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Aleksandr Sergeevic Puskin - Eugene Onegin

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Dedica a P.A.Pletnëv

Pétri de vanité, il avait encore plus de cette espèce d'orgueil qui fait avouer avec la même indifférence les bonnes comme les mauvaises actions, suite d'un sentiment de supériorité, peut-être imaginaire. Tiré d'une lettre particulière. La società superba non penso a divertire, Amo più l'attenzione per amicizia, E ti avrei voluto offrire Un pegno più degno di te, Più degno dell'anima eletta Tutta presa da un sacro sogno Di poesia viva e netta, D'alti pensieri e semplicità: Ma anche così - con mano indulgente Accogli i miei variopinti capitoli, Semischerzosi, semiaccorati, Alla buona, sofisticati, Frutto incolto dei miei spassi, Delle insonnie, dei facili estri, Di anni acerbi e di anni non più in fiore, Di fredde osservazioni della mente E di meste note del cuore. CAPITOLO PRIMO

E di vivere ha fretta, e fretta di sensazioni. Principe Vjazemskij I «Mio zio così preciso e retto, Or che sul serio s'è ammalato, Si è fatto portare rispetto E proprio il meglio ha escogitato! Il suo esempio sia di lezione: Ma, Dio mio, quale afflizione Notte e dì un malato vegliare Mai un passo potendo fare! E quale perfidia meschina Già mezzomorto vezzeggiarlo, Sui cuscini accomodarlo, Dargli mesto la medicina, Sospirando e pensando fra te:

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Ti porti il diavolo con sé!» II Così pensava un giovin signore, Volando in carrozza postale, Dei suoi per volere di Giove Unico erede universale. Amici di Ljudmila e Ruslàn! L'eroe del mio romanzo, Senza preamboli, immantinenti, Permettete che vi presenti: Onieghin, un mio amico, nato Sui bordi della Nievà, Dove sei nato anche tu, chissà, Mio lettore, o hai brillato; Ci andavo anch'io a passeggiare: Ma l'aria del nord mi fa male.(1) III Dopo un lodevole servizio, Di debiti era campato Suo padre, dava tre balli all'anno, Si trovò infine rovinato. Su Eugenio la sorte vegliava: Prima Madame se ne occupava, Poi Monsieur le subentrò. Lui era vispo, e carino però. Monsieur l'Abbé, francese tapino, Perché il pargolo non soffrisse, Giammai con prediche l'afflisse, L'ammaestrava col trastullino: Sgridava appena le sue scappate, Lo portava al Giardino d'Estate. IV Per Eugenio giunsero gli anni Dell'irrequieta gioventù, Di speranze e teneri affanni, E Monsieur non servì più. All'ultima moda acconciato, Come un dandy di Londra abbigliato,(2) Il mio Eugenio fu in libertà: Finalmente entrò in società. In un francese perfetto Sapeva scrivere e parlare, La mazurka agilmente ballare E fare un inchino corretto: Volete di più? Per la gente

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Era assai caro e intelligente. V Tutti qualcosa a poco a poco In qualche modo abbiamo appreso, Sicché brillare per cultura, Grazie a Dio, non dà un gran peso. Onieghin era, a parer di molti (Giudici severi e accorti), Ragazzo colto, ma svagato. Aveva il dono fortunato Di sfiorare in conversazione Agevolmente ogni argomento, Di stare zitto e tutto attento In una seria discussione E nelle dame destar sorrisi Col tuoco d'epigrammi improvvisi. VI Non è più di moda il latino: E dunque, per la precisione, Lui ne sapeva quel tantino Per decifrare un'iscrizione, Per dir la sua su Giovenale, Per apporre a una lettera il vale E dell'Eneide un due o tre versi, Pur con errori, ritenersi. Nessuna voglia lo pungeva Di rovistare in profondo La polverosa storia del mondo; Eppure a memoria sapeva Certi aneddoti ormai perenti, Da Romolo ai nostri tempi. VII Gran passione non sentiva A tormentarsi per dei suoni, Tra giambo e trocheo non riusciva A stabilire distinzioni. Teocrito e Omero derideva, Ma Adam Smith però leggeva, Era un profondo economista; Come uno stato si arricchisca Sapeva giudicare infine E di che viva e anche perché Necessario l'oro non è Se vi sian materie prime. Suo padre non lo comprendeva

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E nuove ipoteche accendeva. VIII Non ho pazienza a spiegar tutto Quello che sapeva Eugenio; Ma in una scienza soprattutto Egli era un autentico genio: Quella che fin dalla puerizia Gli fu sforzo e croce e delizia, Che assorbiva ad ogni istante La sua pigrizia angosciante, Di passioni tenera scienza Che Ovidio Nasone cantò E a cui da martire immolò La sua splendida, inquieta esistenza In Moldavia tra la steppaglia, Lontano dalla sua Italia. IX ............................................ ............................................ ............................................ ............................................ X Come ben seppe simulare La non speranza, ingelosirsi, Dare a credere, disingannare, Spasimare e anche incupirsi, Fare il duro e l'ossequiente, Il premuroso e l'indifferente! Con che languidezza taceva, Di che eloquenza si accendeva! Che epistolografo galante! In ciò che amava e respirava Tutto se stesso quasi obliava! Che sguardo tenero e saettante, Pudìco e ardito, e al tempo giusto D'una pia lacrima anche il lustro! XI Come sapeva rinnovarsi, L'innocenza con scherzi stupire, Spaventare col disperarsi, Con la lusinga divertire, L'istante commosso sfruttare, Con passione e cervello sventare

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Certe fisime di giovinezza, Cogliere al varco la carezza Dichiarazioni riscuotendo, Sentire un cuore al primo bàttito, L'amore inseguire e d'un tratto Strappare a lei un appuntamento Segreto... E nell'intimità Ammaestrarla in tranquillità! XII Come riusciva a conturbare Di esperte civette il cuore, E quando voleva annientare I suoi rivali in amore Con che veleno ne sparlava, Quali trappole gli apprestava! Ma voi, mariti beati, Amici gli restavate: Lo blandiva il coniuge astuto, Antico allievo di Faublas, E il sospettoso per età, E anche il maestoso cornuto, Sempre di sé soddisfatto, Della moglie e del buon piatto. XIII - XIV ............................................ ............................................ ............................................ ............................................ XV Per lo più è ancora a letto quando La posta gli viene portata. Inviti? Lo stan reclamando In tre case per la serata: Là un ballo, qui d'un bimbo la festa. Dove andrà il mio perditesta? Da chi iniziare? È indifferente: Non si può ovunque esser presente. Intanto in abito da mattina, Col suo ampio bolivàr,(3) Scarrozza Onieghin sul boulevard Per la sua passeggiatina: Fin quando il Bréguet non gli annunzia Che l'ora di pranzo è giunta. XVI

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Già è buio: siede nella slitta. «Via!», il grido è riecheggiato; Il suo bavero di pelliccia Di gelo s'è inargentato. E corre al Talòn in gran fretta,(4) Kavièrin certo già l'aspetta. È entrato - un tappo in alto schizza, Della Cometa il vino sprizza. Roast-beef al sangue è sul suo desco, Tartufi - lusso di gioventù E dei cibi di Francia il bijou, Di Strasburgo il pâté ancor fresco, Fra un Limburgo ben fermentato E un ananas dorato. XVII Altri bicchieri reclama Il grasso di ardenti bistecche, Ma il trillo del Bréguet lo chiama Alla prima di un balletto. Severissimo intenditore, Incostante adoratore Di belle attrici e per riguardo Cittadino del retropalco, Eugenio è volato in teatro, Dove licenza ognun si dà Di applaudire un entrechat, Di beccar Fedra e Cleopatra E una Moìna di bissare (Soltanto per farsi notare). XVIII Magico mondo! In altra età Vi brillò Fonvìzin, signore Della satira e di libertà Amico, e Knjažnin l'imitatore; Là con la giovane Semiònova Ozièrov lo spontaneo dono Di lacrime e applausi spartiva, Là Katienin rinverdiva Di Corneille il genio maestoso; Là si cinse di gloria Didlot; Là Šachovskoj liberò Commedie in sciame rumoroso; Là, nell'ombra delle coulisses, La mia giovinezza fuggì. XIX

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Mie dee! Dove siete ora? La mia triste voce ascoltate: Siete voi ancora? O altre fanciulle A voi si sono avvicendate? Riudirò io i vostri cori? Rivedrò, pieni d'anima, i voli D'una Tersicore russa? O Col mesto sguardo non scorgerò Più i volti noti su una scena di noia, E con la lorgnette puntata Su una gente a me estraniata, Indifferente alla baldoria, Dovrò in silenzio sbadigliare E il passato rievocare? XX Pieno è il teatro; lustreggiano I palchi; la platea è in fervore; In loggione già rumoreggiano; S'alza il sipario con stridore. Splendida, quasi evanescente, Al magico archetto ubbidiente, Da uno stuolo di ninfe attorniata, La Istòmina s'è presentata. Con un piede toccando il suolo, Lento in cerchio portando l'altro, Ecco che vola nel suo salto, Come piuma al soffio d'Eòlo; Ora si flette, ora s'addrizza, Sulle sue svelte gambe guizza. XXI Tutti applaudono. Onieghin sta entrando: Calpesta i piedi ai già seduti, La lorgnette obliquo puntando Sui palchi a dame sconosciute; Il suo sguardo ogni fila ha scrutato, Tutto ha visto: l'hanno lasciato Scontento facce e vestiti; Tutt'intorno ha già riveriti Gli uomini, e passa ad osservare La scena con distratto piglio, Si rigira, fa uno sbadiglio E dice: «Tutto da rifare; Troppi balletti ho sopportato, Anche Didlot m'ha annoiato.»(5) XXII

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Draghi, amorini e diavoletti Ancora in scena si rincorrono; Sulle pellicce i valletti Stanchi nell'atrio ancora dormono; Ancora applausi, fischi, soffiare Di nasi, tossire, pestare; Ancora, sia dentro che fuori, Tutti accesi lumi e lampioni; E al freddo ancora scalpitando Stanno i cavalli bardati, E i cocchieri al fuoco acquattati Le mani sfregano imprecando Ai padroni - ma Onieghin già è uscito; Va a casa a cambiar vestito. XXIII Saprò darvi un quadro conforme Del solitario studio dove Si veste, sveste, riveste e dorme Il bravo alunno delle mode? Ogni sciccherìa capricciosa In cui Londra traffica a iosa E che il Baltico navigando Di legno e lardo ci dà in cambio; Tutto ciò che un gusto insaziato, Parigina industriosità, Per il lusso e la voluttà E il diletto ha escogitato, - In studio aveva tutto ciò Il diciottenne philosophe. XXIV Pipe d'ambra di Tsaregràd, Bronzetti, porcellanine, Profumi in bocce di cristallo, Delizia a sensi femminei; Pettinini e d'acciaio limette, Dritte e ricurve forbicette, E spazzolini per i denti E per le unghie più di venti. Rousseau non si dava ragione Che Grimm, uomo così importante, Si nettasse le unghie davanti A lui, bisbetico chiacchierone(6) Il paladino del libero e giusto Era in tal caso proprio ingiusto. XXV

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Si può essere uomo valente E alle belle unghie pensare: L'uso è despota fra la gente. Perché il secolo contrastare? Altro Èadáiev, per paura Di qualche invidiosa censura, Eugenio era molto pedante Nell'abito - un ultraelegante. Per tre ore almeno lui era A guardarsi allo specchio vicino E usciva dal suo camerino Simile a Venere etèrea Che andasse da uomo abbigliata A una festa mascherata. XXVI Sulla toeletta ultimo grido Il vostro interesse spingendo, Colto pubblico, vi descrivo Quasi quasi il suo vestimento; Per quanto ardito sia il farlo, Pure è mio compito illustrarlo: Ma parola russa non c'è Per pantalons, frac e gilet; Me ne scuso, lo vedo io stesso, Che anche così potrebbe avere Meno parole forestiere Il mio lessico dimesso, Benché il dizionario in passato Dell'Accademia io abbia guardato. XXVII Ma non è questo il nostro oggetto: Meglio è che al ballo ci affrettiamo Dove il mio Onieghin si è diretto In carrozza a tutto spiano. Davanti alle case abbuiate, Su vie sonnolente schierate, Doppi fanali di vetture Spandono luci liete e pure, Sulla neve un'iride fanno; Di lampioncini luminosa Splende la casa lussuosa; E dietro i vetri le ombre vanno, Teste e profili guizzanti, Di dame e di bei stravaganti. XXVIII

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Il nostro eroe ecco al portone; Oltre il portiere è già volato Come freccia per lo scalone, I capelli s'è ravviato. Entra. La sala è gremita; La musica s'è affievolita; Da una mazurka la folla è presa; Tutto intorno è chiasso e ressa; Tinnano sproni di cavalieri; Volan piedini di belle dame Sulle cui orme seducenti Volano sguardi ardenti, E l'onda dei violini inchioda Il cip-cip di mogli alla moda. XXIX Al tempo di gioie e passioni Io per i balli andavo matto: Per biglietti e dichiarazioni Non esiste luogo più adatto. O voi, riveriti consorti! I miei servigi oso proporvi; Prego, statemi a sentire: Perché io vi voglio avvertire. E voi, mammine, più zelanti Sulle figliole vigilate: La lorgnette ben dritta puntate: Se no... se no, che Dio ne scampi! E questo scrivo perché so Che non pecco ormai da un bel po'. XXX Ahimè, in diverse stravaganze Troppa mia vita ho dissipato! Ma se non fosse per le usanze I balli ancora avrei amato. Amo la folle giovinezza, E ressa, e fasto, e contentezza, E di dame l'attento vestire, I bei piedini: ma scoprire Tre paia di gambe decenti In Russia è un difficile affare! Ah come non seppi scordare Due belle gambe!... Triste e assente Sempre le rammento e in sogno Nel cuore inquieto le agogno. XXXI

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In che deserto, o dissennato, Dove e quando, le scorderai? Ah bei piedini! Su qual prato Primaverile andate ormai? Cresciuti a dolcezze orientali Su tristi nevi boreali Le vostre orme non lasciaste: Molli tappeti meglio amaste Sontuosamente sfiorare. E io non obliai gran tempo fa Per voi gloria e vanità, Esilio e terra mia natale? Svanì la gioia giovanile Come la vostra orma gentile. XXXII Diana il seno, le guance Flora Hanno leggiadri, o amici miei! Ma io di Tersicore ancora Più leggiadri i piedini direi. Vaticinando al nostro sguardo L'inestimabile traguardo, Con la bellezza si attiran dietro Dei desideri lo sciame inquieto. Io li amo, o amica Elvina, Sotto le mense apparecchiate, A primavera sui verdi prati, O d'inverno presso il camino, Sul parquet a specchio delle sale E sugli scogli in riva al mare. XXXIII Ah il mare, prima della tempesta! Come invidiavo alle onde furiose L'una sull'altra in resta Quel giacersi ai suoi piedi amorose! Con le labbra poterli sfiorare Come bramavo insieme al mare! No, mai nel tempo ardente Della mia gioventù fremente Bramai con simile martirio Baciare bocche di belle Armide O le rose di guance vive O seni colmi di sospiri; Delle passioni mai l'assalto L'anima mia dilaniò tanto. XXXIV

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Di un altro tempo mi sovvengo: Talvolta nei sogni arcani Una staffa beata io tengo E quel piedino ho nelle mani; Riecco ferve l'immaginare, Riecco a quel toccare Arde il mio sangue nel fiacco cuore, Di nuovo angoscia, di nuovo amore... Ma basta omaggi a queste ingrate Con la mia cetra chiacchierona: Non meritano né passioni, Né canzoni da loro ispirate; Parole e occhiate di maliarde Come i piedini... son bugiarde. XXXV E il mio Onieghin? Tutto assonnato Ora a dormire se ne va; E già i tamburi han ridestato L'infaticabile città. S'alza il mercante, va il merciaio, Va al posteggio il fiaccheraio, Scricchia la neve ove s'affretta La popolana con la secchia. Ritorna il gaio animamento, S'apron le imposte, salgon su Dai comignoli i fumi blu, E il fornaio, tedesco attento , Con il suo bianco berrettino, Già si è affacciato allo spioncino. XXXVI Ma dal ballo affaticato, E rovesciando in notte il giorno, Se la dorme nel buio beato Il figlio di lussi e bagordi. A mezzodì si sveglierà, Fino a mattina pronti avrà Vari e identici i suoi piaceri, Domani sarà come ieri. Ma era il mio Eugenio contento, Libero, nell'età migliore, Scintillante conquistatore, Nel quotidiano godimento? O solo aveva in tanta ebbrezza Gran salute e poca saggezza? XXXVII

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No: i sentimenti si smorzavano; Lo annoiava il mondo ciarliero; Le belle più non occupavano Assiduamente il suo pensiero: Dai tradimenti disgustato, Di amici e amicizia annoiato, Egli non sempre poté Innaffiare bistecche e pâté Con un prelibato champagne E lanciar battute alla lesta Anche con tanto mal di testa; E benché acceso litigante Egli era stanco, in fondo in fondo, Di sfide e sciabole e piombo. XXXVIII Un disagio, la causa del quale Dovrebbe ormai sapersi già, Al britannico spleen quasi uguale, Insomma: la russa chandrà, Lo prese a poco a poco; e in quella A farsi saltar le cervella, Grazie a Dio, nemmeno provò, Ma freddo alla vita guardò; Come Childe-Harold languido e tetro Appariva ai ricevimenti, Né il boston o i mondani commenti, Caro sguardo o sospiro indiscreto, Nulla ormai più lo smoveva, Di niente più si accorgeva. XXXIX - XL - XLI ............................................ ............................................ ............................................ XLII O eccentriche del gran mondo! Prima di tutto voi lasciò. Ed è ben vero che oggigiorno Annoia alquanto il tono snob. Anche se forse qualche dama Say e Bentham oggi proclama, È insoffribile il loro parlare Benché sia quisquilia veniale. Poi sono così intemerate, Così solenni e giudiziose,

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Così devote e rispettose, Così prudenti ed oculate, Così ardue alla conquista, Che fan venire lo spleen a vista.(7) XLIII E voi, giovani bellezze, Che al buio tempo notturno, Trasporta l'ardito calesse Sui lastrici di Pietroburgo, Voi pure il mio Eugenio lasciò. Le frenetiche gioie abiurò Onieghin la casa sprangando, Prese la penna sbadigliando, E volle scrivere: ma odiosa Tanta fatica gli riusciva; Dalla penna niente veniva, E non finì nella rissosa Genìa che non giudicherò Perché anch'io con loro sto. XLIV Di nuovo nell'ozio più vuoto, Da un deserto d'anima afflitto, Si diede al lodevole scopo Di far del senno altrui profitto. Di libri riempì una scansìa E lesse... Tempo buttato via! Là noia, qua inganno o demenza, Mancava o il senso o la coscienza; Legato ognuno ai suoi timori; Troppo vecchia l'antichità E arcaicizzante la novità... Via anche i libri, dopo gli amori! Sullo scaffale polveroso Stese un lenzuolo luttuoso. XLV Scrollati gli obblighi sociali, Io come lui, fuor dal trambusto, Diventammo allora sodali. Rispondevano in lui al mio gusto Tratti, istintiva fantasia, Inimitabile stramberia, Intelletto freddo e acuto. Io esacerbato, lui cupo. A un gioco di passioni esperti, Feriti entrambi dalla vita,

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E ogni fiamma in cuore sopita, Ci attendevano i colpi avversi Del cieco Caso e della gente Nel nostro mattino fiorente. XLVI Chi viva e pensi non potrà Non spregiare in cuore la gente; Chi abbia un sentire soffrirà Lo spettro del tempo fuggente: Per lui più nessuna malìa, Ma il serpe della nostalgia E il pentimento lo rimordono. E spesso tutto questo apporta Più attrattiva al conversare. Così eloquente, mi sconcertò Onieghin; poi mi abituò Al suo caustico argomentare, Alla battuta mezzofiele, E al torvo epigramma crudele. XLVII Quante volte al tempo d'estate, Che il cielo sulla Nievà(8) Traspare chiaro nelle nottate, E non specchia il volto di Diana Delle acque il gaio vetro, Riandando idillî d'anni addietro, A un passato amore riandati, Commossi, e ancora spensierati, Ci inebbriava silenzioso Il benigno notturno vento! Come il forzato sonnolento Dal carcere a un verde boscoso, Così alla prima giovinezza Noi trasportava quell'ebbrezza. XLVIII Con l'anima tutta rimpianto, E appoggiandosi al granito, Eugenio stava meditando,(9) Come un poeta di sé ha scritto. L'ora era tacita e deserta: Solo un grido di guardie all'erta. Dalla Miliònnaja veniva Rumor di ruote; risaliva Con sciacquìo di remi un battello Il fiume calmo e appisolato;

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E noi eravamo affascinati Da un flauto, un audace stornello... Ma più dolci son d'altri svaghi Notturni del Tasso le ottave! XLIX Onde adriatiche, o Brenta! Un giorno vedervi potrò E, alla vostra magica voce, La mia ispirazione riavrò. È sacra alla stirpe di Febo; L'altero britannico aedo Di essa cantava ed io l'ho amata. Nella notte d'oro stellata, Godrò carezze a volontà Dall'or loquace ora silente Ragazza veneziana, mentre Misteriosa la gondola va; Da lei le mie labbra apprendendo Del Petrarca e d'amore l'accento. L La libertà vedrò arrivare! È tempo, è tempo! - a lei anelo; Aspetto e aspetto, erro sul mare, Faccio segno a ogni vela. Sotto i nembi, contro i marosi, Sui liberi spazi ondosi Potrò io libero fuggire? Di un elemento che m'è ostile Tempo è ch'io lasci i tristi lidi E in un mareggio meridiano, Sotto un mio cielo africano, La buia Russia io sospiri, Dove ho amato, dove ho patito, Dove il mio cuore ho seppellito. LI A visitare già decisi Io e Onieghin, paesi lontani, Ben presto restammo divisi Dal destino un lungo tempo. Morì allora il suo genitore. L'avido sciame creditore In casa sua fece raduno. Da dir la sua aveva ognuno. Eugenio che odiava le beghe, Della sua sorte contento,

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Per loro abdicò al testamento, Non perdendoci poi gran che, O prevedendo fin da adesso Dell'anziano zio il decesso. LII D'un tratto infatti l'intendente Gli scrisse per informarlo Che lo zio era in letto morente E avrebbe amato salutarlo. Letta la triste ambasciata Eugenio a quella chiamata Di corsa si precipitò, E in anticipo sbadigliò, Disposto, in grazia del quattrino, A sospiri, a noia e inganno (Qui cominciavo il mio romanzo); Ma giunto a volo nel paesino Trovò su un'asse lo zio sdraiato, Già per la fossa preparato. LIII Piena di servi era la corte; All'estinto da tutti i punti, Amatori dei dopomorte, Amici e nemici eran giunti. Fecero al morto il funerale, Preti e ospiti a bere e a mangiare. Poi ripartirono imponenti Ostentando affari urgenti. Ed ecco Eugenio campagnolo, Di fabbriche e acque padrone E boschi e terre, lui sprecone E ostile all'ordine finora: Contento di esser passato Dal vecchio stile al nuovo stato. LIV Per due giorni gli parvero nuovi Il fresco ombroso boschetto, I campi solitari, Del ruscello il murmure quieto. Ma al terzo, bosco e colle e campo Non gl'importavano più tanto; Poi lo facevano dormire; Poi lui stesso poté capire Che era sempre la stessa noia Anche in campagna, pur senza vie,

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Palazzi, carte, balli, poesie. Come una guardia la chandrà Lo seguiva, era sempre alle soglie Come un'ombra o una fida moglie. LV Nacqui per la vita in disparte, In una pace campagnola: Là son più vivi i sogni d'arte, La cetra ha voce più sonora. Dedito all'innocente svago, Erro lungo il deserto lago E il far niente è la mia norma. Mi desto quando raggiorna Al piacere e alla libertà: Leggo poco, dormo molto, Alla gloria non dò ascolto. Non fu così che in altra età Passai nell'ozio e ombrosa quiete Le mie giornate più liete? LVI O fiori, amore, ozio, campi! Con tutta l'anima io vi amo. E son contento se risalti Che io e Onieghin diversi siamo, Affinché il beffardo lettore Oppure un qualche editore Di bizzarre malignità, Confrontata la mia identità, Che il mio ritratto ho qui schizzato, Come Byron superbo poeta, Perfidamente non ripeta: Quasi che a noi non fosse dato Scriver poemi che abbian nessi Con altro, se non con noi stessi. LVII A proposito: tutti i poeti Aman l'amore sognatore. Di sognare volti diletti M'è capitato ed il mio cuore La loro effigie ha custodita Cui la Musa poi dava vita: Così dei monti potei cantare La fanciulla, mio ideale, Le prigioniere del Salghìr. Adesso da voi mi si pone,

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Miei cari amici, la questione: «Per chi sospira la tua lira? Fra tante fanciulle gelose, A chi dedichi rime amorose? LVIII «Quale, sapendoti ispirare, D'un tenero sguardo ha premiato Il tuo pensoso cantare? Quale il tuo verso ha angelicato»? Nessuna, amici! Nessuna! Ahi, Senza conforti sopportai Il folle tormento d'amore. Beato chi a esso un ardore Di rime ha unito raddoppiando La sacra febbre di poesia, Del Petrarca lungo la via, Le pene del cuore placando, E alla gloria è pervenuto! Io, amando, ero stupido e muto. LIX Passò l'amore, a riapparire Torna la Musa, la buia mente Si schiara, e ancora tento unire Suoni, concetti e sentimenti: Scrivo, e il cuore non soffre più; La penna non traccia su e giù A versi incompiuti vicini Femminili volti e piedini; Faville la cenere sopita Non dà; né piango io, benché mesto; E nel mio cuore molto presto Sarà ogni tempesta finita: Così potrò portare avanti Un poema in venticinque canti. LX Il progetto l'ho già ordito, Per l'eroe un nome ho già pensato; Ma ecco che il primo capitolo Del mio romanzo ho terminato; L'ho rivisto accuratamente; Ci sono molte incongruenze, Ma io non le correggerò. Scotto al censore pagherò, E il frutto della mia scrittura In pasto ai gazzettieri andrà.

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Sui bordi della Nievà Vola, o neonata creatura! Di gloria recami una sorte: Chiasso, ingiurie e glosse contorte! [Note dell'autore] (1) Scritto in Bessarabia; (2) dandy, elegantone (3) Cappello à la Bolivàr. (4) Noto ristorante. (5) Segno di entusiasmo raffreddato, degno di Childe Harold. I balletti del sig. Didlot sono pieni di vivace immaginazione e di straordinario fascino. Uno dei nostri scrittori romantici ha trovato in essi molta più poesia che i tutta la letteratura francese. (6) Tout le monde sut qu'il mettait du blanc; et moi, qui n'en croyais rien, je commençais de le croire, non seulement par lembellessiment de son teint et pour avoir trouvé des tasses de blanc sur sa toilette, ma sur ce qu'entrant un matin dans sa chambre, je le trouvai brossant ses ongles avec uneepetite vergette faite exprès, ouvrage qu'il continua fièrement devant moi. Je jugeai qu'un homme qui passe deux heures tous les matins à brosser ses ongles, peut bien passer quelques instants à remplir de blanc les creux de sa peau. (Confessions de J. J. Rousseau). Grimm precedeva il suo secolo: adesso in tutta l'Europa colta ci si pulisce le unghie con uno speciale spazzolino. (7) Tutta questa storia ironica altro non è che una raffinata lode delle nostre connazionali. Allo stesso modo Boileau, sotto forma di rimprovero, loda Luigi XIV. Le nostre dame uniscono la cultura alla gentilezza e una rigorosa illibatezza di costumi a quel fascino orientale, che tanto affascinava Madame de Staël (V. Dix années d'exil). (8) I lettori ricorderanno l'incantevole descrizione delle notti pietroburghesi nell'idillio di Gnediè: «Ecco la notte: ma non si spengono le strisce dorate delle nuvole. Senza stelle e senza luna tutta s'illumina l'immensità. Sulla spiaggia in lontananza si vedono le vele inargentate Di navi appena visibili, come librantisi nel cielo azzurro. Di uno splendore senza ombre il notturno cielo risplende, E la porpora dell'occidente si fonde con l'oro del levante: Quasi che l'aurora dopo la sera porti Un roseo mattino. - Era quella dorata stagione Che i giorni estivi aboliscono la signoria della notte, E lo sguardo del forestiero sul cielo del nord è affascinato Da una magica fusione di ombra e di dolce luce, Di cui mai non s'adorna un cielo meridionale; Quella luminosità simile ai vezzi di una nordica fanciulla, I cui occhi cerulei e le guance vermiglie Appena adombrano dei riccioli biondi le onde. Allora sulla Nievà e sulla opulenta Petropoli si vedono La sera senza buio e rapide notti senza ombra: Allora Filomela non riesce a terminare i canti di mezzanotte Che altri canti incomincia, saluto al giorno che sorge. Ma è tardi; si è levata la brezza sulle tundre della Nievà; È scesa la rugiada....................................

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Ecco mezzanotte: già sciabordante a sera di mille remi, La Nievà più non si agita, se ne sono andati gli ospiti cittadini; Non una voce sulle rive, né increspature sull'acqua, tutto tace; Solo di rado un rimbombo dai ponti corre sull'acqua; Solo un grido giunge prolungato dalla remota campagna, Dove nella notte una scolta militare chiama altra scolta. Tutto dorme..................................... (9) Realmente la dea benevola - Scorge l'esaltato poeta, - Che trascorre una notte insonne, - Appoggiato al granito. (Murav'ëv, Alla dea della Neva) CAPITOLO SECONDO

O rus! Hor. I Era un sito dei più ridenti Dove si annoiava Eugenio; L'amico di gioie innocenti Ne avrebbe benedetto il cielo. Dai venti al riparo, isolata, Su un fiumicello situata La casa padronale; e gli ampi Prati intorno e i dorati campi Eran tutta una fioritura; Qua e là sui pascoli erravano Le greggi; villaggi spuntavano; E un gran giardino nell'incuria Stendeva le sue dense ombre, Asilo a Driadi meditabonde. II L'insigne dimora era fatta Come va fatta una dimora: Molto tranquilla e compatta, Nel sano gusto di allora. Dovunque ben alta ogni stanza, Tappezzata la rappresentanza, Quadri con facce d'imperatori, Stufe in ceramica a colori. Veramente non so il perché Tutto pareva un po' muffito; Anche se, d'altronde, al mio amico Non gliene importava un gran che, Tanto lui sbadigliava sempre, Nuovo o vecchio che fosse l'ambiente.

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III E la sua stanza fu la stessa Dello zio ch'era invecchiato Litigando con la fantesca, Schiacciando mosche o là affacciato. Alla buona: di quercia l'assito, Due armadi, un divano imbottito, Un tavolo, ma in nessun posto La minima macchia d'inchiostro. Negli armadi trovò un brogliaccio Di spese e poi rosolî in serie E brocche d'acqua di mele, Dell'anno otto un almanacco: Quel vecchietto tanto occupato Mai altri libri aveva sfogliato. IV Solo, nei suoi possedimenti, Si mise Eugenio a meditare, Benché solo per passatempo, Qual nuovo ordine instaurare. Nel solitario romitaggio Con lievi tributi quel saggio Le corvées sostituì: La sorte il servo benedì. Ma un suo vicino alquanto arcigno, Cultore dell'economia, Sentenziò ch'era una follia; Un altro ridacchiò maligno, E di lui fecero un ritratto Da pericoloso bislacco. V L'andavan tutti a riverire Da principio; e poi però Che lui dal retrocortile Sul suo stallone del Don Tagliava lesto la corda Udendo carrozze alla porta, - Offeso per l'impertinenza Cessò ognuno la sua frequenza. «Che vicino matto e villano! È un frammassone! Sempre a bere Vino rosso al suo bicchiere! E mai che faccia un baciamano; Solo ( sì ) o ( no ) è il suo conversare.» Era una voce generale.

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VI Proprio allora era là arrivato Un altro nuovo possidente Che aveva offerto al vicinato Cause di critica pungente. Vladìmir Lienskij si chiamava, Anima in tutto gottinghiana, Bello, nel fiore dell'età lieta, Di Kant discepolo e poeta. Dalla Germania nebbiosa Frutti di scienza avea portati: Di libertà sogni ispirati, Indole strana e impetuosa, Un sempre esaltato discorso E neri riccioli fin sul dorso. VII Non guastato dalla freddezza Della mondana corruzione, Un'amicizia, una carezza, Gli davano ancora emozione. Di cuore tenero e inesperto Alla speranza egli era aperto; Un mondo nuovo e risplendente Incantava la fresca mente; Un dolce sogno gli riapriva Al sorriso il cuore perplesso; Di nostra vita il fine stesso Come un mistero l'irretiva, Il suo pensiero avvincendo Nel sospetto di un portento. VIII Credeva all'anima sorella A unirsi a lui predestinata Che languendo lo aspettava Di giorno in giorno sconsolata; Ed in amici per lui pronti A subire catene e affronti E con mano senza tremore A stroncare un calunniatore; E in sacri eletti dal destino Amici dell'umanità La cui immortale società Con raggio segreto e divino Ci avrebbe un giorno illuminato, Il mondo rendendo beato.

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IX Ben presto sdegno e pietà, Un puro amore verso il bene, Di gloria una dolce ansietà Pulsarono nelle sue vene. Con la sua cetra vagabondo Di Schiller e Goethe nel mondo, Il loro poetico ardore Aveva infiammato il suo cuore; Delle eccelse Muse i talenti, Per fortuna, non offendeva, Nei suoi canti alteri metteva Sempre eccelsi sentimenti, Di sogni verginali l'onda E grazia semplice e profonda. X Cantava amore, d'amore servo, E la sua canzone era pura Come il pensiero d'una vergine, Un sogno infantile o la luna, Nei puri deserti del cielo Dea di sospiri e del mistero. Cantava gli addii, gli ahimé, Le nebbiose distanze, i non-so-che, E le romantiche rose; Cantava contrade distanti Dove a lungo i suoi vivi pianti In grembo alla quiete depose; Cantava i suoi giorni sfioriti A diciott'anni non finiti. XI Nel deserto ove Eugenio soltanto Poteva apprezzare i suoi doni, Dei signorotti lì accanto Non gradiva le imbandigioni O le serate rumorose. Quelle chiacchiere giudiziose Sul foraggio, sulla vigna, Sul canile e sulla famiglia, Non brillavano per sentimento, Né per poetica vivezza, Né per acume o lepidezza, Né per mondano avvedimento; E i discorsi delle consorti Non erano meno stolti.

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XII Ricco, bello, Lienskij dovunque Era accolto da fidanzato; In campagna è d'uso; chiunque La figlia aveva destinato A quel vicino mezzorusso; Non appena egli entrava, il flusso Del discorso era sviato Sulla noia del celibato; Al samovàr lo invitavano E a Dunja che versava il tè Bisbigliavano: «tienilo a te!» E poi la chitarra portavano: Sicché lei miagolava (oh dio!): Vieni al bel castello mio!...(1) XIII Ma Lienskij, che ben si guardava Dalla voglia di accasarsi, Con Onieghin desiderava Quanto prima presentarsi. S'incontrarono. Onda e scoglio, Versi e prosa, grano e loglio, Non contrastavano così. L'esser diversi lì per lì Rese l'uno all'altro molesto; Poi si piacquero; e tutti i giorni Cavalcavano nei dintorni, Inseparabili ben presto. Così (e io per primo) la gente Si fa amica dal non far niente. XIV Ma nemmeno più questa abbiamo Amicizia fra noi, se qua Tutti gli altri uno zero stimiamo E noi stessi una rarità. Ci sentiamo dei Napoleoni; Creature bipedi a milioni Per noi son solo uno strumento. Selvaggio e buffo è il sentimento; Eugenio, con più comprensione, Benché conoscesse la gente Sprezzandola generalmente, - (Ogni regola fa un'eccezione) Di alcuni, pur senza capire Il senso, onorava il sentire.

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XV Sorridendo ascoltava Lienskij. Del poeta il discorso alato E i giudizi ancora un po' acerbi E lo sguardo sempre ispirato, - Tutto nuovo per lui era. Così la frase che raggela Cercava sul labbro frenare, E pensava: è sciocco turbare La sua fuggitiva illusione; Senza di me verrà il momento; E intanto lui viva contento Credendo il mondo perfezione; Scusiamo questa età febbrile, Bollore e foga giovanile. XVI Fra loro tutto era dibattito E li portava a meditare: Delle passate genti i patti, Di scienza i frutti, il bene e il male, E i pregiudizi più consunti, Della tomba gli arcani occulti, E a lor volta la vita e il fato, Tutto da essi era vagliato. Il poeta dalla veemenza Trasportare si lasciava, Poemi russi declamava, E Eugenio con condiscendenza, Anche senza capirci molto, Al ragazzo prestava ascolto. XVII Ma le passioni erano il punto Più discusso dai miei solitari. Affrancato dal loro tumulto, Con sospiri involontari Onieghin le andava evocando. Beato chi già il loro assalto Seppe e infine se n'è staccato; Più beato chi mai l'ha provato, Chi amore spegne andando via E in malalingua l'ostilità, Chi con gli amici e la metà Sbadiglia senza gelosia, Né al gioco infido va a fidare Degli avi il fido capitale.

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XVIII Quando della saggia e beata Quiete sotto l'ala saremo E di passione sarà placata La fiamma e buffi scopriremo I suoi capricci e le bufere E le sue tardive chimere, In pace dopo guerra molta, - Ameremo udire talvolta La lingua dell'altrui passione E il cuore ci commuoverà. Tale un vecchio reduce dà Orecchio con attenzione Dei nuovi guerrieri alle gesta, Negletto nella sua casetta. XIX Ma la bollente giovinezza Non può nulla dissimulare. Odio, amore, gioia e tristezza, Tutto è pronta a confidare. D'amore reduce, ora ascolta Onieghin con la faccia assorta Il poeta che si spassiona Cuore in mano e di sé ragiona; E mette a nudo con candore La sua disarmata coscienza. E viene così a conoscenza Eugenio di un giovane amore, Storia ricca di sentimenti Per noi non nuovi e d'altri tempi. XX Ah egli amava, come in quest'epoca Più non si ama; come sola L'anima pazza d'un poeta A amare è condannata ancora; Sempre, ovunque, quel sogno uguale, Unica brama abituale, Una tristezza che non varia. Né la lontananza che estrania. Né del distacco gli anni e i mesi, Né ore alle Muse votate, Né studio o chiassose brigate, Né bellezze di altri paesi, Gli avevan l'anima mutata Da un vergine fuoco scaldata.

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XXI Imberbe e di Olga già incantato, Ignaro di pene del cuore, Dei suoi primi giochi era stato Il tenero spettatore; Al riparo ombroso dei bei Boschi aveva giocato con lei, Mentre i padri, amici e vicini, Sognavan sposi i due bambini. Lei in disparte, quieta nell'ombra, Fioriva di grazie innocenti, Sotto gli sguardi dei parenti, Qual mughetto che si nasconda Nell'erba folta che non l'apre Né alle farfalle né all'ape. XXII Lei aveva portato al poeta Di gioventù il primo fermento; Nel pensiero di lei la sua cetra S'era tesa al primo lamento. Addio, addio giochi dorati! Egli amò boschetti intricati, Star nel silenzio e con nessuno, La notte e le stelle e la luna, La luna, lampada del cielo, Che s'ebbe da noi consacrate Le nostre al buio passeggiate, Lacrime d'intimo sollievo... Ma che oramai vale purtroppo Solo se c'è un lampione rotto! XXIII Sempre modesta, buona e quieta, Come il mattino allegra ognora, Semplice come un poeta, Dolce qual bacio d'amore; Gli occhi di cielo turchino, Riccioli biondi come il lino, Voce, sorriso, taglia, tratto, In Olga tutto... Ma il ritratto Già troverete contenuto In qualunque romanzo: assai Soave, e un tempo anch'io l'amai, Ma troppo a noia m'è venuto. Ora, mi scusi il mio lettore, Passo alla sorella maggiore.

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XXIV Si chiamava Tatjana...(2) Nome che noi volutamente Di un romanzo nella pagina Consacreremo primamente. E dunque? Scorre, suona bene, Anche se invero esso contiene Un sentore d'antichità E di serva. Ma si dovrà Ammetterlo: poca fortuna I nomi russi hanno fra noi (Non parliamo dei versi, poi); Non ci è arrivata la cultura, E appena ne abbiamo quassù Il tòno - ma niente di più. XXV Dunque Tatjana si chiama. Ma né di Olga la bellezza Su lei l'attenzione attirava, Né del colore la vivezza. Ritrosa, taciturna, mesta, Come cerva della foresta, Nel cerchio della sua famiglia Sembrava quasi d'altri figlia. Moìne non voleva fare Con la mamma e col papà, Né fra quelli della sua età Bambina giocare e saltare. E per giorni interi seduta Alla finestra stava muta. XXVI Pensosità, sua compagna Fin della culla dai giorni, Lo scorrer dell'ozio in campagna Le aveva adornato di sogni. Le sue dita mai non toccavano Gli aghi, mai non si chinava Lei sul telaio a ricamare Bianchi lini con sete rare. Per desiderio di comando, Con la bambola ogni bambina Alla mondana disciplina Già si prepara pur giocando, E con sussiego a lei rifà Le prescrizioni di mammà.

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XXVII Mai però che lei prendesse In braccio in quegli anni trascorsi Una bambola a cui ripetesse Di mode e novità i discorsi. Ogni puerile baldoria Le era estranea; una buia storia D'invernali notti d'orrore Molto più le avvinceva il cuore. Quando la njanja convocava Nel vasto prato per Olga Le piccole amiche a raccolta, Lei a nascondino non giocava; La annoiavano le risate, Quel cicalìo da spensierate. XXVIII Sul balcone amava molto L'aurora al nascere aspettare, Quando di stelle un girotondo Al calmo orizzonte scompare, E chiaro il paese si fa, Il vento, araldo del mattino, va E a poco a poco il giorno spunta. D'inverno, che l'ombra notturna Su metà del mondo si stende Più a lungo e nella quiete oziosa Più a lungo sotto la nebbiosa Luna riposa il pigro Oriente, Già desta a ora mattiniera Si alzava a lume di candela. XXIX Presto le piacquero i romanzi, Eran per lei di tutto un po'; La ammaliavano gli inganni Di Richardson e di Rousseau. Suo padre era un tipo pacato, Di un secolo almeno arretrato; Ma non vedeva male alcuno Nei libri; mai leggendone uno, Li riteneva una quisquilia, Né gli importava se quel tale Tomo restava a pisolare Sotto il guanciale della figlia. Del resto la stessa sua sposa Di Richardson era smaniosa.

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XXX E non perché letto lo avesse Lei amava così Richardson, E neanche perché anteponesse A Lovelace Grandison.(3) Ma la principessa Alina, Sua moscovita cugina, Gliene aveva una volta parlato. Col marito ancor fidanzata, Ma controvoglia, era a quel tempo; Per un altro lei spasimava Che assai di più l'attirava Per intelletto e sentimento: Un Grandison da stravedere, Gran giocatore e corazziere. XXXI Come lui, lei pure abbigliata Sempre alla moda era e a pennello; Ma senza averla consultata Le misero al dito l'anello. E, per lenire lo sconforto, La condusse il coniuge accorto Nei suoi possessi dove lei, Da chi attorniata non saprei, Dapprima smaniava piangendo E per poco non divorziò; Poi alla casa si dedicò, Si abituò, sembrò contenta. L'abitudine per noi fa Funzione di felicità.(4) XXXII Quell'abitudine addolcì La pena nascosta e sofferta; Del tutto poi la risarcì Ben presto una grossa scoperta: Tra ozi e brighe aveva capito Il segreto di come il marito Tiranneggiare a suo piacere. Tutto andò allora a gonfie vele. E lei sorvegliava i lavori, Salava i funghi, tosava teste, Amministrava, le fantesche Picchiava a sfogo dei malumori E al sabato faceva il bagno, Giammai consultando il compagno.

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XXXIII Un tempo col sangue scriveva Di dolci fanciulle negli album, Praskovja in Pauline traduceva E parlava cantilenando, Ben stretto il corsetto portava E la enne pronunciava Col naso in francese perfetto. Ma tutto cambiò: corsetto, Album, principessa Alina, Quaderno di versi scordò; A chiamare ricominciò Akùlka allora l'ex-Celina, Restituendo a nuova vita, Crestina e vestaglia imbottita. XXXIV Di cuore il marito l'amava, Ai suoi capricci indulgendo, A lei per tutto s'affidava, In vestaglia mangiando e bevendo; La sua vita in pace fluiva; La sera a volte si riuniva Di vicini una compagnia, Amici senza smanceria, Spettegolando a malignare, A rider dell'uno o dell'altro. Passa il tempo; dicono intanto A Olga il tè di preparare; Si cena; è tempo di dormire E, per gli ospiti, di partire. XXXV Le loro usanze erano quelle Del buon tempo tradizionale; C'erano sempre le frittelle In quella casa a carnevale. Due volte all'anno digiunavano; Ma in altalena anche ballavano E gli piaceva strologare; Nello sbadiglio generale Al Te Deum della Trinità, Tre lacrimette essi compunti Versavano per i defunti; E mai rinunciavano al kvas; E se avevano ospiti a mensa Per grado era la precedenza.

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XXXVI E così invecchiarono i due. Finché del sepolcro le porte Si aprirono davanti a lui Che altra corona ebbe in sorte. Morì un'ora prima di pranzo, Da un suo vicino compianto, Dalle figliole e dalla sposa, Quant'altre mai pura e amorosa. E dove di quel buon signore La spoglia mortale è sepolta Dice una scritta sulla tomba: Dmitrij Larin, peccatore, Brigadiere e servo verace Di Dio, qui riposa in pace. XXXVII Ai suoi penati ritornando Vladìmir Lienskij visitò L'umile tomba del vicino E un sospiro gli consacrò; E a lungo nel cuore fu triste. «Poor Yorick! - tutto mesto disse -(5) In braccio mi aveva portato. Da bambino quanto ho giocato Con la sua medaglia al valore! Destinandomi Olga allora Si chiedeva: ci sarò ancora?...» E, pieno di vero dolore, Vladìmir si mise a vergare Per lui un funebre madrigale. XXXVIII E anche il cenere patriarcale Dei suoi genitori col pianto E una scritta volle onorare... Ahi! Frutto che passa d'incanto È ogni nuova discendenza, Per misteriosa provvidenza Sboccia, matura e se ne va; Un'altra ad essa seguirà... Così la nostra stirpe al vento Germoglia, turbina sobbalza E alla tomba gli avi incalza. Verrà, verrà anche il nostro tempo, E i nipoti quando ora sia Dal mondo ci manderan via!

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XXXIX Ma vi inebri in questo mentre La lieve vita, o amici miei! Mi rendo conto del suo niente, Né son molto attaccato a lei; Ho chiuso gli occhi a ogni miraggio, Ma di speranza un tenue raggio Ancora a volte inquieta il cuore: E sarebbe per me un dolore Non lasciar qui traccia alcuna. Vivo, scrivo, non per orgoglio Della lode, ma perché voglio Far gloriosa la mia sfortuna, Così che almeno un'eco resti, Fedele amica, e di me attesti. XL E un cuore potrà intenerire: E, dal destino conservata, Il Lete non farà perire La strofa da me ritmata; Forse (allettante mia speranza!) Qualcuno nella sua ignoranza Il mio ritratto indicherà, «Questi era un poeta» dirà. Accogli il mio ringraziamento Tu, delle Aonidi seguace, Nel cui ricordo le mie alate Creature avranno salvamento E la cui mano un giorno sfiori Benigna d'un vecchio gli allori! [Note dell'autore] (1) Dalla prima parte della Rusalka del Dnepr. (2) Gli armoniosi nomi greci, come per es. Agafon, Filat, Fëdora, Fëkla ecc., si usano fra noi solo fra la gente semplice. (3) Grandison e Lovelace, eroi di due famosi romanzi. (4) Si j'avais la folie de croire encore au bonheur, je le chercherais dans l'habitude (Chateaubriand). (5) «Pover Yorick!» - esclamazione di Amleto davanti al teschio del buffone (v. Shakespeare e Sterne). CAPITOLO TERZO

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Elle était fille, elle était amoureuse. Malfilâtre I «Scappi? Uff, questi poeti!» - Scusami, Onieghin, devo andare. «Non ti trattengo; e dove ti rechi La tua serata a passare?» - Dai Larin. - «Questo è ben curioso. Ma, scusa, non trovi penoso Tutte le sere là intristire?» - Niente affatto. - «Io non so capire. Già mi vedo com'è la scena: Anzitutto (non è così?) Una brava famiglia di qui, Per gli ospiti premura estrema, Marmellata, gli eterni discorsi Sulla pioggia, il bestiame, i raccolti...» II - E con ciò che male si fa? - «La noia, amico, qui sta il male.» - Detesto la gran società; Mi piace un giro familiare, Dove posso... - «Egloghe ancora! Basta, ti prego, alla buon'ora! Insomma? Tu vai là: peccato. Ah, senti... Sarebbe vietato Questa Filli vedere un po', Di pensieri e penna oggetto E lacrime e rime et cetera? Presentami.» - Scherzi! - «Ma no.» - Ben lieto. - «E quando?» - Due minuti. Saremo più che benvenuti. III Andiamo. - Al galoppo partiti, Sono già apparsi; e a profusione Li subissano con i riti Dell'ospitale tradizione. C'è un rito assai noto da noi: Le marmellate nei vassoi E tutte lustre poi le brocche Con acqua di mirtilli rossi, ............................................ ............................................ ............................................

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............................................ IV Volano a casa a tutto spiano(1) Per la via più corta; e noi Di nascosto ora ascoltiamo I discorsi dei nostri eroi: -E allora, Onieghin? Tu sbadigli. - «Sempre, Lienskij». - Quasi ti pigli Più noia. - «È uguale, t'assicuro. Ma sui campi si fa già scuro. Dài, dài, Andrjuška, più in fretta! Che posti stupidi! Sai: quella Làrina è alquanto terra terra, Ma un'assai gentile vecchietta; Ahi: ho paura che quell'acqua Di mirtilli fosse scialappa. V Dimmi: quale era Tatjana?» - Era quella che è entrata mesta E taciturna, come Svetlana, Sedendosi poi alla finestra. - «E dell'altra sei innamorato?» - Beh?! - «Se un poeta fossi stato La sorella io avrei preferita. Nei tratti d'Olga non c'è vita. È una madonna di Van Dyck, La faccia bella e ben paffuta Come questa luna stupida Sul cielo stupido di qui.» Vladìmir secco replicò E di lì in poi muto restò. VI Ma di Onieghin l'apparizione Dai Larin aveva destato Grande scalpore, l'attenzione Attirando del vicinato. Si misero a congetturare E di soppiatto a commentare, Scherzando e giudizi trinciando E Tatjana già fidanzando; Altri poi davano la nuova Che le nozze eran già intese, Ma per il momento sospese,

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Mancando gli anelli alla moda. Le nozze di Lienskij, si sa, Da un pezzo decise eran già. VII Tatjana irritata ascoltava Le dicerie; ma tra sé e sé Senza volere ci pensava Con un suadente nonsoché; E un pensiero filtrò in quel cuore; Giunta era l'ora dell'amore. Così un chicco nel solco gettato Al sol d'aprile è ravvivato. Da tempo la sua fantasia Di dolce tristezza bruciava, A un cibo fatale anelava Ed in cuore una nostalgia Il giovane petto opprimeva; L'anima... qualcuno attendeva, VIII E finalmente... Aperti gli occhi, Poteva dire: è lui, presente! Ahimé che adesso e giorni e notti E il solitario sonno ardente Di lui son pieni; ed ogni cosa Di lui con forza misteriosa Le parla. E lei trova noiosi I discorsi affettuosi, Le cure della servitù. Nella sua mestizia avvolta, Nemmeno più gli ospiti ascolta E il loro oziare maledice, I loro arrivi inaspettati, Il loro restar lì piantati. IX Adesso con quanta attenzione Legge un patetico romanzo, Con quale viva seduzione Ne beve il fascinoso inganno! Da un fantasticante potere Quelle creature rese vere, L'amante di Julie Wolmàr, Malek-Adhèl e de Linàr, E Werther, ribelle infelice E il senzapari Grandison,(2) Che invece a noi fa venir sonno,

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Per la tenera sognatrice Eran tutti un'immagine sola, Tutti Onieghin, sempre e ancora. X Pensandosi un'eroina Dei suoi autori prediletti, O Clarissa o Giulia o Delfina, Tatjana in placidi boschetti Col libro galeotto va Sola e vi cerca e troverà I suoi sogni e il segreto ardore, I frutti del suo colmo cuore, Sospira e poi, propria fingendo D'estasi o pena un'altrui storia, Assorta mormora a memoria Una lettera all'eroe caro... Ma il nostro eroe per alcun verso Non era un Grandison di certo. XI Stile solenne usava avere Il fervido autore d'un tempo, Nel suo eroe facendo vedere Di perfezione un esempio. Dava al soggetto beneamato, Sempre a torto perseguitato, Nobili sensi e gran cervello E un viso sempre molto bello. Scaldato a una pura passione, Era sempre spumeggiante L'eroe all'olocausto anelante, Finché verso la conclusione Il vizio era sempre punito E il bene di palma insignito. XII Ma è nella nebbia oggi ogni mente, Fa venir sonno la morale, Anche il vizio risulta attraente Nei romanzi e impera trionfale. La Musa inglese coi suoi spettri Turba i sonni alle giovinette, E loro idolo diventa O il Vampiro che pensa e pensa, O Melmoth, vagabondo cupo, O l'ebreo errante, o il Corsaro, O l'enigmatico Sbogàro.(3)

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Bell'idea Lord Byron ha avuto Vestendo di romanticismo Anche il disperato egoismo. XIII Amici miei, che senso c'è? Forse, per un celeste bando, Smetterò d'essere un poeta, Un nuovo dèmone in me entrando: L'ira di Febo sfiderò E alla prosa mi abbasserò; Del mio lieto occaso fatica, Scriverò un romanzo all'antica. Di segrete infamie discussa La tregenda non vi sarà, Ma dirò con semplicità Cose d'una famiglia russa, I sogni d'amore incantati E gli usi dei tempi passati. XIV Narrerò i semplici commenti Del padre o di un vecchio zio, E i fanciulleschi appuntamenti Sotto i tigli, lungo il rio; Di gelosia funeste pene, Lasciarsi, rivolersi bene, Nuovo litigio, e nel finale Li porterò proprio all'altare. Rivivrò accenti appassionati, Di un amore che si arrovella Le parole che ai piedi della Mia bellissima in giorni andati Erano in me moltitudine E ora ne ho perso l'abitudine. XV Tatjana, soave Tatjana! Con te io piango, ti sto vicino; Hai affidato in mano a un tiranno Alla moda il tuo destino. Perirai, cara; ma accecata Dalla speranza avrai invocata Un'oscura felicità, La vita ti accarezzerà, Berrai il veleno dei desideri, Dai sogni inseguita sarai: Ovunque tu immaginerai

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Di beati incontri i sentieri; Ovunque, ovunque avrai nel cuore Il tuo fatale tentatore. XVI Mal d'amore Tatjana affligge, E va in giardino a sospirare, Ma tutt'a un tratto gli occhi figge A terra e oltre non sa andare. Ha un nodo in petto e le sue gote Un'improvvisa vampa copre, Muore il respiro, un tramestìo Ha negli orecchi, un luccichìo Agli occhi... È notte; la luna va Di ronda in cielo; e l'usignolo Spande il suo canto sonoro Dei boschi nell'oscurità. Nel buio non dorme Tatjana E bisbiglia con la sua njanja:: XVII «Non dormo, njanja: che afa! Apri La finestra e con me rimani.» - Tanja, cos'hai? - «Sono annoiata, Parlami dei tempi lontani.» - Ma di che? Una volta a memoria Sapevo molte vecchie storie, Alcune vere, altre inventate, Di brutti spiriti e ragazze; Ma adesso tutto è buio, Tanja: Quel che sapevo l'ho scordato. Anche il mio turno è ormai arrivato! È finita... - «Ma dimmi, njanja, Della vostra vita trascorsa: Fosti innamorata una volta?» XVIII - Oh Tanja! Alla tua età l'amore Non sapevo nemmen che fosse; Mia suocera, Dio l'abbia in gloria, Mi avrebbe finita di bòtte. - «Com'hai fatto a sposarti, njanja?» - Mah! Così Iddio volle. Il mio Vanja Era più giovane di me, Stellina mia, che avevo tre- Dicianni quando la comare Due settimane andò e venì Finché mio padre mi benedì.

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E piansi di paura amare Lacrime quando mi disfarono La treccia e in chiesa mi portarono. XIX Ed ecco in casa d'altri entrando... Ma tu non mi stai più a sentire... - «Ah njanja, njanja, io soffro tanto, Mi sento tutta illanguidire: Vorrei piangere, singhiozzare!...» - Bambina mia, ma tu stai male; Abbia Iddio pietà di te! Quello che vuoi, dimmelo a me... Ti dò un po' d'acqua benedetta, Bruci tutta... - «Non son malata: Io... njanja... sono... innamorata.» - Bambina mia, Dio ti protegga! - E la vecchia sulla ragazza Un segno di croce ora traccia. XX «Innamorata» sussurra ancora Alla vecchietta lei disperata. - Ma tu stai male, o mio tesoro. - «Ma no: io sono innamorata.» E intanto la luna brillava, Col languido raggio irradiava Il leggiadro pallido volto Di Tatjana e i capelli sciolti; Scorreva il pianto, e la vecchina Col fazzoletto sulla bianca Testa sedeva sulla panca Presso la giovane eroina; E tutto in silenzio dormiva Sotto la luna suggestiva. XXI E Tatjana alla luna affisa Viaggiava col cuore lontana... Ma in lei c'è un'idea improvvisa... «Voglio restare sola, njanja. Dammi carta e penna, un momento Fa' in qua il tavolo, poi m'addormento; Vai.» E da sola eccola sta, Tutto tace, chiaro le fa La luna e lei appoggiata scrive, E sempre Eugenio ha nella mente, E in quella lettera irrompente

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Il verginale amore vive. Pronta è la lettera, e piegata. Ma a chi, o Tatjana, è destinata? XXII So di bellezze inaccessibili, Come l'inverno pure e algenti, Inflessibili, incorruttibili, Inesplicabili alla mente. Mi stordiva la loro albagía Alla moda e la ritrosia, E ne fuggivo con sgomento Sui loro cigli leggendo O voi lasciate ogni speranza,(4) Scritta d'inferno. Ispirare Amore è per loro un gran male, Spaventare gli dà esultanza. E sui bordi della Nievà Ben più d'una ce ne sarà. XXIII Tra ammiratori reverenti Altre bizzarre ho conosciute Superbamente indifferenti Ai sospiri e alle lodi avute. Cosa ho scoperto con stupore? Scoraggiato il timido amore Col loro contegno esemplare, Lo tornavano a accalappiare, Se non altro con la pietà, Se non altro con le parole D'un più accattivante tenore. E con cieca credulità Di nuovo quel giovane ardente Correva dietro al dolce niente. XXIV Qual è lo sbaglio di Tatjana? Forse la cara semplicità Per cui sotterfugi non trama? Al suo sogno la fedeltà? Il suo amare senza raggiri Sulla spinta dei suoi sospiri? Una fiducia così assoluta? L'aver dal cielo ricevuta L'indocile sua fantasia, Mente vivace e puntigliosa E quella testa capricciosa

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E un cuore di dolce follìa? Ma non merita indulgenza La sua appassionata imprudenza? XXV Calcola a freddo la civetta, Tatjana ama veramente, A un amore da bambinetta Cede incondizionatamente. E lei non dice: rimandiamo E dell'amore il prezzo alziamo, Lui meglio in trappola cadrà; Stuzzichiamo la vanità Con la speranza e altalenando Esasperiamo il cuore e dopo Di gelosia diamogli un fuoco; Perché se no, di gioie stanco, L'astuto schiavo là per là Delle catene si disferà. XXVI Altri problemi ora prevedo: Perché il patrio onore viva, Senza dubbio tradurre io devo Di Tatjana la missiva. Il russo non troppo sapeva, Riviste nostre non leggeva, E si esprimeva alquanto male Nella sua lingua nazionale: Così scriveva in francese... Che farci! Lo ripeto ancora: L'amore in russo finora Le dame non rendon palese, Né l'altera lingua nostra Si piega a una prosa di posta. XXVII Si voglion le dame obbligare A legger russo: è orripilante! Come le posso immaginare Con tra le mani «Il benpensante?»(5) Ditelo voi, o miei poeti: Le muse dei vostri segreti Versi a cui nei vostri errori Voi consacravate i cuori, Non hanno forse soavemente La lingua russa un po' straziata, Da esse padroneggiata

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A malapena e malamente, Eleggendosi a lingua madre La lingua di altra contrada? XXVIII Dio non voglia che incontri a un ballo O andando via sulla loggetta Seminaristi in scialle giallo O accademici in berretta! Bella bocca non sorridente Non amo e il russo mi sa di niente Senza errori di ortoepìa. Magari, per disgrazia mia, Le nuove beltà cederanno Delle riviste all'istanza, Dell'abbiccì l'osservanza E dei versi la voga imporranno. Ma io... Che cosa me ne importa? Resterò quello d'una volta. XXIX Uno scomposto cinguettare E una pronuncia non ortodossa Mi faran sempre palpitare Il cuore in petto a più non posso; Provarne rimorso non so, I gallicismi cari avrò Come le giovani follie, Di Bogdanòviè le poesie Ma basta. Adesso dovrei passare Alla lettera della mia bella; La mia promessa era ben quella, Quasi starei per rinunciare... La penna del dolce Parny Non è di moda ai nostri dì. XXX Se tu fossi qui, mio poeta(6) Di Festini e languori mesti, Con una preghiera indiscreta Ti disturberei: che volgessi Nella tua armonia fatata Della fanciulla appassionata Queste parole forestiere. Dove sei? Vieni: cederò Il passo, a te m'inchinerò... Ma fra i sassi di tristi luoghi, Disavvezzo il cuore alle lodi,

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Solo, su un finnico orizzonte, Egli va errando, né ha sentore L'anima sua del mio dolore. XXXI Di Tatjana m'è qui davanti La lettera; devotamente La serbo e tra segreti pianti La rileggo continuamente. Chi mai una tale tenerezza E tanta effusa gentilezza E le temerarie parole Le ispirava nel folle cuore E tante dolci assurdità? Non saprei dire. Eccole come Son nella fiacca traduzione, Scialba copia della realtà D'un quadro o un Freischütz eseguito Da scolarette d'incerte dita. LETTERA DI TATJANA A ONIEGHIN Vi scrivo - e che altro di più adesso? Cosa ancora io dire potrò? Castigarmi con il disprezzo Sarà a voler vostro, lo so. Ma se una goccia di pietà Per la mia triste sorte avrete, Forse non mi abbandonerete. Dapprima volevo tacervi, E non l'avreste mai saputa, La mia vergogna, se avessi avuta Una speranza di vedervi Dalle nostre parti una volta Alla settimana o talvolta, Per sentirvi parlare soltanto, Per sussurrarvi una parola, Sempre ad un nuovo incontro ancora Per giorni e notti poi pensando. Ma dicono che siete schivo; E questo deserto vi annoia, E noi... davvero non brilliamo Pur se vedervi ci dà gioia. Perché da noi siete venuto? In questo villaggio spento, Io non avrei mai conosciuto Né voi né il mio aspro tormento. E poi calmato il turbamento Dell'inesperta anima mia

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Col tempo avrei trovato forse Un compagno, e fida consorte Sarei stata e madre anch'io. Un altro!... No, non avrei dato Il mio cuore a nessuno al mondo! Così lassù fu decretato... Lo vuole il cielo: io sono tua; L'intera mia vita era pegno Del sicuro incontro con te; Dio ti mandò per suo disegno, Fino alla tomba a vegliar me... Nel mio sonno mi visitavi, Non visto già caro ti avevo, Ai tuoi begli occhi mi struggevo, Nell'anima mi riecheggiavi Da tempo... No, non era stato Un sogno! Entrasti e sull'istante Ti riconobbi, trepidante Pensando: eccolo, è arrivato! Non è così? Ti avevo tante Volte sentito in me, segreta Voce, se un povero aiutavo O se pregando confortavo Le pene di un'anima inquieta! E in questo momento stesso, Dolce visione, non sei tu adesso Nel trasparente buio passato, E chino al mio letto parole Di speranza con gioia e amore Non mi hai in silenzio sussurrato? Chi sei? Il mio angelo custode O il mio perfido tentatore? Toglimi tu dal mio dilemma. O forse tutto vano è stato Inganno dell'anima ingenua! E altrimenti fu decretato... Ma così sia! D'ora in avanti Il mio destino è in mano a te, Davanti a te verso i miei pianti, Ti chiedo aiuto per me... Pensami: sono qui sola, E nessuno che mi comprende, E già vacilla la mia mente, Perirò senza una parola. Ti aspetto: rianima d'un solo Sguardo nel cuore la speranza O, ahimé, con giusta rimostranza Spezza questo mio brutto sogno. Basta! A rileggere ho terrore... Muoio di vergogna e paura...

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Ma garante mi è il vostro onore E a esso mi affido sicura... XXXII Tatjana è tutta sospirante; Le trema in mano la lettera; E sulla sua lingua bruciante Il roseo sigillo dissecca. Sulla spalla la testa reclina. Scivolando, la camicina Scoperta ha la spalla graziosa... Ma ecco la luna luminosa Si spegne. Laggiù la dolina Tra i fumi emerge. Argenta il giorno Il torrente; a un suon di corno Sveglia il pastore il contadino. È mattina: si alza la gente, Tutto a Tatjana è indifferente. XXXIII All'aurora nessuna attenzione Rivolge, siede, china il capo E sulla lettera non pone Il suggello già ritagliato. Ma pian piano la porta ha schiusa La Filìpievna canuta Su un vassoio recando il tè: «Sveglia, bambina mia, che è Ora! Bellezza, sei già vestita? Ah uccellino mio mattiniero! Che paura m'hai fatto iersera! Ma grazie a Dio sei rifiorita! Di tanta pena non c'è traccia, È un papavero la tua faccia.» XXXIV - Fammi un favore, njanja! - «Ecco, Cara, non hai che comandare.» - Non penserai... ma sì... un sospetto... Capisci... Ah, non rifiutare! - «Giuro su Dio che lo farò.» - Zitta, zitta, manda da O... Da lui... da quel vicino... presto Il tuo nipotino con questo Biglietto, ma niente non dica E nemmeno che sono io... - «Ma da chi, tesoro mio? Ormai son proprio rimbambita.

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Di vicini ce n'è tanti; Contarli non so tutti quanti.» XXXV - Oh come non capisci, njanja! - «Eh, sono vecchia, cara stella; Il mio cervello è ottuso, Tanja; Ma una volta ero più sveglia, Dei padroni agli ordini pronta...» - Ma che c'entra, njanja, che importa? Non serve il tuo cervello adesso, Io devo mandare un biglietto A Onieghin. - «Oh sì, certamente. Anima mia, non t'arrabbiare, Sai che son tarda ad afferrare... Ma perché sbianchi nuovamente?» - Oh nulla, cosa vuoi che sia! Spediscilo subito via. - XXXVI Ma passa un giorno e non si vede Risposta. Un altro: e non c'è niente. Pallida, fin dall'alba in piedi: - Quando? - si chiede Tanja... E attende. Di Olga arriva l'adoratore, E la signora domanda: «Dove Il vostro amico si è cacciato?» «Di noi si è forse già scordato?» Trema Tatjana, e si fa rossa. - Promesso aveva di venire Oggi, - si affretta Lienskij a dire. - Forse ha da fare con la posta. - Tatjana abbassa lo sguardo, Quasi a un rimprovero beffardo. XXXVII Imbruniva; luceva ronzando Il samovàr nel suo bollore, La teiera di Cina scaldando, Tra spire di lieve vapore. Nelle tazze da Olga versato Già scorreva il tè profumato, Vena di cupa sorgiva. Un garzone la panna serviva; Ai freddi vetri col suo fiato Tatjana alla finestra stava, Tutta in se stessa, anima cara, Assorta, e sul vetro appannato

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Col suo bel ditino tracciò La sospirata sigla E. O. XXXVIII E intanto la sua anima langue, Agli occhi ha di lacrime un velo. Ma ecco, le blocca il sangue Un trepestío... un galoppo!... Eugenio Nella corte! «Ah!» - e lieve ombra Tatjana sguscia all'altra porta, Alla loggia, al cortile, al giardino. Vola, vola; né sul cammino Si volta, d'un fiato varcando Ponticelli, aiole, boschetto, Prato e sentiero del laghetto, Dei lillà i rami scompigliando: Corre al ruscello, finché stanca E trafelata su una panca XXXIX Cade... «Eccolo! Sì, Eugenio È qui! Dio! Cosa avrà pensato!» Nel cuore, di tormento pieno, Di speranza un sogno è restato; Trema, di febbre tutta ardente; «Mi troverà?» Ma non sente Che in giardino serve fanciulle Colgono bacche dai cespugli, Cantando, come è prescrizione, In coro (la norma era quella Affinché alla chetichella Non mangiasse i frutti al padrone La bugiarda bocca occupata: Oh villica astuta trovata!) CANTO DELLE RAGAZZE Ragazze, bellezze, Dolcezze, compagne, Giocate, ragazze, Spassatevi, dilette! Intonate la canzone, La canzone preferita, Il bel giovane attirate Nel nostro girotondo. E quando attirato l'avremo E da lontano sbirciato, Noi ce la fileremo,

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Ciliege gli getteremo, Ciliege, fragolette, E ribes rosso rosso. Non venire a spiare La canzone più segreta, Non venire a curiosare In giochi da ragazze. XL Cantano e, distrattamente Le voci ascoltando sonore, Tatjana aspetta impaziente Che si calmi il batticuore, Che passi la vampa alle gote. Ma anche il petto un tremito scuote, Né il rossore se ne parte, Ma con più fuoco ancor più arde... Tale la povera farfalla Brilla e sbatte l'ala iridata, Dal monellaccio catturata; Tale sussulta tra la paglia La lepre che appostato avvista Il cacciatore sulla sua pista. XLI Ma alla fine sospirando Si rialza dalla sua panca: S'avvia, ma appena sta imboccando Il viale in faccia le si pianta, Lo sguardo in fiamme, Eugenio come Una paurosa apparizione... E quasi avvolta da un falò Subito il passo lei fermò. Ma di questo inatteso incontro Il seguito, o amici cari, Non ho oggi forza di narrare; Dopo un così lungo discorso Prendo fiato, passeggerò: Come che sia, poi finirò. [Note dell'autore] (1) Nell'edizione precedente, invece di volano a casa [in russo, domoj letjat] era stampato per errore volano d'inverno [in russo: zimoj letjat] che non aveva senso alcuno. I critici, non avendo compreso ciò, vi trovarono un anacronismo con le strofe successive. Ci permettiamo di assicurare che nel nostro romanzo il tempo è calcolato secondo il nostro calendario.

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(2) Julie Wolmar: La nuova Eloisa. Malek-Adhel: protagonista di un mediocre romanzo di M.me Cottin. Gustave de Linar protagonista di un incantevole racconto della baronessa Krüdner. (3) Il vampiro: racconto erroneamente attribuito a Lord Byron. Melmoth: la geniale opera di Maturin. Jean Sbogar: noto romanzo di Charles Nodier. (4) Lasciate ogni speranza voi ch'entrate [sic]. Il nostro modesto autore ha tradotto soltanto la prima metà del celebre verso. (5) Rivista un tempo pubblicata alquanto irregolarmente dal defunto A. Izmàjlov'. L'editore si scusò una volta col pubblico stampando che nei giorni di festa era andato a spasso. (6) E. A. Baratynskij. CAPITOLO QUARTO

La morale est dans la nature des choses. Necker I - II - III - IV - V - VI VII Quanto meno una donna amiamo Tanto più facile è piacergli, Tanto meglio l'intrappoliamo Di seduzione nei cerchi. Il sanguefreddo dissoluto Genio in amore era tenuto: Di se stesso ovunque trionfando, Se la godeva non amando. Ma questa procerva baldoria È ormai roba da babbuini, Da tempi dei nostri nonnini; Di Lovelace vetusta è la gloria, Come i tacchi di rosso tinti E i parrucconi superspinti. VIII Fare l'ipocrita, rifriggere Sempre una cosa in varia salsa, Adoperarsi per convincere Di quel che ognuno sa e n'avanza; Sentir sempre quelle obiezioni, Confutare viete opinioni Che non esiston più nemmeno Fra le tredicenni: che pena! Chi non è stufo di minacce, Di suppliche, di finti affanni, Di lunghe epistole, di inganni,

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Di anelli, lacrime e linguacce, Mamme e zie guardiane, e mariti Troppo amici maldigeriti! IX Così la pensava il mio Eugenio. In preda a errori turbolenti Ed a passioni senza freno Trascorsi aveva gli anni verdi. Dalle abitudini viziato, Da questo o quello affascinato E poi deluso in un momento, Di brama struggendosi lento O a successi senza durata, Nel silenzio e in mezzo al rumore, Dell'anima attento al fervore, Nascondendo nella risata Lo sbadiglio, aveva distrutto Otto begli anni senza frutto. X Delle belle non più innamorato, Alla stanca le corteggiava, A un «no» subito rassegnato; Se lo tradivano, respirava. Ne andava in caccia senza ebbrezza, Le lasciava senza tristezza Scordando amore e crudeltà. Proprio come un ospite va Indifferente a un whist serale, Si siede, tira là a finire, E poi uscendo dal cortile Ritorna a casa a riposare: Senza che sappia lui stesso Dove sarà la sera appresso. XI Ma, avuto di Tanja il messaggio, Eugenio ne fu assai commosso; Del virgineo sogno il linguaggio Tanti pensieri aveva smosso; Ricordando la luce e l'aspetto Di Tatjana pallido e mesto, In un sogno soave e terso Si era con l'anima immerso. Forse dei sensi il vecchio ardore Per un attimo lo riprendeva; Ma ingannare lui non voleva

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Di un'anima pura il candore. E adesso al giardino voliamo Dove s'incontran lui e Tatjana. XII Per un po' restarono zitti, Poi Onieghin le si avvicinò Dicendo: «Mi avete scritto, Non negatelo. A lungo ho Letto lo sfogo confidente Del vostro amore innocente; Mi è caro il vostro candore Che ha rimesso in moto nel cuore Sopiti a lungo sentimenti; Io di lodarvene non penso, Ma vi posso offrire in compenso Franchezza senza infingimenti; La mia confessione accettate: Di me voi stessa giudicate. XIII «Se la mia vita a una famiglia Avessi inteso riservare; Se mi avesse una sorte benigna Destinato a marito e padre; Se di un domestico quadretto Mi avesse incantato l'aspetto, - Non avrei, tranne voi, cercata Nessun'altra fidanzata. Senza orpelli madrigaleschi Dirò: avrei il mio antico ideale Solo in voi voluto cercare, La compagna ai miei giorni mesti, Di beltà il pegno, e sarei stato Felice - per quel che ci è dato. XIV «Ma non per la felicità Son fatto; l'anima gli è estranea; Le vostre belle qualità Non le merito, sono vane. Sarebbe (vi dico in coscienza) La nostra unione una sofferenza; E subito tutto il mio amore Si muterebbe in disamore; Dalle vostre lacrime poi Non sarebbe il mio cuore toccato, Ma anzi ancora più irritato.

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Giudicate adesso voi Quali rose, e chissà per quanto, Ci appresterebbe Imeneo intanto. XV «Cosa di peggio immaginare Di una famiglia dove sempre La moglie è sola e sopportare Deve un marito indisponente E stufo che, pur apprezzando Le sue doti, vada imprecando Al destino - muto, ombroso, Collerico e a freddo geloso! Così io sarei. E cercavate Questo, voi ardente di purezza, Quando a me con tanta schiettezza E intelligenza scrivevate? Questa sorte triste davvero Vi ha serbato il destino severo? XVI «Non c'è ritorno ai sogni e agi anni, Non rinnoverò cuore e mente... Da fratello io sento d'amarvi, Forse anche più teneramente... Non adiratevi, ascoltate: Spesso voi fanciulle mutate I sogni in altri lievi sogni, Come a primavera le foglie L'alberello usa cambiare. Così, si vede, è volontà Del cielo. Riamerete: ma... Sappiatevi ben dominare; Forse altri non vi capirebbe, L'inesperienza vi nuocerebbe.» XVII Di Eugenio questa paternale Con lo sguardo tutto velato Di lacrime, senza fiatare, Tatjana aveva ascoltato. Lui porse il braccio: tristemente (Altri dirà: macchinalmente) Tatjana tacita si appoggiò, E languida il capo chinò; Li videro insieme rientrare In casa girando per l'orto, Ma non gliene fecero un torto:

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Perché la libertà rurale I suoi bei diritti conserva, Come anche i suoi Mosca superba. XVIII Lettore, anche tu hai constatato Che con gentilezza molta Si è il nostro amico comportato; Né era quella la prima volta Che un nobile cuore mostrava, Benché in nulla lui risparmiava Il malanimo della gente; E nemici e amici ugualmente (Che forse fan le stesse parti) L'offendevan di qua e di là. Nemici ognuno al mondo ne ha, Ma dagli amici Iddio ci guardi! Amici, amici, proprio così: E non per nulla lo scrivo qui! XIX E allora? Mah! Ogni nero e vuoto Mio sogno metterò a dormire; E tra parentesi lo noto Che non c'è calunnia vile, Da un vespaio di bugie nata E dalla feccia fomentata Della migliore società, Né epigramma, né assurdità, Che un tuo amico non diffonda In una cerchia perbenista Cento volte come per svista, Ridendo, senza astio né onta; Del resto per te è tutto ardente: Ti vuol bene... come a un parente! XX Eh, eh! Lettore mio bennato, I tuoi parenti stanno bene? Permetti; vuoi il significato Adesso tu da me sapere Di questa parola? Ecco qui. I parenti son gente così: È nostro dovere blandirli, Volergli bene, riverirli; E secondo l'uso corrente Per Natale visitarli O per posta gli auguri fargli,

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Così che per il rimanente Dell'anno si scordin di noi... E che Dio li conservi, poi! XXI Mentre l'amore delle belle È meglio che parenti e amici: Alle più agitate procelle Resistono i vostri diritti. Eh sì. Ma della moda il vento, Ma il capriccioso mutamento, Ma le chiacchiere, il pettegolezzo... Come una piuma è il gentil sesso. E poi la moglie virtuosa Del marito dovrebbe ossequiare Perfino il modo di pensare; Così la vostra fida sposa Può dar di smanie tutt'a un tratto: In amore il diavolo è matto. XXII Chi dunque amare? Di chi fidarsi? Chi una trappola non ci tende? Chi in atti e parole adeguarsi A grado nostro vorrà sempre? Chi su di noi non spargerà Calunnie? Chi ci blandirà? Chi al nostro vizio perdonare Saprà e non farci mai annoiare? Tu, di fantasmi inseguitore, Non sprecare più sforzi adesso, Ma unicamente ama te stesso O mio spettabile lettore! È un degno oggetto: non ce n'è Uno più amabile di te. XXXIII Dell'incontro le conseguenze Ahimé è facile immaginare: D'amore folli sofferenze Non cessarono di agitare Quell'assetata di dolore Anima: anzi con più ardore La povera Tanja si strugge; E dal suo letto il sonno fugge; La salute, fiore di vita, Il sorriso, la serenità, Tutto, in un fiato, se ne va,

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La sua gioventù è appassita: Tale di tempesta scende Un nembo sul giorno nascente. XXIV Ahimé, Tatjana sfiorisce, Taciturna nel suo pallore Si spegne! Niente la invaghisce, Niente muove più il suo cuore. Gravemente scuotendo il capo Mormorano nel vicinato: Sarebbe ora che gli si dia Marito!... Oh basta. Più allegria Reclama l'immaginazione: Un amore di latte e miele. E io, cari miei, senza volere Ho ceduto alla compassione; Scusatemi: troppo la amo La mia carissima Tatjana! XXV Dunque Vladìmir, sempre più Dalla bella Olga incantato, A quella dolce schiavitù Con tutta l'anima si è dato. Sempre è da lei. Siedono insieme Nella sua stanza se il buio viene. O a mani avvinte nel mattino Passeggiano per il giardino; Eh già. Ma solo qualche volta Egli osa, inebbriato d'amore, Scosso da un tenero pudore, Ma incoraggiato un po' da Olga, Con un ricciolo sciolto scherzare O la sua veste baciare. XXVI O di un romanzo educativo Egli a Olga dà lettura, Il cui autore è più erudito Di Chateaubriand sulla natura; Ma due o tre pagine qua e là (Vane chimere, irrealtà Nocive al verginale cuore) Tuttavia salta, con rossore. O anche, da tutti rifuggendo, Siedono al gioco degli scacchi, Puntati i gomiti sul tavolo,

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Meditabondi riflettendo. E Lienskij poi per distrazione Scambia la torre con un pedone. XXVII Pur se rincasa, gli è davanti Sempre di Olga la presenza. Di album foglietti volanti Orna per lei con diligenza: Disegna qui lira e colomba, Di Cipride un tempio, di tomba Una stele o un rustico posto, Un po' a colori e con l'inchiostro; O nella parte promemoria, Dopo gli autografi di chissà Chi altri, un verso lascerà D'un sogno tenera memoria, Lunga traccia d'un balenante Pensiero anni perdurante. XXVIII Avrete voi certo osservato L'album di qualche signorina Provinciale, scarabocchiato Dalle amiche d'in fondo in cima: E lì, in barba all'ortografia, Quei versi senza prosodia Profusi per eterno affetto, Qual troppo lungo o troppo stretto. Ci troverai in apertura Qu'écrirez-vous sur ces tablettes; E la firma: t. à. v. Annette; Mentre puoi leggervi in chiusura: «Se c'è chi ti ama di più Scriva pure di qui in giù.» XXIX Due cuori, fiaccola e ghirlanda Scoprirete lì indubbiamente; D'amore dum vivam et ultra Rileggerete i giuramenti; E l'uffiziale rimaiolo Che ha scritto un verso un po' mariolo. In un album così, o amici miei, Confesso, anch'io ci scriverei In tutta l'anima tranquillo Che ogni mia fervida scemenza Sarà vista con indulgenza,

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E che sorridendo maligno Nessuno vorrà stabilire Se abbia saputo o no mentire. XXX Ma voi, o tomi scompagnati Di diaboliche biblioteche, Album sfarzosi e raffinati, Supplizio di moda ai poeti, Voi, resi illustri sul momento Da un Tolstoj pittore portento O dalla penna di Baratynskij, Dio vi fulmini e incenerisca! Quando una lustreggiante dama Mi si presenta col suo in-quarto, Tremo di rabbia tutto e ardo Che già mi sento l'epigramma In fondo al cuore pronto e vivo: Ma un madrigale poi le scrivo! XXXI Lienskij non scrive madrigali Nell'album della giovane Olga; La sua penna fa respirare D'amore, acutezze non sfoggia; Ciò che di Olga nota o sente Lui lo scrive immediatamente: Piena di viva verità L'elegia come un fiume va. Così tu, Jazykov estroso, Che negli impeti del cuore Canti Dio sa di quale amore, E un giorno un libro prezioso Di elegie tutto il cammino Ti svelerà del tuo destino. XXXII Ma zitto! Senti? Ci comanda Un critico di gettar via Dell'elegia la ghirlanda E alla poetica consorteria Austero grida: «Basta coi pianti Nostalgici, gracidanti Monotoni il tempo che fu: Cantate d'altro!» - «Eh certo, tu Hai ragione, tu che ci esorti A tromba e maschera e pugnale E ordini di resuscitare

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Un capitale di già morti Pensieri. Eh, amico?» - «Oh, tutte storie! Scrivete odi, o miei signori, XXXIII Come scrivevano ai bei tempi, Come usava alla grande età...» - «Solo le odi più eloquenti! Suvvia, che differenza fa? Rammenta il detto del satirico! Del ( pro d'altrui ) lo scaltro lirico Meno noioso riterresti Dei nostri menestrelli mesti?» - «Ma non è una cosa seria L'elegia, approda a poco, Mentre l'ode ha un sublime scopo...» E qui ci sarebbe materia Da discutere, ma sto zitto: Due secoli porrei a conflitto. XXXIV Di gloria e di libertà Seguace, Vladìmir potrebbe Anche scrivere odi; ma Olga non le leggerebbe. Dunque i poeti lacrimanti Declamano i loro canti Alle amate? Si dice che Miglior premio al mondo non c'è, E in realtà beato chi legge Umile i sogni del suo cuore A un oggetto di versi e amore, Alla bella tutta in giulebbe! Beato lui... benché poi lei A che altro pensi non saprei. XXXV Ma i frutti delle mie visioni, Dell'armoniosa stravaganza, Io li leggo alla vecchia njanja, Compagna della mia infanzia. O dopo un pranzo annoiato Al vicino che da me entrato Afferro per la giacca e blocco Con una tragedia in salotto. O (no, non scherzo) penando D'angoscia e rime quando vado Errante lungo il mio lago

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E spavento di anatre un branco, Che al suono della mia poesia Dalle rive volano via. XXXVI - XXXVII E Onieghin? Ah giusto, fratelli! Vi prego, un po' di pazienza: I suoi quotidiani fardelli Descriverò con diligenza. Da anacoreta egli viveva: La sveglia alle sette metteva D'estate e, abbigliato in costume Da bagno, era subito al fiume; Di Gulnàra il vate imitando L'Ellesponto lui pure a nuoto Varcava e riviste dappoco Poi scorreva, il caffè sorseggiando, E si vestiva... XXXVIII - XXXIX Gite, letture, sonni interi, Boschi, rivi mormoranti, Di una bella dagli occhi neri I baci giovani e fragranti, Un cavallo docile e ardente Un pranzo dal menu esigente, Una bottiglia di chiaretto E starsene in pace soletto: Di Onieghin la vita beata È questa e lui si lascia andare Senza più i giorni contare Della sua estate spensierata, Gli amici obliando e la città, Le tediose formalità. XL Ma l'estate settentrionale, D'inverni al sud caricatura, Benché non si ammetta, è il brillare Di un attimo che non dura. Ecco che il cielo già respira Autunno e il sole obliquo mira, Il giorno diventa più breve, L'ombra dei boschi con un lieve Triste fruscìo s'è spogliata, Si spande la nebbia sui campi, La teoria delle oche gridanti Verso il sud si è dispiegata:

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Ecco ormai l'uggiosa stagione; Novembre sta dietro il portone. XLI Sorge nella fredda foschìa L'alba, la campagna è muta; Il lupo è in caccia sulla via Con la sua affamata lupa. Lo annusa il cavallo di posta, Soffia, s'inerpica alla costa Il viandante col fiato in gola; E le mucche di buon'ora Fuori di stalla più non manda Il mandriano, né a mezzogiorno Le aduna al suono del suo corno; Nella casupola fila e canta La fanciulla e scricchiano i ciocchi Al fuoco, amico delle sue notti.(1) XLII E scricchiola anche il gelo E per i campi s'inargenta... (Qui si aspetta una rima in cielo Il lettore; beh, se la tenga!) Più lustro di un parquet elegante Veste il fiume un ghiaccio brillante. Pattinando fra lieti schiamazzi(2) Solcano il ghiaccio i ragazzi; Con le rosse zampe panciuta L'oca credendo di nuotare Si trova a dover arrancare Sul ghiaccio, scivola, è caduta; La prima neve turbina, arriva, Cala giù a stelle sulla riva. XLIII Che fare? Una passeggiata Solitaria e in questa stagione? La campagna tutta spogliata Già a guardarla dà irritazione. Nella steppa galoppare? Ma il cavallo non può graffiare Il ghiaccio, liscia è la ferratura, Che cada c'è da aver paura. Stai nella casa abbandonata. Leggi: un Walter Scott, un Pradt. Controlla i conti. O non ti va? Bevi o infùriati: la serata

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Passerà e domani altrettanto. E sbarcherai l'inverno intanto. XLIV Nella pensosa accidia è entrato Come Childe-Harold anche Eugenio: Bagno nel ghiaccio appena alzato E quindi in casa il giorno intero. Tutto immerso nel conteggio, Con una stecca alla meno peggio, Fin dal mattino gioca adesso A biliardo con se stesso. Ma poi la sera sopraggiunge: Piantati lì biliardo e stecca, Già apparecchiato, Eugenio aspetta Al caminetto: ed ecco giunge Lienskij su una trojka di tre Cavalli grigi; a pranzo, alè! XLV Subito il vino benedetto Della Veuve Clicquot o di Moët Per il poeta viene messo Ghiacciato in tavola. È Un Ippocrene scintillante; Con la sua spuma frizzante (Che fa pensare a tutto un po') Mi affascinava: per lui ho Spesso l'ultimo mio spicciolo Dato via. Vi ricordate, Amici? Ah, ne ha combinate Di follìe il suo magico sprizzo! E quanti scherzi, anche, e poesie, Baruffe e allegre fantasie! XLVI Ma la sua spuma frusciante Ora il mio stomaco tradisce, E io il Bordeaux più benpensante A esso dunque preferisco. Non son più fatto per l'Ay;(3) L'Ay è come un'amante, così Sfavillante, viva, sventata E capricciosa e svuotata... Ma tu, Bordeaux, sei l'amico Che nel dolore e nell'affanno, Dovunque e sempre buon compagno, È pronto a renderci servizio

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O a spartire un tranquillo ozio. Viva il Bordeaux amico nostro! XLVII Il fuoco è spento; un velo di cenere Copre appena le braci d'oro; Un filo appena percettibile Di vapore sale; e un tepore Sfiata il camino. Di pipe va Su per la cappa un fumo. Là Sul tavolo frizza lucente Un calice. Il buio scende... (Mi è caro il bel calice rosso, Caro mi è il lume della bugia, In quell'ora che a mezza via Tra lupo e cane un vecchio motto Chiama, chissà per qual ragione.) Fanno ora i due conversazione: XLVIII «Beh, e le vicine? E Tatjana? E la tua Olga vivacissima?» - Mezzo bicchiere ancora... Piano... Basta così... Stanno benissimo Tutti e ti mandano i saluti. Che belle spalle ha messo su Olga, sapessi, e che bel seno! E che anima! Un giorno ci andremo, Per loro sarà un gran piacere; Del resto capire lo puoi Tu stesso: due visite e poi Non ti sei fatto più vedere. Ma giusto... Son proprio svanito! Fra una settimana hai un invito. - XLIX «Io?» - Sì, sabato è il nome Di Tatjana. Olga e la madre T'invitano; non c'è ragione Perché tu non debba accettare. - «Ma chissà che mucchio di gente, Che accozzaglia...» - No, niente Di tutto ciò, sono sicuro! La famiglia e basta, ti giuro! Suvvía, mi fai questo piacere? - «Va bene, vengo.» - Oh che gentile! - Lui tracannava in questo dire Per la vicina il suo bicchiere,

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E poi a parlare proseguì Di Olga: l'amore è così! L Era felice. Mancavano Due settimane al fausto evento. Del letto nuziale l'arcano, Al dolce amore scioglimento, Le sue estasi già aspettava. E nemmeno se li sognava Di Imene i guai e gli scompigli E il freddo turno degli sbadigli. Ma per noi che Imene aborriamo La vita matrimoniale È una specie di funerale, Un romanzo lafontainiano...(4) Il mio Lienskij con tutto il cuore Era per questo grigiore. LI Era amato... O almeno così Pensava ed era contento. Cento volte beato chi Fa tacere il ragionamento, Si affida al tenero suo cuore Come l'ebbro viaggiatore All'albergo o anche una lieve Farfalla al fiore cui s'imbeve. Ma infelice chi sa già tutto E non si fa girar la testa, Chi ogni moto e parola detesta Nel loro reale costrutto, Chi raggelato dall'esperienza Proibisce al cuore ogni demenza! [Note dell'autore] (1) Nelle riviste ci si è meravigliati del come sia stato possibile chiamare fanciulla una semplice contadina, mentre, poco più avanti, delle signorine di buona famiglia vengono chiamate ragazze! (2) «Ciò significa - osserva uno dei nostri critici - che i ragazzini vanno sui pattini.» Giusto. (3) Ai miei begli anni - Il poetico Ay - Mi piaceva per la frizzante schiuma, - Per questa immagine dell'amore - O della folle gioventù ecc. (Epistola a L. P.) (4) Auguste Lafontaine, autore di numerosi romanzi per famiglia. CAPITOLO QUINTO

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Oh, via da te questi paurosi Sogni, o mia Svetlana! Žukovskij I Quell'anno il tempo autunnale Nella corte a lungo indugiò, L'inverno dovette aspettare, Solo a gennaio nevicò: Il tre, la notte. Tatjana, desta Di buon mattino, dalla finestra Vide la corte imbiancata, Le aiole, i tetti, la staccionata, Sui vetri ricami a perline, Inargentati gli alberi, allegre Nella corte le gazze e lieve Posato sopra le colline Un manto invernale lucente. Tutto bianco, tutto splendente. II L'inverno!... Esulta il contadino In slitta la pista provando; Tenta il trotto il suo cavallino Incerto, la neve fiutando; Tracciando strisce vellutate Vola la kibìtka audace; Cintura rossa e impellicciato, Sta il conducente in serpa issato. Corre uno scapestratello Trainando sullo slittino (Lui fa il cavallo) il cagnolino; Un dito già gli si congela: Ahi, ahi, che male, benché rida, E mamma affacciata lo sgrida... III Ma temo che da una tal fatta Di quadri non siate attirati; Sono di natura bassa E non molto sofisticati. Da divina fiamma sospinto, Altro poeta ci ha dipinto(1) La prima neve e le invernali Gioie con stile senza pari; Vi incanta, lo potrei giurare,

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Quando descrive in versi ardenti Slitte e segreti appuntamenti; Ma non voglio con lui gareggiare, Né con te, o cantore cortese(2) Della giovane finlandese. IV Russa nell'anima, Tatjana, Non sapendo il perché lei stessa, L'inverno russo ama Nella sua gelida bellezza: La brina al sole che s'indora, Le slitte, sul far dell'aurora Riflessi di nevi rosate, Di Epifanìa buie serate. In casa sua le festeggiavano All'uso antico: e la sorte Le serve di tutta la corte Alle signorine dettavano, Ogni anno con la predizione Di un marito di guarnigione. V Tanja credeva alle tradizioni Del tempo antico popolare, Alle carte, a sogni e visioni, E all'oroscopo lunare. La inquietava il minimo segno, Un misterioso disegno In ogni oggetto lei scorgeva E di presagi si struggeva. Sulla stufa un micetto intento A far le fusa e a lustrarsi Per lei era da interpretarsi Ospiti certi. E vedendo A sinistra improvvisamente La bicorne luna crescente VI Lei tutta pallida tremava. O quando una stella cadente Nel cupo cielo precipitava Poi perdendosi - immediatamente Tatjana con trepidazione, Perdurando l'apparizione, Mormorava il desiderio Del suo cuore. O se un frate nero Incontrava per avventura,

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O una svelta lepre nei campi Le tagliava il cammino davanti, Interita dalla paura, Aspettava ormai rassegnata La disgrazia così annunciata. VII Eh sì. Per l'orrido attrazione Lei provava addirittura: Tanto inclini a contraddizione Ci ha creati la natura. È già Natale! Che bellezza! Scruta oroscopi la giovinezza Che non ha rimpianto di niente E alla vita si protende Verso un tempo infinito e terso; Sull'orlo della fossa scruta Oroscopi la vecchiaia occhialuta Che tutto per sempre ha perso; Ma anche per essa sa mentire La speranza, balbetta infantile. VIII Tatjana fissa con impegno La cera che affonda accagliando E a lei nel suo strano disegno Qualcosa di strano annunciando; Colma d'acqua c'è una scodella, Ne estraggono a turno gli anelli; Ed ecco il suo che è capitato Con la canzone di un tempo andato: «Ogni bifolco là è un signore Con oro e argento a volontà; A chi gli tocca, prosperità!» Ma è un'aria triste, porta dolore Per le ragazze la canzoncina; Gli piace di più «La gattina».(3) IX Notte di gelo e cielo splendido; Volge quieto e concorde Degli astri il coro stupendo... Tatjana nella vasta corte Esce in abito leggero, Uno specchietto mostra al cielo; Ma nel buio specchio soltanto Trema una luna tutta pianto... Ssss!... La neve scricchiola... Un uomo!

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In un soffio lei gli è vicina, Gli parla con la sua vocina Che ha di zampogna il dolce suono: Ditemi il vostro nome! Un po'(4) Lui la squadra e risponde: Agafòn. X Per consiglio della njanja Tatjana vuole strologare Di notte e per due nella banja Ha ordinato di apparecchiare; Ma ad un tratto ha avuto paura... E - pensando a Svetlana - io pure Qui m'impaurisco. Ebbene, sia: E basta con l'astrologia. La cintura di seta già Si è tolta, si sveste, s'infila In letto. Aleggia su lei Cupìdo, Sotto il cuscino di piume sta Lo specchietto. E intorno ogni cosa È silenzio. Tatjana riposa. XI Tatjana sogna un sogno strano Sognandosi come se stesse Andando su un nevoso piano Fra tenebre tristi e spesse. Neve a mucchi le sta davanti, Con i suoi gorghi turbinanti C'è un cupo torrente agitato Che l'inverno non ha incatenato; Due assi tenute un poco Dal ghiaccio su quel fiumicello Fanno un precario ponticello; E sul rumoreggiante vuoto Tutta perplessa e impressionata La ragazza si è fermata. XII E se la prende col torrente, Dispettosa barriera; Nessuno una mano a tenderle Sull'altra sponda c'era. Ma ecco un cumulo si smotta E chi mai esce di là sotto? Un orso arruffato e grande; Ah! - fa Tatjana, ma lui rugliante Una zampa di artigli aguzzi

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Porge a lei che alquanto schiva E assai tremante ci si affida; E con timidi passettuzzi Varca il torrente e va... Ma adesso Che c'è? L'orso le sta appresso! XIII Lei non osa indietro voltarsi, Accelera il passo trepido; Ma in nessun modo può sganciarsi Dal suo irsuto lacchè; E l'orso arranca, il seccatore; C'è il bosco; nel cupo splendore I pini immobili e greve Sui rami sta a zolle la neve; E fra le cime di betulle, Di trèmule, di nudi tigli, Gli astri della notte brillano; Nessun sentiero; erte e cespugli La tormenta ha cancellati E nella neve sprofondati. XIV Tanja è nel bosco e con lei l'orso; La neve al ginocchio le arriva; E ora un lungo sterpo al collo L'aggancia o dagli orecchi a viva Forza i pendenti d'oro strappa; O dal bel piede via le sguazza Dentro la neve una scarpetta; Ora le cade il fazzoletto; Non lo raccoglie: del ronfante Orso che incalza ha terrore, Né della gonna per pudore Alza un lembo la mano tremante; Lei corre e quello le sta su, E a correr non ce la fa più. XV Nella neve cade, immediata- Mente l'orso l'ha ghermita; Lei non si muove più, non fiata, Gli si abbandona tramortita. E nel bosco cammina e cammina, Finché trovano una capannina Nella macchia fitta e deserta, Di neve intorno ricoperta: Ma alla finestra luce di smalto

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E dentro chiasso e gran parlare; L'orso annunzia: «Qui è il mio compare. Qui troverai un po' di caldo!» E infila diritto il portone, Sul limitare la depone. XVI Rinviene, apre gli occhi Tatjana: L'orso non c'è; dal limitare Sente uno sbicchierìo, una buriana Da festino di funerale; Non capisce che cosa sia, E attraverso un buco spia, E cosa vede? Mostri seduti, Tutti a un tavolo convenuti: Muso di cane e corna ha quello, L'altro ha di gallo la testina, C'è una strega con barba caprina E uno scheletro che fa il bello, Qui un nano col codino e in giù Un mezzo gatto e mezza gru. XVII E, più orribile e più grottesco, C'è un gambero a un ragno in sella, Su un collo d'oca ruota un teschio Con un suo rosso cappello; E c'è un mulino che la prisjadka Balla e stride e le ali sbatte: E abbaiamenti, risa, bòtti, Bla-bla di voci, chlop di zoccoli!(5) Ma figuratevi Tatjana Quando, fra gli ospiti del pranzo, L'eroe del nostro romanzo Scorge, colui che teme ed ama! Onieghin se ne sta a sedere, Guarda all'uscio senza parere. XVIII Basta un suo cenno - e ognuno scatta; Lui beve - e ognuno beve e smòccola; Lui ride - e ognuno sghignazza; Si acciglia - e tutti acqua in bocca; Nessun dubbio che è lui il padrone; Per Tanja è una consolazione E dunque per curiosità Quell'uscio un poco ha schiuso già... Ma una folata di vento

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Fa spegnere ogni lucerna, La banda spettrale costerna; E negli occhi scintille ardendo In piedi Onieghin con trambusto Balza (e con lui gli altri) e va all'uscio. XIX E Tatjana ha paura, tenta Inutilmente di scappare: Impossibile; con impazienza Si agita, cerca di gridare: Non ce la fa; Eugenio ha aperto La porta e agli spettri d'inferno La ragazza è apparsa, fra scrosci Di selvagge risa. E proboscidi Di quei mostri, zampe unghiute, Code a cresta, zanne, denti, Baffi, lingue sanguinolenti, Occhi, corna e dita nocchiute Si vanno su di lei puntando: È mia! È mia! - tutti gridando. XX È mia! - Eugenio taglia corto, E già la banda si è dileguata; In quella tenebra di gelo Sola con lui Tanja è restata. E Onieghin verso un angolino(6) La sospinge pian pianino, Su una panca che traballa, Le posa il capo sulla spalla; Ma in quel mentre entra Olga Con Lienskij; si accende una luce; Onieghin fa un gesto e truce Roteando gli occhi si adonta Con gli intrusi; riversa sta Tatjana più di là che di qua. XXI La zuffa cresce; Eugenio a un tratto Prende un coltello e in un istante Lienskij è a terra; il buio si è fatto Atroce; da un grido straziante La capanna è come squassata... Tanja si sveglia spaventata... Nella stanza è ormai giorno: brilla Sui vetri ghiacci la scintilla Del primo sole. Ed ecco vede

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La porta schiudersi, Olga entrare, Purpurea aurora boreale E di una rondine più lieve; Vola da lei, l'ha interrogata: «Dimmi, chi ti sei sognata?» XXII Ma lei, per nulla badando Alla sorella, se ne sta ancora A letto un libro compulsando Senza profferir parola. Benché non sveli quel volume Di poeti dolcezze, o lume Di sapienti, o figure, non c'è Seneca, Byron, Virgilio, né Scott o Racine, né rivista Di mode che più di esso Abbia avuto mai successo; È Martyn Zadièka, analista(7) Di sogni e mago, amici miei, E capo dei savi caldèi. XXIII Quell'opera così importante Un giorno l'aveva portata In quel deserto un ambulante E a Tatjana l'aveva lasciata: Per rubli tre e cinquanta esatti, Con una Malvina tutta strappi E in più, tutto in una volta, Di storielle una raccolta, Due Petrìadi, un manualetto Di grammatica, il tomo tre Di Marmontèl. Da allora è Martyn Zadièka il prediletto Di Tanja, suo conforto in ogni Pena e compagno dei suoi sonni. XXIV Quel sogno adesso la tormenta; Tatjana non sa capire E della visione tremenda Il senso cerca di scoprire. L'indice è molto sintetico; Lei scorre in ordine alfabetico Le parole: bosco, bufera, Neve, orso, ponte, strega, sera E così via. Martyn Zadièka

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I dubbi non fa dileguare: Ma presagi di cose amare A lei il maligno sogno reca. E per parecchi giorni ancora Ci pensava col cuore in gola. XXV Ma ecco con purpuree dita(8) L'aurora che insieme al sole Da mattutine valli invita Alla gaia festa del nome. Casa Larin fin dal mattino Rigurgita: ogni vicino Con famiglia al completo in kibìtka È arrivato, in brièka, in slitta. Ressa all'entrata; nel salotto Presentazioni e sbaciucchiarsi Di ragazze, tutti a pigiarsi, Botoli urlanti, risa, un sotto- Sopra, inchini, piedi struscianti, Strilli di balie e di poppanti. XXVI Con la sposa monumentale Ecco Pustjàkov il grassone; Gvozdín, padrone esemplare Di un contadiname straccione; Gli Skotinìn, coppia matura Con figli d'ogni età e misura Fra i trent'anni e i due; Petuškòv, Gagà paesano; Bujanòv,(9) Quel personaggio ultrapeloso A voi noto, col berrettino A visiera, che mi è cugino; E Fljanòv, consigliere a riposo, Pettegolo, vecchio briccone, Grassatore, ingordo e burlone; XXVII Con la famiglia Charlikòv Anche Monsieur Triquet è venuto, Spiritosone di Tambòv, In parrucca fulva e occhialuto. Da francese che si rispetta Porta a Tatjana una strofetta Sull'aria nota che fa così: Réveillez vous, belle endormie. Quella strofetta, stampata

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In un almanacco vecchissimo, Triquet poeta ingegnosissimo Dalla polvere ha riesumata, E ha messo al posto di belle Ninà Con somma audacia belle Tatianà. XXVIII Da signorine un po' tardone Idolatrato alla follìa E delle mamme consolazione, C'è un comandante di compagnia; Eccolo... È sensazionale! E la banda reggimentale Ci sarà, ordine del colonnello! Avremo un ballo: oh che bello! Saltano già le ragazzette;(10) Ma è pronto in tavola; le coppie S'avviano; in faccia ai giovanotti, Le signorine son già strette A Tanja; e tutto è un gran ronzìo, Segni di croce e trepestìo. XXIX Nel masticare indaffarate Tutte le bocche ammutoliscono. Sbattono i piatti e le posate E i bicchieri tinniscono. Poi in un crescendo graduale Riesplode il chiasso generale. Nessuno ascolta, tutti gridano, Ridono, discutono e pigolano. Ma ecco la porta si spalanca E con Onieghin Lienskij arriva. «Ah, finalmente! Deo gratias !» grida La padrona. E ogni ospite scansa Sedie e posate per far posto All'uno e all'altro amico nostro. XXX Il posto è proprio a Tanja in faccia. Più bianca di una luna all'alba, Più trepida di una cerbiatta, Lei ha un velo agli occhi, non li alza: L'avvampa tempestoso un fuoco Di passione; sta male, soffoca: E dei due il saluto non sente; Già le spuntano prepotenti Lacrime agli occhi; la poveretta

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Quasi per svenire sta; Ma ragione e volontà Vincono, e lei mormora in fretta Due parole tra i denti a stento, Però a tavola rimanendo. XXXI Scene tragico-neurotiche, Donzelleschi deliqui, pianti Non sopporta ormai da un bel po' Eugenio: ne ha visti tanti. Già irritato, lui così strambo, Dal gran festino, ora notando Di Tatjana il trepido spunto Abbassa gli occhi con disappunto, Tutto sdegnato, mette il broncio, E giura di vendicarsi Costringendo Lienskij a arrabbiarsi. Poi, pregustando il suo trionfo, Tutti gli ospiti si raffigura Tra sé e sé in caricatura. XXXII Di Tatjana il turbamento Non solo Eugenio l'ha notato; Ma occhi e pareri in quel momento Eran tutti su uno sformato (Un po' troppo salato, ahimé); Poi, fra arrosto e blanc-manger, Portano in tavola in bottiglia Un vinello tipo famiglia; E bicchieri lunghi e stretti Proprio come il tuo vitino, Zizì, mio sogno cristallino, Tu, di miei versi ingenui oggetto, Fiala d'amore affascinante E per me anche ubriacante. XXXIII Via il tappo umido, schiocca La bottiglia; frizza il vino; E Triquet con grave mossa, Da un bel pezzo sulle spine, Ecco si alza nel profondo Silenzio di tutto il mondo. Tanja è più morta che viva; e Col foglietto in mano Triquet Canta stonando in quel contesto

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Plaudente. E lei per convenienza Deve fargli la riverenza. Il poeta, grande e modesto, A lei per primo brinderà E la strofetta consegnerà. XXXIV Eccoci agli auguri, ai saluti; Tatjana ringrazia. E quando Il turno di Eugenio è venuto Della fanciulla il viso languido, La sua stanca perplessità, Gli danno un senso di pietà: Lui s'inchina tacitamente E ha uno sguardo stranamente Dolce. Forse per la ragione Che davvero è commosso, ossia Scherza un po' per civetteria, Spontaneo o con buona intenzione; Ma lo sguardo è di tenerezza: E il cuore di Tanja accarezza. XXXV Rintronano sedie spostate; La folla irrompe nel salotto Come al prato un ronzante sciame Vola dal suo alveare ghiotto. Ben pasciuto dal gran pranzo, Russa un vicino accanto all'altro; Le dame siedono al camino; Le ragazze, in un angolino; Chi è giocatore arrabbiato I tavoli verdi aspettano, Col boston e il lomber dei vecchi E il whist tuttora assai quotato: Quell'uniforme famiglia Che dell'avida noia è figlia. XXXVI Hanno già fatto otto partite Gli eroi del whist; per otto volte Le posizioni hanno invertite; E siamo al tè. Mi piace molto Marcare il tempo con le parole Pranzo, tè, cena. Non ci vuole Molto in campagna a dir che ora è: Lo stomaco è il nostro Bréguet. Fra parentesi qui mi accorgo

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Che il discorso delle mie stanze Su banchetti e varie pietanze E turaccioli spesso io porto: Come te, Omero immortale, Di trenta secoli compare. XXXVII - XXXVIII - XXXIX Ma ecco il tè: con compunzione Le ragazze hanno appena alzato I piattini e già dal salone Flauto e fagotto han risonato. Dalla musica messo su, Abbandonando un tè col rum, Vero Paride di provincia, A Olga Petùškov s'appropinqua; Lienskij a Tatjana; e la Charlikòv, D'anni maturi fidanzata, Di Tambòv al poeta è toccata; La Pustjàkova è per Bujanòv. E tutti si spandono in sala. E il ballo ferve nella sua gala. XL Di un ballo di Pietroburgo Offrire una descrizione Alla maniera dell'Albani Era in principio mia intenzione. Ma, da un miraggio posseduto Di belle gambe conosciute, Mi abbandonavo al ricordare. Oh, bei piedini, basta errare Dietro alla vostra orma sottile! Mi ha tradito la giovinezza, È tempo di maggior saggezza, Di correggere atti e stile: Nel capitolo quinto perciò Le digressioni abolirò. XLI Come il vortice della vita Da giovani, folle e uguale, Vortica il valzer tumultuoso, Tutto è di coppie un balenare. La vendetta si sta avvicinando; Onieghin, tra sé sogghignando, Invita Olga. Rapidamente Con lei volteggia fra la gente, La riaccompagna poi al suo posto,

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Chiaccherando del più e del meno; Ma dopo due minuti appena Con lei nel valzer riecco il Nostro. Tutti allibiscono. Lienskij stesso Non crede ai suoi occhi, adesso. XLII C'è una mazurka. Un tempo, quando Una mazurka risonava Nella gran sala rintronando, Sotto i tacchi il parquet scricchiolava, Tremava tutto il finestrame; Ora no: anche noi, come dame, Scivoliamo su lisce assicelle. Ma in provincia, nei paeselli, La mazurka ha conservati I suoi primitivi fasti: I salterelli, i tacchi, i baffi Di sempre. Non li ha mutati La bieca moda, nostro tiranno, Dei moderni russi malanno! XLIII - XLIV Bujànov, mio bel cuginetto, Dal nostro eroe ha accompagnato Tatjana e Olga; e lesto lesto Con Olga Onieghin si è lanciato; La guida, sguscia con destrezza, Si china e con svenevolezza, La sua manina rinserrando, Sussurra un madrigale esecrando: Lei gongola, sempre più accesa In volto. Lienskij ha visto tutto: È in fiamme, fuor di sé, distrutto. E nella sua gelosia offesa Aspetta e, a mazurka finita, Olga al côtillon invita. XLV Ma lei non può. Non può? Davvero? Eh no, perché lo ha già promesso A Onieghin. O Dio del cielo! Cosa mai sente! E si è permessa... Ma possibile? Bambinetta Ancora, e già così civetta! Già fa la furba, già Ha imparato l'infedeltà! Lienskij non regge a quel dolore;

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Alla donnesca diavoleria Impreca, chiede un cavallo, e via Al galoppo! Due pistole, Due pallottole - basteranno - La sua sorte decideranno. [Note dell'autore] (1) Si veda La prima Neve, poesia del principe Vjazemskij. (2) V. la descrizione dell'inverno finlandese nell'Edda di Barataynskij. (3) Chiama il gatto la gattina - A dormire sulla stufetta. (4) In questo modo vengono a conoscere il nome del futuro fidanzato. (5) Nelle riviste hanno criticato le parole: chlop, molv' e top come un'innovazione sbagliata. Sono parole di origine russa. «Uscì Bova dalla tenda a prender fresco e udì nell'aperta campagna voci (molv') umane e scalpitare (top) di cavalli» (Fiaba del principe Bova). Chlop si adopera nel parlato in luogo di chlopanie, come šip (sibilo) in luogo di šipenija: «Egli emise un sibilo, come un serpente» (Antichi versi russi). Non si deve togliere libertà alla nostra ricca e bellissima lingua. (6) Un nostro critico, sembra, trova in questi versi per noi una incomprensibile sconvenienza. (7) I libri della fortuna vengono pubblicati da noi sotto il nome di Martyn Zadèka, onorata persona che non ha mai scritto libri della fortuna, come osserva B. M. Fëdorov. (8) Parodìa dei noti versi di Lomonosov: L'alba dalla mano di porpora - Da calme acque mattutine - Esce col sole che la segue ecc. (9) Bujànov, mio vicino... - È venuto da me ieri con i baffi non rasati, - Spettinato, peloso, col berretto a visiera...(Il vicino pericoloso). (10) I nostri critici, fedeli ammiratori del bel sesso, hanno giudicato sconveniente questo verso. CAPITOLO SESTO

Là, sotto i giorni nubilosi e brevi, Nasce una gente a cui 'l morir non dole. Petrarca I Sparito Vladìmir, Onieghin Rieccolo alla noia in preda: Vicino a Olga, i suoi pensieri Rùmina, pago di vendetta. E anche Olga con lui sbadigliava, Con lo sguardo Lienskij cercava, E il côtillon interminabile Era un incubo insopportabile. Ma è finito. Si va a cenare.

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Poi fanno i letti. Gli invitati Dovunque alla meglio accampati Stanno. Han bisogno di riposare Tranquilli. Onieghin soltanto A dormire a casa sta andando. II Tutto ora tace: nel salotto Russa il greve Pustjakòv Con la sua greve metà. Gvozdìn, Bujànov, Petuškòv E Fljànov, non troppo in stampa, Delle sedie han fatto branda; Monsieur Triquet per terra stracco Giace in flanella e colbacco. Nella stanza di Olga e Tatjana Le ragazze dormono. Mesta Veglia accanto alla finestra, Al lume del raggio di Diana, La povera Tanja soltanto, La buia campagna fissando. III Del suo apparire d'un momento, Agli occhi istantanea dolcezza, Del suo strano comportamento Con Olga, è tutta oppressa Nell'anima; in nessun modo Può capire Eugenio; un nodo Di gelosia la strazia strano Come se una fredda mano Le stringa il cuore o un precipizio Le si spalanchi buio e vano... «Perirò - dice Tatjana - Da lui mi è caro anche il supplizio; Non me ne dolgo: a che lagnarmi? Felicità lui non può darmi». IV Avanti, avanti, o mia storia! Un nuovo volto ci arride. A cinque verste da Krasnogorie, Il villaggio di Lienskij, vive Ancor oggi sano e contento, In filosofico isolamento, Zarietskij, atamàn una volta Di giocatori, di un'accolta Da osteria capo eloquente,

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Ora però savio e tranquillo Scapolo padre di famiglia, Sicuro amico, possidente E uomo onesto per di più: Tanto ci si emenda quaggiù. V Un tempo aveva avuto fama Lusinghiera di gran bravaccio: Da ben venti braccia centrava Con la pistola anche un asso. E pare anche che in battaglia Compisse gesta di vaglia Nel fango buttandosi a tuffo Dal suo cavallo calmucco, Ciucco sfatto e subito preso Dai francesi: prezioso pegno! Di un Attilio Regolo degno, Era pronto a ridarsi al peso Dei ceppi, per bersi ogni dì Tre litri a credito da Véry.(1) VI Un tempo era un gran prendingiro, Sapeva burlare uno sciocco E beffare un cervello fino, A viso aperto o sotto sotto, Benché in più di un'occasione A lui toccasse la lezione E si facesse abbindolare Come chi in zucca ha poco sale. Sapeva allegro cimentarsi, Dare acconcia o fiacca risposta, Star zitto a volte a bella posta O a bella posta bisticciarsi, E fra amici metter veleno Fino a portarli sul terreno, VII Oppure rappacificarli Per pranzare insieme, lui terzo, E alle spalle poi diffamarli Con una fandonia o uno scherzo. Sed alia tempora! L'ardire Passa col tempo giovanile (Come l'amore, altro giochetto). Il mio Zarietskij, l'ho già detto, Proprio come un saggio or vive,

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All'ombra di viburni e acace Trovata infine la sua pace, Come Orazio verze coltiva, Oche e anatre allevando, L'abbiccì ai bambini insegnando. VIII Non era sciocco; e i sentimenti Se in lui Eugenio non stimava, Pure i sensati argomenti E il bello spirito ne amava. Con piacere di quando in quando Soleva incontrarlo, e pertanto Non fu una sorpresa per lui La mattina vederlo. E costui, Dopo il primo saluto, di netto Troncò il discorso all'inizio, E a Onieghin, con un largo ammicco, Del poeta porse un biglietto. Alla finestra si diresse Onieghin e in disparte lo lesse. IX Era una nobile, corretta, Breve sfida, ossia un cartello: Cortese, con fredda chiarezza, Lienskij chiama l'amico a duello. Onieghin, nella prima urgenza, Al commesso dell'incombenza, Senza troppe parole rivolto, Dichiarò ch'era sempre pronto. Si alzò Zarietskij, senza un cenno Di spiegazione, né restare Volle, avendo molto da fare, E uscì subito; ma Eugenio, Con la sua anima a tu per tu, Di se stesso scontento fu. X E con ragione: a ben vedere, Quasi se stesso processando, Le imputazioni eran severe: Primo, aveva sbagliato quando Si era la sera divertito A un amore dolce e spaurito. E poi: poteva anche sbagliare Il poeta; si può scusare A diciott'anni. Mentre Eugenio,

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Per il bene che gli voleva, Mostrarsi così non doveva Di pregiudizi gonfio e pieno, Né un ragazzo tutto bollore, Ma uomo assennato e d'onore. XI Poteva il suo animo aprire E non drizzare come una bestia Il pelo; doveva ammansire Il giovane cuore. «Ma adesso È tardi; il tempo è già volato... E poi - egli pensa - c'è anche entrato Di mezzo quel vecchio duellista, Verboso, pettegolo e tristo... Le sue parole da buffone Dovrei col disprezzo pagare, Ma le voci, ma il ridacchiare...» Eh già, la pubblica opinione!(2) Il nostro onore, idolo eterno! Eccolo qua del mondo il perno! XII Fremendo di odio impaziente Il poeta è a casa in attesa Di risposta; e il magniloquente Vicino in gran pompa or l'ha resa. Che festa per quel gelosone! Temeva proprio che il briccone La mettesse in scherzo, un pretesto Escogitando e il proprio petto Alla pistola rifiutando. Più nessun dubbio ormai: al mulino Domani prima del mattino Dovranno essere, innescando L'un contro l'altro l'arma e poscia Mirando alla tempia o alla coscia. XIII Quella civetta di Olga! A odiarla Deciso, Lienskij non vuole Prima del duello incontrarla, Consulta l'ora, guarda il sole, Poi ci ripensa alla fin fine - E càpita dalle vicine. Si aspettava una Olga smarrita E dal suo arrivo sbalordita; Ma no: di corsa Olienka balza

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Come sempre dalla loggetta Incontro al povero poeta, Aerea come la speranza, Vispa, allegra, spensierata, Tale e quale era sempre stata. XIV «Perché iersera sei sparito Così presto?» gli domandò. E Lienskij tutto ammutolito E confuso si rattristò. La gelosa rabbia sbolliva Davanti a quell'anima viva, Davanti a tanta limpidezza Di sguardo e semplice dolcezza! La scruta, commosso e buono, E ben si avvede: è ancora amato; Dal pentimento ormai toccato, È pronto a chiederle perdono, Non trova le parole, trema, È felice, riprende lena... XV - XVI - XVII E di nuovo i miei pensieri Davanti alla sua cara Olga, Di ricordarle il giorno di ieri Vladìmir non ha la forza; Pensa: «Sarò il suo salvatore, Non lascerò che il corruttore, A un fuoco di lodi e sospiri, Quel giovane cuore raggiri; Che roda lo stelo liliale Il verme velenoso e vile; Che quel fiore di due mattine Appassisca nello sbocciare.» Voleva dire tutto ciò: Col mio amico mi batterò. XVIII Se lui sapesse che ferita Brucia alla mia Tatjana il cuore! Se fosse Tatjana avvertita, Se potesse avere sentore Che Lienskij e Eugenio nello scontro Si disputeranno il sepolcro; Ah il suo amore indurrebbe, può darsi, I due amici a riconciliarsi! Ma nessuno, pur casualmente,

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Di quella passione ha saputo. Onieghin ha tutto taciuto; Tanja langue segretamente; Potrebbe soltanto scoprirla La njanja, ma è dura a capirla. XIX Un po' allegro e poi a bocca chiusa Di nuovo, Lienskij fu svagato Quella sera; ma della Musa L'alunno è sempre così; accigliato Egli sedeva al clavicordio E ne traeva qualche accordo, O su Olga gli sguardi puntava, «Non son forse felice?» pensava. Ma è tardi, è già l'ora. Da tanta Angoscia il suo cuore è assediato Che nel momento del commiato Da lei quasi gli si schianta. «Che avete?» Olga lo fissa in viso. - Oh così, niente. - E via, deciso. XX Rientrato a casa, le pistole Ispeziona, poi le richiude Nell'astuccio, si sveste e, a un chiarore Di candela, Schiller schiude; Ma in lui è un pensiero solamente; Insonne è il suo cuore dolente: Di un'indicibile beltà Davanti agli occhi Olga gli sta. Vladìmir lascia il libro; prende La penna; e giù rime stipate Di amorose baggianate Fluiscono sonoramente. Lui le declama infervorato Come a un pranzo Delvig ubriaco. XXI Per caso si son conservati Quei versi; ed eccoli qui ora: «Dove, dove, siete volati, Primaverili miei giorni d'oro? Cosa mi appresta il nuovo giorno? Lo scruto invano tutt'intorno; Sta chiuso in tenebre profonde. Non importa; è giusta la sorte. Cada io trafitto dallo strale

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O mi sorvoli passando via, Ben venga: arriverà la mia Ora del sonno o del vegliare; E benedette anche le pene, Benedetto il buio che viene! XXII «Brillerà la stella diana Domani e il giorno ferverà, Ma io dentro l'ombra arcana Della tomba sarò di già. E sarà del poeta il ricordo Inghiottito dal Lete torpido, Il mondo mi oblierà; ma se Tu una lacrima su di me Versassi all'urna prematura, E pensassi: egli mi amò E l'alba triste consacrò A me d'una convulsa vita!... O mia brama, o amica del cuore, Vieni: io sono il tuo amore!... XXIII Così scriveva oscuro e fievole (Romanticismo lo chiamiamo, Anche se niente io ci vedo Di romantico; ma andiamo!) E finalmente verso l'alba Reclinando la testa stanca Su ideale, parola di moda, Pian piano nel sonno s'inchioda; Ma appena sotto quell'incanto Si è assopito che già il vicino Entra nel quieto studiettino E scuote Lienskij vociando: «Sveglia! Le sette sono già. Onieghin certo aspetterà.» XXIV Ma si sbagliava: Eugenio ancora Dormiva come una talpa. L'ombra notturna ormai s'invola E il gallo a Espero canta. Onieghin dorme come un ghiro. Già alto è il sole nel suo giro. E un nevischio un po' folletto Brilla e turbina; dal letto Eugenio ancora non si sposta,

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Dal sonno è ancora sorvolato. Ma finalmente si è svegliato E le tendine adesso scosta; Guarda - e deve constatare Che da un pezzo è ora d'andare. XXV Sùbito suona. Accorre Il servo francese Guillot, Veste e pantofole gli porge E la biancheria gli dà. Si affretta Onieghin ad abbigliarsi, Ordina al servo di apprestarsi A uscir con lui, portando anche Il suo astuccio da duellante. La slitta è pronta. Vi sale Eugenio, al mulino volando. Arriva. E al servo dà comando Di seguir lui con le fatali Lépage(3) e ai cavalli di spostarsi Là fra due querce a ripararsi. XXVI Lienskij, appoggiato a una spalletta, Impaziente sta a aspettare; E sulla màcina discetta Zarietskij, tecnico rurale. Onieghin arriva scusandosi. Ma Zarietskij meravigliandosi Gli dice: «E il padrino dov'è?» Nei duelli è un classico, è Un gran cultore della forma E non tollera che una persona Venga stesa così alla buona, Bensì con la dovuta norma, Secondo il vecchio rituale (Il che in lui è da lodare). XXVII «Il mio padrino? - fa Eugenio. - Ecco: il mio amico, monsieur Guillot. E a che mi assista sul terreno Proteste non ammetterò. È un ragazzo d'onore, benché Conosciuto non sia gran che.» Si morde le labbra Zarietskij E Onieghin domanda a Lienskij: «Si comincia?» - «Sì, per favore,» -

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Dice Vladìmir. Con lui va Dietro il mulino. Un po' più in là Zarietskij e il ragazzo d'onore Hanno preso accordi importanti. Gli avversari si stan davanti. XXVIII Avversari! Una sete di sangue Li ha divisi appena da ieri! Solo da ieri non spartiscono Ozio, mensa, azioni e pensieri In amicizia! Ora con astio, Quasi da atàvico contrasto, In un cupo sogno sfuggente, Muti, l'un l'altro freddamente Sono lì, morte a giurarsi... Ah ci vorrebbe una risata Mentre ancora non è insanguinata La mano e in pace salutarsi!... Ma l'odio mondano ha un terrore Pazzesco del falso pudore. XXIX Ecco le pistole lucenti. Si sente già picchiettare La bacchetta, i piombi che entrano In canna e il cane scattare. Grigiastro rivolo, scende Nel fondello la polvere, mentre L'acciarino avvitato stretto Rialzano. Lì dietro un ceppo Si apposta Guillot spaventato. Gettano via il mantello i due Duellanti. Esatti trentadue Passi Zarietskij ha misurato; Sulle orme estreme manda ora Gli amici, armati di pistola. XXX «Adesso avanti.» Freddamente, Senza mirare, i due avversari Di quattro passi, tranquillamente Decisi avanzano, regolari: Quattro gradini alla morte. Allora Eugenio la sua pistola, Senza smetter di camminare, Comincia per primo ad alzare.

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Cinque altri passi hanno avanzato. L'occhio sinistro socchiudendo Mira anche Lienskij - e in quel momento Onieghin spara... Ecco del fato L'ora è scoccata: non trattiene L'arma il poeta, muto preme XXXI Con la mano un poco il petto E cade: non di sofferenza, Ma di morte il suo sguardo è specchio. Lenta così su una pendenza Di monte, al sole scintillando, Una slavina va franando. Preso da un subitaneo gelo, Verso il giovane accorre Eugenio, Lo fissa, lo chiama... Ma invano: Non è già più. L'adolescente Poeta è morto immaturamente! Splendido fiore all'uragano Appassito nel tempo aurorale! Fuoco spento sopra l'altare!... XXXII Giaceva; e in fronte una strana Pace gli errava languida; Dalla piaga che trapassava Il suo petto scorreva il sangue. In quel cuore fino a un momento Prima c'erano il talento, L'odio, l'amore, la speranza, La vita e il sangue in una danza,- Tutto è buio e silenzio adesso Come una casa abbandonata; Esso è muto per sempre. È sbarrata La finestra, imbiancata col gesso. La padrona non c'è. È fuggita Chissà dove. Anche l'orma è sparita. XXXIII Bello, cogliere al varco Con un epigramma un rivale; Gustarselo mentre, testardo, Preparandosi ad incornare, Si guarda per caso allo specchio Riconoscendo se stesso Con vergogna; e, amici, è più bello Se lo sciocco grida: io son quello!

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Più bello ancora è un'onoranza Funebre per lui apprestare E alla bianca fronte mirare Da una magnanima distanza; Ma spedirlo al mondo di là Tanto bello non vi parrà. XXXIV Se poi dalla vostra pistola Un giovane amico è colpito Che vi abbia con una parola O con lo sguardo insolentito O in altro, essendo un po' bevuto, O che abbia all'ira ceduto Sfidandovi a combattimento, Ditemi: quale sentimento Di voi allora s'impadronisce Che esanime a terra di colpo Lui è lì, con la morte in volto, E pian piano s'irrigidisce, E sordo e muto è diventato Al vostro appello disperato? XXXV Stringendo in pugno la pistola, Dai rimorsi del cuore angosciato, A Lienskij Eugenio guarda ora. Zarietskij dice: «L'hai ammazzato.» Ammazzato!... Al responso tremendo Scosso, Eugenio rabbrividendo Va a chiamar gente. Con precauzione Sulla slitta l'altro depone La salma ormai fredda; un tremendo Carico a casa riporta. I cavalli fiutando il morto Sbuffano inquieti, inumidendo Di bianca schiuma il morso e intanto Come saette via volando. XXXVI Del poeta, o amici, vi duole: Non avverò le giovanili Liete speranze in pieno fiore, In vesti quasi ancor puerili Appassì! Dov'è il fermento Ardente, il nobile intento Dei suoi sentimenti e pensieri Coraggiosi, teneri e alteri?

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Dove le brame d'amore inquiete, La sete di scienza e lavoro, La sua paura del disdoro? Dove siete o visioni segrete, Voi, spettri di vita che sia Nel cielo, sogni di poesia! XXXVII Forse per il bene del mondo O per la gloria egli era nato; Nei secoli un suono profondo La sua cetra avrebbe portato, E adesso tace. O lo aspettava Un alto grado nella scala Sociale, forse. O via per sempre Forse la sua ombra dolente Con sé ha portato un suo sublime Segreto ed è per noi perita Una voce che dava vita; E della tomba oltre il confine Non verrà a lui l'inno dei tempi Benedizione delle genti. XXXVIII - XXXIX O al poeta sarebbe toccata Forse anche una sorte incolore. Si sarebbe spento, passata La giovinezza, il suo fervore. Cambiato in molto, pianterebbe Le Muse e si ammoglierebbe, Cornuto e contento in campagna Nella sua trapunta vestaglia; Imparando a vivere, essendo A quarant'anni già gottoso, Ben pasciuto, annoiato, adiposo E nel suo letto poi infrollendo, Per morire tra familiari, Comari in lacrime e speziali. XL Ma così è andata, o lettore: Ahimé il giovane innamorato, Il poeta, il sognatore, Una mano amica ha ammazzato! Stanno a sinistra di quel sito Dove lui fu d'estro nutrito Due pini dalla concrescente Radice e serpeggia il torrente

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Di una valle poco distante. L'aratore ama lì riposarsi E acqua vengono a procurarsi Mietitrici con brocche sonanti; Là al torrente nell'ombra spessa Una lapide è stata messa. XLI Là un pastore, se una pioggerella Comincia a gocciare sui campi, Intrecciando la sua pianella Canta canzoni di briganti; E una ragazza di città Che l'estate in campagna va, Quando in sella a tutta lena Sola nei campi si scatena, Là il suo cavallo fa fermare Tirando con le briglie il freno E, sul cappello alzando il velo, Legge con rapido guardare La semplice scritta di tomba - E una lacrima il suo sguardo adombra. XLII Nel sogno assorta, lentamente Va poi per la campagna immensa; E a lungo e irresistibilmente Al destino di Lienskij pensa; Si domanda: «Di Olga che è stato? Il suo cuore a lungo ha penato O passò il suo pianto ben presto? E sua sorella dov'è adesso? Dov'è quello che dalla gente Fuggiva, lo snob spregiatore Di bene snob, matto uccisore Del poeta adolescente?» Datemi tempo e vi darò Conto esatto di tutto ciò, XLIII Ma non ora. Cordialmente Amo il mio protagonista E a lui tornerò certamente, Ma al momento non l'ho in vista. L'età volge all'austera prosa, L'età scaccia la rima estrosa E io - lo ammetto con un sospiro - Sono più pigro a farle il filo.

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La penna su fogli volanti Non scarabocchia più poesie; Altre, fredde fantasie, Altri affanni, più assillanti E nel silenzio e nel clamore Turbano i sonni del mio cuore. XLIV La voce di altri desideri E un nuovo dolore ho provato; Nei primi adesso più non spero E del vecchio dolore ho pietà. Dov'è, miei sogni, la dolcezza, Rima eterna di giovinezza? Davvero è appassita, è appassita La ghirlanda della mia vita? Ma è proprio passata in un lampo Senza fronzoli d'elegìa Quella primavera mia, Come usavo dire scherzando? Davvero non tornano gli anni? Davvero presto avrò trent'anni? XLV Dunque il mio meriggio è giunto. Devo ammetterlo: lo so. O giovinezza, a questo punto, Da amico ti saluterò. Ti rendo grazie dei godimenti, Le tristezze, i dolci tormenti, Le risse, le feste, i frastuoni E tutti, tutti i tuoi doni. Ti rendo grazie. Di te sempre, Nella calma e nell'inquietezza, Io ho goduto - e con pienezza; Basta! Con chiarità di mente, Un nuovo sentiero ho imboccato Per riposarmi del passato. XLVI Mi volto. E vi dico addio, ombrosi Recessi ove trascorsi un tempo Giorni di sogni miei pensosi, Di accidia e di inebriamento. Ma tu, giovane ispirazione, Muovi la mia immaginazione, Rianima il cuore sonnolento, Vola al poeta più sovente,

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Che tu non lasci raggelare L'anima mia, né inacerbarsi, Né infine pietrificarsi In questa sbornia mortale Del gorgo, dove sono immerso Anch'io, cari amici, e perso!(4) [Note dell'autore] (1) Ristorante parigino. (2) Verso di Griboedov. (3) Famoso maestro armaiolo. (4) Nella prima edizione il sesto capitolo terminava nel modo seguente: XLVI Ma tu, giovane ispirazione, Muovi la mia immaginazione, Rianima il cuore sonnolento, Vola più spesso al mio angolino, Non lasciar raffreddare l'anima del poeta, Né incrudelirsi, né indurirsi E infine pietrificarsi Nella mortale sbornia del mondo, Tra superbi senza cuore, Tra brillanti stupidi, XLVII Tra figli astuti, pusillanimi, Forsennati, viziati, Malfattori ridicoli e noiosi, Giudici ottusi e cavillosi, Tra civette bigotte, Tra servi volontari, Tra quotidiane scene alla moda, Cortesi e affabili tradimenti, Tra i gelidi verdetti Della crudele vanità, Tra la spiacevole vacuità Dei calcoli, dei pensieri e dei discorsi, In quel gorgo dove con voi io Mi bagno, cari amici. CAPITOLO SETTIMO

Mosca, della Russia figlia diletta,

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Dove trovare una come te? Dmitrev Mosca natìa, come non amarla? Baratynskij Prendersela con Mosca! Che vuol dire vedere il mondo! E dov'è meglio? Dove non siamo. Griboedov I Ai raggi primaverili, Le nevi già dalle montagne Sono scese in torbidi rivi Sulle allagate campagne. Al mattino dell'anno pura Sorride incontro la natura; S'inazzurrano i cieli splendenti. Quasi di piume, trasparenti Inverdiscono i boschi. L'ape Dalla sua celletta di cera Vola, al dono dei campi anela. Per valli asciutte e variegate Mugghiano mandre; e l'usignolo Nelle notti canta il suo assolo. II Com'è triste per me il tuo apparire, Primavera! Tempo d'amore! Quanto agitato languire Nel mio sangue, nel mio cuore! E da che commozione oppresso Godo il tuo alito sommesso Quando respiri sul mio volto, Nell'agreste quiete, raccolto! O forse estranea m'è ogni gioia E tutto che rallegra e vive, Tutto ciò che brilla e ride, Porta solo tormento e noia Alla mia anima ormai spenta, Che tutto tenebra gli sembra? III O il nuovo stormire dei boschi Non ci annuncia un gioioso ritorno Di foglie morte, ma piuttosto Di amara perdita è un ricordo; O la natura che rifiorisce

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Ci richiama all'anima triste La nostra declinante età Che mai più ritornerà? O forse anche ci fa pensare Alla poetica atmosfera Di un'altra, antica primavera E il nostro cuore fa tremare A un sogno di terre lontane, Di luna, di notti arcane... IV Ecco il tempo: o cari indolenti, Saggi epicurei tranquilli, O voi, beati indifferenti Della scuola di Lievšin pupilli,(1) O voi, Priami paesani E sensibilissime dame, Primavera in campagna v'invita, La stagione calda e fiorita Di poetiche passeggiate E di notti ammaliatrici. Presto, presto! Ai campi, o amici: In carrozze stracaricate, Di posta o di proprietà, Correte via dalla città! V E tu, o benigno lettore, Nel tuo calesse verniciato, Della città lascia il clamore, Dove l'inverno ti ha spassato; Con la mia Musa vieni a sentire Anche tu i boschi stormire, Sul fiumicello che non dico, Dove il mio Eugenio da romito Nullafacente e un po' infelice Passato ha un inverno in campagna Negli stessi paraggi di Tanja, La mia cara sognatrice, E dove da che se n'è andato Un'orma triste egli ha lasciato. VI Tra le colline in semicerchio, Là andremo dove un ruscelletto Serpeggiando nel prato verde Corre al fiume per un boschetto; E canta, amante primaverile,

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L'usignolo di notte; e fiorire Vedi la rosa, senti un fonte Mormorare - e una pietra di tomba È là, sotto un pino antico. L'iscrizione dice così: «Vladìmir Lienskij giace qui, Della morte dei forti perito, All'età di... nell'anno tale. O poeta, ora puoi riposare!» VII Dai rami del pino ricurvo, Il venticello mattinale Un tempo sull'umile urna Misteriosa faceva oscillare Una ghirlanda. E qui venendo Due amiche di sera piangendo Sulla tomba indugiavano al raggio Della luna in un lungo abbraccio. Ma adesso... È dimenticato Quel mesto ricordo; s'è perso Anche il sentiero e nessun serto È sui rami; vecchio e malato, Solo il pastore ancora canta, La sua pianella intrecciando. VIII - IX - X Povero Lienskij! Disperata, Lei non lo pianse troppo tempo. Ahimé! La giovane fidanzata Non fu fedele al suo tormento. La sua attenzione ora incatena Un altro che la sua gran pena Con dolci vezzi ha addormentata, Da un ulano è affascinata, Un ulano è il suo amore di adesso... Ma eccola già con lui all'altare Sotto la corona nuziale, Pudìca e col capo dimesso, Col fuoco nello sguardo chino E sulle labbra un sorrisino. XI Povero Lienskij! Oltre il sepolcro, Là nella cieca eternità, Mesto poeta, ti ha sconvolto Questa fatale infedeltà? O, nel Lete addormentato,

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Del tuo non sentire beato, Tu non ti turbi più di niente E il mondo ti è chiuso per sempre? Proprio così! Un oblìo si prepara Indifferente nell'aldilà. Di amanti, amici, nemici sarà Muta ogni voce. Ma la cagnara Degli eredi indecorosa Litigherà per ogni cosa. XII Presto dai Larin tacque il forte Di Olga sonoro accento. L'ulano, schiavo della sua sorte, Con lei raggiunse il reggimento. Lacrime amare versava, Nel lasciare la figlia sembrava La madre più morta che viva; Ma Tanja a pianger non riusciva; Soltanto un pallore mortale Il suo viso triste coprì. E poi, quando ognuno uscì Sulla loggetta a salutare Agitandosi intorno al landò, Tanja i due sposi accompagnò. XIII E come in una nebbia lontana Li seguì con lo sguardo intento... Ecco è sola, è sola, Tatjana! Ahi, la compagna di tanto tempo, La sua giovane colombella, La sua confidente e sorella, Dal destino via le è strappata, Per sempre da lei separata. Ombra senza mèta adesso Va, guarda il deserto orto... Ma in nessun posto alcun conforto Né sollievo al pianto represso Lei può trovare così errando, E in due si spezza il cuore infranto. XIV E nel crudele isolamento La sua passione più la morde E di Onieghin assente Il cuore le parla più forte. Mai più lo potrà incontrare;

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In lui dovrà per sempre odiare Di un suo fratello l'uccisore; Il poeta è morto... Ma ora Chi lo ricorda? È sposa a un altro La sua stessa fidanzata. La sua memoria è dileguata, Fumo nel blu del cielo alto. Restano forse a sospirare Per lui due cuori... Ma a che vale? XV Era sera, buio, le fonti Fluivano placide, ronzava Lo scarabeo, i girotondi Finiti, un falò bruciava Di pescatori. Nel campo immenso, Della luna al raggio d'argento, Tatjana aveva fantasticato A lungo e sola vagabondato. E andava, andava. E dalla cima Del colle vide al suo cospetto La villa, le case, il boschetto E sul chiaro fiume il giardino. Lei guardava - e il suo cuore adesso Batteva più forte e più spesso. XVI Nell'incertezza ora si angoscia: «Vado avanti, ritorno indietro? Lui non c'è, non mi conoscono... Dò un'occhiata alla casa, al frutteto.» E scende il colle palpitando Tatjana e, intorno a sé guardando, Piena di perplessità Nella deserta corte va. Abbaiando si sono avventati I cani: lei strilla paurosa. Ma accorrendo in schiera chiassosa Dei servi i figli li han cacciati Non senza zuffa ed hanno offerto A madamina il loro usbergo. XVII Tanja chiese: «Si può visitare La villa?» - e quasi al tempo stesso Da Anisja corsero a farsi dare Quelli le chiavi dell'ingresso. Anisja subito si presentò

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E il portone a lei spalancò, E Tanja nella casa entrava Dove il nostro eroe abitava. Guarda: e sul biliardo vede Quella stecca alla meno peggio E un frustino da maneggio Sul divano sdrucito. E procede. La vecchia spiega: «Qui è il caminetto Dove il padrone stava soletto. XVIII «Qui con lui pranzava spesso Lienskij buon'anima, il vicino. Prego, seguitemi dappresso. Qui, lo studio del signorino; Qui riposava, il caffè sorbiva, Del fattore i rapporti sentiva, Un libro al mattino leggeva... E qui il vecchio padrone viveva; Con me, vicino alla finestra, La festa, gli occhiali sugli occhi, Si degnava giocare a tarocchi. Che Iddio gli conceda salvezza E pace alle ossa nella tomba Nella madreterra profonda.» XIX Tanja il suo sguardo emozionato Su tutto quel che è intorno volge, Tutto le appare inestimato E l'anima mesta sconvolge Una gioia quasi tormento: E il tavolo col lume spento, E i libri e il letto vicino Alla finestra col coltroncino, E fuori la luna in penombra, E quel semichiaro un po' fiacco, E di Lord Byron il ritratto. La statuetta sulla colonna Col cappello a lucerna, la faccia Severa e conserte le braccia. XX Tatjana indugia affascinata In quella cella alla moda. Ma è tardi. Buia è la vallata. Il vento è freddo. Già riposa Sul nebbioso fiume il bosco;

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Il colle la luna ha nascosto, E per la giovane pellegrina L'ora di casa s'avvicina. E la sua emozione celando, E non senza sospirare, Tanja s'avvia per ritornare, Il permesso però domandando Di rivisitar la dimora Per legger certi libri da sola. XXI Tanja salutò la fattora Sul portone. Ma il giorno dopo Ricomparve già di buon'ora Nell'androne deserto e vuoto. E dello studio nel profondo Silenzio obliando tutto al mondo Rimase sola finalmente E lì pianse lungamente. Quindi rivolta l'attenzione Sui libri, prima un po' distratta Ma notando alquanto bislacca La scelta, Tanja con passione Alla lettura si abbandonò Che un altro mondo le spalancò. XXII Da un pezzo, si sa, la lettura Per Eugenio era in disuso, Ma una certa letteratura Dal suo rifiuto aveva escluso: Del giaùrro e Don Juan il poeta E due o tre romanzi che l'epoca Rispecchiavano, descrivendo L'uomo del nostro tempo In modo più che somigliante, Con l'anima d'immoralista Inaridito ed egoista, Sempre troppo fantasticante, Con la sua mente di arrabbiato A vani effetti infervorato. XXIII In molte pagine restava Dell'unghia il segno tagliente: La fanciulla su esse appuntava L'attento sguardo più vivamente. Tatjana trepidante scopre

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Da quali pensieri o note Eugenio è stato più colpito O in che, tacendo, ha consentito. E su quei margini lei cerca Della sua matita i segni. Dovunque l'anima di Onieghin Senza volere le si è aperta: Con una croce o un breve appunto O d'interrogazione un punto. XXIV E incomincia gradualmente La mia Tatjana a decifrare, Grazie a Dio più chiaramente, L'uomo per cui a sospirare Condannata l'ha il destino: Un bislacco triste e infido, Figlio dei cieli o dell'inferno, Angelo o diavolo protervo - Cos'è? Non forse un vacuo spettro D'imitazione o un moscovita Da Childe-Harold travestito, Per quel lessico leziosetto E la stramba esterofilìa? O non sarà una parodìa? XXV Dunque l'enigma aveva sciolto? Trovato la parola ad hoc? Le ore volano; lei scorda Che a casa aspettano da un po'. Là due vicini stanno intanto Di lei con la madre parlando. «Eh sì, non è una ragazzetta Tanja» sospira la vecchietta. «Olga era più giovane. È tempo Che si sistemi, in verità, La ragazza; ma come si fa? Si rifiuta: non acconsento, Dice a tutti. E sempre si accora E va per i boschi da sola.» XXVI «Che sia innamorata?» - E di chi? Bujanòv l'ha chiesta: scartato. Per Petuškòv, idem così. L'ussaro Pychtin fu invitato; Per Tanja come si struggeva,

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Quante moìne le faceva! Io pensavo: stavolta va. Ma niente! Ancora un patatràc. - «Dunque! Non c'è da pensar molto! A Mosca, sagra di fidanzate, Presto! E un partito glielo trovate!» - Ah signor mio! Siamo un po' a corto. - «Ma vi bastano, per svernare: E poi ve li posso prestare.» XXVII Mamma Larina condivise Quella saggia e santa proposta; E fatti i suoi conti decise Di recarsi l'inverno a Mosca. Tanja è informata: all'esigente Tribunale della gran gente I chiari tratti presentare Della schiettezza provinciale, E i suoi abiti in ritardo, Le sue antiquate locuzioni; Di maghe Circi e elegantoni Subire l'ironico sguardo! Oh spavento! No, piuttosto Lei rimarrebbe in fondo al bosco. XXVIII Desta al primo spuntar del giorno, Ora si affretta verso i campi E gli occhi commossi intorno Volge e dice rimirandoli: «Addio, o valli tranquille, E voi, conosciute colline, E boschi dove spesso io ero, Addio, bellezza del mio cielo, Addio, o natura ridente; Addio anche a te, mia libertà! Per frastornanti vanità Dò in cambio il mio quieto presente! Dove e perché tanto affannarmi? Dalla sorte che posso aspettarmi? XXIX Si prolunga ogni sua passeggiata. Ora è un poggio, ora un ruscello, Dal cui incanto è attirata Tatjana, senza volerlo. Quasi ad amici prediletti,

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A quei suoi prati, ai suoi boschetti, Lei si affretta a parlare ancora. Ma l'estate rapida vola. È giunto il dorato autunno. La natura è tremante e smorta, Come una vittima adorna... Ecco il nord che nubi aduna, Soffia, ulula - ed ecco eterno Ritorna pure il mago Inverno. XXX Arriva, si sparpaglia; appeso In fiocchi ai rami dei querceti, Tra i campi, intorno ai colli steso In ondulati tappeti; Eguaglia come velo di piume Gli argini e il ghiaccio del fiume; Riluce il gelo; e noi gioiamo Del babbo Inverno ridanciano. Ma non gioisce il cuore a Tanja. Lei non gli va incontro festosa, Né aspira il gelo vaporoso, Né con la neve sulla banja Le spalle e il viso si laverà: Quel viaggio paura le fa. XXXI Della partenza prefissata Il momento ormai è giunto: La vettura, dimenticata Da tanto, hanno rimesso a punto. Come al solito, tre kibìtke Trasportano le masserizie, Bauli, seggiole, barattoli, Casseruole, materassi, Galli in gabbia, piumini, conserve, Bacili, brocche, et ceterà, Di tutto una gran quantità. Ed ecco nell'izbà dei servi Dell'addio il pianto s'è levato: Diciotto rozze hanno attaccato XXXII All'equipaggio signorile, Portano il pasto i cucinieri, Si imbarca roba a non finire, Sbraitano femmine e cocchieri. Su una rozza irsuta e magra

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Sta il barbuto battistrada. I servi corrono al portone A salutare le padrone: Ed ecco che il convoglio egregio Slittante oltre la soglia è già. «Addio, miei luoghi, serenità, Solitudine, mio privilegio! Vi rivedrò?...» E un rivo di pianto Scorre agli occhi di Tanja intanto. XXXIII Quando amplieremo gli orizzonti Dell'istruzione santa e bella, Col tempo (ossia, stando ai conti Di filosofiche tabelle, Cinquecent'anni) le strade qui Cambieran da così a così. Vie massicciate in ogni senso Solcheranno il paese immenso. Ponti di ferro a gran campate Sui fiumi russi lanceremo, Sventreremo i monti, oseremo Gallerie sott'acqua scavate, E una trattoria metterà A ogni posta la Cristianità. XXXIV Ma ora in grame condizioni(2) Son le strade e i ponti si sfasciano; Cimici e pulci nelle stazioni Di sonno un minuto non lasciano; Trattorie niente. Nell'izbà Pomposa e famelica sta Di cibi un'inutile lista, Che offende l'appetito a vista, Mentre che villici ciclòpi D'Europa il ferro manufatto Con un martello russo trattano Ai loro alquanto lenti fuochi, Le carraie del patrio suolo E i fossi ringraziando in coro. XXXV Nel freddo inverno tuttavia È grato e agevole il viaggiare. Va liscia come una poesia Alla moda la strada invernale. Gli automedonti sono abili,

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Le nostre trojke infaticabili, E agli occhi le aste miliari(3) Guizzano via come filari. Ma trovando caro il pedaggio Non aveva cavalli di posta, Ma suoi propri, la Làrina nostra; E la noia di tutto il viaggio La ragazza così si sorbì: Per sette notti e sette dì. XXXVI Ma ecco: ormai davanti a loro È Mosca, di pietre bianca; Un fulgore di croci d'oro Sulle antiche cupole avvampa. Che gioia, fratelli, allorché Si spalancava davanti a me La sua chiostra di campanili, Di chiese, magioni e giardini! Quante volte in un addio mesto, Dal mio destino sbalestrato, O Mosca a te io ho pensato! Mosca... quante cose in questo Suono un cuore russo sente! Quante cose rievoca sempre! XXXVII Ecco, recinto dal suo bosco, Di Pietro il castello. Una gloria Non antica ostenta fosco. Ebbro dell'ultima vittoria, Invano attese Napoleone Di Mosca qui l'umiliazione, E le chiavi del vecchio Cremlino. Al suo cospetto a capo chino Non andò Mosca penitente; Né feste o doni essa apprestava, Ma un incendio presentava Al condottiero impaziente. E di qui assorto egli guardò Nei suoi pensieri il gran falò. XXXVIII Salve, o castello testimone Di glorie cadute. Ma avanti! Già i pilastri dei bastioni Biancheggiano, ecco sguizzanti Dal convoglio che fila sui borri

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Della Tvièrskaja garitte, torri, Conventi, giardini, palazzi, Botteghe, comari, ragazzi, Mercanti, stamberghe, orti, Lampioni, slitte, farmacie, Buchariani, modisterie, Boulevards, leoni battiporte, Cosacchi, balconi, omiciattoli E sulle croci tante cornacchie. XXXIX - XL La massacrante passeggiata Dura due ore e in Caritone, Nel vicolo, si è fermata La vettura ad un portone Di casa. Da una vecchia zia Da quattro anni in etisìa Sono giunte. Gli ha spalancato Il portone uno sbrindellato, Con la calza in mano e occhialuto, Calmucco. E stesa sul sofà Del salotto uno strillo ora dà La principessa per saluto. Le due vecchie in pianto si abbracciano E di esclamazioni si annaffiano. XLI «Mon ange!» -«Pachette!» - «Alina!» «Che sorpresa!» - «Ah quanto tempo!» «Vi fermate?» - «Cara cugina!» «Siedi, ti prego: oh qual portento! Mio Dio! A un romanzo assomiglia...» «E questa è Tatjana, mia figlia.» «Ah Tanja, vieni che ti vedo - Sembra un sogno, quasi non credo... E ti ricordi l'elegantone Grandisòn, cugina?» - «E chi è? Ah sì, Grandisòn! Ma dov'è?» «Qui a Mosca, sta a San Simeone; Venne a trovarmi per Natale; Suo figlio ora ha fatto ammogliare. XLII «E quel... Ma dopo ci diremo Tutto, è vero? Domani intanto Tanja ai parenti presenteremo. Non posso più girare tanto; Mi reggo appena sulle gambe.

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Ma del viaggio siete stanche; Andiamo insieme a riposare... Ahimé... Non riesco a respirare... Anche la gioia, oltre al dolore, Mi è un peso adesso, anima mia... Non son più buona a niente io... Viver così, vecchi, è un orrore...» E lì, sfinita da morire, Si mise a piangere e a tossire. XLIII L'inferma, con quel suo affetto Festoso Tatjana commuove; Ma lei, avvezza al suo angoletto, Non ama quelle mura nuove. Sotto la cortina di seta, Nel nuovo letto lei non quieta, E lo scampanìo mattiniero, Di diurne fatiche foriero, Dal letto la costringe giù. Alla finestra va a sedere. Si schiara il buio; ma vedere I campi Tanja non può più: Ha davanti un cortile ignorato, Scuderia, cucina e steccato. XLIV E così a un pranzo parentale Condotta è quotidianamente, A nonne e nonni per mostrare La sua accidia indifferente. Per la parente forestiera L'accoglienza è lusinghiera, Pane e sale, cordialità. «Come sei grande! È tanto già Che a battesimo ti ho portato! E io che in braccio ti cullavo! Io che le orecchie ti tiravo! Io ti mantenni a panpepato!» E tutta la nonninerìa Fa in coro: «Gli anni volan via!» XLV Loro però sono gli stessi; Tutto è immutato da allora: La zia Elena principessa Cuffie di tulle porta ancora; Si imbelletta Lukierja Lvòvna,

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Dice bugie Ljubòv' Petrovna, Sempre Ivan Petroviè è sciocco E Semiòn Petròviè pitocco; Pelaghiéja Nikòlavna ha sempre Monsieur Finemouche per amico, Stesso spitz, stesso marito Che, del club socio diligente, Sempre pacioso è, sempre sordo, Sempre per due beone e ingordo. XLVI Le loro figlie Tanja abbracciano. Le giovani grazie di Mosca Dalla testa ai piedi setacciano Silenziose Tatjana in mostra; La trovano alquanto strana, Manierata e un po' paesana, Un po' magretta e pallidina, Ma tuttavia quasi carina; E poi, dall'indole portate, Si fanno amiche, a sé attirandola, E alla moda anche arricciandola, Con baci e le mani intrecciate, E le confidano cantilenose Del cuore le segrete cose, XLVII Le loro ed altrui conquiste, Speranze, sogni e birbonate. Le ingenue chiacchiere fluiscono Di lievi calunnie agghindate. Poi, in cambio di quel cicalare, Cercan di indurla a confessare Quello che lei nel cuore sente. Ma Tanja ascolta quasi assente, Come in un sogno, e di quei loro Discorsi non comprende nulla; E il suo segreto di fanciulla, Di gioia e lacrime tesoro, In silenzio lei custodisce E con nessuna lo spartisce. XLVIII Alla comune conversazione Tanja amerebbe stare attenta; Ma qui si presta attenzione Solo all'assurdo, a quanto sembra; Tutto è insensato e banale;

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Noioso anche il calunniare; Discorsi aridi e senza frutto, Domande, storie, ciarle, tutto Notti e giorni senza un bagliore Di idee, nemmeno casualmente; Mai non sorride la fiacca mente, Neanche per scherzo freme il cuore. Neanche una buffa amenità Ci offri, o vacua società. XLIX Squadrano Tanja i giovanotti Degli Archivi con sufficienza E ne parlan nei loro crocchi Senza alcuna benevolenza. Un malinconico giullare La trova un tipo ideale: Di una porta fa scrivania E le compone un'elegia. Da una noiosa zia incontrandola, Vjaziemskij un po' con lei restò E la sua anima affascinò. Quindi, vicino a lui notandola, Rassettandosi il parrucchino, Di lei s'informò un vecchiettino. L Ma là dove il grido riecheggia Di Melpomene esagitata Che i suoi orpelli lustreggia Su una folla distaccata, Dove Talia sonnecchia senza Badare a applausi di convenienza, Dove Tersicore solamente Scuote un po' la giovane gente (Succedevan le stesse cose Anche ai tempi vostri e miei), Non si voltano verso di lei Né di dame lorgnettes gelose, Né binocoli di intenditori Dai palchi e dai posti migliori. LI Anche al Sobranie la conducono. Ressa eccitata, gran caldo, Musica, lumi che rilucono, Guizzare di coppie nel ballo,

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Monili di belle signore, Folla in coro multicolore, Di fidanzate la vasta accolta - Rintontiscono in una volta. Gli elegantoni di successo Sfoggiano qui facce e gilè E le loro sfrontate lorgnettes, E qui gli ussari in permesso Rumorose comparse fanno, Brillano, incantano e se ne vanno. LII Tante stelle ha la notte quante Bellezze ha Mosca. Ma la più Fra le sue compagne smagliante È la luna sul cielo blu. E quella che non voglio osare Con la mia cetra disturbare Come la luna rifulgente Fra le donne unica splende. Con quale orgoglio celestiale Questa terra lei sfiora appena! Di che delizie in petto è piena! Com'è dolce il suo bel guardare!... Ma basta, basta: alla follìa Ho già pagato la parte mia. LIII Chiasso, risa corse, inchino, Mazurka, valzer... Sta impalata Fra le due zie e un colonnino Tanja da tutti trascurata; Guarda e non vede, detesta La mondanità della festa; Non respira... Col sogno vola Alla sua vita campagnola, Al villaggio, ai suoi abitanti, Al suo solitario angoletto, A quel limpido ruscelletto, Ai suoi fiori, ai suoi romanzi, E al vialetto dei tigli in cui Nell'ombra le apparve lui. LIV Lungi col pensiero va errando, Scorda quel ballo frastornante; Le sta addosso con gli occhi intanto Un tal generale importante.

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Le zie ammiccano, hanno toccato Tanja al gomito e bisbigliato Entrambe quasi al tempo stesso: «Guarda lì a sinistra, presto!» «A sinistra? Dove? Che c'è?» «Insomma, guarda, t'abbiam detto! Più avanti... Vedi? In quel gruppetto Dove in divisa sono in tre... Quello... sì... ecco... ha fatto un passo.. «Chi? Quel generale grasso?» LV Ma qui auguri per la conquista Alla mia Tatjana, e voltiamo I passi su un'altra pista, Colui che io canto non scordiamo... E due parole su lui dico: Canto un mio giovane amico E la sua molta bizzarria. Tu, Musa epica, alla mia Lunga fatica benedici! E dammi una sicura guida Perché io non sbandi alla deriva Mi sono tolto un peso, o amici! Del classicismo ho gran riguardo: E questo è un proemio, benché tardo. [Note dell'autore] (1) Levšin, autore di molte opere in parte di economia. (2) Le nostre strade sono un giardino per gli occhi: Gli alberi, il ciglio erboso, i fossi; Molto lavoro, molta gloria Ma, peccato, talvolta non ci si passa. Dagli alberi che stanno come di sentinella, Ai viandanti viene scarso vantaggio; La strada, dirai, è buona - E ti verrà in mente il verso: per i passeggeri! In Russia si viaggia liberamente Solo in due casi: quando Il nostro Mac Adàm o Mac Eva, Ossia l'inverno, scricchiolando di rabbia, Compie l'assalto devastatore, Incatena la strada col ferro del suo ghiaccio, E la prima neve ricopre La sua traccia con una sabbia piumosa. O quando penetra i campi Una tale torrida siccità,

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Che una pozzanghera riesce a guardare A occhi chiusi perfino una mosca. (Principe Vjazemskij. Stanze) (3) Paragone tolto a prestito da K..., assai noto per la sua scherzosa immaginazione.K... raccontava che una volta, essendo stato inviato dal principe Potëmkin all'imperatrice in qualità di corriere, aveva viaggiato con rapidità tale che la sua sciabola, la cui punta sporgeva dalla carrozza, batteva sulle aste militari come se formassero tutta una palizzata. CAPITOLO OTTAVO

Fare thee well, and if for ever Still for ever fare thee well. Byron I Quando ai giardini di Liceo Serenamente io crescevo E amavo leggere Apuleio, Ma Cicerone non leggevo, In certe valli un po' segrete, Su acque rilucenti e quiete, In primavera, dei cigni al canto, La Musa mi appariva intanto. Tutta luce fu la mia stanza Di scolaro: la Musa un convito Vi aprì di fantasie imbandito, Cantò le gioie dell'infanzia, Gloria dei nostri vecchi tempi E del cuore i sogni frementi. II Le arrise il mondo, il successo Dell'esordio ci imbaldanzì; Di noi s'accorse Deržavin vecchio, Prossimo a morte ci benedì. ............................................ ............................................ ............................................ ............................................ ............................................ ............................................ ............................................ ............................................ ............................................ ............................................ III

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E io, per sola norma avendo L'arbitrio delle passioni, Dei più spartendo il sentimento, La mia Musa portai a riunioni Festose e di risse al clamore Di notturne ronde terrore: E per folli feste passò E i suoi doni lei vi recò, Folleggiò come una baccante, Cantò brindisi agli invitati: La gioventù di tempi andati Le correva dietro galante, E io fra gli amici andavo fiero Della compagna mia leggera. IV Ma poi lasciai le loro accolte, Fuggii lontano... Lei mi seguì. Musa gentile, quante volte Quel muto andare mi addolcì Con l'arcano di una sua storia! Quante volte, come Leonora, Per balze caucasiche, sotto La luna, fu con me al galoppo! E quante notti ad ascoltare Con lei in Tauride fui io Delle Nereidi il mormorio Al buio rumore del mare, Eterno coro delle onde, Inno al padre dei mondi. V E la metropoli e il giocondo Brillìo dei festini scordando, Della triste Moldavia al fondo Umili tende visitando Di genti nomadi, così Fra loro s'inselvatichì E obliò degli dei l'eloquio Per idiomi strani e dappoco Melodie di steppa e lei care... Poi tutto ancora cambiò intorno Ed eccola nel mio orto Qual damigella provinciale, Con un mesto pensiero negli occhi E un libro francese sui ginocchi. VI

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E adesso a un rout mondano(1) Questa Musa accompagnerò; Alla sua grazia rusticana Geloso e cauto guarderò. Tra una folla di aristocratici, Bei militari, diplomatici E altere dame è scivolata, Zitta zitta siede, estasiata Quel gran trambusto osserva ora, Vesti e discorsi scintillanti, Gli ospiti a turno omaggianti La giovanissima signora, E cornici d'uomini scure Chiuder le dame come pitture. VII Le piace l'ordine composto Di oligarchici conversari, Quel certo sussiego discosto, Età e gradi così vari. Ma chi è quello che se ne sta Cupo e taciturno là? Sembra un estraneo, quei guizzanti Visi gli passano davanti, Spettri molesti su un proscenio. È un'albagìa dolente o spleen Che gli sta in volto? Perché è qui? Chi è mai? Non sarà mica Eugenio? Lui proprio? Certo, esattamente. - Ma è arrivato di recente? VIII È sempre uguale o si è calmato? O fa sempre lo stravagante? Ditemi: come è ritornato? E in che veste si va presentando? Come un Melmoth vagabondo? Patriota? Cittadino del mondo? Childe-Harold, bigotto, quàcchero? O sotto qualche altro ritratto? O magari un tipo alla buona Come noi tutti è diventato? Così io l'avevo consigliato: Smettila di seguir la moda. Abbastanza il mondo burlò... - Lo conoscete? - Sì e no. IX

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- Perché con tal severità Di lui dovete parlare? Forse perché in continuità Vogliamo tutti giudicare? Perché l'incauto spirito ardente Muove al ridere oppure offende La nullità che se ne adonta? O troppa intelligenza ingombra? O perché a scambiare parole Per fatti si è tanto proclivi? Perché gli sciocchi son cattivi? Perché chi conta dà valore Alle inezie e a noi si adatta Solo la media mezzatacca? X Beato chi da giovane è stato Giovane e chi maturare Seppe a tempo, chi ha imparato La fredda vita a sopportare; Chi non subì fantasie strane, Né evitò marmaglie mondane, Chi a vent'anni fu bello e ardito E a trenta sposò un buon partito; Chi a cinquant'anni i suoi privati E altri debiti avrà assolti, Chi la gloria, il grado e i soldi Si sia tranquillo guadagnati, E di cui ripeta la gente: N.N. è un uomo eccellente. XI Ma triste è pensare che invano La giovinezza ci fu data, Che sempre tradita l'abbiamo E che essa ci ha ingannato; Che le migliori aspirazioni, Le nostre più fresche visioni, Come foglie sono marcite In un autunno infracidite. Qual prospettiva una sfilata Di soli pranzi e quale noia, In una vita-cerimonia Dietro a una folla ammanierata, Con cui non si abbia a spartire Né il pensare, né il sentire! XII

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Ne converrete, è insopportabile Sentirsi ovunque criticare, E alla gente rispettabile Un finto bislacco sembrare; O un melanconico nervoso, O un satanasso mostruoso, Magari il mio Dèmone stesso. Onieghin (stiamogli dappresso), Ucciso in duello il suo amico, A ventisei anni era arrivato Abulico e sfaticato, In un ozio inerte infiacchito: Senza moglie, senza servizio, Né di lavoro alcun indizio. XIII Gli prese come un'ansietà, La voglia di cambiare aria (Che è un'angustiante qualità, Di alcuni croce volontaria). Così lasciò quel suo villaggio, Di boschi e prati il romitaggio, Dove un'ombra insanguinata Assillava ogni sua giornata, E cominciò a vagabondare, Sospinto da un unico intento; Ma, come tutto, a un bel momento Gli venne a noia anche il viaggiare; E ritornò, sbarcando come Catskij nel pieno d'un veglione. XIV Ma ecco tutti animarsi Nel salone, un gran bisbigliare, E alla padrona avvicinarsi Una dama con un generale. Lei non sembrava frettolosa, Né glaciale, né verbosa, Senza sicumèra in volto, Senza pretese di far colpo, Senza il solito smorfieggiare, Senza pose e eccentricità, Tutta serena semplicità, Era il ritratto tale e quale Du comme il faut... (Scusa, Šiškòv: Come tradurre io non so). XV

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Le signore le si accostavano; Le vecchiette le sorridevano; Dei suoi occhi lo sguardo cercavano Gli uomini e più si profondevano Nell'inchino, e le debuttanti Passavan più caute davanti. E più di tutti s'impettiva Il generale che la seguiva. Bellissima probabilmente Non si poteva definire; Ma nulla in lei dava a scoprire Quel che una moda prepotente A Londra nella società Chiama vulgar. (Come si fa... XVI Mi piace assai questa parola, Ma a tradurla non riesco; Essa è nuova da noi per ora, Difficilmente avrà successo. Forse forse in un epigramma...) Ma torniamo alla nostra dama. Dolce nel suo spontaneo incanto, Lei sedeva a tavola accanto Alla Vorònskaja, uno splendore, La Cleopatra della Nievà; Ma siate certi che in verità, Pur con tutto il suo fulgore, La marmorea beltà di Nina Non oscurava la vicina. XVII «Ma è proprio lei?» pensa Eugenio: «Che sia davvero?... Ma no... questa... Da quella steppa? Dal paesello?...» E la sua lorgnette molesta Egli punta continuamente Su colei che vagamente Un volto obliato gli ridà. «Chi è, principe, quella là Che parla con l'ambasciatore Di Spagna, in cappello bordò?» Il principe lo guarda un po'. «Ahà! È un pezzo che sei fuori. Aspetta, ti presento io.» «Ma chi è?» «Mia moglie, vivaddio.» XVIII

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«Ti sei sposato! Ah questa è strana! E da molto?» «Da un paio d'anni.» «E chi?» «Una Làrina.» «Tatjana!» «Ti conosce?» «Siam confinanti.» «Oh, andiamo!» E il principe s'avvia Verso sua moglie in compagnia Dell'amico e parente alla larga. La principessa ora lo guarda... Ma qual che fosse il turbamento Dell'anima, benché stupita Lei si sentisse e sbalordita, Non trasparì il suo sentimento: Immutato lei conservò Il tono e calma s'inchinò. XIX Eh sì! Non solo non fremette, Né arrossì o si fece pallida... Ma nemmeno ciglio batté, Nemmeno si morse le labbra. Per quanto la scrutasse intento, Della Tatjana di un tempo Eugenio traccia non trovò. Volle con lei parlare un po', Ma... non riusciva. Se lui fosse Lì da molto lei gli chiese E se veniva dal paese. Quindi verso il marito mosse Lo sguardo stanco e via partì... Eugenio immobile restò lì. XX Ma è proprio lei quella Tatjana, Cui da solo a solo parlando, In una contrada lontana, Al principio del nostro romanzo, Beatamente infervorato Egli un sermone ha recitato, Della quale una lettera tiene Dove il cuore parla e geme, Dove tutto è scritto e sincero, Quella fanciulla?... O è solo più Un sogno?... Lei con cui egli fu Nella sua bassa sorte altero, Lei proprio è stata veramente Così ferma, così indifferente? XXI

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Lascia anche lui la riunione, Sovrappensiero a casa andando: Gli agitano il sonno visioni, Ora dolenti, ora d'incanto. Si sveglia; gli vien recata Una lettera: per la serata Il principe N lo aspetta. «Dio! Da lei! Ma corro!» - e in fretta Scrive una risposta ossequiosa. Che cosa è in lui? Uno strano sogno? Che cosa ha smosso nel profondo L'anima fredda e neghittosa? Dispetto? Vanità? O ancora Il giovanile affanno - amore? XXII Le ore Onieghin conta e riconta, Mai finire il giorno gli sembra Ma le dieci scoccano; e pronto Va, vola, è all'ingresso, entra Da Tatjana col cuore in gola: La principessa è là, sola Restano un poco a tu per tu, Ma a Onieghin non vengono più Parole alla bocca. È impacciato, Cupo, risponde a malapena A lei, la mente tutta piena Di un pensiero suo ostinato. Ostinato guarda: e a sua volta Lei siede calma e disinvolta. XXIII Arriva il marito, sbloccando Quel tête-à-tête che non va; Con Onieghin poi rievocando Scherzi e burle di anni fa. Ridono. Gli ospiti ecco entrare. Di mondana malizia un sale Un po' grosso i discorsi avvia. Guizzano senza smanceria Lievi battute, da altri temi Inframmezzate più intelligenti, Senza triviali argomenti E senza massimi sistemi, Con una briosa vivezza Che però i timpani non spezza. XXIV

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Ma c'era il fiore della città, Campioni di moda, notabili, Facce che ognuno ovunque va Incontra, e gli sciocchi immancabili; C'erano signore annose Dall'aria perfida, in cuffia e rose; E anche ragazze sul cui viso Giammai appariva un sorriso; C'era un ambasciatore Che trattava affari di stato; Tutto bel bianco e profumato C'era un vecchietto motteggiatore, Con quella fine arguzia antica Che oggi sembra un po' ridicola. XXV C'era uno che aveva fame Di epigrammi, un tizio furioso Per tutto: per le sciocche dame, I mariti, il tè zuccheroso, Un romanzo un po' oscuro, i giornali Bugiardi, i fatti militari, Due sorelline ammesse a corte, La neve e la propria consorte. ............................................ ............................................ ............................................ ............................................ ............................................ ............................................ XXVI C'era Prolàsov, noto qui, Come anima bassa e prava, Che su tanti album, Saint-Priest, Le tue matite consumava; Un dittatore di balli c'era Quasi stampato su una portiera, Roseo come un angioletto In palme, fermo, muto e stretto; E un viaggiatore transitante, Un impudente inamidato, Moveva al riso ogni invitato Col suo voler sembrar prestante E ogni ammicco interpretare Come un giudizio universale. XXVII

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Ma il mio Onieghin nella serata Aveva occhi per la sola Tatjana; non l'innamorata, Timida e semplice figliola, Ma principessa imperturbabile, Ma oramai inarrivabile, Dea della Nievà regale. Uomini! Ognuno di voi è uguale A Eva che l'ha generato: Quel che gli è dato non gli va; E all'albero arcano sarà Dal serpente sempre tentato: Pretende il frutto proibito, Se no il paradiso è finito. XXVIII Come è cambiata Tatjana! Come ha penetrato il ruolo E i modi della gran dama Costretta nel suo decoro! Chi mai la tenera bambina Rivedrebbe in questa divina Che detta legge nel bel mondo? E lui che le aveva sconvolto Il cuore! Per lui nelle notti, Quando Morfeo non arrivava, Lei al pianto si abbandonava, Mesti alla luna alzando gli occhi, Sognando la serena via Di una vita in sua compagnia! XXIX D'ogni età è amore; ma i suoi assalti Al giovin cuore salutari Sono come per i campi A primavera i temporali: Sotto una pioggia di passione Cresce nuovo a maturazione - E un dolce frutto dal bel fiore La vita dà con più vigore. Ma nell'età del declinare, Negli anni sterili, è tristezza L'orma di una mortale ebbrezza: Fredda tempesta autunnale, Trasforma in palude il prato E il bosco intorno ne è spogliato. XXX

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Eugenio (ahimé, è proprio vero!) Come un bambino è innamorato Di Tatjana: da quel pensiero Notte e giorno è tormentato. Ai rimbrotti della ragione Sordo, davanti al suo verone Di cristallo ogni giorno sta; Come un'ombra dietro le va; Felice se a lei può deporre Un boa di piume sulle spalle, O ardentemente sfiorarle La mano o una schiera scomporre Di livree per aprirle il cammino, O raccoglierle il fazzolettino. XXXI Ma, neanche a morire, lei niente, Nessun peso quasi gli dà. Lo accoglie in casa normalmente, Gli parla appena in società; Ora s'inchina se l'incontra, Passa diritta un'altra volta: Ma senza arie di civetta - Vietate dall'alta etichetta. Comincia Onieghin a impallidire: A lei non rincresce o non pare; Lui dimagrisce - è da pensare Che soffra già di mal sottile. «Va' dal dottore» gli fan premura E «vada alle acque» è la cura. XXXII Ma non ci va, sembra anzi pronto A raggiunger gli avi da adesso; Pure, di ciò non fa alcun conto Tatjana (tale è il loro sesso); E lui, ostinato a non mollare, Spera sempre, si dà da fare; Malato più audace d'un sano, Scrive a lei con debole mano Una missiva appassionata, Anche se era persuaso Che le lettere non fanno al caso; Ma la sua pena era arrivata A un punto da non sopportare. Ecco la lettera tale e quale. LETTERA DI ONIEGHIN A TATJANA

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Lo prevedo: vi offenderà Che un triste segreto dichiaro. Chissà che disdegno amaro Il vostro sguardo specchierà. Che cosa voglio? A quale scopo Vi apro l'anima mia? Forse mi presterò al gioco Di una malvagia allegria! Una scintilla in voi notando Di tenerezza un giorno, quando Io vi conobbi, non osai Crederci: né a dover mutare Abitudini o sacrificare La libertà mi rassegnai. E altro poi ci separava... Lo sventurato Lienskij ucciso... Da tutto ciò che il cuore amava Io stesso il cuore ebbi diviso; Solitario, a nulla legato, Pensavo: ho quiete e libertà In cambio di felicità. Mio Dio! Che sbaglio! E l'ho pagato. No. Vedervi ad ogni istante, Per ogni dove seguitarvi, Sorrisi, moti del sembiante, Coglier con amorosi sguardi, Prestarvi ascolto, aver coscienza Di quanto foste perfetta, Davanti a voi con sofferenza Morire... La gioia era questa! E io ne son privo: per voi ognora Mi trascino di qua e di là; So quanto vale un giorno, un'ora: Ma in tediosa inanità Dissipo i miei giorni restanti, Che sono ormai così pesanti. Lo so, il mio tempo ha una misura; Ma per vivere ancora io devo Ogni mattina esser sicuro Che in quel giorno vi rivedo... In questa preghiera dimessa Temo che il vostro sguardo austero Scorga ora un gioco di scaltrezza - Sento il rimprovero severo. Sapeste com'è tremendo D'amorosa sete languire,

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Ardere - e col ragionamento Il sangue in tumulto lenire; Volervi ai ginocchi abbracciare E in un gran pianto irreprimibile Ai vostri piedi confessare Tutto, tutto l'esprimibile... E invece dover freddamente Mascherare sguardi e discorsi, Un viso lieto per voi imporsi, Conversare tranquillamente... Ma così sia: ormai a me stesso Resistere più non posso; Tutto è deciso: in poter vostro Sono e al destino mi affido adesso. XXXIII Non c'è risposta. Altra missiva. Ma anche alla seconda e a una terza Non c'è risposta. Poi lui arriva In una festa... e appena entra Lei gli è davanti: seria, muta, Che nemmeno lo saluta! Tutta chiusa in un totale Cerchio di gelo epifaniale! Come reprime l'ira a stento La sua bocca tesa e ostinata! Attento Onieghin l'ha fissata: Dov'è quel commosso sgomento? E le lacrime?... Neanche un segno! Su quel viso c'è solo sdegno... XXXIV Sarà forse un segreto cruccio Che il marito o altri non scopra Quel suo debole, quel peccatuccio... La storia al mio Onieghin ben nota... Come sperarlo?! E lui va via Maledicendo la sua pazzìa. Nel pensiero di lei s'inabissa. Di nuovo dal mondo si eclissa. E nel suo studietto silente Gli torna a memoria l'età Che l'implacabile chandrà Lo braccava anche in mezzo alla gente, Gli era addosso, lo prendeva Al collo, e al buio lo chiudeva. XXXV

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A disordinate letture Si ridiede: Gibbon, Rousseau, Herder, Chamfort, Manzoni, e pure Madame de Staël, Bichat, Tissot; Si lesse lo scettico Bayle, Si lesse tutto Fontenelle, Lesse qualche connazionale, E senza nulla rifiutare: E gli almanacchi, e le riviste Che le prediche ci rifanno, Che adesso contro me ce l'hanno, E dove a volte mi son visto Dedicati dei madrigali: E sempre bene, signori cari. XXXVI E dunque? I suoi occhi leggevano, Ma lungi erano i pensieri; In fondo all'anima premevano Visioni, affanni e desideri. E fra le righe lì stampate Leggeva altre righe, guardate Con gli occhi della sua mente. E ne era preso totalmente. Erano arcane tradizioni Di un caro oscuro passato, Sogni senza significato, Incubi, fole, predizioni; Di lunghe storie il gaio nulla, O le lettere d'una fanciulla. XXXVII E sensi e idee gli si addormentano, Mentre l'immaginazione I suoi colori gli presenta Come carte di faraone. E vede su una sfatta neve, Giaciglio di un suo sonno greve, Inerte un giovane sdraiato, E ode una voce: l'hai ammazzato! O vede obliati avversari, Bene infedeli, codardi, Calunniatori e bugiardi, Masnada di vili compari; O una rustica casa - e in quel mentre Lei alla finestra... e lei sempre! XXXVIII

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Si perdeva a tal punto in ciò Che quasi non uscì di mente O poeta non diventò. Gliene siam grati, francamente! Eh sì: per via di magnetismo Dei versi russi il meccanismo Quasi quasi aveva afferrato Il mio allievo dissennato. Sembrava proprio un poeta: Tutto solo nell'angolino Stava al caldo del camino, E canticchiava: Benedetta O Idol mio, lasciando incendiare Or la ciabatta ora il giornale. XXXIX Volano i giorni, è più tiepida L'aria, l'inverno è ormai sciolto; Lui non è diventato poeta, Non è impazzito, non è morto. Primavera gli dà baldanza: Dalla sua tappata stanza, Dove ha svernato da marmotta, Focherello e vetrata doppia, In un chiaro mattino evade In slitta lungo la Nievà. Su azzurre scie di ghiaccio già Brilla il sole; e per le strade Fango è la neve calpestata. Dove mai di tanta volata XL Onieghin pròpera? In anticipo L'indovinate, esattamente: Da Tatjana, da lei, si precipita Il mio bislacco impenitente. Entra, bianco come un cadavere. Neanche un'anima in anticamera. Né in salone. Va oltre: lo stesso. Apre una porta. Che cosa adesso L'ha colpito con tal violenza? La principessa è lì davanti, Pallida, in casalinghi panni, Legge una lettera, in silenzio Di lacrime un fiume versando, La guancia alla mano appoggiando. XLI

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E chi il suo segreto tormento In quell'attimo non leggerebbe! Chi la povera Tanja d'un tempo Nella gran dama non scoprirebbe! Folle d'angoscia e di rimpianti, Eugenio è in ginocchio davanti A lei, che ha sussultato e ora Lo osserva senza una parola, Senza stupore o sdegno, nulla... Quello sguardo spento e sparuto, Supplice rimprovero muto, Le dice tutto... La fanciulla, Coi sogni e il cuore d'una volta, In lei nuovamente è risorta. XLII Lei non lo fa alzare, gli intenti Occhi da lui non gira, Né dalle sue labbra ardenti La mano inerte ritira... Di cosa va fantasticando? Trascorre un silenzio, fin quando Parla lei, tutta sommessa: «Basta; alzatevi. Io stessa Vi dovrò una spiegazione. Onieghin, ricordate il giardino Dove ci portò il destino, Dove ascoltare una lezione Da voi seppi con umiltà? Il mio turno oggi sarà. XLIII «Onieghin, più giovane ero In quel tempo e, forse, migliore, E vi amavo; e che cosa, invero, Io trovai nel vostro cuore? Quale risposta? Severità. Per voi non c'era novità Nell'amore di una modesta Ragazza... Ah, il sangue mi s'arresta Se penso a quel vostro sermone, Allo sguardo freddo... Ma colpa Non ve ne faccio... Quella volta Avevate voi ragione, E agiste con me nobilmente. Ve ne sono riconoscente... XLIV

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«In quel tempo, in quel deserto, Lontano dal pettegolezzo, Io non vi piacqui: questo è certo... E dunque mi inseguite adesso? Che cosa a voi mi pone in vista? Non forse il fatto ch'io apparisca Per il mio rango in società; L'esser di ricca nobiltà; O il marito che in guerra è stato Ferito e alla corte è in favore? Non forse che il mio disonore Da tutti sarebbe osservato, A voi nel bel mondo recando Un lusinghevole vanto? XLV «Piango... Se non avete ancora La vostra Tanja dimenticata, Sappiatelo: l'aspra parola Di quella fredda sgridata, Se potessi, preferirei sempre A una passione che mi offende, A queste lacrime, a queste lettere. Dei miei sogni di giovinetta Voi aveste almeno pietà E rispetto... Ma questa volta Quale motivo mai vi porta Ai miei piedi? Meschinità! E il vostro cuore, il vostro intelletto, Servono a un senso così gretto? XLVI «Ma, Onieghin, che me ne importa Del lusso, l'esser brillante, Vita odiosa d'orpelli avvolta, Gran serate e casa elegante? Di ridar via sarei beata Questo ciarpame da mascherata, Questo chiasso e fumo e lustro, Per quei libri e il giardino rustico, La nostra povera dimora, I luoghi dove vidi voi Per la prima volta e poi Il cimitero dov'è ora Una croce all'ombra dei rami Sulla mia povera njanja... XLVII

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«Era possibile, era vicina La felicità!... Ma ormai È deciso il mio destino. Forse un po' troppo mi affrettai: Ma piangendo mi supplicava Mia madre, mi scongiurava; Qualsiasi via m'era lo stesso... E andai sposa... Vi prego, adesso Mi dovete lasciare. Lo so Che ci sono nel vostro cuore E fierezza e giusto onore. Vi amo: non lo negherò. Ma sono di un altro; e fedele Sempre voglio a lui rimanere.» XLVIII Lei si allontana. Eugenio resta Lì, quasi fulminato. Da che sentimenti in tempesta Il suo cuore è circondato! Ma di speroni un tinnìto Si sente: è comparso il marito Di Tatjana. E qui, in un momento Che è per lui di brutto vento, O lettore, il mio eroe lasciamo Per un bel po'... o per sempre... Molto Abbiamo vagato nel mondo Per seguirlo. A riva ormai siamo, E scambiamoci un bell'urrà! Da un pezzo era tempo, si sa! XLIX Benigno o no, lettore mio, Come o quale tu sia stato, Da amico voglio dirti addio. Qualunque cosa abbia cercato In queste strofe buttate là, O di memorie un'ansietà, O sollievo dalle fatiche, Quadri vivi, parole ardite, Qualche grammaticale errore, Dio voglia che in questo libretto, Per i tuoi sogni, per diletto, Per recensioni, per il cuore, Un granello abbia rinvenuto. E qui ti lascio e ti saluto! L

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Addio, compagno strampalato, Addio a te, vero ideale, Addio, lavoro faticato... Con voi ho potuto provare Quel che un poeta invidia sempre: Oblìo d'un mondo sconvolgente, Cari colloqui. E molti giorni Volarono senza ritorni Da quando Onieghin e Tatjana Alla mia confusa visione Vennero e non sapevo come Sarebbe finita la trama, Che in un cristallo di magìa Non distinguevo tuttavia. LI Ma quegli amici a cui, riuniti,Le prime strofe io leggevo Sono morti o sono partiti, Come un tempo Sa'adi diceva. Così Onieghin va a terminare Senza di loro. E il caro ideale Di Tatjana colei che ispirò... Molto il destino ci rubò! Beato chi lasciò il festino Della vita senza bere Tutto il vino del bicchiere, Non lesse il suo romanzo fino In fondo e seppe dirle addio D'un tratto, come a Onieghin io. [Note dell'autore] (1) Rout, serata mondana senza ballo; propriamente significa «folla». FRAMMENTI DAL VIAGGIO DI ONIEGHIN

L'ultimo capitolo dell'Eugenio Onieghin fu pubblicato a parte, con la seguente premessa: «Le strofe omesse hanno offerto ripetutamente motivo ad appunti e scherzi (del resto molto pertinenti e spiritosi). L'autore ammette in tutta sincerità di aver estromesso dal suo romanzo un intero capitolo, nel quale era descritto un viaggio di Onieghin attraverso la Russia. Egli avrebbe potuto contraddistinguere questo capitolo estromesso con dei puntini o con un numero; ma a scanso di tentazioni ha ritenuto meglio segnare col numero otto,

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anziché col nove, l'ultimo capitolo di Eugenio Onieghin e sacrificare una delle strofe conclusive: È tempo: la penna chiede riposo; Ho scritto nove canti; Alla lieta riva porta La mia barca la nona ondata - Gloria a voi, nove Camene, ecc.» P. A. Katienin (a cui uno splendido talento poetico non impedisce d'essere un critico acuto) ci fece notare che tale esclusione, forse anche vantaggiosa per il lettore, nuoce tuttavia al piano complessivo dell'opera; perché a causa di essa il passaggio dalla Tatjana signorina di provincia alla Tatjana nobildonna avviene in modo troppo inaspettato e inspiegabile. - L'osservazione è rivelatrice di un artista esperto. L'autore stesso ne avvertì la legittimità, ma aveva deciso di estromettere il capitolo per motivi importanti per lui, e non per il pubblico. Alcuni frammenti sono stati già stampati; noi li riportiamo qui, con l'aggiunta di qualche altra strofa. E. Onieghin va da Mosca a Nižnij Novgorod: ..........................................davanti a lui Makariev invano si affaccenda, Ribolle della sua dovizia. Qui perle ha portato l'indiano, Vini sofisticati l'europeo, Un branco di cavalli di scarto Ha condotto l'affarista delle steppe, Il giocatore ha portato i suoi mazzi di carte E una manciata di dadi compiacenti, L'agrario - le sue mature figliole, E loro - mode già vecchie di un anno. Ognuno intrallazza, mente per due E un'aria di traffico è dappertutto. Angoscia!... Onieghin si reca ad Astrachan e quindi nel Caucaso. E vede: il Tierek capriccioso Corrode le ripide sponde: Davanti a lui si libra la potente aquila, Ristà il cervo, chinando le corna; Il cammello giace all'ombra della roccia, Nei prati corre il cavallo circasso, E intorno alle nomadi tende Pascolano le pecore dei Calmucchi, In lontananza - le moli caucàsiche. La via a esse è aperta. Passò la battaglia Oltre il loro naturale limite, Attraverso le loro rischiose barriere; Le sponde dell'Aràgva e della Kurà Videro i russi attendamenti.

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Già del deserto l'eterna sentinella, Stretto dalle colline intorno, Il Beštù dall'aguzza cima si erge, E il verdeggiante Mašùk, Il Mašùk portatore di curative sorgenti; Intorno ai suoi portentosi ruscelli Si accalca il pallido sciame dei malati; Chi vittima dell'onore militare, Chi di emorroidi, chi di Cipride; Il sofferente pensa di rinforzare Nei flutti prodigiosi il filo della vita, La coquette di lasciare in quel fondo L'oltraggio degli anni cattivi, e il vecchio Di ringiovanire - sia pure per un attimo. Nutrendosi di amare riflessioni, In mezzo alla loro triste famiglia, Onieghin con sguardo di compassione Osserva le fumose sorgenti E pensa, onnubilato di tristezza: Perché non mi ha ferito al petto una pallottola? Perché non sono un vecchietto malaticcio Come questo povero appaltatore? Perché non giaccio paralitico Come quell'assessore di Tula? Perché non sento alla spalla Nemmeno un reumatismo? - Ah, Creatore! Io sono giovane, la vita è in me vigorosa; Cosa mi aspetta? Angoscia, angoscia!... Onieghin visita poi la Tauride: Paese sacro all'immaginazione: Con l'Atride là ebbe contesa Pilade, Là si pugnalò Mitridate, Là cantò l'ispirato Mickiewicz E tra gli scogli della riviera La sua Lituania ricordò. O voi bellissime, rive della Tauride, Quando vi si avvista dal bastimento Al raggio di Cipride mattutina, Come vi vidi io la prima volta; In uno splendore nuziale voi m'appariste: Sotto un cielo azzurro e trasparente Brillavano ammassati i vostri monti, Di valli, alberi, villaggi un arabesco Era disteso davanti a me. E là, fra capanne di Tartari... Quale ardore in me si destò! Da quale magica angoscia

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Fu premuto il mio petto ardente! Ma scorda, o Musa, il passato. I sentimenti che si celavano In me allora - non ci son più: Sono passati o sono mutati... Pace a voi, affanni degli anni trascorsi! In quel tempo mi apparivano necessari I deserti, le creste perlacee delle onde, E il rumore del mare, e le moli degli scogli, E l'ideale d'una superba fanciulla, E i patimenti senza nome... Altri giorni, altri sogni; Vi siete placate, o della mia Primavera Alate visioni, E nel bicchiere della poesia Molta acqua io ho mescolato. Di altri quadri ora ho bisogno: Mi piace un pendìo sabbioso, I due sorbi davanti alla casetta, Il cancelletto, lo sconnesso steccato, Le grige nuvole in cielo, Davanti al granaio i mucchi di paglia E lo stagno all'ombra dei folti salici, Dove vanno in libertà le giovani anatre; Adesso mi è cara la balalàjka E l'ebbro scalpitare del triepàk Sul limitare della taverna. Il mio ideale di adesso è una padrona di casa, La mia aspirazione è la quiete, E una gran pentola di zuppa di cavoli. In un giorno di pioggia tempo fa Io, passando per il cortile delle stalle... Uff! Prosaiche fantasticherie, Di scuola fiamminga variopinto ciarpame! Tale io fui forse nel mio fiorire? Dillo, fontana di Bachèisaraj! Tali pensieri nella mia mente forse Il tuo mormorìo infinito portò, Quando davanti a te in silenzio Zariema mi figuravo... In saloni sfarzosi e deserti, Dopo tre anni, sulle mie orme, Errando in quella stessa regione, Onieghin si ricordò di me. Vivevo allora nella polverosa Odessa... Laggiù dura a lungo il cielo luminoso, Là affaccendatamente un dovizioso mercato

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Alza le sue vele; Là tutto respira a un vento d'Europa, Tutto risplende meridione e si variopinge Di una viva molteplicità. La lingua dell'Italia d'oro Risuona per le vie allegra, Dove passano lo slavo altero, Il francese, lo spagnolo, l'armeno, E il greco, e il greve moldavo, E il figlio della terra egiziana, Moro Alì, corsaro a riposo. Odessa con versi sonanti Il nostro amico Tumanskij ha descritto, Ma con occhi non imparziali A quel tempo lui la osservò. Là arrivando, da vero poeta, Se ne andò errando con la sua lorgnette Da solo lungo il mare - e poi Con la sua penna incantatrice I giardini odessiti esaltò. Tutto bene, ma il fatto si è che Là intorno c'è la nuda steppa; Qua e là recenti lavori hanno costretto Giovani rami nei giorni torridi A dare per forza un po' d'ombra. Ma a che punto sei, o mio scucito racconto? Nella polverosa Odessa, dicevo. Avrei potuto dire: nella fangosa Odessa - E non avrei detto una bugia. Per cinque-sei settimane all'anno Odessa, Per volere di Giove Pluvio, È affogata, è sbarrata, In un denso fango affondata. Tutte le case sono imbrattate fin quasi a un metro, Solo sui trampoli il pedone Osa guardare la via; Vetture, persone affondano, s'impantanano, E nei calessi il bue, a corna abbassate, Sostituisce il debole cavallo. Ma già il martello spezzetta le pietre, E presto di un selciato sonoro Si coprirà la città salvata, Quasi come di una forgiata corazza. E però in questa umida Odessa C'è un'altra grave mancanza; E quale, voi pensereste? - L'acqua. Occorrono grossi lavori... E allora? È disgrazia da poco,

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Tanto più se si pensi che il vino Senza dazio viene importato. Ma il sole del Sud, ma il mare... Amici, cosa volete di più? Oh paesi benedetti! Di solito, appena dalla nave Tuona il cannone dell'alba, Dalla riva scoscesa correndo, Io mi avviavo già verso il mare. Poi, con la pipa arroventata, Ristorato dalla salsedine, Come un musulmano nel suo paradiso, Bevevo il caffè col fondo alla turca. Andavo a passeggio. Già il benevolo Casino si apriva; di tazze un suono Là si levava, sul balcone Usciva il segnapunti insonnolito Con una scopa tra le mani, e sulla loggetta Già si incontravano due mercanti. Guardi - e la piazza si è già colorata. Tutto si rianima; qua e là Corrono al fare e al non fare, Ma più di tutto all'affare. Figlio di calcolo e di ardire, Va il mercante a guardare le bandiere, A informarsi se il cielo gli ha mandato Vele a lui note. Quali nuove merci Sono entrate ora in quarantena? Sono arrivate le botti dei vini che si aspettavano? E quali nuove della pèste? E dove ci sono incendi? E niente carestie, guerre O altre simili novità? Ma noi, ragazzi senza tristezze, In mezzo ai sèduli mercanti, Solo noi aspettavamo le ostriche Dalle sponde di Tsaregràd. E le ostriche? Sono arrivate! Che gioia! Vola la gioventù golosa A trangugiare dai loro gusci marini Le pingui e vive eremite, Con una spruzzatina di limone. Chiasso, baruffe - un leggero vino Dalle cantine vien portato Sui tavoli del confortevole Otòn;Le ore volano, e il conto minaccioso Intanto cresce senza parere. Ma già si ottenebra l'azzurra sera,

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Dobbiamo andare all'opera in fretta: Dànno l'inebriante Rossini, D'Europa il beniamino - l'Orfeo. Incurante della critica severa, È sempre lui, è sempre nuovo, E spande suoni - che ribollono, Scorrono, ardono Come baci giovani, Tutti tenerezza e fiamma d'amore, Come del frizzante Ay Lo zampillo e gli spruzzi d'oro... Ma, signori, è lecito forse A un vino paragonare il do-re-mi-sol? Ma solo lì stanno gli incanti? E la lorgnette indagatrice? E i convegni dietro le quinte? E la prima donna? E il balletto? E il palco dove, di beltà scintillante, Una giovane mercantessa, Tutta piena di sé e languida, Da una torma di schiavi è attorniata? E lei ascolta e non ascolta La cavatina e le suppliche E lo scherzo mischiato alla lusinga... E il marito - in un angolo dietro di lei sonnecchia Tra veglia e sonno grida «fora!», Sbadiglia e - a russare riprende. Rimbomba il finale; si svuota la sala; Rumoreggiando, tutti si affrettano a partire; La folla si è riversata sulla piazza, Al lume dei lampioni e delle stelle; I figli dell'Ausonia felice Lievemente canticchiano il motivo scherzoso, Spontaneamente a memoria imparato, Mentre noi mugoliamo il recitativo. Ma è tardi. Placida dorme Odessa; E senza un alito e calda È la muta notte. La luna si è levata, Un lieve-trasparente velo Abbraccia il cielo. Tutto tace; Solo il mar Nero mormora... Dunque, io vivevo allora a Odessa... CAPITOLO DECIMO

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Un monarca fiacco e astuto, Calvo bellimbusto, scansafatiche, Per caso sfiorato dalla gloria, Su di noi regnava allora. ............................................ II L'avevamo conosciuto assai pacifico, Quando cuochi non nostri L'aquila a due teste spennarono Presso la tenda di Bonaparte. ............................................ III La burrasca dell'anno dodici Arrivò - chi ci venne allora in aiuto? La furia del popolo, Barclay, l'inverno o il dio russo? ............................................ IV Ma Dio ci soccorse - s'acquetò il fermento, E presto per forza delle cose Noi ci trovammo a Parigi, E lo zar russo alla testa dei re. ............................................ V E quanto più grasso, tanto più greve. O stupido nostro popolo russo, Dimmi perché tu veramente ............................................ VI O Forse, o Scibbolet nazionale, A te un'ode io dedicherei, Ma un poetastro d'alta prosapia È già arrivato prima di me ............................................ Il mare lasciarono a Albione ............................................ VII Forse, dimenticando gli affitti

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Il bigotto si chiuderà in convento, Forse per un gesto di Nicola Alle famiglie restituirà la Siberia ............................................ Forse le strade ci aggiusteranno ............................................ VIII Quest'uomo del destino, questo ramingo guerriero, Davanti al quale si umiliarono i re, Questo cavaliere, dal papa incoronato, Svanito come ombra di crepuscolo, ............................................ Tormentato dal supplizio della quiete ............................................ IX Minacciosamente tremarono i Pirenei, Il vulcano di Napoli eruttò, Il monco principe agli amici di Morea Da Kišiniov già ammiccò ............................................ Il pugnale di L , l'ombra di B ............................................ X Tutti io ridurrò al silenzio col mio popolo - Il nostro zar al congresso dichiarò, E di te niente affatto si cura, Tu servo di Alessandro. ............................................ XI Il reggimento-giocattolo di Pietro il Titano, La guardia di vecchi baffoni, Che un dì consegnarono il tiranno Alla banda feroce dei carnefici. ............................................ XII La Russia si pacificò nuovamente, E ancor di più si diede lo zar alla baldoria, Ma la scintilla di un'altra fiamma Già da molto tempo, forse, ............................................

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XIII Da loro avvenivano le riunioni, Chi davanti a una coppa di vino, Chi a un bicchierino di vodka russa. ............................................ XIV Famosi per tagliente eloquenza, Si riunivano i membri di questa famiglia Presso l'irrequieto Nikita, Presso il prudente Iljà. ............................................ XV Amico di Marte, di Bacco e di Venere, Qui Lunin temerario proponeva Le sue radicali misure E ispiratamente borbottava. I suoi Noël leggeva Puškin, Il melanconico Jakuškin Sembrava come in silenzio snudare Un regicida pugnale. La sola Russia vedendo al mondo, Perseguendo un suo ideale, Lo zoppo Turghieniev li ascoltava E, odiando la frusta della schiavitù, Antivedeva in quest'accolta di nobili I liberatori dei contadini. XVI Questo avveniva sulla Nievà ghiacciata, Ma là dove più presto primavera Brilla sulla Kamienka ombrosa E sui colli di Tul'èino, Dove le schiere di Wittgenstein Le pianure dal Dniepr bagnate E le steppe del Bug coprirono, Altri fatti già si compivano. Là Pestiel' - contro i tiranni Anche un esercito... raccoglieva, Generale di sangue freddo, E Muraviov, sottomettendolo a sé E pieno di audacia e di forze, Affrettava l'istante dell'esplosione. XVII

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In principio queste cospirazioni Tra un Laffitte e un Clicquot Erano state solo dispute fra amici, E non instillavano profondamente Nei cuori la scienza di ribellione, Tutto ciò era soltanto noia, Fannullaggine di menti giovanili, Spasso di monelli adulti, Sembrava..................... Nuclei su nuclei................... E a poco a poco di una rete segreta La Russia......................... Il nostro zar sonnecchiava................ ...............................................