,di un magistrato cioè superiore ai partiti; dappertutto,comunque, a un periodo di lotte di parte, prima o poisuccede la signoria. I signori o eran membri di localidinastie, come gli Estensi a Ferrara; o vicari imperiali,come i Visconti a Milano; o condottieri, come il loro suc-cessore, Francesco Sforza; o nipoti di papi, come i Ria-rio a Forlí e i Farnese a Parma; o cittadini autorevoli,come i Medici a Firenze, i Bentivoglio a Bologna, iBaglioni a Perugia. In molti luoghi la signoria si fa ere-ditaria fin dal Duecento; altrove, specie a Firenze e aVenezia, si mantiene l’antico ordinamento repubblica-no, almeno nella forma; ma dappertutto il sorgere delleSignorie segna la fine dell’antica libertà. Il libero Comu-ne appare una forma politica antiquata27. I cittadini,impegnati negli affari, non sono piú avvezzi alle armi eaffidano la guerra a impresari militari e a soldati di

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mestiere, come sono appunto i condottieri e le loro trup-pe. Dappertutto il signore è il comandante diretto oindiretto delle truppe28.

La storia di Firenze è tipica per tutte le città italia-ne dove non si giunge ancora a una soluzione dinasticae quindi non si sviluppa una vita di corte. Non che l’e-conomia capitalistica a Firenze si sia sviluppata primache in molte altre città, ma qui i singoli stadi dell’evo-luzione si distinguono piú nettamente e le cause deiconflitti di classe che ne conseguono risultano con piúevidenza che altrove29. Anzitutto nel caso di Firenze sipuò seguire con piú esattezza che in altri Comuni il pro-cesso attraverso il quale l’alta borghesia, per mezzo delleArti, giunge a impadronirsi del potere politico, usando-lo poi per accrescere la sua preponderanza economica.Dopo la morte di Federico II le Arti, protette dai Guel-fi, conquistano il Comune e strappano il governo alpodestà. Si costituisce il «primo popolo», «la primaassociazione politica consciamente illegittima e rivolu-zionaria»30 che elegge il proprio «capitano». Formal-mente questi è sottoposto al podestà, ma di fatto è il piúinfluente funzionario dello stato: non solo dispone ditutta la milizia popolare, non solo decide tutte le con-troversie in materia di tasse, ma esercita anche «una spe-cie di diritto tribunizio di protezione e di inchiesta» intutti i casi di lagnanze contro la prepotenza di un nobi-le31. Cosí si spezza il predominio della gente di spada ela nobiltà feudale viene esclusa dal governo della repub-blica. È la prima decisiva vittoria della borghesia nellastoria moderna, un avvenimento che ricorda il trionfodella democrazia greca sulla tirannide. Dieci anni dopola nobiltà riesce a riprendersi il potere, ma ormai la bor-ghesia non ha che da affidarsi alla corrente del tempo,che la risolleva sempre sulle onde tempestose. Verso il1270 si ha la prima alleanza fra l’aristocrazia del sanguee quella del denaro, e si prepara cosí il regime di quel

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ceto plutocratico che determinerà tutta la storia diFirenze.

Intorno al 1280 l’alta borghesia dispone interamen-te del potere, ch’essa esercita principalmente attraver-so il consiglio dei Priori delle Arti. Questi dominanotutto il meccanismo politico e tutto l’apparato ammini-strativo e, poiché formalmente sono i rappresentantidelle Arti, Firenze può dirsi una città corporativa32. Lecorporazioni economiche si son trasformate intanto inleghe politiche. Tutti i diritti effettivi del cittadino sifondano ormai sull’appartenenza a una delle corpora-zioni legalmente riconosciute. Chi non appartiene adalcuna organizzazione professionale non è cittadino dipieno diritto. I magnati sono esclusi dal priorato, qua-lora non esercitino un’industria come i borghesi, o alme-no pro forma non appartengano a un’Arte. Il che certonon vuol dire che tutti i cittadini di pieno diritto abbia-no politicamente lo stesso peso; la signoria delle Arti nonè che la dittatura della borghesia capitalistica raccoltanelle sette Arti maggiori. Come veramente sia nata ladistinzione di grado fra le Arti non sappiamo; certo èche la si trova già definita nei primi documenti della sto-ria economica fiorentina33. I conflitti qui non scoppia-no, come per lo piú nelle città tedesche, fra le Arti e ilceto, non organizzato, dei patrizi, ma fra l’uno e l’altrogruppo delle Arti34. Di fronte a quello del Nord, il patri-ziato di Firenze ha fin dall’inizio il vantaggio d’esserefortemente organizzato, alla pari dei ceti medi. Le Arti,in cui sono associati il commercio all’ingrosso, la gran-de industria e le banche, si sviluppano in vere società diimprenditori, in cartelli. Data la grande potenza di que-ste Arti l’alta borghesia può servirsi dell’intero appara-to dell’organizzazione corporativa per opprimere le clas-si inferiori e anzitutto per ribassare i salari.

Il Trecento è pieno dei conflitti di classe fra la bor-ghesia che è padrona delle Arti e il proletariato che ne

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è escluso. Questo è toccato nel punto piú sensibile daldivieto d’associazione che ostacola ogni azione colletti-va per la difesa degli interessi e qualifica come atto rivo-luzionario ogni movimento di sciopero. L’operaio è orail suddito, privo di ogni diritto, di uno stato classista incui la classe capitalistica, priva di scrupoli morali, è piúinumana di quanto sia mai stata prima o dopo nella sto-ria occidentale35. La condizione è tanto piú disperata, inquanto non si ha assolutamente coscienza che si trattadi vera e propria lotta di classe, non si intende il prole-tariato come una classe sociale e si definiscono i salariatisenza mezzi semplicemente come i «poveri», «che cidebbono pur essere». La floridezza economica, che inparte si deve a questa oppressione dei ceti inferiori, frail 1328 e il ’38 tocca l’apogeo; poi segue la bancarottadei Bardi e dei Peruzzi che provoca una grave crisifinanziaria e un generale ristagno. Il prestigio dell’oli-garchia ne subisce un contraccolpo gravissimo: essa devepiegarsi prima alla signoria del duca d’Atene, poi a ungoverno popolare essenzialmente piccolo-borghese – ilprimo del genere in Firenze. Come già era accaduto adAtene tanti secoli prima, poeti e scrittori parteggianoper la classe signorile, parlando con il massimo disprez-zo – come fanno Boccaccio e Villani – del regime deibottegai e dei manovali. I quarant’anni successivi, finoalla repressione del tumulto dei Ciompi, sono l’unicomomento davvero democratico della storia di Firenze –breve intermezzo fra due lunghi periodi di plutocrazia.Veramente, anche ora è soltanto la volontà del medioceto che riesce a imporsi, le grandi masse operaie deb-bono ricorrere ancora agli scioperi e alle rivolte. Iltumulto dei Ciompi del 1378 è il solo di tali moti rivo-luzionari di cui si abbia precisa notizia; e certo è ancheil piú importante. Soltanto con esso si raggiungono lecondizioni fondamentali della democrazia economica. Ilpopolo caccia i priori, crea tre nuove Arti che rappre-

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sentano gli operai e i piccoli borghesi, e instaura ungoverno popolare che procede anzitutto a una revisionedelle tasse. Il tumulto, che in sostanza è una sollevazio-ne del quarto stato e tende a una dittatura del proleta-riato36, in due mesi viene sconfitto dagli elementi mode-rati, coalizzati con l’alta borghesia, ma ancora per treanni assicura ai ceti inferiori l’effettiva partecipazioneal governo. La storia di questo tempo non solo prova chegli interessi del proletariato erano inconciliabili con quel-li della piccola borghesia, ma permette di riconoscerequale grave errore abbia commesso la classe operaia,proponendosi un mutamento rivoluzionario della pro-duzione nel quadro ormai antiquato delle Arti37. I gran-di commercianti invece e i grandi industriali riconob-bero assai piú rapidamente che le Arti eran diventate unostacolo al progresso e cercarono di affrancarsene. Cosíesse verranno assumendo funzioni sempre piú culturalie sempre meno politiche, finché non saranno del tuttosacrificate alla libera concorrenza.

Rovesciato il governo popolare, si ritorna al punto diprima. Torna a predominare il «popolo grasso», con l’u-nica differenza che il potere non è piú esercitato dal-l’intera classe, ma solo da alcune potenti famiglie e cheil loro predominio non verrà piú seriamente minaccia-to. Nel secolo seguente, appena si avverte un moto sov-versivo, anche minimamente pericoloso per la classedominante, lo si reprime subito e, in verità, senza fati-ca38. Dopo il dominio relativamente breve degli Alber-ti, dei Capponi, degli Uzzano, degli Albizzi e della lorofazione, il potere passa infine ai Medici. D’ora in poiparlare di democrazia sarà ancor meno giustificato.Anche se finora solo una parte della borghesia godevadi veri diritti politici e privilegi economici, questo cetotuttavia, almeno nell’ambito proprio, esercitava il pote-re con una certa equità e in complesso con mezzi cor-retti. I Medici invece sopprimono anche questa demo-

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crazia pur cosí limitata, snaturandola intimamente. Ora,quando si tratta degli interessi della classe dominante,non si mutano piú le istituzioni, ma semplicemente sene abusa; si manipolano le elezioni, si corrompono o siintimidiscono i funzionari, si fan muovere i priori comemarionette. Si parla di democrazia, ma è in realtà la dit-tatura non ufficiale del capo di una ditta familiare, chesi spaccia per un semplice cittadino e si nasconde dietrole forme impersonali di un’apparente repubblica. Nel1433 Cosimo è costretto dai suoi rivali all’esilio, fattoben noto nella storia fiorentina; ma l’anno dopo, torna-to in città, riprende a esercitare il suo potere senza ilminimo impedimento. Si fa rieleggere gonfaloniere perdue mesi, dopo aver già due volte ricoperto tale ufficio;cosí che la sua attività pubblica di governo ha in tuttola durata di sei mesi. In realtà, attraverso uomini dipaglia, stando fra le quinte, egli domina la città senzadignità speciali, né titoli, né uffici, né autorità, sempli-cemente con mezzi illegali. Cosí a Firenze già nel Quat-trocento all’oligarchia succede una larvata tirannide, dacui nasce piú tardi senz’alcun attrito il principato veroe proprio39. Il fatto che i Medici nella lotta contro i lororivali si alleino alla piccola borghesia, non muta nullanella sostanza. La signoria medicea può anche camuffarsiin forme patriarcali, ma per natura è piú faziosa e arbi-traria del governo oligarchico. Lo stato continua ad esse-re il sostegno di interessi privati; la democrazia di Cosi-mo sta tutta nel fatto ch’egli lascia che altri governi perlui e, se possibile, impiega energie fresche e giovani40.

Con la calma e la stabilità, benché imposte a forzaalla maggioranza della popolazione, cominciò per Firen-ze, dall’inizio del Quattrocento, una nuova floridezzaeconomica, che durante la vita di Cosimo non fu inter-rotta da alcuna crisi importante. Qua e là ci furonosospensioni di lavoro, ma insignificanti e di breve dura-ta. Firenze toccò l’acme della sua potenza economica. Di

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qui s’inviavano ogni anno sedicimila pezze di stoffa aVenezia, in transito; inoltre gli esportatori fiorentiniusavano anche il porto di Pisa, ormai soggiogata, e dal1421 quello di Livorno, acquistato per centomila fiori-ni. È naturale che Firenze andasse fiera della sua poten-za e che il ceto dominante, che ne traeva gran profitto,ci tenesse, come già la borghesia ateniese, a far mostradel proprio potere e della propria ricchezza. Dal 1425Ghiberti lavora alla splendida porta orientale del Batti-stero; nell’anno dell’acquisto di Livorno, s’incarica Bru-nelleschi di progettare la cupola del duomo. Firenzedeve diventare una seconda Atene. I mercanti fiorenti-ni si fanno boriosi, vogliono affrancarsi dall’estero, pen-sano all’autarchia, cioè a elevare il consumo interno ade-guandolo alla produzione41.

L’originaria struttura del capitalismo italiano èsostanzialmente mutata nel corso del Tre e del Quat-trocento. Sulla primitiva avidità di guadagno è venutaprevalendo l’idea della convenienza, del metodo, delcalcolo, e il razionalismo, che fin dagli inizi distingueval’economia di profitto, si è fatto assoluto. Lo spirito diintraprendenza dei pionieri ha perduto i suoi caratteriromantici, avventurosi, pirateschi; il predone è diven-tato un organizzatore e un computista, un mercanteprevidente nei calcoli e circospetto nella condotta degliaffari. Nell’economia del Rinascimento non era nuovoin sé il principio di organizzare razionalmente l’attivitàeconomica, né il semplice fatto di abbandonare pronta-mente un sistema tradizionale di produzione non appe-na se ne sperimentasse uno migliore, piú rispondenteallo scopo; nuova invece fu la sistematica coerenza concui la tradizione venne sacrificata alla razionalità, laspregiudicatezza con cui ogni fattore della vita econo-mica venne obiettivamente valutato e trasformato inuna partita di contabilità. Solo questa completa razio-nalizzazione permise di far fronte ai nuovi compiti crea-

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ti dall’aumento degli scambi. L’incremento della pro-duzione esigeva un piú intenso sfruttamento della manod’opera, una piú precisa divisione del lavoro e la gra-duale meccanizzazione dei metodi: non si trattava sol-tanto d’introdurre macchine, ma anche di rendereimpersonale il lavoro umano, valutando il lavoratoreunicamente a seconda del rendimento. Nulla megliorivela la mentalità economica del nuovo tempo di que-sto realismo che riduce l’uomo al suo rendimento e que-sto al suo valore in denaro, al salario; il realismo per cui,in altre parole, l’operaio si riduce a semplice elementodi un complicato sistema d’investimenti e profitti, dipossibilità di guadagno o di perdita, di attività e passi-vità. Ma il razionalismo del tempo si esprime anche esoprattutto nel carattere in complesso commerciale cheha assunto ormai l’economia della città, un tempo essen-zialmente artigiana. E questa trasformazione consistenon soltanto nel fatto che nell’attività dell’imprendito-re il fattore manuale perde importanza e prevalgonoinvece il calcolo e la speculazione42; ma anche nell’af-fermarsi del principio per cui non è necessario produr-re altre merci per produrre altri valori. Ciò che è carat-teristico della nuova economia è quel senso che essa hadella natura fittizia, mutevole, del prezzo di mercatosempre legato alle congiunture, la consapevolezza che ilvalore di una merce non è affatto una costante, anzi flut-tua di continuo, e che il suo livello non dipende dallabuona o dalla cattiva volontà del mercante, ma da con-giunture obiettive. Come dimostra il concetto del «giu-sto prezzo» e gli scrupoli sul dare a interesse, nelMedioevo si considerava il valore come una qualitàsostanziale, stabilmente inerente alla merce; solo con ilcostituirsi di un’economia commerciale se ne scopre lareale natura, la sostanziale relatività e il carattere estra-neo ad ogni considerazione morale.

Nello spirito capitalistico del Rinascimento entrano

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insieme la passione degli affari e le cosiddette «virtúborghesi»: amor del guadagno e operosità, frugalità erispettabilità43. Ma anche il nuovo sistema etico non fache rispecchiare la generale tendenza razionalizzatrice.Il borghese infatti segue positive considerazioni d’inte-resse anche là dove pare che si tratti solo del suo pre-stigio; e per rispettabilità egli intende solidità commer-ciale e buon nome; lealtà, nel suo linguaggio, significasolvibilità. Soltanto nella seconda metà del Quattro-cento questi principî di vita positiva e razionale cedonoall’ideale del rentier e solo allora la vita del borghese assu-me caratteri signorili. Il processo si svolge in tre tappe.Al «tempo eroico del capitalismo» l’aspetto saliente del-l’imprenditore è quello del combattivo predone, del-l’audace avventuriero che fida solo in se stesso e non siadatta alla relativa sicurezza dell’economia medievale.L’abitante delle città a quei tempi combatte realmentecontro la nobiltà nemica, i Comuni rivali e le inospiticittà marinare. Quando a queste lotte segue una relati-va tranquillità e i traffici convogliati per vie sicure per-mettono ed esigono una produzione piú sistematica e piúintensa, il tipo del borghese perde a poco a poco i suoicaratteri romantici; tutta la sua vita si disciplina in unaregola ragionevole, coerente, metodica. Ma, conseguitala sicurezza economica, la disciplina della morale bor-ghese si allenta, e si cede con soddisfazione crescenteagli ideali dell’ozio e della bella vita. Il borghese si avvi-cina a uno stile di vita irrazionale proprio quando i prin-cipi, che ormai pensano secondo criteri fiscali, comin-ciano ad ispirarsi a norme non diverse da quelle profes-sionali di un solido mercante, probo e solvibile44. Lacorte e la borghesia s’incontrano a mezza strada. I prin-cipi diventano sempre piú progressisti, mostrandosianche nella loro attività culturale non meno innovatoridell’alta borghesia; questa per contro si fa sempre piúconservatrice e favorisce un’arte che torna agli ideali

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della cavalleria e dello spiritualismo gotico, o per megliodire – poiché essi non sono mai scomparsi del tutto dal-l’arte – torna a metterli in rilievo.

Giotto è il primo maestro del naturalismo in Italia.Gli antichi autori, Villani, Boccaccio, e anche Vasari,non senza ragione sottolineano l’irresistibile efficaciadella sua fedeltà al vero sui contemporanei; e non pernulla contrappongono il suo stile alla rigidezza e all’ar-tificio della maniera bizantina, allora ancor largamentediffusa. Noi siamo abituati a confrontare la chiarezza ela semplicità, la logica e la precisione del suo linguaggiocon il naturalismo ulteriore, piú frivolo e meschino; cisfugge cosí l’immenso progresso che l’arte di Giotto hasignificato nella rappresentazione immediata delle cose,com’egli cioè abbia saputo dar forma e narrare tuttoquello che prima di lui era semplicemente inesprimibilecon mezzi pittorici. Cosí egli è divenuto per noi il rap-presentante della grande forma classica, severamenteregolare, mentre in realtà egli fu anzitutto il maestro diun’arte borghese, semplice, logica, sobria, che trae la suaclassicità dall’ordine e dalla sintesi che sa imporre alleimpressioni immediate, dalla sua visione razionale esemplificatrice della realtà e non già da un astratto idea-lismo. Si è voluto scoprire nell’opera sua una volontà diricreare l’antico, ma egli in realtà non volle esser che unnarratore breve e preciso, e il suo rigore formale non sideve interpretare come fredda astrazione, ma come inci-siva drammaticità. La sua visione artistica nasce da unmondo borghese relativamente ancor modesto, sebbenegià ben consolidato in senso capitalistico. La sua attivitàsi svolge nel periodo di floridezza economica che sta fral’avvento delle Arti al potere e la bancarotta dei Bardie dei Peruzzi, in quel primo grande periodo di civiltàborghese che vide sorgere gli edifici piú splendidi dellaFirenze medievale: Santa Maria Novella e Santa Croce,Palazzo Vecchio, il Duomo e il Campanile. L’arte di

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Giotto è rigorosa e obiettiva come la mentalità dei suoicommittenti che vogliono prosperare e dominare, manon danno ancora uno speciale valore alla pompa e allosfarzo. L’arte fiorentina dopo di lui è diventata piúnaturale nel senso moderno, perché piú scientifica; manel Rinascimento nessun artista è stato mai piú onestodi lui nello sforzo di essere vero e diretto nella rappre-sentazione del reale.

Tutto il Trecento è sotto il segno del naturalismogiottesco. Veramente qua e là ci sono ancora manife-stazioni di stile arretrato che non sanno liberarsi dalleforme stereotipe dell’antica tradizione pre-giottesca; cisono correnti in ritardo, anzi reazionarie, che si atten-gono allo stile ieratico del Medioevo, ma l’orientamen-to naturalistico è quello prevalente nel gusto dell’epoca.La prima grande rielaborazione del naturalismo giotte-sco avviene a Siena, donde esso penetra nel Nord, spe-cialmente per il tramite di Simone Martini e dei suoiaffreschi nel Palazzo papale di Avignone45. Per unmomento Siena è alla testa dell’evoluzione artistica,mentre Firenze perde assai terreno. Giotto muore nel1337; la crisi finanziaria provocata dai grandi fallimen-ti comincia nel 1339; la squallida tirannide del ducad’Atene è degli anni 1342-43; nel 1346 ha luogo unagrave sommossa; il 1348 è l’anno della grande pestilen-za, che infuria a Firenze ancor piú tremenda che altro-ve; fra la peste e il tumulto dei Ciompi, sono anniinquieti, pieni di torbidi e di rivolte; per l’arte è untempo sterile. A Siena, dove la media borghesia ha mag-gior peso e dove le tradizioni sociali e religiose hannoradici piú profonde, l’evoluzione culturale non è turba-ta da crisi o da catastrofi, e il sentimento religioso puòrivestire forme piú adeguate al tempo e suscettibili dimaggiore sviluppo, appunto perché è ancora un senti-mento vivo. Il maggior progresso sulla via aperta daGiotto lo fa il senese Ambrogio Lorenzetti, il creatore

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del paesaggio naturalistico e della veduta illusionistica dicittà. Di fronte allo spazio di Giotto, che è, sí, unitarioe continuo, ma non mai piú profondo di uno scenario,egli crea, nella sua veduta di Siena, una prospettiva chesupera ogni precedente del genere, non solo per la suaampiezza, ma anche per il naturale collegamento dellediverse parti in un unico spazio. L’immagine di Siena ècosí fedele, che si riconosce ancora la parte della cittàche serví come tema al pittore; e sembra di poter cam-minare per quelle vie che fra i palazzi dei nobili e le casedei borghesi, fra le botteghe e i fondachi si snodano super la collina.

A Firenze l’evoluzione da principio non solo è piúlenta, ma anche meno unitaria che a Siena46. Essa simuove essenzialmente nel solco del naturalismo, macerto non sempre nella stessa direzione dei Lorenzetti edella loro pittura d’ambiente. Taddeo Gaddi, BernardoDaddi, Spinello Aretino sono narratori ingenui quantoAmbrogio Lorenzetti; anch’essi con la loro tendenzaall’ampiezza si rifanno alla tradizione giottesca e perse-guono soprattutto la profondità spaziale. Ma, accanto aquesta corrente, a Firenze ce n’è un’altra importante,quella di Andrea Orcagna, Nardo di Cione e scolari,che, invece dell’intimo e spontaneo modo lorenzettiano,rimangono fedeli alla solennità ieratica del pienoMedioevo, conservandone la rigida simmetria e il ritmosevero, il decorativismo piatto e la frontalità, il princi-pio dell’allineamento e dell’addizione. Tuttavia si è giu-stamente contestata la tesi che in tutto ciò sia da vede-re soltanto una reazione al naturalismo47 e si è ricorda-to che il naturalismo in pittura non sta tutto nellaprofondità spaziale e nella forma libera dagli schemigeometrici: tra le sue conquiste sono anche quei «valo-ri tattili», che il Berenson pregia appunto anche nel-l’Orcagna48. Per il plastico rilievo e il peso statuario chedà alle sue figure, l’Orcagna rappresenta nella storia

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dell’arte una corrente progressiva quanto quella deiLorenzetti o di Taddeo Gaddi, con la loro ricerca diampiezza e profondità spaziale. La supposizione che quisi tratti di un arcaismo programmatico, da connettereall’influsso dei Domenicani, è smentita nel modo piúpalese dagli affreschi della Cappella degli Spagnoli nelchiostro di Santa Maria Novella: per quanto dedicatealla gloria dell’ordine domenicano, queste pitture sono,per molti aspetti, tra le opere piú evolute dell’epoca.

Nel Quattrocento Siena perde la sua posizione diguida nella storia dell’arte. In primo piano torna Firen-ze, all’acme ora della sua potenza economica. Questasituazione invero, se non è la causa immediata della pre-senza e della singolarità dei suoi grandi maestri, spiegacomunque l’ininterrotto flusso delle ordinazioni e quin-di l’emulazione attraverso la quale essi si fanno strada.Ora Firenze è, con Venezia – che tuttavia ha uno svi-luppo tutto particolare e resta un’eccezione – l’unicoluogo in Italia dove si esplichi una cospicua attivitàartistica di tendenze moderne, in complesso indipen-dente dallo stile tardogotico e aulico dell’Occidenteeuropeo. Nella Firenze borghese da principio l’artecavalleresca, importata di Francia, trova limitata com-prensione, mentre viene adottata alle corti dell’alta Ita-lia. Anche geograficamente questa regione è piú vicinaall’Occidente, anzi confina direttamente con territori dilingua francese. I romanzi cavallereschi di Francia vi sidiffondono già nella seconda metà del Duecento e nonsolo vengono tradotti – come negli altri paesi d’Euro-pa – e imitati nell’idioma del paese, ma anche ripresi esviluppati nella lingua originale. Si scrivono poemi epiciin francese, come liriche nella lingua dei trovatori49. Legrandi città mercantili dell’Italia centrale non sonocerto isolate dall’Occidente e dal Nord, e i loro mer-canti, che reggono i traffici con la Francia e le Fiandre,introducono gli elementi della cultura cavalleresca

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anche in Toscana; ma qui manca un pubblico vera-mente interessato sia ad una vera epopea cavalleresca,che ad una pittura ispirata al romanticismocortese-cavalleresco. Invece alle corti dei principi pada-ni, a Milano, Verona, Padova, Ravenna e in molte altrecittà minori, dove dinasti e tiranni si uniformano stret-tamente agli esempi di Francia, non solo si continua aleggere con immutato entusiasmo il romanzo cavallere-sco francese, non solo lo si copia e lo si imita, ma lo siillustra nel gusto d’oltralpe50. L’attività pittorica di que-ste corti per altro non si limita ai manoscritti miniati,ma si esercita anche in grandi cicli decorativi, che ugual-mente traggono ispirazione dagli ideali cavallereschi diquei romanzi e attingono argomenti dalla stessa vita dicorte: battaglie e tornei, cacce e cavalcate, scene digioco e di danza, favole mitologiche, soggetti biblici estorici, immagini di eroi antichi e moderni, allegoriedelle Virtú cardinali, delle Arti liberali e soprattuttodell’amore, figurato o adombrato in mille modi. Que-ste pitture seguono, nell’impostazione generale, i modidell’arazzo da cui principalmente derivano, e al pari diquesto mirano a un effetto di festoso splendore, soprat-tutto con lo sfarzo delle vesti e il contegno di cerimo-nia dei personaggi. Le figure sono rappresentate in poseconvenzionali, ma non senza una relativa giustezzad’osservazione e una notevole disinvoltura di disegno:cosa che si comprende se si pensa che tale pittura ha lesue radici in quello stesso naturalismo gotico da cuideriva anche l’arte borghese del tardo Medioevo. Bastapensare al Pisanello per intendere quanto il naturalismorinascimentale deve a questi affreschi, ai loro sfondi diverzura, a quelle piante e a quegli animali colti contanta vivacità e dipinti con tanta sapienza. I pochiesempi che ancora si conservano in Italia di piú anticapittura decorativa profana forse non risalgono oltre ilprimo Quattrocento, ma i cicli trecenteschi non dove-

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vano essere sostanzialmente diversi. Tali resti si trova-no in Piemonte e in Lombardia, e tra essi sono da ricor-dare quelli del castello della Manta, presso Saluzzo, edi casa Borromeo a Milano. Da fonti contemporaneesappiamo tuttavia che anche molte altre sedi principe-sche dell’alta Italia possedevano una ricca e fastosadecorazione pittorica; tra queste, la rocca di Cangran-de a Verona e il castello dei Carraresi a Padova51.

A differenza di quanto accadeva alle corti, nelle cittàa governo comunale l’arte del Trecento era di carattereprevalentemente sacro. Solo nel Quattrocento ne muta-no lo spirito e lo stile; solo ora, rispondendo alle nuoveesigenze dei privati e al generale orientamento raziona-listico, essa prende carattere mondano. Non solo sidiffondono nuovi generi, come la pittura di storia e ilritratto, ma anche i soggetti sacri si riempiono di moti-vi profani. Certo anche cosí l’arte dei Comuni mantie-ne con la Chiesa e con la religione legami piú stretti chenon l’arte delle Signorie e, almeno in questo, la bor-ghesia è piú conservatrice della società di corte. Ma ametà del secolo anche nei Comuni, specialmente a Firen-ze, si possono notare nell’arte elementi cortesi e caval-lereschi. I romanzi, diffusi dai giullari, penetrano fra lagente piú umile e in forma popolare giungono anchenelle città toscane; frattanto essi perdono il loro ideali-smo originario diventando semplice letteratura amena52.È questa anzitutto a destar l’interesse dei pittori localicon i suoi soggetti romanzeschi; vi si aggiunga poi ildiretto influsso di artisti come Domenico Veneziano eGentile da Fabriano, che provenendo dall’alta Italiadiffondono a Firenze il gusto di corte delle regioni set-tentrionali. Infine l’alta borghesia, ormai ricca e poten-te, comincia a far propri i costumi del mondo aristocra-tico e nella materia del romanzo cavalleresco non vedepiú soltanto qualcosa di esotico, ma anche, in certosenso, dei modelli di vita.

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All’inizio del Quattrocento questa evoluzione insenso aulico si nota appena. I maestri della prima gene-razione, sopra tutti Masaccio e Donatello, son piú vici-ni all’arte severa di Giotto, tutta intesa all’unità dellospazio e al rilievo statuario delle figure, che non al gustoprezioso delle corti o, anche, alle forme leggiadre e spes-so indisciplinate della pittura trecentesca. Dopo le scos-se della crisi finanziaria, della peste e del tumulto deiCiompi, questa generazione deve, si può dire, rifarsi dalprincipio. La borghesia, nei costumi come nel gusto, simostra ora piú semplice, piú sobria e puritana di prima.A Firenze torna a dominare una mentalità obiettiva erealistica, aliena dal romanzesco; e contro la concezio-ne aristocratica e cortese dell’arte un nuovo, fresco,robusto naturalismo riesce ad affermarsi, man mano chela borghesia torna a consolidarsi. Quella di Masaccio edi Donatello giovane è l’arte di una società ancora inlotta, benché profondamente ottimista e sicura dellavittoria, è l’arte di un nuovo tempo eroico del capitali-smo, di una nuova epoca di conquistatori. Come neiprovvedimenti politici di quegli anni, cosí nel grandio-so realismo dell’arte si esprime un fiducioso, se pur nonsempre sereno, senso di forza. Scompare la fatua sensi-bilità, il capriccioso linearismo, il decorativismo calli-grafico della pittura trecentesca. Le figure ridiventan piúsolide, ferme, massicce, stan piú salde sulle gambe, simuovono piú libere e naturali nello spazio. Piuttostocompatte che fragili, rudi piuttosto che leggiadre, espri-mono forza, energia, dignità e serietà. Il senso delmondo e della vita in quest’arte è sostanzialmente anti-gotico, cioè alieno dalla metafisica e dal simbolismo,dal romanzo e dal cerimoniale. Questa, almeno, è latendenza prevalente, anche se non l’unica. La culturaartistica del Quattrocento italiano in effetti è già cosícomplicata, vi partecipano ceti cosí diversi per originee per educazione, che è impossibile chiuderla in una

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definizione che sia unitaria e possa valere per tutti i suoiaspetti. Accanto allo stile «rinascimentale», classica-mente statuario, di Masaccio e di Donatello, sopravvi-ve la tradizione dello spiritualismo gotico, del decorati-vismo medievale: e non solo nell’arte dell’Angelico o diLorenzo Monaco, ma anche nelle opere di artisti pur cosíinnovatori come Andrea del Castagno e Paolo Uccello.In una società cosí economicamente differenziata e spi-ritualmente complessa come quella del Rinascimento,una tendenza stilistica non scompare dall’oggi al doma-ni, anche quando il ceto a cui in origine eran destinatii suoi prodotti perde la sua potenza economica e politi-ca e deve cedere a un altro ceto la sua egemonia cultu-rale o, mantenendola, ne muta l’orientamento. Lo stilespiritualistico del Medioevo poteva anche apparire anti-quato e brutto alla maggioranza della borghesia, ma eraancor quello che meglio rispondeva al sentimento reli-gioso di una minoranza assai considerevole. In ogniciviltà evoluta accade che ceti sociali assai diversi fraloro e artisti ugualmente diversi, legati a questi ceti,generazioni differenti di consumatori e di produttorid’arte, giovani e vecchi, precursori ed epigoni vivano gliuni accanto agli altri, gli uni distinti dagli altri; ma inuna civiltà relativamente antica come il Rinascimento lesingole tendenze non arrivano a esprimersi in gruppidefiniti, esponenti di una sola tendenza, senza conta-minazioni. La presenza di antitetiche tendenze non puòspiegarsi soltanto con la contiguità delle generazioni, «lacoesistenza degli uomini di età diversa»53; spesso i dis-sidi si verificano all’interno di una stessa generazione:Donatello e l’Angelico, Masaccio e Domenico Venezia-no son quasi coetanei, mentre Piero della Francesca, cheè l’artista piú affine a Masaccio, è distinto da lui dallospazio di una mezza generazione. Le antinomie si rive-lano anche nello spirito del singolo. In un artista comel’Angelico, Chiesa e mondo, Gotico e Rinascimento si

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ritrovano indissolubilmente legati tra di loro, come nelCastagno, in Pesellino e nel Gozzoli razionalismo e fan-tasia romanzesca, gusto borghese e gusto aulico. È moltoincerto il confine fra gli epigoni del gotico e i precurso-ri di quel gusto romanzesco caro alla borghesia, che pertanti aspetti è ancora affine al gotico.

Il naturalismo, che costituisce la tendenza fonda-mentale dell’arte quattrocentesca, piú volte cambia stra-da, in corrispondenza con gli sviluppi dell’evoluzionesociale. Il naturalismo di Masaccio, monumentale, anti-goticamente semplice, teso anzitutto alla chiarezza deirapporti spaziali e delle proporzioni, quello ridondantedel Gozzoli, quasi pittura di genere, e la sensibilità psi-cologica del Botticelli corrispondono a tre diversi stadinella storia della borghesia, che dalla semplicità delle ori-gini assurge via via a vera aristocrazia del denaro. Unmotivo colto direttamente sul vero come l’«ignudo chetriema» di Masaccio nella scena del battesimo alla cap-pella Brancacci è una rarità al principio del Quattro-cento, ma verso la metà del secolo sarebbe del tutto nor-male. Allora infatti questo gusto per ciò che è indivi-duale, caratteristico e curioso, assume per la prima voltagrande importanza e nasce allora l’idea di un mondocomposto da petits faits vrais, che finora la storia dell’arteaveva ignorato. Episodi della vita d’ogni giorno, scenedi strada e interni domestici, stanze di puerpere e fidan-zamenti, la nascita di Maria e la Visitazione viste comescene di società, san Girolamo in un interno di casa bor-ghese e le storie dei santi che si svolgono in mezzo altrambusto delle città mercantili: ecco i soggetti delnuovo naturalismo. Ma sarebbe errato presumere checon tali figurazioni si volesse significare che «i santi nonsono che uomini», e che la predilezione per i temi di vitaborghese fosse un segno di modestia; al contrario, si erafieri e soddisfatti di mostrar ogni particolare di quell’e-sistenza. Tuttavia i ricchi borghesi che ora s’interessa-

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no all’arte benché non disconoscano affatto la propriaimportanza, non vogliono apparire piú di quel che sono.Solo dopo la metà del secolo appaiono segni di unmutamento. Piero della Francesca rivela già una certainclinazione alla solenne frontalità e una preferenza perle forme auliche e di cerimonia. D’altronde egli lavoramolto per i principi e subisce direttamente l’influssodelle convenzioni di corte. A Firenze però l’arte si man-tiene, fino alla fine del secolo, libera in complesso daconvenzioni e da eccessivi formalismi, anche se indulgesempre piú a leggiadrie e preziosismi e tende innegabil-mente a un tono sempre piú elegante e squisito. È verocomunque che il pubblico di Antonio Pollaiolo e diAndrea del Verrocchio, del Botticelli e del Ghirlandaionon ha piú nulla in comune con quella borghesia puri-tana per cui avevano lavorato Masaccio e Donatello gio-vane.

La differenza che corre fra Cosimo e Lorenzo de’Medici, la diversità dei principî secondo cui essi eserci-tano il potere e organizzano la loro vita privata ci dannola misura della distanza che separa le due generazioni.Come, dai tempi di Cosimo, la repubblica, sia pur soloapparentemente democratica, si è venuta trasformandoin vero e proprio principato, come il «primo cittadino»e il suo seguito sono diventati un principe e una corte,cosí pure dall’antica borghesia proba e intenta al profittosi è sviluppata una classe che vive di rendita, disprezzail lavoro e il guadagno e vuole godersi nell’ozio la ric-chezza ereditata dai padri. Cosimo era ancora essen-zialmente un uomo d’affari; amava l’arte e la filosofia,si faceva costruir belle case e ville, si circondava di arti-sti e di dotti, e, quando occorreva, non ignorava nem-meno il cerimoniale; ma il centro della sua vita erano labanca e l’ufficio. Lorenzo non ha piú interesse agli affa-ri del nonno e degli avi, li trascura e li manda in rovi-na; lo interessano solo gli affari di stato, i rapporti con

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i monarchi d’Europa, la sua corte principesca, il suoruolo di guida intellettuale, l’accademia neoplatonica equella artistica, la sua attività di poeta e di mecenate.Esteriormente tutto ciò si svolge ancora in forme bor-ghesi e patriarcali. Lorenzo non permette che alla suapersona e alla sua casa si attribuiscano pubblici onori; iritratti dei membri della famiglia servono sempre a usiprivati, non altrimenti da quelli di ogni cospicuo citta-dino, e non sono destinati al pubblico, come, cent’annipiú tardi, le statue dei granduchi54.

Il tardo Quattrocento è stato definito come la cultu-ra di una «seconda generazione», la generazione cioè deifigli viziati e dei ricchi eredi; e il contrasto con la primametà del secolo parve cosí deciso, che si credette dipoter parlare di una cosciente reazione, di una voluta«restaurazione del gotico» e insomma di un «antirina-scimento»55. A questa tesi si obiettò giustamente che latendenza che essa indicava come un ritorno al goticonon fa la sua comparsa solo nella seconda metà del Quat-trocento, ne costituisce invece un aspetto piú o menopalese, ma costante56. Ma per quanto sia innegabile ilperdurare anche nel Quattrocento delle tradizionimedievali e un persistente contrasto tra spirito borghe-se e ideali gotici, non si può disconoscere che nella bor-ghesia fino a metà del secolo è prevalente un atteggia-mento intellettuale avverso al gotico, realistico e anti-romantico, liberale e democratico; e che solo al tempodi Lorenzo lo spiritualismo, il gusto delle convenzioni ele tendenze conservatrici prendono il sopravvento. Tut-tavia non ci si può immaginare l’evoluzione come unarinuncia improvvisa e totale dello spirito borghese allasua struttura dinamica e dialettica. Il dominio delle ten-denze conservatrici, spiritualistiche, cavalleresche e cor-tigiane nella seconda metà del Quattrocento incontranaturalmente contrasti e opposizioni, non meno che laprevalenza, nella prima metà del secolo, dello spirito

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innovatore della borghesia. Come in quei primi anniaccanto agli ambienti progressisti ce n’erano altri cheservivano a ritardare il generale sviluppo, cosí ora accan-to ai gruppi conservatori qua e là si affermano elemen-ti progressivi.

Il ritiro degli antichi ceti, ormai sazi, dalla vita eco-nomica attiva e il farsi avanti di elementi nuovi, finoraesclusi dalla possibilità di grandi profitti, verso i postivacanti, o, in altre parole, l’assurgere di ceti poveri allacondizione di agiati e degli agiati a quella di aristocra-tici rappresenta il ritmo costante dell’evoluzione capi-talistica57. I ceti colti, ieri ancora inclini a innovare, oggisentono e pensano da conservatori; ma prima che pos-sano trasformare l’intera vita intellettuale secondo laloro nuova mentalità, ecco che riesce a impadronirsidegli strumenti della cultura, da cui ancora durante laprecedente generazione era escluso, un altro ceto fortedi una sua capacità dinamica, che a sua volta, alla gene-razione successiva, si porrà come remora al naturale svi-luppo, prima di cedere definitivamente ad altri. Nellaseconda metà del Quattrocento sono veramente gli ele-menti conservatori a dare il tono a Firenze, ma l’avvi-cendamento sociale non è affatto cessato; ci sono sem-pre, notevolmente attive, forze dinamiche che evitanol’irrigidirsi dell’arte nel preziosismo aulico, nell’artificioe nella convenzionalità. Malgrado l’inclinazione a sotti-gliezze manierate e a un’eleganza spesso vacua, conti-nuano ad affermarsi nuovi impulsi naturalistici. Anchese assume molti aspetti aulici, e prende toni formalisti-ci e artificiosi, l’arte di questo tempo non si preclude maila possibilità di rinnovare e ampliare la sua visione.Rimane un’arte innamorata della realtà, aperta a nuoveesperienze: espressione di una società forse un po’ affet-tata e schizzinosa, ma non certo contraria ad accoglierenuovi impulsi. Da questo miscuglio di realismo e con-venzione, di razionalismo e romanticismo escono a un

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tempo la rispettabilità borghese del Ghirlandaio e l’ari-stocratica raffinatezza di Desiderio, il robusto senso delreale del Verrocchio e la poetica fantasia di Piero diCosimo, la lieta amabilità del Pesellino e la malinconi-ca bizzarria di Botticelli. Le cause sociali di questo muta-mento stilistico verso la metà del secolo sono da cerca-re in parte nella diminuzione della clientela. La signo-ria medicea, con la sua oppressione fiscale ha sensibil-mente ridotto il volume degli affari, costringendo moltiimprenditori a lasciare Firenze trasportando altrove leloro aziende58. Sintomi del declino industriale, quali l’e-migrazione dei lavoratori e il regresso della produzione,si fanno già sentire ai tempi di Cosimo59. Sempre piú laricchezza si accentra in poche mani. Il pubblico deicommittenti d’arte, che nella prima metà del secolo ten-deva sempre piú ad estendersi fra i privati cittadini,mostra ora una tendenza a restringersi. Le ordinazioniprovengono principalmente dai Medici e da poche altrefamiglie; la produzione, già per questo fenomeno, assu-me un carattere piú esclusivo e raffinato.

Nei Comuni italiani, durante gli ultimi due secoli,diretti committenti di architetture ecclesiastiche e diopere d’arte non erano per lo piú i prelati, ma i laici chene rappresentavano e ne curavano gli interessi, cioè daun lato il Comune, le grandi Corporazioni e le confra-ternite religiose, dall’altro le fondazioni private, lefamiglie ricche e illustri60. L’attività edilizia e artisticadei Comuni giunse all’apice nel Trecento, col primo fio-rire dell’economia urbana; in quel tempo l’ambizionedei cittadini si manifestava ancora in forme collettivee solo piú tardi cominciò a esplicarsi in iniziative indi-viduali. I Comuni italiani in questa attività artisticaprofusero tesori, come già le poleis greche. E non soloFirenze e Siena, ma anche Comuni minori, come Luccae Pisa, vollero non essere da meno e quasi si dissan-guarono in questa orgogliosa rivalità di costruttori.

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Nella maggior parte dei casi i signori cittadini, giun-gendo al potere, proseguirono l’attività artistica deiComuni e, se possibile, la superarono in prodigalità.Fecero cosí la piú efficace propaganda a se stessi e alloro governo, lusingando la vanità dei cittadini e rega-lando opere d’arte a quegli stessi che poi, di regola,dovevano pagarle. Questo, ad esempio, avvenne per lacostruzione del duomo di Milano, mentre le spese perla Certosa di Pavia vennero sostenute dalla cassa privatadei Visconti e degli Sforza61.

In Italia le Arti non si limitarono, come in altri paesi,a costruire e abbellire i loro oratori e le loro sedi socia-li, ma parteciparono alle imprese artistiche del Comune,specie alla costruzione delle grandi chiese. Tali compitidel resto erano fin da principio di competenza delleArti, che sempre piú li vennero sviluppando, via via chediminuiva il loro influsso politico ed economico. Ma disolito esse si limitavano a fornire dei comitati di esper-ti e degli organi di controllo alle autorità comunali cosícome queste spesso non facevano che amministraredonazioni private. In nessun modo le Arti possono con-siderarsi alla stregua di fabbricieri, e neppure sono daritenere promotrici di tutte le imprese artistiche da lorodirette; per lo piú amministravano soltanto le sommemesse a disposizione per gli edifici e, al massimo, le inte-gravano con prestiti o con contributi volontari di mem-bri dell’Arte62. Per la sorveglianza delle opere loro affi-date, le corporazioni eleggevano propri comitati ediliziche potevano contare da quattro a dodici membri («ope-rai»), a seconda dell’impresa. Tali comitati bandivanoconcorsi, affidavano gl’incarichi, approvavano i proget-ti, sorvegliavano i lavori, procuravano i materiali e cor-rispondevano i salari. Quando la stima di certe presta-zioni artistiche o tecniche richiedeva una particolarecompetenza, essi nominavano un comitato di esperti63.Con simili poteri e attribuzioni l’Arte della Lana, a

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Firenze, condusse la costruzione del Duomo e del Cam-panile, l’Arte di Calimala i lavori del Battistero e dellachiesa di San Miniato, l’Arte della Seta la costruzionedell’Ospedale degli Innocenti. Quale fosse la proceduraconsueta dei concorsi, si ricava chiaramente dalla storiadelle porte bronzee del Battistero. Nell’anno 1401 l’Ar-te di Calimala bandí per esse un pubblico concorso. Frai concorrenti, si designarono sei artisti per un vaglioulteriore: fra essi Brunelleschi, Ghiberti e Jacopo dellaQuercia. Si diede loro un anno per eseguire un rilievodi bronzo, il cui soggetto, a giudicar dall’analogia tema-tica nei lavori conservati, deve essere stato esattamen-te prescritto. Alle spese vive e al mantenimento degliartisti durante il periodo di prova provvide l’Arte stes-sa. Sui modelli presentati deliberò infine un collegio digiudici nominato dall’Arte, composto da trentaquattroartisti di grido.

Al principio le ordinazioni della borghesia consiste-vano soprattutto in doni per chiese e conventi; soloverso la metà del secolo si cominciò a ordinare in mag-gior numero opere profane per uso privato. Da alloraanche le case dei ricchi cittadini, non solo i castelli e ipalazzi dei principi e dei nobili, cominciano a ornarsi diquadri e di statue. Anche qui evidentemente considera-zioni di prestigio, il desiderio di brillare e di farsi unmonumento, giocano un ruolo non minore, e forse piúrilevante, dell’esigenza estetica. Certo, questi moventinon erano estranei nemmeno alle donazioni di opered’arte alle chiese. Ma le condizioni sono ora mutate, cosíche i piú cospicui cittadini, gli Strozzi, i Quaratesi, iRucellai si curano molto piú dei loro Palazzi che dellecappelle di famiglia. Giovanni Rucellai è forse il tipo piúrappresentativo di questi nuovi mecenati interessatisoprattutto all’arte profana64. Di famiglia patrizia arric-chitasi nell’industria della lana, egli appartiene a quellagenerazione gaudente che, sotto Lorenzo de’ Medici,

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comincia a ritirarsi dagli affari. Nelle sue note autobio-grafiche, uno dei celebri zibaldoni del tempo, egli scri-ve che per cinquant’anni altro non ha fatto che guada-gnare e spendere e ha compreso che lo spendere è anchepiú piacevole del guadagnare. Delle sue fondazioni eccle-siastiche egli dice che gli hanno dato e gli danno la mas-sima soddisfazione, perché tornano a gloria di Dio e aonore della città e anche perpetuano la sua memoria. MaGiovanni Rucellai non si limita a doni e a fabbriche, èanche un collezionista: possiede opere di Andrea delCastagno, Paolo Uccello, Domenico Veneziano, Anto-nio Pollaiolo, Verrocchio, Desiderio da Settignano ealtri. Questo trasformarsi dell’amatore d’arte da dona-tore in collezionista lo vediamo anche meglio con iMedici. Cosimo è ancora soprattutto il fabbriciere dellechiese di San Marco, Santa Croce, San Lorenzo e dellaBadia di Fiesole; suo figlio Piero è già un collezionistasistematico, e Lorenzo è esclusivamente un collezionista.

C’è una correlazione storica fra la figura del colle-zionista e quella dell’artista che lavora indipendente-mente dalle ordinazioni; nel corso del Rinascimento essiappaiono contemporaneamente, l’uno accanto all’altro.L’apparizione non è tuttavia repentina, è anzi il risul-tato di un lento processo. L’arte del Quattrocento con-serva ancora nell’insieme un carattere artigianale per cuidi volta in volta si adegua alla natura della commissio-ne, cosí che spesso bisogna cercare l’origine dell’operanon nell’impulso creativo, nella soggettiva volontà diespressione e nell’idea spontanea dell’artista, ma nelleprecise richieste del cliente. Quindi, a determinare ilmercato artistico non è ancora l’offerta, ma la doman-da65. Ogni opera ha ancora la sua destinazione ben pre-cisa e la sua concreta connessione con la vita pratica. Siordina una pala d’altare per una cappella ben nota al pit-tore, un quadro di devozione per un ambiente determi-nato, il ritratto di un congiunto per una certa parete;

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ogni scultura è progettata in vista di una collocazioneben definita, ogni mobile di pregio è disegnato per unadeterminata stanza. In questi nostri tempi di grandelibertà artistica si ammette come un articolo di fede chela costrizione dall’esterno, a cui allora l’artista doveva,ma anche sapeva, sottostare, fosse un fattore indubbia-mente favorevole e addirittura benefico. I risultati paio-no giustificare quest’opinione, ma gli artisti la pensava-no altrimenti. E difatti essi cercarono di liberarsi da ognivincolo, non appena le condizioni del mercato lo per-misero. E questo accadde appunto quando al semplicecommittente subentrò l’amatore, l’esperto, il collezio-nista, cioè quel moderno tipo di cliente che non ordinavapiú quel che gli occorreva, ma comprava quel che gliveniva offerto. La sua apparizione sul mercato artisticosignificò la fine della produzione determinata unica-mente da committenti e compratori, e assicurò alla libe-ra offerta possibilità nuove e insospettate.

Dopo l’antichità classica, il Quattrocento è la primaepoca che di nuovo offra una produzione rilevante d’ar-te profana, e non soltanto esempi numerosi dei generigià noti, come affreschi e quadri di cavalletto, arazzi,ricami, oreficerie e armature, ma anche molti di gene-ri nuovi, creati anzitutto per abbellire la casa del riccoborghese, che al fastoso tono di rappresentanza dellecorti preferisce per l’abitazione un tono confortevole eintimo: ecco quindi spalliere lignee, riccamente ornate,da fissare ai muri, cassoni dipinti e intagliati, lettieredi splendido lavoro, piccoli quadri di devozione in leg-giadre cornici circolari («tondi»), deschi da parto figu-rati, oltre alle solite maioliche e ai molti altri prodottidell’artigianato. In tutto questo ancora si mantiene unagrande affinità fra arte e artigianato, fra pura operad’arte e semplice suppellettile; le cose cambiano solodopo che viene riconosciuta l’autonomia della grandearte, libera da ogni fine pratico, e questa viene con-

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trapposta al carattere meccanico dell’artigianato. Soloallora l’artista si differenzia dall’artigiano e il pittorecomincia a fare i suoi quadri con animo diverso da quel-lo con cui dipinge cassoni e pannelli decorativi, ban-diere e gualdrappe, piatti e boccali. Ma allora eglicomincia pure a sentirsi libero dai desideri del com-mittente, e a trasformarsi da produttore per il clientein produttore di merce, aprendo cosí la via all’amato-re, all’esperto e al collezionista. Questo d’altro cantopresuppone nell’acquirente una concezione formalisti-ca dell’opera, sí che l’apprezzi a prescindere da una pre-cisa destinazione pratica, insomma una, sia pur embrio-nale, concezione dell’«art pour l’art». Concomitanteall’apparizione del collezionista è l’altro fenomenonuovo del mercato artistico, conseguenza diretta delrapporto impersonale che si stabilisce tra compratore eopera d’arte, tra compratore e artista. Nel Quattro-cento, quando la raccolta sistematica d’arte è un casosporadico, il commercio a sé di opere d’arte, scisso dallaproduzione, si può dir sconosciuto; esso nasce soltantonel secolo seguente, quando diventa abituale la ricercadi opere del passato e l’acquisto di opere di contempo-ranei celebri66. Il primo mercante d’arte di cui ci sianoto il nome compare ai primi del Cinquecento: è il fio-rentino Giovan Battista della Palla. Nella sua città nata-le egli dà commissioni agli artisti e compra anche pres-so i privati per conto del re di Francia. Presto si dàanche il caso di mercanti che commissionano opere perspeculazione, rivendendole con profitto67. Nell’etàcomunale i cittadini ricchi e illustri volevano assicurar-si almeno la gloria, dato che, per riguardo verso i con-cittadini, non potevano mettersi in mostra con il lorotenore di vita e dovevano anzi vivere con moderazioneevitando ogni lusso eccessivo. I doni alle chiese eranoil miglior modo per acquistarsi fama eterna, senza incor-rere nel biasimo pubblico. Ciò spiega in parte la spro-

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porzione fra l’arte sacra e quella profana ancora nellaprima metà del Quattrocento, quando cioè la pietà nonera piú il maggior movente delle donazioni. CastelloQuaratesi voleva far costruire a sue spese la facciatadella chiesa di Santa Croce, ma quando non gli fu con-cesso di apporvi il suo stemma non volle piú saperne dimettere in opera il progetto68. Persino ai Medici parvesaggio coprire il loro mecenatismo con un’apparenza didevozione. Certo, Cosimo era ancora preoccupato piúdi nascondere che di mettere in mostra le sue persona-li iniziative artistiche. I Pazzi, i Brancacci, i Bardi, iSassetti, i Tornabuoni, gli Strozzi, i Rucellai perpetua-rono il loro nome costruendo e decorando le loro cap-pelle di famiglia. Per questo si servirono dei miglioriartisti del tempo. La cappella dei Pazzi fu costruita dalBrunelleschi, le cappelle Brancacci, Sassetti, Torna-buoni, Strozzi vennero decorate da pittori come Masac-cio, Baldovinetti, Ghirlandaio e Filippino Lippi. Èmolto dubbio che fra tutti questi mecenati fossero iMedici i piú generosi e intelligenti. Fra i due piú illu-stri della casa, comunque, pare che sia stato Cosimo adavere il gusto piú saldo ed equilibrato. O forse l’equi-librio si doveva al tempo? Egli impiegò Donatello, Bru-nelleschi, Ghiberti, Michelozzo, Fra’ Angelico, Lucadella Robbia, Benozzo Gozzoli, Filippo Lippi. MaDonatello, il piú grande di tutti, ebbe in Roberto Mar-telli un amico e protettore ben piú fervido. Perché maiavrebbe lasciato piú volte Firenze, se Cosimo avessesaputo apprezzare convenientemente il suo valore?Cosimo fu grande amico di Donatello e di tutti i pitto-ri e gli scultori, dicono i ricordi di Vespasiano da Bistic-ci; e poiché gli parve che per questi ultimi ci fosse pocolavoro e gli rincresceva che Donatello dovesse restareinattivo, gli ordinò i pulpiti di San Lorenzo e le portedella sacrestia69. Ma perché in quel tempo aureo dellearti un Donatello doveva correr pericolo di restare ino-

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peroso? Perché un incarico a Donatello doveva esserconsiderato un favore?

Altrettanto, o piú difficile ancora, è dare una giustavalutazione del gusto di Lorenzo in fatto d’arte. Gli siattribuì sempre a merito personale l’altezza e la varietàdegl’ingegni che lo circondavano; e si considerò quellaricca vitalità che si esprime nell’opera dei poeti, filoso-fi e artisti suoi favoriti come irradiata dalla sua perso-na. Da Voltaire in poi il suo tempo si annovera fra leepoche felici dell’umanità, insieme con l’età di Pericle,il principato di Augusto e il Grand Siècle. Egli stesso fupoeta, filosofo, collezionista e fondò la prima accademiad’arte. Si sa qual parte il neoplatonismo avesse nella suavita e quanto questo movimento dovesse a lui personal-mente. Sono noti i particolari dell’amicizia fra Lorenzoe gli artisti del suo ambiente. È noto che il Verrocchiorestaurò per lui cose antiche, Giuliano da Sangallo glicostruì la villa di Poggio a Caiano e la sacrestia di SantoSpirito; per lui lavorò molto Antonio Pollaiolo, amiciintimi gli erano Botticelli e Filippino Lippi. Ma qualialtri nomi mancano a questa lista! Lorenzo non solorinunziò ai servigi di Benedetto da Maiano, il creatoredi palazzo Strozzi, e del Perugino, che durante il suogoverno passò molti anni a Firenze, ma rinunciò ancheall’opera di Leonardo, il maggior artista dopo Donatel-lo, che, a quanto sembra, incompreso, dovette lasciarFirenze ed emigrare i Milano. Egli era lontanissimo delneoplatonismo70, e questo forse spiega l’indifferenza delMagnifico per lui. Il neoplatonismo, come del resto giàl’idealismo platonico, comportava un atteggiamentopuramente contemplativo di fronte al mondo, e, comeogni filosofia che ponga come soli principî della vita leidee pure, esso significava la rinunzia ad ogni interven-to nelle cose della «comune» realtà. Il destino di questarealtà veniva rimesso a coloro che di fatto detenevanoil potere poiché il vero filosofo, secondo il Ficino, aspi-

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ra a morire alle cose della terra e a vivere soltanto nelmondo eterno delle idee71. È naturale che una filosofiacome questa fosse grata a un uomo come Lorenzo cheosteggiò ogni forma di attività politica dei cittadini edistrusse l’ultimo resto delle libertà democratiche72.D’altronde la dottrina di Platone, cosí facile a tradursie diluirsi in poesia, doveva anche di per se stessa rispon-dere al suo gusto.

La natura del mecenatismo di Lorenzo si rivela chia-rissima nei rapporti con Bertoldo. L’autore delle picco-le sculture, eleganti ma alquanto superficiali, gli era piúcaro di tutti gli altri artisti contemporanei. Abitava incasa sua, sedeva ogni giorno alla sua tavola, lo accom-pagnava nei viaggi, era il suo confidente il suo consi-gliere artistico e il direttore dell’accademia da lui fon-data. Pieno di spirito e di tatto, anche nei rapporti ami-chevoli Bertoldo sapeva tenere le distanze; di fine cul-tura, aveva il dono di intuire perfettamente i gusti e idesideri del suo protettore. Era uomo di alto valore per-sonale, eppure pronto a una completa subordinazione:insomma, l’ideale dell’artista di corte73. Lorenzo, certo,trovava molto gusto ad aiutare Bertoldo nel suo lavoro«elaborando miti classici e allegorie complicate e strane,o talvolta anche banali»74, vedeva cosí prendere corpo efigura la sua cultura umanistica, i suoi sogni mitologicie le sue fantasie poetiche. Lo stile di Bertoldo, il suo ser-virsi esclusivamente del bronzo, materiale raffinato,malleabile e pur cosí duraturo, la predilezione per lefigure piccole, per le composizioni leggiadre ed elegan-ti: tutti elementi fatti apposta, si direbbe, per compia-cere al gusto di Lorenzo che senza dubbio prediligeval’arte «minore». Molto poco infatti possedeva dellagrande scultura fiorentina75; il nucleo della sua raccoltaera costituito da gemme e cammei, da cinque a seimila76.Era un genere di derivazione classica e già per questoLorenzo lo preferiva. A rendergli grata l’arte di Bertol-

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do certo contribuiva anche il fatto che si servisse di unatecnica tipicamente classica e di soggetti tratti dall’an-tico. Tutta l’attività di Lorenzo collezionista e mecena-te non era che diletto di gran signore; come la sua rac-colta conservava molti caratteri di un principesco gabi-netto di curiosità, cosí tutto il suo gusto, la sua predile-zione per il leggiadro e il prezioso, per il capriccio e l’ar-tificio, aveva molti punti di contatto con i gusti«rococò» di tanti principotti europei.

Nel Quattrocento accanto a Firenze, che fino allafine del secolo rimane il massimo centro artistico dellapenisola, altri notevoli se ne sviluppano, specialmentealle corti di Ferrara, Mantova e Urbino. Queste simodellano sull’esempio delle corti trecentesche dell’al-ta Italia, da cui derivano i loro ideali cavallereschi e lostile di vita formalistico e antiborghese. Tuttavia ilnuovo spirito razionale, pratico, antitradizionale, nonrisparmia neppure la vita delle corti. Si continua a leg-gere gli antichi romanzi di cavalleria, ma con atteggia-mento nuovo, con distacco un po’ ironico. Non soloLuigi Pulci nella Firenze mercantile, ma anche il Boiar-do alla corte di Ferrara tratta la materia cavalleresca nelnuovo tono disinvolto e semiserio. Gli affreschi deicastelli e dei palazzi conservano l’intonazione già notanel secolo precedente, e ancora vengono preferiti i temimitologici e classici, le allegorie delle Virtú e delle Artiliberali, i personaggi della famiglia regnante e le scenedella vita di corte; ma l’antico repertorio cavallerescoviene lasciato cadere77. La pittura non si presta allatrattazione ironica del soggetto. Ci rimangono, delQuattrocento, in due luoghi illustri, monumenti bensignificativi dell’arte di corte: nel palazzo di Schifanoiaa Ferrara, gli affreschi di Francesco del Cossa, e quellidi Mantegna a Mantova. Mentre a Ferrara prevalgonole affinità con l’arte tardogotica francese, a Mantova siaccentuano quelle con il naturalismo italiano; ma in

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entrambi i casi la differenza rispetto all’arte borghesedel tempo sta piú nel soggetto che nella forma. Il Cossanon si distingue sostanzialmente dal Pesellino, e il Man-tegna ritrae la vita alla corte di Ludovico Gonzaga quasicon l’immediato naturalismo di un Ghirlandaio, quan-do dipinge la vita dei patrizi fiorentini. Nel gusto arti-stico i due diversi ambienti si sono ormai largamenteassimilati.

La funzione della vita di corte è in fondo di propa-ganda e di prestigio. I principi del Rinascimento nonsolo vogliono abbagliare il popolo, ma anche imporsi allanobiltà e legarla alla corte78. Ma non possono contare sol-tanto sul servigi e sulla presenza dei nobili; anzi, posso-no e vogliono servirsi di chiunque – nobile o plebeo –sia loro utile79. Quindi le corti del Rinascimento italia-no si distinguono già nella loro composizione da quelledel Medioevo; esse accolgono avventurieri fortunati emercanti arricchiti, umanisti plebei e artisti maleducatiproprio come se fossero persone di società. In contrastocon la comunità, fondata su principî morali e quindiesclusiva, che fu propria del mondo cavalleresco, si svi-luppa in queste corti una socialità «da salotto» relati-vamente libera, essenzialmente intellettuale, che, purcontinuando la cultura dei piú raffinati ambienti bor-ghesi, com’è descritta nel Decameron e nel Paradiso degliAlberti, non di meno anticipa quei salotti letterari chenel Sei e nel Settecento avranno tanta parte nella vitaintellettuale d’Europa. Nel «salotto» della corte rina-scimentale la donna non è ancora il vero centro, benchéessa partecipi fin dall’inizio alla vita letteraria del grup-po; e anche quando, piú tardi, al tempo dei salotti bor-ghesi, avrà raggiunto questa posizione predominantesarà tuttavia un predominio ben diverso da quello deitempi della cavalleria. D’altronde, anche l’importanzaculturale che il Quattrocento riconosce alla donna nonè che una manifestazione del razionalismo rinascimen-

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tale. Questo le attribuisce una parità intellettuale conl’uomo, ma non la solleva al di sopra di lui. «Tutte lecose che possono intendere gli omini, le medesime pos-sono intendere anche le donne», dice il Cortegiano80; mala galanteria che il Castiglione esige dall’uomo di cortenon ha piú nulla a che fare col servigio della dama richie-sto al cavaliere. Il Rinascimento è un’epoca virile; sonoeccezioni donne come Lucrezia Borgia, che tenne cortea Nepi, o come Isabella d’Este, che fu il centro dellecorti di Ferrara e di Mantova, e non solo incoraggiò ipoeti del suo ambiente, ma pare sia stata anche espertad’arte. Ma quasi dappertutto i maggiori mecenati e pro-tettori delle arti sono uomini.

La civiltà cavalleresca medievale aveva creato unnuovo sistema etico, nuovi ideali di eroismo e di uma-nità; le corti italiane del Rinascimento non mirano cosíin alto, e nella formulazione di ideali per la vita e neirapporti di società non vanno oltre quel concetto disignorilità che, ulteriormente elaborato nel secolo suc-cessivo sotto l’influsso spagnolo, si diffonde in Franciadove costituisce la base di quella civiltà di corte che saràesemplare per tutta l’Europa. Quanto all’arte, le cortidel Quattrocento non hanno apportato nessun elemen-to propriamente originale. Le opere commissionate oispirate dai principi di quel tempo non sono né meglioné peggio di quelle promosse dalla borghesia delle città.La scelta degli artisti dipende forse piú spesso dallasituazione locale che dal gusto personale e dalle prefe-renze dei committenti; non si deve però dimenticare cheSigismondo Malatesta, uno dei piú crudeli tiranni delRinascimento, impiega il piú gran pittore del suo tempo,Piero della Francesca; e Mantegna, l’artista piú signifi-cativo della generazione successiva, non lavora per ilgrande Lorenzo de’ Medici, ma per un principotto comeLudovico Gonzaga. Con ciò non si vuol affatto dire chequesti principi fossero infallibili esperti d’arte. Anche

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nelle loro collezioni, come in quelle del mecenate bor-ghese, c’erano opere di secondo e di terzo ordine. La tesidi una universale intelligenza dell’arte nel Rinascimen-to si rivela, a una indagine piú serrata, una leggendaaltrettanto insostenibile dell’altra di un livello univer-salmente alto di tutta la produzione artistica. Neppurenei ceti elevati si giunse a una relativa uniformità neiprincipî del gusto; tanto meno ciò avvenne per i cetiinferiori. Nulla può illuminarci sul gusto dominante deltempo, meglio del fatto che il Pinturicchio, decoratoreelegante, ma anche routinier, fu l’artista piú occupato delsuo tempo. Si può almeno parlare di un generale inte-resse per l’arte, nel senso in cui ne parlano le pubblica-zioni correnti sul Rinascimento? Ci si appassionava dav-vero, «in alto e in basso», agli avvenimenti artistici? Eraproprio «tutta Firenze» che si agitava per il progettodella cupola del duomo? Era proprio «un avvenimentoper tutto il popolo» il compimento di un’opera d’arte?Di quali ceti si componeva «tutto il popolo»? Anche deiproletari affamati? Non è molto verosimile. Anche deipiccoli borghesi? Forse. Ma, in ogni modo, l’interessedei piú per le cose dell’arte doveva essere piú che altroreligioso e campanilistico. Non dobbiamo dimenticareche a quel tempo gli avvenimenti pubblici si svolgeva-no ancora in gran parte per le vie. Un corteo carnevale-sco, l’arrivo di un’ambasceria, un funerale certo attira-vano la folla non meno del cartone di Leonardo espostoal pubblico, davanti al quale, a quanto si narra, il popo-lo si affollò per due giorni. I piú non avevano idea deldivario di qualità fra l’arte di Leonardo e quella deisuoi contemporanei, se pure l’abisso fra qualità e popo-larità non era allora cosí profondo come oggi. Ma l’a-bisso cominciava proprio allora a scavarsi; in qualchecaso poteva ancora esser superato in quanto il giudizioartistico non era ancora divenuto esclusiva prerogativadegli iniziati. Che gli artisti del Rinascimento godesse-

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ro di una certa popolarità è indubbio; lo dimostra, nonfoss’altro, il gran numero di storie e aneddoti correntisul loro conto. Ma questo interesse si rivolgeva proba-bilmente non all’artista come tale, ma piuttosto al per-sonaggio che lavorava ad opere destinate al pubblico,partecipava a pubblici concorsi, esponeva l’opera sua,riceveva commissioni dalle Arti e già si faceva notare perle sue «geniali» originalità.

Nel Rinascimento, benché fosse relativamente gran-de la richiesta di opere d’arte in città come Firenze eSiena, non si può parlar di arte popolare come si parladi poesia popolare a proposito degl’inni religiosi, delle«sacre rappresentazioni» e dei romanzi cavallereschiscaduti a genere da fiera. C’era probabilmente un’arterustica, e anche una larga produzione di roba da pochisoldi destinata al popolo, ma le vere opere d’arte, ben-ché non molto care, costavano sempre troppo per lagran maggioranza. Si è accertato che intorno al 1480 aFirenze c’erano 84 laboratori per intagli in legno e lavo-ri d’intarsio, 54 botteghe per decorazioni in marmo epietra, 44 officine di orafi e argentieri81; per i pittori egli scultori mancano dati relativi a quello stesso perio-do, ma la matricola dei pittori fiorentini tra il 1409 e il1499 registra 41 nomi82. Il confronto di queste cifre conil numero degli artigiani occupati nelle altre industrie,il fatto, ad esempio, che in Firenze c’erano in uno stes-so periodo 84 intagliatori in legno e 70 macellai83, bastaper farsi un’idea della richiesta di oggetti d’arte. Gli arti-sti identificabili, tuttavia, rappresentano solo un terzoo un quarto dei maestri elencati nei registri84. È proba-bile che i piú non avessero una spiccata personalità e,come un Neri di Bicci, si dedicassero soprattutto a unaproduzione per cosí dire di serie. Gli affari di similiaziende, sul cui andamento c’informano esattamente iricordi di Neri di Bicci85, provano che il gusto del pub-blico era lungi dall’essere cosí sicuro come di solito si

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proclama. Per lo piú si acquistava roba scadente. Secon-do quanto si legge nei manuali, si dovrebbe ammettereche allora il possesso di opere d’arte fosse indispensabi-le per il decoro, e se ne trovassero abitualmente, alme-no nelle case dei cittadini agiati. Ma, a quanto pare, nonera cosí. L’Armenini, trattatista della seconda metà delCinquecento, dice di conoscer molte case distinte, in cuinon c’è un quadro passabile86.

Quello che noi chiamiamo Rinascimento non fu certouna civiltà di mercantucci e di artigiani, e nemmeno laciviltà di una borghesia agiata e mediocremente colta; fupiuttosto il patrimonio d’idee, gelosamente riservato edesclusivo, di una élite imbevuta di cultura latina. Viavevano parte principalmente le sfere collegate al movi-mento umanistico e neoplatonico: classe intellettual-mente omogenea, in complesso concorde come, ad esem-pio, non fu mai il clero nella sua totalità. Le opere piúsignificative dell’arte eran destinate a tale cerchia. Gliambienti piú larghi non ne sapevano nulla, oppure le giu-dicavano con criteri inadeguati, non estetici, e per sés’accontentavano di prodotti di scarso valore. Fu allorache si determinò quella distanza, insuperabile e decisi-va per tutto lo sviluppo successivo, fra una minoranzacolta e una maggioranza incolta, distanza che in questamisura le epoche precedenti avevano ignorato. Non sipuò dire neppure della civiltà del Medioevo che abbiaconosciuto un generale livellamento di cultura; nell’an-tichità poi i ceti colti erano perfettamente consci dellaloro superiorità; ma in queste epoche nessuno mai, adeccezione di piccoli gruppi occasionali, si propose dicreare una cultura programmaticamente riservata a unaélite e da cui la maggioranza dovesse essere esclusa. Lecose cambiano appunto nel Rinascimento. Nel Medioe-vo la lingua della cultura ecclesiastica era il latino, per-ché la Chiesa era legata direttamente e organicamentecon la tarda civiltà romana; gli umanisti invece scrivo-

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no in latino, perché rompono ogni continuità con le cor-renti culturali popolari, che si esprimono nei diversiidiomi, e tendono a crearsi un monopolio della cultura,quasi fossero una casta sacerdotale. Gli artisti si pon-gono sotto la protezione e la tutela intellettuale di que-sta cerchia. Insomma, si emancipano dalla Chiesa e dallacorporazione per soggiacere a un’autorità che pretendeper sé la competenza di entrambe. Infatti ormai gli uma-nisti non soltanto sono autorità indiscusse in tutte lequestioni iconografiche di tipo storico e mitologico, madiventano anche intenditori di questioni formali e tec-niche. Gli artisti finiscono col sottomettersi al loro giu-dizio anche per questioni in cui prima valevan soltantola tradizione e i precetti della corporazione, e nelle qualinessun profano poteva interloquire. Il prezzo della loroindipendenza dalla Chiesa e dalla corporazione, il prez-zo ch’essi debbono pagare per la loro ascesa sociale, perl’applauso e la gloria, è l’accettazione degli umanisticome critici. Questi veramente non hanno tutti la voca-zione del critico e dell’esperto, ma fra loro si trovano iprimi laici che intuiscano i criteri del valore artistico esappiano giudicare dell’opera da un punto di vista pura-mente estetico. Con loro, in quanto osservatori vera-mente capaci di giudizio, nasce, si può dire, in un sensomoderno, il pubblico dell’artista87.

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Capitolo terzo

La posizione sociale dell’artista nel Rinascimento

L’accresciuta richiesta di opere d’arte finisce per ele-vare l’artista dalla condizione di artigiano piccolo-bor-ghese a quella di libero lavoratore intellettuale. Se talipotevano essere anche prima gli artisti, ma a condizio-ne di apparire degli spostati, ora invece cominciano aformare un ceto economicamente sicuro e socialmenteconsolidato, se pur non una classe omogenea. Gli arti-sti del primo Quattrocento sono ancora gente modesta;si ritengono artigiani piú raffinati degli altri ma, né perorigine né per educazione, si distinguono dai piccoliborghesi delle Arti. Andrea del Castagno è figlio di uncontadino, Paolo Uccello di un barbiere, Filippo Lippidi un macellaio, i Pollaiolo sono appunto figli di un ven-ditore di polli. Il loro nome è tratto dall’occupazionepaterna, o dal luogo di nascita, o dal nome del maestro,e all’artista si dà del tu come ai domestici. Egli è sog-getto alla corporazione e non è certo il suo talento chegli dà il diritto di esercitare il mestiere, ma il tirociniocompiuto nel modo prescritto. La sua educazione sifonda sui comuni rudimenti dell’artigianato; egli non vaa scuola, ma a bottega; non viene istruito teoricamente,ma praticamente. Dopo aver imparato piú o meno a leg-gere, scrivere e far di conto, ancor bambino va comeapprendista da un maestro e per lo piú vi resta moltianni. Sappiamo che ancora per il Perugino, Andrea delSarto, Fra’ Bartolomeo il tirocinio durò da otto a dieci

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anni. Gli artisti del Quattrocento – fra gli altri Brunel-leschi, Donatello, Ghiberti, Paolo Uccello, Antonio Pol-laiolo, Verrocchio, il Ghirlandaio, Botticelli, il Francia– provenivano in gran parte dall’oreficeria, che giusta-mente fu detta la scuola d’arte del secolo. Molti sculto-ri cominciavano a lavorare come scalpellini in cantiere,o presso gli intagliatori di ornati, come già nel Medioe-vo i loro predecessori. Donatello è ricevuto nella com-pagnia di San Luca come «orafo e lapicida» e quel cheegli pensi dell’arte e dell’artigianato lo mostra ottima-mente il fatto che il gruppo di Giuditta e Oloferne, unadelle ultime e piú importanti opere sue, è stato ideatoper una fontana, destinata al cortile di palazzo Medici.Ma le piú rinomate botteghe del Quattrocento, nono-stante l’organizzazione ancor sostanzialmente artigia-na, seguono già metodi didattici piú individuali. Ciò valeanzitutto per le botteghe del Verrocchio e dei Pollaioloa Firenze, per quella di Francesco Squarcione a Padovae di Giovanni Bellini a Venezia, dove il capo è ugual-mente famoso come maestro e come artista. Gli allievinon vanno piú in una qualsiasi bottega, ma presso unmaestro determinato, che li accoglie tanto piú numero-si, quanto maggiore è la sua fama di artista. Sono appun-to questi ragazzi la mano d’opera, se non sempre miglio-re, certo piú a buon mercato. Sarà questo anche il moti-vo principale di quell’intensificarsi del discepolato arti-stico che d’ora in poi si può osservare, e non già l’am-bizione degli artisti di esser ritenuti buoni maestri.

Il tirocinio, secondo la tradizione ereditata dalMedioevo, comincia con lavori manuali d’ogni sorta:macinar colori, pulir pennelli, preparar le tavole e le tele;si passa poi a trasportare certe composizioni dal carto-ne al quadro, ad eseguir panneggi e parti secondarie difigure, e si finisce con l’esecuzione di intere opere sullatraccia di semplici schizzi e indicazioni verbali. Cosíl’apprendista diventa aiuto, piú o meno indipendente,

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che dev’essere, in genere, tenuto distinto dallo scolaro.Infatti non tutti gli aiuti di un maestro sono allievi suoi,né tutti gli allievi rimangono in bottega come aiuti.L’aiuto è spesso un artista che val quanto il maestro, mapuò essere anche uno strumento impersonale nelle suemani. Dalla mutevole combinazione di queste possibilitàe dalla frequente collaborazione fra maestro, aiuti ediscepoli alla stessa opera viene non solo un miscugliostilistico spesso difficile da analizzare, ma talvolta ancheun effettivo livellamento delle differenze individuali,una forma comune, fondata anzitutto sulla tradizioneartigiana. Il caso ben noto nelle biografie rinascimenta-li – sia esso realtà o finzione – del maestro che rinunziaalla pittura perché uno dei suoi allievi lo ha superato(Cimabue-Giotto, Verrocchio-Leonardo, Francia-Raf-faello) potrebbe rappresentare uno stadio ulteriore dellosviluppo, quando la comunità della bottega sta ormai perdissolversi, oppure – come nel caso del Verrocchio e diLeonardo – potrebbe avere una spiegazione piú realisti-ca di quella fornita dagli aneddoti. Probabilmente Ver-rocchio cessa di dipingere, e attende esclusivamente allascultura, dopo che si è persuaso di potere lasciare tran-quillamente le commissioni di pittura a un aiuto comeLeonardo88.

Nella bottega dell’artista quattrocentesco dominaancora lo spirito collettivo del cantiere e della corpora-zione; l’opera non è ancora l’espressione di una perso-nalità indipendente, che accentua la propria originalitàe si chiude a tutto ciò che le è estraneo. L’esigenza dicondur l’opera di propria mano dal principio alla fine el’impossibilità di una collaborazione feconda con allievie aiuti si rivelano solo in Michelangelo, che anche perquesto aspetto è il primo artista moderno. Per tutto ilQuattrocento il lavoro artistico conserva il suo caratte-re di collaborazione89. Per realizzare le grandi opere,soprattutto di scultura, si fondano vasti laboratori di

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tipo industriale con molti aiuti e manovali. Cosí nellabottega del Ghiberti, quando eseguiva le porte del Bat-tistero, una fra le massime imprese artistiche del Quat-trocento, lavoravano circa venti aiuti. Fra i pittori, unGhirlandaio e un Pinturicchio, per l’esecuzione dei gran-di cicli di affreschi, impiegavano intere équipes di aiu-tanti. La bottega del Ghirlandaio, in cui collaborano sta-bilmente anzitutto i fratelli e il cognato del maestro, èuna delle grandi aziende familiari del secolo, accanto aquelle dei Della Robbia e dei due Pollaiolo. Alcunipadroni di botteghe sono impresari piú che artisti e disolito si assumono le ordinazioni per poi farle eseguireda un pittore adatto. A questa categoria pare che appar-tenesse anche Evangelista de Predis a Milano, che fragli altri impiegò per qualche tempo Leonardo. Ma tro-viamo altre forme ancora di lavoro artistico collettivonel Quattrocento: ad esempio la bottega tenuta insocietà da due artisti, solitamente ancor giovani, che nonpotrebbero altrimenti affrontarne le spese. Cosí lavora-no Donatello e Michelozzo, Fra’ Bartolomeo e Mariot-to Albertinelli, Andrea del Sarto e il Franciabigio. Sonoancora nel complesso forme di organizzazione colletti-va, che impediscono l’atomizzarsi delle tendenze arti-stiche. Questa solidarietà e continuità di forme si fa sen-tire in senso verticale, oltre che orizzontale. Le perso-nalità piú in vista infatti formano lunghe dinastie dimaestri e allievi, come ad esempio la catena Fra’ Ange-lico - Benozzo Gozzoli - Cosimo Rosselli - Piero di Cosi-mo - Andrea del Sarto - Pontormo - Bronzino, dove lalinea di sviluppo prende forma di un’ininterrotta tradi-zione.

Lo spirito che domina ancora nel Quattrocento sirivela anzitutto negli incarichi di modesto artigianatospesso assunti dalle botteghe degli artisti. Dai ricordi diNeri di Bicci sappiamo quali oggetti potessero uscire dauna fiorente bottega di pittore: oltre i quadri, vi si face-

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vano stemmi, bandiere, insegne, intarsi, intagli in legnopolicromo, modelli per tappezzieri e ricamatori, deco-razioni per feste e molte altre cose. Antonio Pollaiolo,anche quando è già illustre come pittore e scultore, con-tinua a tenere una bottega di orafo, e in essa, oltre asculture e oreficerie, si fanno cartoni per arazzi e dise-gni per incisioni in rame. Il Verrocchio, anche all’apicedella sua carriera, accetta i piú vari lavori di terracottae d’intaglio. Donatello per il suo protettore Martellinon esegue solo il celebre stemma, ma anche uno spec-chio d’argento. Luca della Robbia fabbrica formelle dimaiolica per chiese e case private, Botticelli forniscedisegni per ricami e lo Squarcione tiene una bottega diricamatore. Il tipo di questi lavori varierà, naturalmen-te, secondo l’epoca e il nome del singolo artista, e nons’immagini comunque che il Ghirlandaio e Botticellidipingessero le insegne al fornaio o al macellaio dellacantonata; simili incarichi certo non si accettavano piúnelle loro botteghe. Invece gonfaloni, cassoni nuziali edeschi da parto, fino alla fine del Quattrocento si riten-nero lavori non indegni di un artista. Botticelli, Filip-pino Lippi, Piero di Cosimo ancor nel Cinquecento met-tono mano a pitture di cassoni. Una svolta fondamen-tale nella valutazione del lavoro artistico si nota solo apartire dai tempi di Michelangelo. Per il Vasari incari-chi di tipo artigiano non possono piú conciliarsi con ladignità di un artista. Questo significa in pari tempo lafine della soggezione degli artisti alla corporazione. Èsintomatico l’esito del processo intentato dalla corpora-zione dei pittori di Genova contro Giovanni BattistaPoggi, a cui si voleva proibire l’esercizio della pittura incittà, perché egli non vi aveva compiuto i prescritti setteanni di tirocinio. Quell’anno 1590 in cui fu deciso chegli statuti della corporazione non erano vincolanti perl’artista che non tenesse bottega aperta, conclude unprocesso di trasformazione durato quasi due secoli90.

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Anche economicamente nel Quattrocento gli artistisono equiparati al ceto piccolo-borghese degli artigiani;in generale la loro condizione non è brillante, ma nep-pure veramente precaria. Fra di loro non c’è ancora chiviva da signore, tuttavia non si può parlare di proleta-riato artistico. È vero che i pittori nelle dichiarazionifiscali si lagnano sempre delle loro angustie economiche,ma questi documenti non sono certo per lo storico lefonti piú degne di fede. Masaccio afferma di non poternemmeno pagare il suo garzone, e noi sappiamo cheeffettivamente egli morí povero e pieno di debiti91. Filip-po Lippi, secondo Vasari, non aveva da comprarsi unpaio di calze e Paolo Uccello da vecchio dichiara che nonpossiede nulla, non può piú lavorare e ha la moglie mala-ta. Stavano meglio quelli che erano al servizio di unacorte o di un mecenate. Fra’ Angelico, ad esempio, aRoma riceveva dalla Curia quindici ducati al mese in untempo in cui a Firenze, forse un po’ meno cara, si pote-va viver da signori con trecento ducati all’anno92. Occor-re notare che i prezzi in genere si mantenevano a unlivello medio e che anche i maestri celebri non eranpagati molto meglio degli artisti mediocri e degli ottimiartigiani. Personalità come Donatello avevano proba-bilmente onorari un po’ piú alti, ma non c’erano anco-ra veri e propri «prezzi d’amatore»93. Gentile da Fabria-no per la sua Adorazione dei Magi ebbe 150 fiorini d’oro;Benozzo Gozzoli, 6o per una pala d’altare; FilippoLippi, 40 per una Madonna; ma Botticelli, già 7594.Come stipendio fisso, Ghiberti, finché lavorò alle portedel Battistero, guadagnava duecento fiorini l’anno,quando il cancelliere della Signoria ne guadagnava sei-cento, con l’obbligo di pagarsi quattro scrivani. Un buonamanuense allora riceveva trenta fiorini, oltre le spese.Gli artisti, quindi, non erano proprio mal pagati, se purben lungi dalle remunerazioni dei celebri letterati edocenti che spesso avevano da cinquecento a duemila

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fiorini l’anno95. Tutto il mercato artistico si movevaancora entro confini relativamente modesti; gli artistigià durante il lavoro dovevano richiedere degli anticipisul prezzo fissato e d’altro canto i committenti spessonon potevano pagare se non a rate anche lo stesso mate-riale96. I principi stessi lottavano con la scarsezza didenaro liquido e Leonardo si lamenta piú volte con il suoprotettore Ludovico il Moro, perché non gli è statopagato l’onorario97. Non ultimo elemento che confermail carattere artigiano del lavoro è il regolare contrattoche lega l’artista al committente. Per le opere di mag-gior impegno tutte le spese, cioè l’acquisto del materia-le, gli stipendi e spesso anche il mantenimento di aiutie garzoni, erano assunte dal committente e il maestrostesso riceveva un onorario in ragione del tempo ch’egliimpiegava. Per i pittori il lavoro a salario rimase la rego-la sino alla fine del Quattrocento; solo piú tardi questotipo di compenso sarà riservato alle prestazioni pura-mente artigiane, come restauri e copie98.

Via via che l’arte si svincola dall’artigianato, cam-biano a poco a poco le clausole dei contratti. In uno del1485, col Ghirlandaio, viene ancora fissato esplicita-mente il prezzo dei colori; ma Filippino Lippi, secondoun contratto del 1487, è tenuto a provvedere da sé ilmateriale, e analoga condizione figura in un patto sti-pulato con Michelangelo nel 1498. Una linea di confinenetta non si può naturalmente stabilire, ma si può direin ogni caso che il mutamento si verifica verso la fine delsecolo ed è da connettere soprattutto con la persona diMichelangelo. Di regola nel Quattrocento si richiedevaall’artista di nominare un mallevadore che garantisseper lui l’osservanza del contratto; per Michelangelo talegaranzia si riduce a una pura formalità. C’è un casoaddirittura in cui l’estensore stesso del documento fungeda garante per le due parti99. Anche le altre clausole sifanno sempre meno severe per l’artista e meno esatta-

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mente circostanziate. In un contratto del 1524 Seba-stiano del Piombo viene lasciato libero di fare un qua-dro a suo talento, purché non sia un quadro sacro; e nel1531 lo stesso collezionista ordina a Michelangelo un’o-pera che può essere un dipinto o una scultura, come pia-cerà al maestro.

Nell’Italia del Rinascimento fin dagli inizi gli artistiebbero una posizione migliore che negli altri paesi, enon tanto per le forme piú evolute della vita urbana –l’ambiente cittadino in sé e per sé non poteva offriremaggiori possibilità agli artisti che al comune cetomedio industriale – ma perché i principi e i signori ita-liani avevano piú modo di impiegarne i talenti e sape-vano apprezzarli meglio dei potenti d’Oltralpe. La mag-giore indipendenza dalla corporazione, che è alla basedella condizione privilegiata dell’artista italiano, è anzi-tutto il risultato del suo lavorare presso corti diverse.Nel Nord ogni maestro è legato a una città; in Italial’artista va spesso di corte in corte, di città in città, egià questa vita errante implica una minor soggezionealle prescrizioni corporative, che valgono per i rappor-ti entro un certo territorio e sono da osservare soloentro quei confini. Poiché i principi ci tenevano adassicurarsi non solo maestri genericamente di valore, maanche determinati artisti, spesso forestieri, questidovettero essere affrancati dalle limitazioni corporati-ve. Non si poteva pretendere che mentre eseguivano illoro incarico badassero ai regolamenti dell’artigianatolocale, preoccupandosi di ottenere un permesso di lavo-ro dalle autorità delle corporazioni e stessero a chiede-re quanti aiuti e garzoni potevano impiegare. Finito unlavoro, si trasferivano, insieme con la loro gente, pres-so un altro protettore, dove avevano un uguale tratta-mento di favore. Questi pittori erranti di corte in cortesfuggirono sempre alla giurisdizione corporativa. Ma iloro privilegi necessariamente influirono anche sulla

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condizione degli artisti stabiliti nelle città, tanto piú chequeste spesso occupavano gli stessi maestri che lavora-vano alle corti, e dovevano quindi offrire condizioninon meno favorevoli di quelle, se volevano assicurarseli.L’artista quindi non si emancipa dalla corporazioneperché abbia acquistato una piú alta dignità, e vengariconosciuta la sua aspirazione ad essere equiparato aipoeti e ai dotti, ma perché si ha bisogno dei suoi ser-vigi e occorre acquistarseli. La dignità qui non è che l’e-spressione del prezzo di mercato.

L’ascesa sociale degli artisti si manifesta anzituttonegli onorari. Nell’ultimo quarto del Quattrocento aFirenze si cominciano a pagare prezzi relativamente altiper gli affreschi. Giovanni Tornabuoni, nel 1485, per ladecorazione della cappella di famiglia in Santa MariaNovella, concorda col Ghirlandaio un onorario di 1100fiorini. Filippino Lippi, per gli affreschi di Santa Mariasopra Minerva a Roma, riscuote il compenso di 2000ducati d’oro, che corrispondono circa ad altrettanti fio-rini. E 3000 ducati riceve Michelangelo per la voltadella Sistina100. Verso la fine del secolo ci sono già moltiartisti che han denaro: Filippino anzi accumula una ric-chezza notevole. Il Perugino possiede case, Benedetto daMaiano un podere. A Milano, Leonardo da Vinci ha unostipendio annuo di 2000 ducati e in Francia riceve35000 franchi l’anno101. I celebrati maestri del Cinque-cento, specialmente Raffaello e Tiziano, dispongono dientrate considerevoli e menano vita da signori. Le abi-tudini di Michelangelo sono modeste, ma anch’egli gua-dagna assai, ed è già ricco quando rifiuta ogni compen-so per i suoi lavori in San Pietro. A questo aumentodegli onorari, oltre all’accresciuta domanda d’oggettid’arte e alla generale ascesa dei prezzi, dovette contri-buire in misura decisiva il fatto che sullo scorcio delsecolo la Curia pontificia balza in primo piano sul mer-cato artistico e crea una sensibile concorrenza ai clienti

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degli artisti fiorentini. Questi emigrano in gran nume-ro verso la munifica Roma. Naturalmente traggono pro-fitto dalle alte offerte della corte papale anche i rimasti– in verità, solo i piú rinomati, quelli che si cerca di trat-tenere in patria; per gli altri i prezzi arrancano a faticaseguendo la situazione generale e ora davvero comin-ciano ad apparire sostanziali differenze nei compensi102.

La liberazione di pittori e scultori dai vincoli dellecorporazioni e la loro ascesa dal livello degli artigiani aquello dei poeti e dei dotti è stata attribuita alla loroalleanza con gli umanisti. Ma la solidarietà degli uma-nisti si spiega ricordando che i monumenti letterari edartistici dell’antichità formavano un’unità indivisibileagli occhi di quegli entusiasti, persuasi che, presso gliantichi, poeti e artisti godessero di ugual considerazio-ne103. Di fatto, non avrebbero potuto concepire che gliautori di opere da loro ugualmente venerate per la comu-ne origine, fossero stati valutati diversamente, e indus-sero i contemporanei – e tutta la posterità, fino all’Ot-tocento – a credere che l’artista – che in realtà per gliantichi altro non era che un banauso – dividesse con ilpoeta l’onore della grazia divina. È indubbio il contri-buto dell’umanesimo allo sforzo di emancipazione degliartisti. L’umanista li conferma nella posizione conqui-stata grazie alle congiunture del mercato e fornisce lorole armi per imporsi alla corporazione e per vincere nelleloro stesse file la resistenza degli elementi conservatori,meno dotati e quindi piú timidi. La protezione dei let-terati non è stata quindi la causa vera della loro ascesasociale, ma soltanto il sintomo di un’evoluzione che hapreso il suo abbrivo dalla realtà: dal sorgere cioè dellenuove Signorie e Principati, e dallo sviluppo e ricchez-za delle città che hanno ridotto sempre piú la spropor-zione tra l’offerta e la domanda sul mercato artistico,fino a un perfetto equilibrio. È noto che le corporazio-ni sostanzialmente si erano costituite per cercar di vol-

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gere tale sproporzione a vantaggio dei produttori; e inrealtà gli organi corporativi chiusero un occhio davantialla violazione degli statuti solo quando non ci fu piú ilpericolo della scarsità di lavoro. Al progressivo allonta-narsi di tale minaccia, e non già al favore degli umani-sti, gli artisti dovettero la loro indipendenza. L’appog-gio degli umanisti essi lo ricercarono, non tanto perspezzare la resistenza delle Arti, quanto per giustifica-re, agli occhi della classe dirigente imbevuta di umane-simo, la prosperità economica ormai acquisita, e ancheper assicurarsi i dotti consiglieri che potessero aiutarli atrattare i soggetti storici e mitologici allora in voga. Gliumanisti erano per l’artista i garanti del suo valore intel-lettuale e a loro volta trovavano nell’opera d’arte un effi-cacissimo mezzo di propaganda per le idee su cui fon-davano la loro egemonia spirituale. Da questo recipro-co legame derivò quel concetto unitario dell’arte, che pernoi è del tutto evidente, ma fu ignoto fino al Rinasci-mento. Non solo Platone parla in modo ben diversodell’arte e della poesia, ma neppure nella tarda anti-chità o nel Medioevo si pensò mai che ci fosse tra artee poesia un’affinità piú stretta di quella, ad esempio, cor-rente fra scienza e poesia, o tra filosofia e arte.

La letteratura artistica del Medioevo si limitava aricettari. In tali istruzioni pratiche l’arte non era inalcun modo distinta dal mestiere. Anche il trattato dellapittura di Cennino Cennini non si scosta dalla menta-lità e dall’etica della corporazione; esorta l’artista adesser diligente, ubbidiente, paziente, e nell’«imitazione»dei modelli dell’arte scorge la via piú sicura per giunge-re alla maestria. Si tratta ancora di un orientamento tra-dizionalmente medievale. Leonardo è il primo che anchesul piano teorico sostituisce all’imitazione dei maestri lostudio della natura; ma cosí egli non fa che codificare lavittoria sulla tradizione, che nella pratica naturalismo erazionalismo hanno già da lungo tempo conseguito. L’e-

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stetica leonardesca, orientata verso il naturalismo,mostra che frattanto è completamente mutato il rap-porto fra maestro e scolaro. L’emancipazione dallo spi-rito artigianale dovette cominciare con la trasformazio-ne dell’antico sistema didattico, sottraendo l’insegna-mento al monopolio della corporazione. Questo non sipoteva spezzare – e neppur l’egemonia tradizionale dellabottega – finché la facoltà di esercitare l’arte era subor-dinata al tirocinio presso un maestro appartenente allacorporazione104. Si dovette perciò assegnare l’educazio-ne dei giovani artisti alla scuola e non piú alla bottega,sostituendo in parte l’insegnamento teorico al pratico,se si vollero spazzar via gli ostacoli che il vecchio siste-ma creava ai giovani. Anche il nuovo, veramente, apoco a poco creò a sua volta legami e ostacoli. Si comin-cia infatti col sostituire il modello naturale all’autoritàdei maestri, ma si finisce col rigido sistema dell’inse-gnamento accademico: questo, in luogo dell’antico escreditato lavoro di maniera, impone ideali nuovi, che,anche se non meno ristretti, hanno il pregio di un fon-damento scientifico. Del resto, ad istruire con metodoscientifico si comincia nelle stesse botteghe. Già ai primidel Quattrocento i discepoli, durante il tirocinio, impa-rano, accanto alla tecnica manuale, anche i rudimentidella geometria, della prospettiva e dell’anatomia e siabituano a disegnar da modelli vivi e da manichini arti-colati. Nei loro studi i maestri organizzano corsi di dise-gno e da questa istituzione si sviluppa sia l’accademiaprivata con il suo insegnamento pratico e teorico105, sial’accademia pubblica che segna la fine dell’antica comu-nità della bottega e della tradizione artigiana, in quan-to in essa il rapporto tra maestri e scolari diviene pura-mente intellettuale. La pratica di bottega e le accademieprivate si mantengono per tutto il Cinquecento, ma per-dono via via ogni importanza per lo sviluppo dello stile.

La concezione scientifica dell’arte, che costituisce la

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base dell’insegnamento accademico, comincia con LeonBattista Alberti. Egli è il primo a formulare l’idea chela matematica sia il terreno comune dell’arte e dellascienza, poiché ad essa appartengono tanto la teoriadelle proporzioni, quanto quella della prospettiva. E inlui si trova per la prima volta consapevolmente realiz-zata quell’unione, che sul piano della pratica era giàoperante in Masaccio e Paolo Uccello, del tecnico cheesperimenta e dell’artista che osserva106. L’uno e l’altrocercano di conoscere il mondo per via sperimentale, perindurre dai risultati delle esperienze leggi razionali;entrambi cercano di indagare e dominare la natura; unatteggiamento attivo, un poiein, li distingue entrambidalla pura contemplazione, dalla scolastica angustia deidotti universitari. Ma se il tecnico e l’indagatore dellanatura pretendono, per le loro nozioni matematiche, diappartenere alla sfera intellettuale, anche l’artista, chespesso fa tutt’uno col tecnico e con lo scienziato, hadiritto d’aspettarsi che lo si distingua dall’artigiano e cheil suo mezzo espressivo conti fra le «arti liberali».

Leonardo non aggiunge alcuna fondamentale ideanuova al trattato dell’Alberti, che innalza l’arte al gradodella scienza e affianca l’artista agli umanisti; egli nonfa che accentuare e accrescere le rivendicazioni del suopredecessore. La pittura, egli afferma, è una specie discienza esatta della natura; d’altra parte è superiore allescienze, perché queste sono «imitabili», cioè imperso-nali, l’arte invece è legata all’individuo e alle sue facoltàinnate107. Leonardo sostiene dunque il diritto della pit-tura ad essere annoverata fra le «arti liberali», non soloin considerazione della scienza matematica dell’artista,ma anche del suo talento che non è diverso dal geniopoetico. Egli riprende la definizione simonidea dellapittura come poesia muta e della poesia come pitturaparlante; apre cosí quella lunga controversia sulla dignitàdelle arti, che durerà per secoli e in cui ancora Lessing

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avrà modo di intervenire. Leonardo dice che se l’essermuta è per la pittura un difetto, si potrebbe con ugualdiritto rimproverare alla poesia d’esser cieca108. Un arti-sta che fosse stato piú vicino agli umanisti non si sareb-be mai spinto a sostenere una tal eresia.

Una valutazione piú alta dell’arte, un superamentodella concezione artigiana del Medioevo, si nota già delresto nei primi precursori dell’umanesimo. Dante creaun monumento imperituro ai maestri Cimabue e Giot-to (Purg., XI, 94-96), e li paragona a poeti come GuidoGuinizelli e Guido Cavalcanti. Il Petrarca nei suoisonetti loda il pittore Simone Martini e Filippo Villani,nell’elogio di Firenze, nomina fra gli uomini famosi dellacittà anche diversi artisti. Le novelle italiane, anzituttoquelle del Boccaccio e del Sacchetti, sono ricche di aned-doti sugli artisti. E se anche l’arte in sé non ha, in que-sti aneddoti, grande importanza, è pur sempre signifi-cativo che l’artista in quanto tale appaia abbastanzainteressante per essere tratto fuori dell’anonima esi-stenza dei comuni artigiani e venga rappresentato conuna sua individuale fisionomia. Già nella prima metà delQuattrocento cominciano quelle biografie di artisti, chesono cosí tipiche della Rinascita italiana. Il Brunelleschiè il primo ad avere una biografia scritta da un contem-poraneo; tanto onore era fin qui riservato ai principi,agli eroi e ai santi. Il Ghiberti scrive la prima autobio-grafia d’artista che si conosca. A gloria del Brunelleschiil Comune fa erigere un monumento sepolcrale nelduomo, e Lorenzo vorrebbe riportare in patria da Spo-leto i resti mortali di Filippo Lippi e seppellirli onore-volmente. Gli si risponde che si è dolenti, ma Spoleto èmolto piú povera di Firenze di grandi uomini e non sipuò pertanto esaudire il suo desiderio. Da tutti questifatti risulta chiaro che l’attenzione del pubblico si èormai spostata dalle opere alla persona dell’artista. Ilmoderno concetto di personalità creatrice comincia a

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farsi strada e sono sempre piú frequenti i segni del cre-scente orgoglio degli artisti. Abbiamo firme di quasitutti i pittori importanti del Quattrocento e il Filarete,ad esempio, raccomanda agli artisti di firmare le loroopere. Fatto ancor piú notevole, questi pittori ci hannolasciato per lo piú il loro autoritratto, anche se non sem-pre in un quadro a sé. L’artista ritrae se stesso, e talvoltaanche i propri familiari, accanto a donatori e mecenaticome se fosse uno dei tanti assistenti alla scena sacra.Cosí, in un affresco di Santa Maria Novella, il Ghir-landaio rappresenta i suoi parenti di fronte alla coppiadei donatori; e le autorità di Perugia incaricano il Van-nucci di aggiungere il proprio ritratto agli affreschi delCambio. Sempre piú spesso l’artista riceve pubblici rico-noscimenti. Gentile da Fabriano riceve la toga patriziadalla Repubblica veneta; la città di Bologna elegge gon-faloniere il Francia; Firenze dà a Michelangelo l’altotitolo di membro del consiglio109.

Uno dei segni piú notevoli della nuova coscienza disé e della diversa considerazione che gli artisti hanno perla propria opera si ha nel loro graduale emanciparsi dal-l’ordinazione diretta: se essi non eseguono piú gli inca-richi con l’antica fedeltà, spesso danno mano a lavori chenessuno ha loro ordinato. È noto, per esempio, cheFilippo Lippi non sempre seguiva nel suo lavoro quelritmo continuo e regolare che si pretende per l’attivitàartigiana, cosí che a un tratto lasciava in sospeso certeopere, per cominciarne altre. Questa abitudine di lavo-rare irregolarmente si fa sempre piú diffusa110, e colPerugino ci troviamo di fronte addirittura all’astro vizia-to che tratta male i committenti: né in Palazzo Vecchioa Firenze, né in Palazzo Ducale a Venezia egli esegue ilavori assunti, e fa tanto aspettare l’opera promessa perla cappella della Vergine nel duomo di Orvieto, che ilComune finisce col passar l’incarico al Signorelli. La gra-duale ascesa dell’artista si rispecchia nitidissima nella

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carriera di Leonardo, che a Firenze è senza dubbio unuomo apprezzato, ma non molto ricercato come artista;a Milano, diventa il pittore aulico di Ludovico il Moro,cui tutto è concesso; quindi assurge al rango di primoingegnere militare di Cesare Borgia, e chiude la sua vitacome favorito e amico del re di Francia. Il mutamentoradicale avviene al principio del Cinquecento. Da allo-ra i maestri celebri non sono piú dei semplici protetti deimecenati, ma essi stessi dei gran signori. E da signore,piú che da artista è, come dice il Vasari, la vita splen-dida di Raffaello, che a Roma dispone di un suo palaz-zo e tratta alla pari con principi e cardinali: BaldassarCastiglione e Agostino Chigi sono suoi amici, la nipotedel cardinal Bibbiena dev’esser la sua sposa. E Tiziano,se possibile, sale ancor piú in alto. La fama di primo pit-tore del tempo, la sua vita, il suo grado, i titoli lo ele-vano al piú alto rango sociale. L’imperatore Carlo V lonomina conte palatino e membro della corte imperiale,lo fa cavaliere dello Speron d’Oro e gli concede, insie-me col titolo ereditario, tutta una serie di privilegi. Isovrani si affannano, spesso inutilmente, per ottenere unritratto di sua mano; egli, come scrive l’Aretino, ha pro-venti da principe; per ogni ritratto l’imperatore gli inviaricchi doni; sua figlia Lavinia riceve una dote cospicua;Enrico III visita personalmente il vecchio pittore equando egli, nel 1576, muore vittima della peste, laRepubblica lo fa seppellire con i piú grandi onori dellachiesa dei Frari, malgrado il severo divieto, sempreosservato, di dar sepoltura nelle chiese agli appestati.Michelangelo infine sale a un’altezza senza precedenti.La sua importanza è cosí manifesta, ch’egli può rinun-ziare del tutto a onori pubblici, titoli e distinzioni. Eglisprezza l’amicizia dei principi e dei papi; può permet-tersi di avversarli. Non è conte, né consigliere, nésovrintendente pontificio, ma lo chiamano «divino».Non vuole che nell’indirizzo delle lettere lo si indichi

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come pittore o scultore: è Michelangelo Buonarroti, népiú né meno; vuole avere come allievi giovani nobili, néciò sarà imputato a semplice snobismo; afferma di dipin-gere «col cervello» e non «colla mano» e piú ancora vor-rebbe evocare le figure dal blocco di marmo con la puramagia della sua visione. Evidentemente questo è assaipiú che orgoglio dell’artista che si sente superiore all’ar-tigiano, al «meccanico», al «filisteo»; è l’espressioneinvece del terrore di venire a contatto con la comunerealtà. Ci si rivela cosí il primo artista moderno, solita-rio, posseduto dal demone – il primo ossessionato dallasua idea, che sola esiste per lui; il primo che si sentaprofondamente impegnato di fronte al suo genio e chenelle proprie facoltà di artista scorga una superiorepotenza che si impone alla sua stessa volontà. Qui sigiunge a una altezza sovrana, per cui impallidisce ogniprecedente idea della libertà artistica. A questo punto èveramente compiuta l’emancipazione dell’artista; oraegli diventa il genio, quale ci appare dal Rinascimentoin poi. Si compie infine, con un ultimo mutamento, lasua ascesa: non piú l’arte, ma l’artista stesso diventaoggetto di venerazione, diventa di moda. Il mondo, dicui egli doveva celebrare la gloria, ora celebra la sua; ilculto, di cui era strumento, ora viene tributato alla suapersona; la grazia divina si trasferisce dai suoi protetto-ri a lui stesso. Veramente c’era sempre stato un rappor-to reciproco fra la gloria dell’eroe e quella del cantore,fra la gloria del mecenate e quella dell’artista111; quantopiú famoso era l’apologeta, tanto piú valida era la fama,ch’egli creava. Ma ora si è giunti a tal punto che il mece-nate si innalza nella misura in cui innalza l’artista al disopra di sé e lo esalta anziché esserne esaltato. Carlo Vsi china a raccogliere il pennello caduto a Tiziano, e ritie-ne piú che naturale che un tale artista sia servito da unimperatore. La leggenda dell’artista è completa. Senzadubbio, c’entra un po’ di civetteria: l’artista è circonfuso

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di luce, perché altri brilli del suo riflesso. Ma cesserà maidel tutto la reciprocità della riconoscenza e della lode,il tributo di stima e di onore per i servigi reciproci, lavicendevole salvaguardia degli interessi? Al massimo,sarà velata.

La fondamentale novità della concezione artistica delRinascimento è l’idea del genio e la concezione dell’o-pera d’arte come creazione dell’autonoma personalità:questa è superiore alla tradizione, alla scuola, alla rego-la, all’opera stessa, che anzi trae da essa la propria legge;in altre parole, essa è piú ricca e piú profonda dell’ope-ra e non può esprimersi compiutamente in alcuna formaobiettiva. È una concezione affatto estranea al Medioe-vo, che non riconosceva alcun particolare valore all’ori-ginalità e alla spontaneità dello spirito, raccomandava l’i-mitazione dei maestri e ammetteva il plagio, e tutt’al piúera sfiorato, ma non certo dominato, dall’idea dell’e-mulazione. Il genio come dono di Dio, come forza crea-trice innata e intrasmissibile; la libertà, anzi il doveredell’artista di seguire una propria, unica legge che giu-stifica la sua originalità e la sua ostinazione geniale:sono tutte idee che sorgono solo con la società rinasci-mentale. In questa infatti l’intimo dinamismo economi-co e il profondo spirito di concorrenza aprono all’indi-viduo assai piú larghe possibilità e d’altro canto la richie-sta di piú ampi mezzi di propaganda da parte dei cetidirigenti provoca un rialzo della domanda sul mercatoartistico. Ma come l’idea moderna di concorrenza halontane radici nel Medioevo, cosí si mantiene vivo alungo il concetto medievale di un’arte obiettiva supe-riore alle inclinazioni individuali, e la concezione sog-gettiva della personalità artistica si fa strada solo assailentamente anche dopo la fine del Medioevo. Il quadrodell’individualismo rinascimentale è dunque da correg-gere in due sensi. Ma la tesi del Burckhardt non varespinta del tutto, perché, sebbene anche nel Medioevo

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ci fossero già personalità forti e caratteristiche112, altroè pensare e agire individualmente, altro esser coscientidella propria individualità, affermarla e deliberatamen-te potenziarla. Si può parlare di individualismo in sensomoderno solo quando ci si trova di fronte a una riflessacoscienza individuale, non di fronte a una semplice rea-zione soggettiva. La coscienza della propria individua-lità comincia nel Rinascimento, ma il Rinascimento noncomincia con tale coscienza. Si cerca e si apprezza nel-l’arte l’espressione della personalità molto prima di esse-re consapevoli che l’arte si orienta non piú verso unobiettivo «che cosa», ma verso un soggettivo «come».Si continua a parlare del suo contenuto di realtà obiet-tiva, quando già da gran tempo essa è diventata una con-fessione soggettiva e proprio come espressione soggetti-va acquista un valore universale. La forza della perso-nalità, l’energia intellettuale e la spontaneità dell’indi-viduo costituiscono la grande esperienza del Rinasci-mento; e il genio, come quintessenza di tali facoltà,diventa per esso l’ideale in cui si raccoglie l’essenzadello spirito umano e il suo potere sulla realtà.

Una delle prime conseguenze del concetto di genio èl’idea di proprietà intellettuale. Nel Medioevo essamanca, come manca l’aspirazione all’originalità che le èstrettamente collegata. Finché l’arte è tutta volta a rap-presentare la divinità e l’artista non è che un mezzoattraverso il quale si palesa l’eterno, soprannaturale ordi-ne delle cose, non si può parlare né di autonomia del-l’arte, né di proprietà artistica. È molto facile stabilirerelazioni tra proprietà intellettuale e inizi del capitali-smo, ma una tale connessione si baserebbe semplice-mente sull’equivoco. L’idea della produttività e quindidella proprietà intellettuale è una conseguenza del deca-dere della civiltà cristiana. Non appena la religione cessadi dominare e unificare in sé l’intera vita spirituale,ecco affacciarsi l’idea dell’autonomia delle diverse forme

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dello spirito, e quindi anche dell’arte come forma spiri-tuale che abbia in sé il proprio senso e il proprio fine.Malgrado ogni piú tardo tentativo di ricondurre all’u-nitario principio della religione l’intera cultura, e quin-di anche l’arte, non si riuscirà mai piú a ricostituire l’u-nità culturale del Medioevo e a negare interamenteall’arte la sua autonomia. Essa ormai, anche se volta afini extraestetici, rimane bella e significativa in sé. Manon appena si cessa di considerare le singole creazionidello spirito come forme diverse di un’unica veritàsostanziale, ecco presentarsi l’idea di assumere comecriterio del loro valore la singolarità e l’originalità. IlTrecento è tutto sotto il segno di un solo maestro –Giotto – e della sua tradizione; nel Quattrocento comin-ciano ad affermarsi tendenze individuali d’ogni sorta.L’originalità diventa un’arma della concorrenza. Ladinamica sociale s’impadronisce d’un mezzo, ch’essanon ha creato, ma che adatta ai suoi fini, accrescendo-ne l’efficacia. Finché il mercato rimane in complessofavorevole agli artisti, il desiderio di un’espressione per-sonale ancora non si converte in ricerca di originalità;questo avviene solo col Manierismo, quando le mutatecondizioni generali turbano sensibilmente il mercatoartistico. Il tipo del «genio originale» tuttavia apparesolo nel Settecento, quando gli artisti, nella transizionedal mecenatismo ai rischi del libero mercato, si trovanoa dover combattere piú duramente che mai per l’esi-stenza materiale.

Lo sviluppo piú significativo del concetto di genio siha nello spostarsi dell’interesse dal lavoro concreto allasemplice attitudine, dall’opera alla persona dell’artista,dal risultato all’intento e all’idea. E solo un’epoca perla quale l’espressione personale era diventata significa-tiva in se stessa e rivelatrice dell’attività dello spiritopoteva compiere questo passaggio. Che segni precurso-ri di tale tendenza esistessero già nel Quattrocento, lo

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mostra, fra l’altro, un passo del trattato del Filarete,dove le forme di un’opera d’arte sono paragonate aicaratteri di un manoscritto, dai quali si può subito rico-noscere la mano dello scrittore113. La comprensione e lacrescente predilezione per il disegno, l’abbozzo, lo schiz-zo, il bozzetto, e in genere per l’incompiuto, sono altripassi nella stessa direzione. Cosí l’origine del gusto peril frammento è da ricercare nella concezione soggettivadell’arte, nell’attrazione che esercita l’idea del genio; l’a-bitudine di studiare i torsi antichi ha potuto, al massi-mo, accrescerla. Il disegno, lo schizzo era pieno d’inte-resse per il Rinascimento non solo come risultato arti-stico, ma anche come documento, come testimonianzadi un momento del processo creativo; vi si scorgevainsomma una forma espressiva particolare, distinta dal-l’opera finita; vi si apprezzava il fatto che in esso eracolta l’invenzione alla sua origine, quasi non ancor sepa-rata dal soggetto creatore. Vasari dice che Paolo Uccel-lo ha lasciato tanti disegni da riempirne casse intere. DelMedioevo, invece, non ce ne sono quasi pervenuti. Aparte il fatto che l’artista medievale certo non attribui-va alle idee momentanee la stessa importanza dei mae-stri piú tardi, e probabilmente non riteneva che valessela pena di fissare ogni fuggevole idea, certo altre causespiegano la rarità dei disegni medievali: anzitutto il dise-gno si diffuse universalmente solo quando si poté dispor-re di carta adatta e facilmente accessibile114, inoltre solouna parte relativamente piccola dei disegni effettiva-mente eseguiti ci è pervenuta. Della loro distruzione tut-tavia il tempo non è il solo responsabile; evidentemen-te della loro conservazione ci si curava meno allora diquanto si fece piú tardi, e in questa mancanza d’inte-resse si rivela appunto la differenza fra la concezioneartistica del Medioevo, sostanzialmente orientato versol’obiettività, e quella soggettivistica del Rinascimento.Per il Medioevo l’opera d’arte aveva solo un valore

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oggettivo, per il Rinascimento aveva valore anche comeespressione della personalità. E appunto allora il disegnoassunse valore di forma tipica del creare artistico, per-ché metteva nella massima evidenza quel che di fram-mentario, di non finito e di non finibile è inerente a ogniopera d’arte. L’esaltazione dell’attitudine rispetto all’o-pera attuata, tratto essenziale del concetto di genio, staa significare appunto che non si ritiene che la genialitàpossa mai realizzarsi interamente, e questo spiega per-ché si sia visto nel disegno con le sue lacune una tipicaforma dell’arte.

Dal genio incapace di piena e perfetta comunicazio-ne, al genio incompreso che si appella alla posteritàcontro il giudizio dei contemporanei, non c’era che unpasso. Il Rinascimento non lo compí mai. Non perchéintendesse l’arte meglio dei tempi successivi, in cuiinvece ci furono veramente geni incompresi, ma perchéallora la lotta per l’esistenza nel campo dell’arte si svol-geva in forme ancora relativamente innocue. Tuttaviail concetto di genio acquista già ora alcuni tratti dia-lettici e già lascia intravvedere l’apparato difensivo,che l’artista opporrà sia al volgo incompetente dei «fili-stei», sia a quello degli acciarponi e dei dilettanti. Con-tro i primi egli si trincererà dietro la maschera dell’ec-centrico, contro gli altri accentuerà il carattere innatodel suo talento, l’originalità della sua arte che non sipuò imparare. Francisco de Hollanda nel suo trattatodella pittura (1548) osserva che ogni personalità note-vole ha in sé qualcosa di bizzarro, e sottolinea l’idea,allora non piú del tutto nuova, che artista vero si nasce.La teoria del genio ispirato, le cui facoltà sono di natu-ra sovraindividuale e irrazionale, prova che si sta costi-tuendo una nuova aristocrazia intellettuale, in cui ognu-no preferisce rinunziare al merito personale, alla«virtù» nel senso quattrocentesco, pur di distinguersipiú nettamente dagli altri.

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L’autonomia dell’arte esprime in forma obiettiva,cioè dal punto di vista dell’opera, quel che il concettodi genio esprime in forma soggettiva, dal punto di vistadell’artista. L’autonomia delle creazioni spirituali è ilcorrelativo della spontaneità dello spirito. Ma per ilRinascimento l’autonomia dell’arte significa soltantol’indipendenza dalla Chiesa e dalla metafisica ch’essapropone, non già un’autonomia assoluta, totale. L’artesi libera dai dogmi ecclesiastici, ma aderisce pur semprealla visione scientifica del mondo, propria del tempo;l’artista si emancipa dal clero, ma si vincola ben piústrettamente alla cerchia umanistica. Tuttavia l’arte nondiventa ancella della scienza, come nel Medioevo era«ancella della teologia». Piuttosto, essa è e rimane unasfera privilegiata in cui, lungi dal mondo, lo spirito sicompiace, indugiando in spirituali godimenti di naturaparticolarissima. E, quando in essa si muove, l’uomo èlontano tanto dalla vita pratica quanto dal mondo tra-scendente della fede. L’arte può servire ai fini della reli-gione, e trovarsi a risolvere problemi in comune con lascienza; ma, per quanto essa assolva a funzioni extrar-tistiche, si può sempre considerare come avente in sestessa il proprio oggetto. È questo il lato nuovo, cui ilMedioevo non poteva arrivare. Ciò non vuol dire cheprima del Rinascimento non si sentisse o non si godes-se la qualità formale di un’opera d’arte; ma non se neaveva coscienza e, quando alla reazione sentimentalesubentrava la riflessione, si giudicava secondo il sogget-to, il significato e il valore simbolico. L’interesse delMedioevo per l’arte riguardava l’argomento; e non soloper l’arte cristiana contemporanea la considerazione ulti-ma verteva esclusivamente sul contenuto: la stessa arteclassica era giudicata da un punto di vista puramentecontenutistico115. Il sovvertimento rinascimentale deirapporti con l’arte e la letteratura classica non si deveattribuire alla scoperta di nuovi autori e di nuove opere,

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quanto piuttosto allo spostarsi dell’interesse dal conte-nuto alla forma, si trattasse di nuove scoperte o di monu-menti già noti116. Ed è significativo che il pubblico orafa proprio l’atteggiamento degli artisti e giudica l’arte,non piú col metro della religione e della vita, ma conquello dell’arte. L’arte del Medioevo mirava a interpre-tare la vita, quella del Rinascimento ad arricchirla; l’unatendeva a elevare l’uomo, l’altra a dilettarlo. Alla sferaempirica e a quella trascendente, le sole che lo spiritomedievale conoscesse, un’altra se ne aggiunge, in cui siale forme dell’esperienza mondana, sia gli archetipi meta-fisici delle cose acquistano un senso particolare e nuo-vissimo.

L’idea dell’arte autonoma, disinteressata, godibile insé era già familiare all’antichità; il Rinascimento nonfece che trarla dall’oblio medievale. Ma prima di alloramai si era concepita l’idea che una vita dedita al godi-mento dell’arte potesse costituire una forma piú alta epiú nobile d’esistenza. Plotino e i neoplatonici, che pureavevano attribuito all’arte un alto significato, ne nega-rono in pari tempo l’autonomia, facendone un puro vei-colo della conoscenza intellettiva. L’idea, già accennatain Petrarca117, di un’arte del tutto autonoma e che, ben-ché indipendente dal resto del mondo spirituale, anziproprio in grazia di quella bellezza che ha in sé le sueragioni, assurga ad educatrice dell’umanità, è estraneatanto al Medioevo quanto alla classicità. E tale è tuttol’estetismo del Rinascimento. È vero che anche nellatarda antichità era avvenuto che i criteri dell’arte siestendessero alla vita intera, pure sarebbe impossibiletrovare nei secoli avanti il Rinascimento un episodioanalogo a quello del credente che, sul letto di morte, sirifiuta di baciare il Crocifisso che gli è presentato, per-ché è brutto, e ne vuole uno piú bello118.

Il concetto rinascimentale dell’autonomia dell’artenon è, per altro, rigoroso, puristico; gli artisti cercano

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di spezzare i ceppi del pensiero scolastico, ma non hannol’ambizione di reggersi da soli, né pensano a fare del-l’indipendenza dell’arte una questione di principio.Anzi, essi sottolineano la natura scientifica della loroattività. Soltanto nel Cinquecento si sciolgono i legamiche facevano di scienza e arte un mezzo omogeneo perla conoscenza del mondo esterno; solo allora sorge l’ideadi un’arte autonoma anche di fronte alla scienza. Incerte situazioni l’arte pare orientarsi scientificamente,mentre la scienza per contro pare seguire criteri esteti-ci. Nel Quattrocento il contenuto di verità dell’arte losi commisura con criteri scientifici; nel tardo Cinque-cento invece e nell’età barocca la concezione scientificadel mondo viene costruita in gran parte secondo criteriartistici. La prospettiva dei pittori quattrocenteschi èuna concezione scientifica; l’universo di Keplero e diGalileo è, in fondo, una visione estetica. Con ragioneDilthey mette in rilievo un aspetto di «fantasia artisti-ca» nell’indagine scientifica rinascimentale119, ma conaltrettanta ragione si potrebbe parlare di un contributodella «fantasia scientifica» alle creazioni dell’arte quat-trocentesca.

Il prestigio che dotti e scienziati ebbero nel Quat-trocento sarà uguagliato solo nell’Ottocento. Entrambequeste epoche diressero i loro sforzi a incoraggiare pernuove vie e con nuovi mezzi, con nuovi metodi scienti-fici e invenzioni tecniche, l’espansione dell’economia.Ciò spiega in parte il primato della scienza e il rispettonell’uno e nell’altro secolo per i suoi cultori. Ciò che,nelle arti figurative, Adolf Hildebrandt e BernardBerenson intendono per «forma»120, è un concetto teo-retico piú che estetico, al pari della «prospettiva» del-l’Alberti e di Piero della Francesca. Le due categoriesono in realtà guide per muoversi nel mondo dell’espe-rienza sensibile, mezzi per chiarire i rapporti spaziali,strumenti per la conoscenza visiva. La concezione este-

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tica dell’Ottocento non può ingannare sul carattere teo-retico dei suoi principî artistici, come nel Rinascimentol’amore dell’arte non riesce a celare l’interesse preva-lentemente scientifico che esso ha per il mondo esterno.Nei valori spaziali di Hildebrandt, nel geometrismo diCézanne, nell’attrazione che la fisiologia esercita sugliimpressionisti, e la psicologia su tutta la moderna nar-rativa e sul dramma, dovunque ci volgiamo, notiamo losforzo di orizzontarsi nella realtà empirica, di com-prendere l’immagine del mondo naturale, di accrescerei dati dell’esperienza, di ordinarli ed elaborarli in unsistema razionale. Per l’Ottocento l’arte è un mezzo perconoscere il mondo esterno, una forma di esperienzadella vita, di analisi e d’interpretazione dell’uomo. Maquesto naturalismo volto a una conoscenza obiettivanasce proprio nel Quattrocento; solo allora l’arte com-pie il suo primo tirocinio scientifico, e ancor oggi vive,almeno in parte, sul capitale allora tesaurizzato. I suoistrumenti erano matematica e geometria, ottica e mec-canica, teoria della luce e dei colori, anatomia e fisiolo-gia; i suoi problemi erano la natura dello spazio e lastruttura del corpo umano, il movimento e le propor-zioni, la tecnica dei panneggi e le proprietà dei pigmen-ti. Ma, ad onta dei suoi tanti aspetti scientifici, il natu-ralismo del Quattrocento non era che finzione; lo rive-la chiaramente quella che si può considerare la sua piútipica formula espressiva: la prospettiva centrale. In séla prospettiva non era una scoperta del Rinascimento121.Già l’antichità conosceva lo scorcio e riduceva le dimen-sioni degli oggetti in ragione della loro distanza dall’os-servatore; ma non riuscí mai a dare dello spazio una rap-presentazione prospetticamente unitaria, costruita suun unico punto di vista; non seppe o non volle rappre-sentare in un’unità continua i diversi oggetti e gli spazitra essi interposti. Lo spazio nelle opere antiche risultavadal comporsi di parti ed elementi disparati, non costi-

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tuiva un continuum unitario; riprendendo una distin-zione del Panofsky, era piuttosto un «aggregato» che un«sistema spaziale». Solo a partire dal Rinascimento lapittura si fonda sul presupposto che lo spazio in cui sitrovano le cose sia un elemento infinito, continuo eomogeneo, e che di regola noi vediamo le cose unitaria-mente, cioè con un unico e immobile occhio122. Ciò chedi fatto noi percepiamo è invece uno spazio limitato,discontinuo, composto di elementi eterogenei. La nostraimmagine dello spazio è in realtà deformata e sfocata aimargini, il suo contenuto si divide in gruppi e pezzi piúo meno indipendenti; e poiché il nostro campo visivo èfisiologicamente sferoidale, in parte noi vediamo curveinvece di rette. Perciò è un’ardita astrazione la pro-spettiva lineare quale ce la presenta l’arte rinascimenta-le, cioè con l’immagine di uno spazio uniformementechiaro e coerentemente costruito in tutte le sue parti,con un comune punto di concorso delle parallele e unmodulo costante nella misura della «giusta» distanza:quell’immagine insomma che l’Alberti definì come sezio-ne trasversale della piramide visiva. La prospettiva cen-trale ci dà uno spazio matematicamente esatto, mapsico-fisiologicamente irreale. Solo un’epoca cosí inti-mamente permeata di scienza, come i secoli tra il Rina-scimento e la fine dell’Ottocento, poteva considerarequesta visione assolutamente razionale dello spazio comeuna traduzione adeguata della reale impressione ottica.Allora infatti unità e coerenza eran considerate i piú alticriteri di verità. Solo recentemente abbiamo riacquista-to la consapevolezza che noi non vediamo la realtà comeun tutto spazialmente unitario e conchiuso, ma che inve-ce la nostra percezione si compie su gruppi sparsi dioggetti e da diversi punti di vista: la veduta complessi-va si costruisce mentre il nostro sguardo si sposta dal-l’uno all’altro, mediante l’addizione di singole veduteparziali, con un’operazione analoga in certo modo a

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quella di un Lorenzetti nei suoi grandi affreschi di Siena.Certo la rappresentazione discontinua dello spazio inquesti affreschi oggi persuade piú di quella perfetta-mente unitaria che i maestri del Quattrocento realizza-vano sulla scorta della prospettiva centrale123.

Si è ritenuta peculiare del Rinascimento la versatilitàdegli ingegni e specialmente l’attitudine, in una solapersona, all’arte e alla scienza nello stesso tempo. Tut-tavia il fenomeno di artisti che furono esperti di tecni-che diverse, di un Giotto, un Orcagna, un Brunelleschi,un Benedetto da Maiano, un Leonardo da Vinci chefurono insieme architetti, scultori e pittori; di un Pisa-nello, di un Antonio del Pollaiolo, di un Verrocchio chefurono scultori, pittori, orafi e medaglisti; di un Raf-faello che, nonostante la piú avanzata specializzazione,fu ancora pittore e architetto, e di un Michelangeloscultore, pittore, architetto, si spiega piú con il caratte-re di «mestiere» proprio delle arti figurative che non conun ideale rinascimentale di versatilità. Questa, in camposcientifico e tecnico, è propriamente una virtú medie-vale; il Quattrocento la eredita insieme con la tradizio-ne artigiana e se ne allontana poi via via che si allonta-na dallo spirito di «mestiere». Nel tardo Cinquecento èsempre piú raro il caso dell’artista che si dedica a tecni-che diverse. Tuttavia, con la vittoria dell’ideale umani-stico di cultura e con la concezione dell’«uomo univer-sale» torna a prevalere una tendenza opposta alla spe-cializzazione che porta al culto di una versatilità non piúdi natura artigiana, ma dilettantesca. Alla fine del Quat-trocento le due opposte correnti si trovano di fronte: perquanto abbia corso l’universalismo umanistico ispiratodagli alti ceti, che induce gli artisti a completare le lorocapacità tecniche con cognizioni intellettuali, tuttavia sifa strada il principio della divisione del lavoro e dellaspecializzazione, che finisce col prevalere anche in arte.Già Cardano sottolinea che l’occuparsi di molte cose

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porta al discredito di un intellettuale. D’altra parte dicontro alla generale tendenza alla specializzazione meri-ta di essere rilevato il fatto singolare che dei maggioriarchitetti del Cinquecento il solo Antonio da Sangallosi era subito avviato a quella carriera: Bramante in ori-gine era stato pittore, Raffaello e il Peruzzi restarono talinonostante la loro attività di architetti, e Michelangeloera e rimase soprattutto scultore. Il fatto che ci si avvias-se relativamente tardi alla professione di architetto e cheper essa la preparazione di molti maestri fosse soprat-tutto teorica, dimostra quanto rapidamente l’educazio-ne artigiana venisse soppiantata da quella intellettualee accademica; d’altro canto sta ad indicare come l’ar-chitettura diventi in parte un passatempo da signori,spesso esercitata come attività accessoria. E infatti igrandi signori vi si erano sempre dedicati con passione,non solo come fabbricieri, ma anche come costruttoridilettanti.

Al Ghiberti erano occorsi decenni per compiere leporte del Battistero, e Luca della Robbia aveva spesopoco meno di dieci anni intorno alla sua cantoria per ilduomo fiorentino. Invece il metodo del Ghirlandaio sicaratterizza per una geniale tecnica da «fa’ presto», eVasari proprio nella facilità e nella prestezza scorge unsegno distintivo dell’autentica natura artistica124. Dilet-tantismo e virtuosismo, per quanto contraddittori, sitrovano uniti nella figura dell’umanista, che giustamen-te è stato definito «il virtuoso della vita intellettuale»,ma si potrebbe altrettanto bene qualificare come l’eter-no, puro, infaticabile dilettante. Le due caratteristicherientrano in quell’ideale della personalità che gli uma-nisti si sforzano di attuare, e nella paradossale unione sitradisce appunto la problematica natura della loro vitadi intellettuali. Tale problematicità ha la sua origine nelmodo stesso in cui è intesa la condizione del letterato,di cui gli umanisti sono i primi rappresentanti, e soprat-

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tutto nella loro pretesa a una completa indipendenza,pretesa che è contraddetta dal fatto che essi sono anco-ra legati in molte guise. Nel Trecento gli scrittori italianiprovenivano per lo piú dai ceti superiori, dal patriziatourbano o da facoltose famiglie mercantili. Nobili eranoCavalcanti e Cino da Pistoia; Petrarca è figlio di unnotaio e notaio è Brunetto Latini; Villani e Sacchettierano agiati mercanti, come i genitori del Boccaccio e delSercambi. Essi non avevano piú nulla in comune con igiullari medievali125. Ma gli umanisti non sono una cate-goria omogenea; non li assimila il ceto o il grado, non lacultura o la professione; fra di loro si incontrano chie-rici e laici, ricchi e poveri, alti funzionari e modestinotai, piccoli mercanti e maestri di scuola, giuristi ederuditi126. I rappresentanti dei ceti inferiori vi si fannosempre piú numerosi. Il piú celebre, il piú influente, ilpiú temuto di tutti è il figlio di un calzolaio. Tutti sonfigli della città – ecco almeno un carattere comune.Molti di loro sono di famiglia povera, alcuni son fanciulliprodigio che, destinati a una carriera piena di promes-se, apertasi all’improvviso, si trovano fin dall’inizio incondizioni eccezionali. Le ambizioni precoci e smodate,lo studio intenso, spesso assillato dalla povertà, l’ingra-to lavoro di precettori e segretari, la caccia alla posizio-ne e alla fama, le esaltate amicizie e i rancori ostinati, ilfacile successo o il fallimento immeritato, gli onori e lafama per gli uni, la vita raminga per gli altri: tutto ciònon poteva passar sopra di loro senza gravi danni mora-li. Le condizioni sociali del tempo offrivano a un lette-rato grandi possibilità, ma minacciavano anche perico-li, fatti apposta per avvelenare fin dall’inizio l’anima diun giovane d’ingegno.

Il formarsi, con l’umanesimo, di una classe di lette-rati, teoricamente almeno, liberi, presuppone una clas-se agiata relativamente ampia, adatta a costituire unpubblico letterario. Veramente l’umanesimo ebbe fin

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da principio i suoi massimi centri presso le corti e le can-cellerie di stato, ma la maggior parte dei suoi fautorieran facoltosi mercanti e altra gente, cui lo sviluppo delcapitalismo aveva dato ricchezza e autorità. La lettera-tura medievale era ancora destinata a una cerchia ristret-ta, solitamente ben nota all’autore; gli umanisti sono iprimi che si rivolgono con i loro scritti a un pubblico piúvasto, in parte sconosciuto. Dai loro tempi ha inizioqualcosa come un libero mercato letterario e una pub-blica opinione che, promossa dalla letteratura, ne subi-sce l’influsso. I loro discorsi e libelli sono le prime formedella moderna pubblicistica; le loro lettere, che rag-giungevano cerchie relativamente ampie, sono i giorna-li del tempo127. L’Aretino è il «primo giornalista», e pergiunta un giornalista ricattatore. La libertà, a cui eglideve la propria posizione, era possibile solo in un tempoin cui lo scrittore non dipendeva piú da un mecenate oda un circolo severamente ristretto di protettori, ma perle produzioni del suo intelletto poteva trovare tanticlienti, da non dover piú usare alcun riguardo per nes-suno. Tutto sommato però, era ancora un pubblico coltorelativamente esiguo quello su cui potevan contare gliumanisti che, a differenza dei letterati moderni, vive-vano da parassiti, a meno che la ricchezza familiare nonassicurasse loro una piena indipendenza. Per lo piú essinon avevano altra possibilità che affidarsi al favore dellacorte o al mecenatismo di un autorevole cittadino, e disolito erano assunti come segretari o precettori. Il vittoe i regali di un tempo erano ormai sostituiti da stipendistatali, pensioni, prebende, benefizi; il loro manteni-mento, piuttosto costoso, rientrava tra le spese di rap-presentanza della nuova classe dirigente. Invece del can-tore e del buffone, ora i signori tenevano a corte i pro-pri storiografi e umanisti, veri e propri professionisti delpanegirico, che di solito rendevano, in forma un po’ piúelevata, gli stessi servigi dei loro predecessori. Da loro

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per altro si esigeva di piú. Infatti, come un tempo l’al-ta borghesia s’era alleata alla nobiltà di sangue, cosí oraintendeva allearsi alla nobiltà dell’intelletto. Come quel-la prima grande alleanza l’aveva resa partecipe dei pri-vilegi della nascita, questa doveva assicurale la nobiltàintellettuale.

Irretiti nella finzione della loro libertà, gli umanistidovevano sentirsi umiliati di dipendere dalla classedominante. Il mecenatismo, quell’istituzione antichissi-ma e semplice che per un poeta del Medioevo contavaancora fra le cose piú naturali del mondo, perde ai loroocchi il suo carattere innocuo. Il rapporto dell’intellet-tuale con la potenza e la ricchezza si complica semprepiú. In principio gli umanisti professavano lo stoicismodei vagantes e dei monaci mendicanti, negando ogni valo-re alla ricchezza. Finché furono poveri studenti, maestri,letterati vagabondi, non si sentirono indotti a mutarequesta opinione, ma quando entrarono in contatto piústretto con la classe ricca sorse in loro un insanabile con-flitto fra le antiche vedute e il nuovo modo di vita128. Ilsofista greco, il retore romano, il chierico medievalenon pensarono mai di uscir dalla propria posizione essen-zialmente contemplativa – o al piú attiva nell’ambitopedagogico – per rivaleggiare con le classi dominanti. Gliumanisti sono i primi intellettuali che aspirano ai privi-legi della proprietà e del grado, e l’orgoglio dell’intel-lettuale, fenomeno finora ignoto, è la difesa psicologicacon cui essi reagiscono all’insuccesso. Il loro sforzo dielevazione sociale viene dapprima incoraggiato e favo-rito dall’alto, ma alla fine represso. Esiste fin dal prin-cipio una reciproca diffidenza fra l’orgogliosa classecolta, ribelle a ogni vincolo, e quella degli uomini d’af-fari, prosaici e, in fondo, estranei alla sfera intellettua-le129. Infatti, come l’età di Platone aveva sentito netta-mente il pericolo implicito nel pensiero dei sofisti, cosíora la classe dirigente, con tutta la sua simpatia per l’u-

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manesimo, non può celare il suo sospetto contro gliumanisti che, privi di ogni base sociale, costituiscono difatto un elemento distruttivo.

Ma il conflitto latente fra l’aristocrazia intellettualee quella economica non si manifesta ancora apertamen-te, almeno fra gli artisti che in questo caso reagisconopiú lentamente dei loro dotti maestri, in genere dotatidi piú viva coscienza sociale. Tuttavia il problema, sepur eluso e non formulato, è sempre e dappertutto pre-sente, e ogni intellettuale, artista o letterato che sia,corre il rischio o di finire in una bohème di spostati rosida risentimenti antisociali, o di arrendersi alla cerchiadegli accademici conservatori e servili. Di fronte a unasimile alternativa, gli umanisti si rifugiano nella torred’avorio, per poi soggiacere alla fine a entrambi i peri-coli cui volevano sfuggire. Tutto l’estetismo moderno lisegue su questa via e si riduce cosí ad essere fuori dellasocietà e, in una condizione passiva, serve gli interessidei conservatori, senza poter inserirsi nell’ordine ch’es-so appoggia. Per indipendenza l’umanista intende assen-za di vincoli; il suo disinteresse sociale è in realtà unestraniarsi; la sua fuga dalla vita reale, irresponsabilità.Per non legarsi, egli si proibisce ogni attività politica, macon la sua passività rafforza i potenti: la «trahison desclercs» verso lo spirito è questa, e non già l’impegnopolitico, di cui l’intellettuale fu recentemente incolpa-to130. L’umanista perde il contatto con la realtà, diven-ta un romantico che chiama disprezzo del mondo il suostraniarsi da esso, libertà intellettuale la propria indif-ferenza, sovranità morale la sua mancanza di responsa-bilità civile. «Per lui vita vuol dire, – secondo il giudi-zio di uno studioso del Rinascimento, – scrivere un’e-letta prosa, tornir versi raffinati, tradurre dal greco inlatino... Ai suoi occhi l’essenziale non è che i Galli sianostati sconfitti, ma che siano stati scritti i commentaridella loro sconfitta... il valore del fatto cede al valore

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dello stile...»131. Gli artisti del Rinascimento non sonoancora straniati a tal punto dal loro ambiente, ma la lorovita spirituale è ormai minata ed essi non riescono aritrovare quell’equilibrio con cui s’inserivano nell’edifi-cio sociale del Medioevo. Stanno al bivio tra l’attivismoe l’estetismo. Oppure hanno già scelto? Comunque, èperduto per loro quel che per il Medioevo era del tuttonaturale e ingenuo: l’unione della forma artistica con finiche la trascendono.

Ma fra gli umanisti non vi sono soltanto begli inge-gni apolitici, fatui parlatori, romantici che fuggono larealtà; vi sono anche ispirati riformatori, «illuministi»fanatici e anzitutto instancabili pedagoghi che pensanocon passione al futuro. Pittori e scultori del Rinasci-mento debbono a questi non soltanto l’astratto esteti-smo, ma anche l’idea dell’artista come eroe intellettua-le e la concezione dell’arte come educatrice dell’umanità.Sono stati loro appunto i primi a fare dell’arte un ele-mento essenziale della cultura intellettuale e morale.

1 Cfr. j. huizinga, Das Problem der Renaissance, in Wege der Kul-turgeschichte, 1930, pp. 134 sgg.; g. m. trevelyan, English SocialHistory, 1944, p. 97 [trad. it., Storia della società inglese, Torino 1948].

2 j. michelet, Histoire de France, VII, Renaissance, 1855, p. 6.3 Cfr. adolf philippi, Der Begriff der Renaissance, 1912, p. 111.4 ernst troeltsch, Renaissance und Reformation, in «Historische

Zeitschrift», vol. CX, 1913, p. 530.5 ernst walser, Studien zur Weltanschauung der Renaissance, 1920, in

Gesammelte Studien zur Geistesgeschichte der Renaissance, 1932, p. 102.6 Cfr. karl borinski, Der Streit um die Renaissance und die Ent-

stehungsgeschichte der historischen Beziehungsbegriffe Renaissance undMittelalter, in «Sitzungsberichte der Bayerischen Akademie der Wis-senschaft», 1919, pp. 1 sgg.

7 karl brandi, Die Renaissance, in Propyläen-Weltgeschichte, IV,1932, p. 160.

8 werner kägi, Über die Renaissanceforschung Ernst Walsers, inernst walser, Gesammelte Studien cit., p. xxviii.

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9 Cosí, per esempio, anche in georges renard, Histoire du travailà Florence, II, 1914, p. 219.

10 e. walser, Studien zur Weltanschauung ecc. cit., p.118.11 Sulla posizione di Nietzsche di fronte a Heinse, cfr. walter bre-

cht, Heinse und der ästhetische Immoralismus, 1911, p. 62.12 w. kägi, Über die Renaissanceforschung ecc. cit., p. xli.13 j. huizinga, Herbst des Mittelalters, 1928, p. 468 [trad. it., L’Au-

tunno del Medioevo, Firenze 1942].14 dagobert frey, Gotik und Renaissance, 1929, p. 38.15 Cfr., per quanto segue, id., Gothic und Renaissance cit., p. 194.16 j. c. scaliger, Poëtices libri septem, VI, 1591, 21.17 Dagobert Frey, nella concezione dello spazio come successione o

come simultaneità, indica la differenza fra la concezione artisticamedievale e quella del Rinascimento; evidentemente si appoggia alladistinzione di Erwin Panofsky fra «aggregato» e «sistema» spaziale(Die Perspektive als «symbolische Form», in «Vorträge der BibliothekWarburg», Vorträge 1924-23, Leipzig-Berlin 1927; trad. it., La pro-spettiva come «forma simbolica» e altri scritti, Milano 1961). La tesi delPanofsky riprende la teoria di Wickhoff sulla rappresentazione «con-tinua» o «distinguente», che a sua volta può essere stata stimolata dal-l’idea di Lessing del «momento pregnante».

18 scaliger, Poëtices libri septem cit.19 jakob strieder, Werden und Wachsen des europäischen Frühkapi-

talismus, in Propyläen-Weltgeschichte, IV, 1932, p. 8.20 id., Jakob Fugger, 1926, pp. 7-8.21 werner weisbach, Renaissance als Stilbegriff, in «Historische

Zeitschrift», vol. CXX, 1919, p. 262.22 henri thode, Franz von Assisi und die Anfänge der Kunst der Renais-

sance, 1885; id., Die Renaissance, in «Bayreuther Blätter», 1899; émilegebhardt, Origines de la Renaissance en Italie, 1879; id., Italie mystique,1890; paul sabatier, Vie de Saint François d’Assise, 1893.

23 konrad burdach, Reformation Renaissance Humanismus, 1918, p.138.

24 carl neumann, Byzantinische Kultur und Renaissancekultur, in«Historische Zeitschrift», vol. XXI, 1903, pp. 215, 228, 231.

25 louis courajod, Leçons professée à l’École du Louvre, II, 1901,p. 142.

26 j. strieder, Studien zur Geschichte der kapitalistichen Organisa-tionsformen, 1914, p. 57.

27 julien luchaire, Les Sociétés italiennes du XIIIe au XVe siècle,1933, p. 92.

28 max weber, Wirtschaft und Gesellschaft, 1922, p. 573.29 robert davidsohn, Forschungen zur Geschichte von Florenz, IV,

1908, p. 268.

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30 m. weber, Wirtschaft ecc. cit., p. 562.31 Ibid., p. 565.32 alfred doren, Italienische Wirtschaftsgeschichte, I, 1934, p.

358. Cfr., invece, r. davidsohn, Geschichte von Florenz, IV, 2, 1925,pp. 1-2.

33 a. doren, Studien zu der Florentiner Wirtschaftsgeschichte, I, DieFlorentiner Wollentuchindustrie, 1901, p. 399.

34 id., Studien zu der Florentiner Wirtschaftsgeschichte, II, Das Flo-rentiner Zunftwesen, 1908, p. 752.

35 id., Die Florentiner Wollentuchindustrie cit., p. 458.36 r. davrdsohn, Geschichte von Florenz cit., IV, 2, p. 5.37 Cfr. g. renard, Histoire du travail ecc. cit., pp. 132-33.38 a. doren, Das Florentiner Zunftwesen cit., p. 726.39 r. davidsohn, Geschichte von Florenz cit., IV, 2, pp. 6-7.40 ferdinand schewill, History of Florence, p. 362.41 a. doren, Die Florentiner Wollentuchindustrie cit., p. 413.42 werner sombart, Der moderne Kapitalismus, I, 1902, pp. 174

sgg.; georg von below, Die Entstehung des modernen Kapitalismus, in«Historische Zeitschrift», vol. XCI, 1903, pp. 433-34.

43 w. sombart, Der Bourgeois, 1913.44 Cfr. jacob burckhardt, Die Kultur der Renaissance, 1908, 10a ed.,

I, pp. 26, 51 [trad. it., La civiltà del Rinascimento, 4a ed., Firenze 1943].45 m. DVO∑ÁK, Die Illuminatoren des Johann Neumarkt, in «Jahrbu-

ch der kunstshistorischen Sammlungen des Allerhöchsten Kaiserhau-ses», xxii, 1901, pp. 115 sgg.

46 Cfr., per quanto segue, georg gombosi, Spinello Aretino, 1926,pp. 7-11.

47 Ibid., pp. 12-14.48 bernard berenson, The Italian Painters ot the Renaissance, 1930,

p. 76 [trad. it., Pittori italiani del Rinascimento, Milano]; cfr. robertosalvini, Zur Florentiner Malerei des Trecento, in «Kritische Berichte zurkunstgeschichtlichen Literatur», vi, 1937.

49 adolfo gaspary, Storia della letteratura italiana, I, 1887, p. 97.50 w. weisbach, Francesco Pesellino und die Romantik der Renais-

sance, 1901, p. 13.51 julius von schlosser, Ein veronesisches Bilderbuch und die höfi-

sche Kunst des XIV. Jahrhunderts, in «Jahrbuch der kunsthistorischenSammlungen des Allerhöchsten Kaiserhauses», 1895, vol. XVI, pp.173 sgg.

52 a. gaspary, Storia della letteratura italiana cit., I, pp. 108-9.53 wilhelm pinder, Das Problem der Generation, 1926, p. 12 e

passim.54 wilhelm von bode, Die Kunst der Frührenaissance in Italien, 1923,

p. 80.

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55 richard hamann, Die Frührenaissance der italienischen Malerei,1909, pp. 2-3, 16-17; id., Geschichte der Kunst, 1932, p. 417.

56 friedrich antal, Studien zur Gotik im Quattrocento, in «Jahr-buch der Preussischen Kunstsammlungen», vol. XLVI, 1925, pp.18 sgg.

57 Cfr. henry pirenne, Les périodes de l’histoire sociale du capitali-sme, in «Bulletins de l’Académie Royale de Belgique», 1914, pp.259-60, 290 e passim.

58 a. doren, Die Florentiner Wollentuchindustrie cit., p. 438.59 Ibid., p. 428.60 Cfr. martin wackernagel, Der Lebensraum des Künstlers in der

Florentiner Renaissance, 1938, p. 214.61 a. doren, Italienische Wirtschaftsgeschichte cit., I, pp. 561-562.62 id., Das Florentiner Zunftwesen cit., p. 706.63 Ibid., pp. 709-10.64 Cfr., per quanto segue, m. wackernagel, Der Lebensraum ecc.

cit., p. 234.65 Cfr. ibid., pp. 9-10.66 Ibid., p. 291.67 Ibid., pp. 289-90.68 robert saitschick, Menschen und Kunst der italienischen Renais-

sance, 1903, p. 188.69 Citato da alfred von reumont, Lorenzo de’ Medici, 1883, II, p.

121.70 ernst cassirer, Individuum und Kosmos in der Philosophie der

Renaissance, 1927, pp. 177-78 [trad. it., Individuo e Cosmo nella filo-sofia del Rinascimento, Firenze 1935].

71 richard hönigswald, Denker der italienischen Renaissance, 1938,p. 25.

72 Cfr. anthony blunt, Artistic Theory in Italy, 1940, p. 21.73 w. von bode, Bertoldo und Lorenzo de’ Medici, 1925, p. 14.74 id., Die Kunst der Frührenaissance ecc. cit., p. 81.75 j. burkhardt, Beiträge zur Kunstgeschichte Italiens, 1911, 2a ed.,

p. 397.76 lothar brieger, Die grossen Kunstsammler, 1931, p. 62.77 j. von schlosser, Ein veronesisches Bilderbuch ecc. cit., p. 194.78 georg voigt, Die Wiederbelebung des klassischen Altertums, 1893,

3a ed., I, p, 445.79 j. burkhardt, Die Kultur der Renaissance cit., I, p. 53.80 w b. castiglione, Il Cortegiano, 1. III, cap. XII.81 m. wackernagel, Der Lebensraum des Künstlers cit., p. 307.82 Ibid., p. 306.83 Ibid., p 307.84 m. wackernagel, Aus dem Florentiner Kunstleben der Renaissan-

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cezeit, in Vier Aufsätze über geschichtliche und gegenwärtige Faktoren desKunstlebens, 1936, p. 13.

85 thieme-becker, Allgemeines Lexikon der bildenden Künstler, III,1909.

86 g. b. armenini, De’ veri precetti della pittura, 1586.87 Cfr. albert dresdner, Die Entstehung der Künstkritik, 1915, pp.

86-87.88 kenneth clark, Leonardo da Vinci, 1939, pp. 11-12.89 Cfr., per quanto segue, m. wackernagel, Der Lebensraum des

Künstlers cit., pp. 316 sgg.90 a. dresdner, Die Entstehung der Kunstkritik cit., 94.91 gaye, Carteggio inedito d’artisti dei sec. XIV-XVI, I, 1839-1840,

p. 115.92 maud j. jerrold, Italy in the Renaissance, 1927, p. 35.93 h. lerner-lehmkuhl, Zur Struktur und Geschichte des florentiner

Kunstmarktes im XV. Jahrhundert, pp. 28-29.94 Ibid., pp. 38-39.95 Ibid., p. 50.96 m. wackernagel, Der Lebensraum des Künstlers cit., p. 355.97 r. saitschick, Menschen und Kunst ecc. cit., p. 199.98 paul drey, Die wirtschaftlichen Grundlagen der Malkunst, 1910,

p. 46.99 Ibid., pp. 20-21.100 h. lerner-lehmkuhl, Zur Struktur und Geschichte ecc. cit., p. 34.101 r. saitschick, Menschen und Kunst ecc. cit., p. 197.102 h. lerner-lehmkuhl, Zur Struktur und Geschichte ecc. cit., p. 54.103 a. dresdner, Die Entstehung ecc. cit., pp. 77-79.104 Ibid., p. 95.105 joseph meder, Die Handzeichnung. Ihre Technik und Entwick-

lung, 1919.106 leonardo olschki, Geschichte der neusprachlichen wissenschaf-

tlichen Literatur, I, 1919, pp. 107-8.107 a. dresdner, Die Entstehung ecc. cit., p. 72.108 j. p. richter, The Literary Work of Leonardo da Vinci, I, 1883,

n. 653.109 r. saitschick, Menschen und Kunst ecc. cit., pp. 185-86.110 Cfr. nel Bandello la descrizione del ritmo saltuario di Leonardo

nel condurre l’affresco del Cenacolo. Citato da k. clark, op. cit., pp.92-93.

111 edgar zilsel, Die Entstehung des Geniebegriffs, 1926, p. 109.112 Cfr. dietrich schäfer, Weltgeschichte der Neuzeit, 1920, 9a ed.,

pp. 13-14; j. huizinga, Wege der Kulturgeschichte, 1930, p. 130.113 julius schlosser, Die Kunstliteratur, 1924, p. 139 [trad. it., La

letteratura artistica, Firenze 1935].

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114 j. meder, Die Handzeichnung ecc. cit., pp. 169-70.115 k. borinski, Der Streit um die Renaissance ecc. cit., p. 21.116 e. walser, Studien ecc. cit., pp. 104-5.117 k. borinski, Der Streit um die Renaissance ecc. cit., pp. 32.118 philippe monnier, Le Quattrocento, II, 1901, p. 229.119 wilhelm dilthey, Weltanschauung und Analyse des Menschen

seit Renaissance und Reformation, in Gesammelte Schriften, II, 1914,pp. 343 sgg.

120 adolf hildebrand, Das Problem der Form in der Bildenden Kunst,1893; b. berenson, The Italian Painters ecc. cit.

121 Cfr., per quanto segue, e. panofsxy, Die Perspektive als «sym-bolische Form», in «Vorträge der Bibliothek Warburg», 1927, p. 270(trad. it., La prospettiva come «forma simbolica» e altri scritti, Milano1961).

122 Ibid., p. 260.123 Cfr. jacques mesnil, Die Kunstlehre der Frührenaissance im Werke

Masaccios, in «Vorträge der Bibliothek Warburg», 1928, p. 127.124 La rapidità dell’esecuzione viene celebrata anche dall’Aretino

nelle lettere al Tintoretto degli anni 1545 e 1546.125 e. zilsel, Die Entstehung ecc. cit., pp. 112-13.126 e. walser, Studien ecc. cit., p. 105.127 Cfr. j. huizinga, Erasmus, 1924, p. 123 [trad. it., Erasmo, Tori-

no 1941]; karl bücher, Die Anfänge des Zeitungswesens, in Die Ent-stehung der Volkswirtschaft, 1919, 12a ed., I, p. 233.

128 hans baron, Franciscan Poverty and Civic Wealth as Factors in theRise of Humanistic Thought, in «Speculum», xiii, 1938, pp. 12, 18 sgg.;citato da c. e. trinkaus, Adversity’s Noblemen, 1940, pp. 16-17.

129 alfred von martin, Soziologie der Renaissance, 1932, pagine58 sgg.

130 julien benda, La trahison des clercs, 1927.131 p. monnier, Le Quattrocento cit., I, p. 334.

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