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STUDI E TESTI PER LA STORIA RELIGIOSA DEL CINQUECENTO 15 ANTONIO ROTONDÒ STUDI DI STORIA ERETICALE DEL CINQUECENTO * FIRENZE LEO S. OLSCHKI EDITORE MMVIII

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STUDI E TESTI PER LA STORIA RELIGIOSADEL CINQUECENTO

15

ANTONIO ROTONDÒ

STUDI DI STORIA ERETICALEDEL CINQUECENTO

*

FIRENZE

LEO S. OLSCHKI EDITOREMMVIII

Marco
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STUDI E TESTI PER LA STORIA RELIGIOSADEL CINQUECENTO

Comitato scientifico

PETER G. BIETENHOLZ (Saskatoon), LUCIA FELICI (Firenze), MASSIMO FIRPO (To-rino), CARLOS GILLY (Amsterdam), ALASTAIR HAMILTON (Leida), GIOVANNI MIC-COLI (Trieste), OTTAVIA NICCOLI (Bologna), ALESSANDRO PASTORE (Verona), MI-CHEL PLAISANCE (Parigi), GUILLAUME H. M. POSTHUMUS MEYJES (Leida), † ANTONIO

ROTONDÒ (Firenze), ROBERTO RUSCONI (Salerno), MARTIN STEINMANN (Basilea),ALDO STELLA (Padova), JOHN A. TEDESCHI (Madison), CESARE VASOLI (Firenze),

NATALIE ZEMON DAVIS (Princeton).

Direzione

† ANTONIO ROTONDÒ

Redazione

MARIO BIAGIONI, MATTEO DUNI, LUCIA FELICI

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ISBN 978 88 222 5737 6

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A Miriam, compagna di vita e di lavorosempre serena e infaticabile

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INDICE DEL VOLUME

TOMO I

Avvertenza . . . . . . . . . . . . . . . . . . . p. XI

Contributo alla storia dei miei studi. Note non solo autobiografiche » XIII

Premessa a «Studi e ricerche di storia ereticale italiana del Cinquecen-to» (1974) . . . . . . . . . . . . . . . . . . » XXIX

I. I MOVIMENTI ERETICALI NELL’EUROPA DEL CINQUECENTO. DISCUSSIO-NE STORIOGRAFICA . . . . . . . . . . . . . . » 1

II. ANTICRISTO E CHIESA ROMANA. DIFFUSIONE E METAMORFOSI D’UN LI-BELLO ANTIROMANO DEL CINQUECENTO . . . . . . . . » 45

1. Tra Zurigo e l’Italia: le due facce dell’Anticristo . . . . » 452. Anticristo e papato in Lutero . . . . . . . . . . » 603. Il Liber generationis desolatoris Antichristi . . . . . . . » 754. Deduzioni radicali: il Pasquino in estasi di Curione . . . . » 775. Libellistica antiromana e gruppi ereticali a Bologna . . . » 936. A Modena patrizi e popolani discutono dell’Anticristo . . » 1357. Variazioni sul tema: Curione e Biandrata . . . . . . » 168

III. ATTEGGIAMENTI DELLA VITA MORALE ITALIANA DEL CINQUECENTO. LA

PRATICA NICODEMITICA . . . . . . . . . . . . . » 201

1. In Europa. Il nicodemismo di Fausto Sozzini . . . . . » 2012. In Italia. Incidenza dello spiritualismo valdesiano . . . . » 226

IV. PER LA STORIA DELL’ERESIA A BOLOGNA NEL SECOLO XVI . . . . » 249

1. La predicazione bolognese di Lisia Fileno . . . . . . » 2492. Un episodio bolognese della giovinezza di Lelio Sozzini . . » 277

~ VII ~

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INDICE DEL VOLUME

V. CALVINO E GLI ANTITRINITARI ITALIANI . . . . . . . . . p. 297

1. La dispersione degli antitrinitari italiani dalle città svizzere . » 2972. Oltre Serveto: evoluzione radicale dell’antitrinitarismo ita-

liano . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 305

VI. SULLA DIFFUSIONE CLANDESTINA DELLE DOTTRINE DI LELIO SOZZINI . » 323

1. Il nesso tra Serveto e gli antitrinitari italiani . . . . . » 3232. Risposte alle obiezioni di Jerome Friedman . . . . . » 325

VII. VERSO LA CRISI DELL’ANTITRINITARISMO ITALIANO. GIORGIO BIAN-DRATA E JOHANN SOMMER . . . . . . . . . . . » 349

1. L’influenza del Biandrata in Transilvania . . . . . . » 3492. Il Sommer da luterano a divulgatore degli Stratagemata Sata-

nae di Aconcio . . . . . . . . . . . . . . » 3543. La polemica trinitaria . . . . . . . . . . . . » 3654. Le posizioni radicali del Sommer e il ripiegamento del Bian-

drata . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 381

TOMO II

VIII. ESULI ITALIANI IN VALTELLINA NEL CINQUECENTO . . . . . . » 403

1. Protesta religiosa e rivolta sociale . . . . . . . . » 4032. Integrazione degli esuli italiani . . . . . . . . . » 4203. I dissidenti irriducibili . . . . . . . . . . . . » 432

IX. GUILLAUME POSTEL E BASILEA . . . . . . . . . . . » 443

1. Vicende dei manoscritti postelliani . . . . . . . . » 4432. Reazioni dei teologi svizzeri alle idee di Postel . . . . » 4483. Le censure di Pellikan e i primi contrasti fra Postel e Opori-

no . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 4534. L’utopia religiosa e politica di Postel nell’inedita Apologia del

1549 . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 4645. Il definitivo distacco di Oporino . . . . . . . . . » 474

X. PIETRO PERNA E LA VITA CULTURALE E RELIGIOSA DI BASILEA FRA IL

1570 E IL 1580 . . . . . . . . . . . . . . » 479

1. L’eredità di Castellione . . . . . . . . . . . . » 479

~ VIII ~

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INDICE DEL VOLUME

2. Le edizioni castellioniane del Perna . . . . . . . . p. 5063. Scienza, religione e magia. L’Arbatel . . . . . . . » 5324. Il Perna nel dibattito su Paracelso e la magia naturale . . » 552

XI. IL PRIMO SOGGIORNO IN INGHILTERRA E I PRIMI SCRITTI TEOLOGICI

DI FRANCESCO PUCCI . . . . . . . . . . . . . » 577

1. Il dibattito con Fausto Sozzini sul concetto di giustizia divina » 5772. I concetti di fede e di giustificazione nella lettera al Gry-

naeus . . . . . . . . . . . . . . . . . » 5813. La dottrina del peccato originale e il valore dell’educazione » 605

XII. NUOVE TESTIMONIANZE SUL SOGGIORNO DI FRANCESCO PUCCI A BA-SILEA . . . . . . . . . . . . . . . . . » 617

XIII. L’USO NON DOGMATICO DELLA RAGIONE: AGOSTINO DONI . . . » 635

1. Fra aristotelici in crisi. La posizione di Zwinger . . . . » 6352. Il soggiorno a Basilea e la stesura del De natura hominis . . » 6483. La natura e l’uomo: demolizione critica della tradizione clas-

sica . . . . . . . . . . . . . . . . . . » 6584. Da Basilea a Cracovia. L’incontro col Dudith . . . . » 690

APPENDICE

I. Due scritti inediti di Guillaume Postel (1549) . . . . . » 703II. Guglielmo Grataroli a Bonifacio Amerbach (1559) . . . . » 719

III. Iacopo Paleologo da Chio ad Alfonso II d’Este (1562) . . . » 721IV. Guglielmo Grataroli al Senato dell’Università di Basilea (1567) » 725V. Johann Sommer a Christoph Hanisius (1568) . . . . . . » 729

VI. Prefazione di Johann Sommer al compendio degli StratagemataSatanae di Iacopo Aconcio (1570) . . . . . . . . » 733

VII. Quaestiones Georgii Blandratae cum responsionibus Ioannis Sommeri(1573 ?) . . . . . . . . . . . . . . . . . » 737

VIII. Francesco Pucci a Johann Jacob Grynaeus (1575) . . . . » 743IX. Théodore de Bèze a Johann Jacob Grynaeus (1575) . . . » 757X. Lettere di Agostino Doni (1580-1582) . . . . . . . . » 759

XI. Francesco Patrizi a Girolamo Mercuriale (1580) . . . . . » 773XII. Charles Utenhove a Jean Bauhin (1580) . . . . . . . » 777XIII. Francesco Patrizi a Theodor Zwinger (1580) . . . . . . » 779

Indice dei nomi . . . . . . . . . . . . . . . . . » 781

~ IX ~

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AVVERTENZA

Si ripubblicano in questi due volumi i saggi già editi nel libro di Antonio Ro-tondò Studi e ricerche di storia ereticale italiana del Cinquecento (1974) ealtri cinque scritti usciti tra il 1962 e il 1991 in riviste o in opere miscellanee:l’ordine in cui sono presentati, i criteri seguiti nella revisione, come ad esempio ladecisione di non apportare – se non in rarissimi casi – aggiornamenti bibliografici,sono quelli stabiliti dall’Autore prima della sua scomparsa. La preparazione per lastampa è stata completata da Miriam Michelini Rotondò, coadiuvata dai Redattori.

Gli studi di storia ereticale qui raccolti hanno profondamente arricchito e inno-vato la ricerca sull’argomento, aprendo molti inediti orizzonti d’indagine sia perl’importanza delle figure e dei problemi indagati, sia per l’ampliamento della pro-spettiva storica che essi hanno recato. Le figure emerse dallo scavo documentario ri-goroso e dall’analisi lucidissima di Rotondò animano infatti la storia culturale ereligiosa dell’Europa, e non solo cinquecentesca: sono uomini accomunati dal rifiu-to del conformismo e del dogmatismo – e sovente tragicamente segnati dalle conse-guenze delle loro scelte – che, con le loro idee, posero le premesse per la successivademolizione dell’architettura concettuale e istituzionale della società di antico regi-me. La limitazione temporale di questi studi al secolo XVI non oscura dunque ilpiù generale ambito problematico delle ricerche di Rotondò, che spazia dal Cin-quecento al Settecento per individuare le linee direttive lungo le quali si svolse lastoria della critica razionale e della tolleranza nella compagine europea. Presentegià in questi scritti come sfondo concettuale, l’indagine sulla genesi delle problema-tiche relative all’affermazione della libertà di pensiero e sulle loro proiezionisei-settecentesche è stata all’origine delle due Collane concepite da Rotondò, «Stu-di e testi per la storia religiosa del Cinquecento» e «Studi e testi per la storia dellatolleranza in Europa nei secoli XVI-XVIII», che accolgono studi suoi e di suoiallievi e collaboratori.

Le inedite pagine autobiografiche di Rotondò Contributo alla storia deimiei studi (2003), che si è deciso di porre in apertura di questi volumi, illumina-no l’itinerario intellettuale grazie a cui l’Autore maturò questa sua concezione sto-rica, che – com’è ovvio – implica anche una precisa visione culturale e politica. Illoro interesse risiede però soprattutto nella capacità di Rotondò di trarre dal dato

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AVVERTENZA

personale motivi di riflessione sulla cultura e sulla società nella loro faticosa evolu-zione verso un sempre maggiore sviluppo del pensiero critico. Questo il fine perse-guito da Rotondò con il suo impegno scientifico e didattico. Questo il fine, non ul-timo, della pubblicazione della presente opera.

Firenze, Settembre 2007.La Redazione

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II

ANTICRISTO E CHIESA ROMANADIFFUSIONE E METAMORFOSI

D’UN LIBELLO ANTIROMANO DEL CINQUECENTO *

1. Tra Zurigo e l’Italia: le due facce dell’Anticristo

Il 25 febbraio 1550, il cremonese Giacomo Susio scrisse a RudolfGwalther per informarlo che già da due anni aveva tradotto in italiano,dall’edizione in latino del 1546, le sue cinque omelie sull’Anticristo (DerEndtchrist ... Fünff Predigen). Il Susio unì alla lettera il manoscritto della tra-duzione e sollecitò il teologo zurighese a far di tutto perché essa venissemessa a stampa prima possibile: «Te ego illud unum oro obsecroque, utuna cum Hieronymo nostro conficias cum typographis desque operam utItalus Italiam protinus revisat». Non si hanno notizie di una diffusione inItalia di questa traduzione, che pure Johannes Oporinus (o Pietro Perna?)mise a stampa a Basilea in poco più d’un mese nella veste caratteristica del-le stampe clandestine e nonostante che il Susio avesse interessato alla stam-pa e poi al trasferimento del libro in Italia Girolamo Donzellini, uno deipiù abili e più fantasiosi diffonditori di letteratura clandestina che operaro-no nel Cinquecento. Tuttavia, la persistenza, ben oltre il 1550, della con-vinzione che l’Anticristo si identificasse col papa tra gli argomenti di quan-ti in Italia giustificavano il loro distacco da ogni prospettiva riformatrice diiniziativa romana, rende quanto meno plausibili – a parte le amplificazioniretoriche e lo stile cerimonioso del Susio – le sue dichiarazioni sull’interes-se con cui il libro era atteso in Italia: «Liber est profecto ab omnibus tumlegi tum laudari tum etiam amplecti dignissimus, nec ita facile credas quamavide, ne dicam ardenter, Italus expectetur Gualtheri Antichristus».1 Co-

* Pubblicato in Forme e destinazione del messaggio religioso. Aspetti della propaganda religio-sa nel Cinquecento, a cura di ANTONIO ROTONDÒ (Studi e testi per la storia religiosa del Cin-quecento, 2), Firenze, Olschki, 1991, pp. 19-164.

1 Vedi più avanti Documenti, 3, p. 198 e le note relative. La traduzione del Susio fumessa a stampa a Basilea (cfr. nota 13) col titolo: L’Antichristo di M. Ridolfo Gualtero, ministro

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ANTONIO ROTONDÒ

me vedremo, l’iniziativa editoriale partita da Cremona ebbe, comunque,esiti diversi dalle aspettative del Susio e dei suoi correligionari. Il rifiutoche ad essa venne opposto a Zurigo fu l’estrema conseguenza delle fortiperplessità con cui precedentemente l’opera di Gwalther era stata giudi-cata nelle due edizioni in latino e in tedesco. Gwalther aveva trattatol’argomento con efficacia e competenza. Ma efficacia della scrittura ecompetenza dell’autore non significavano necessariamente attualità deltema pubblicistico prescelto. Ed è proprio su questo problema che le vi-cende poco note dell’opera del teologo zurighese possono suggerirequalche utile considerazione preliminare sul variare di intensità della cari-ca emozionale che la pubblicistica fondata sull’equivalenza tra Anticristoe Chiesa romana era in grado di suscitare.

Sorprendentemente, nell’ampia prefazione con cui Gwalther dedicòil libro «A i diletti fratelli che predicano l’Evangelio di Christo nel paeseTigurino», si legge, rivolto agli stessi dedicatari, un severo rimprovero,appena attenuato da espressioni di riverenza e da ammissione di inespe-rienza giovanile. Gwalther lamenta che quanti hanno responsabilità diammaestrare il gregge abbiano lasciato cadere la denuncia del mistero diiniquità incarnato dall’Anticristo romano: così sono venute meno tutte lepiù concrete indicazioni capaci di svelare agli uomini «gli inganni delladottrina falsa, sì che possino schiffare i belletti delle superstitioni et fuggi-re le insidie et i lacci delle menzogne et in nessun modo sieno offesi perla persecutione»; solo il costante riferimento alla realtà in cui si è incarna-to l’Anticristo può indicare ai cristiani la vera radice di tutti i mali; «que-sto dunque – concludeva – ci bisogna riprendere et proporre alle chie-se».2 Quanto a lui, Gwalther, diceva d’avere intrapreso «questa fatica [...]di provare che il Papa Romano è il vero Antichristo [...] solo per darconto degli studi miei a coloro li quali, con fortezza d’animo et costanza

della Chiesa Tigurina. Cioè cinque homilie nelle quali si prova che il Papa Romano è quel vero etgrande Antichristo, il quale predissero li Profeti, Christo et gli apostoli dover venire et doversi da noischifare, senza indicazioni editoriali. Ne conosco il solo esemplare conservato nella Zentralbi-bliothek di Zurigo, mutilo del sedicesimo L, che cade tra le pp. 132 e 149. La traduzione(dalla quale qui si cita) è letterale, con poche differenze (per omissioni o aggiunte) nelle notemarginali. Un secondo esemplare (che non ho visto) mi viene segnalato da Silvano Cavazzanella biblioteca dello Emmanuel College di Cambridge (H. M. ADAMS, Catalogue of BooksPrinted on the Continent of Europe, 1501-1600, in Cambridge Libraries, Cambridge, 1967, G1408). Martin Steinmann ( Johannes Oporinus. Ein Basler Buchdrucker um die Mitte des 16.Jahrhunderts, Basel, Helbing und Lichtenhahn, 1966, p. 84) attribuisce congetturalmente lastampa a Oporino.

2 L’Antichristo cit., p. A7r.

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II - ANTICRISTO E CHIESA ROMANA

di fede, già molti anni ho veduti esser sudati con gran profitto intorno aquesta istessa materia».3 Ora, con rammarico, Gwalther doveva prendereatto che a Zurigo non c’era più nessuno che si dedicasse a questa faticameritoria; anzi, era costretto a esprimere disappunto per il biasimo concui la sua iniziativa era stata accolta non solo da generici fautori del-l’«evangelica verità», ma anche da «maestri non volgari di quella».4 Dun-que, Gwalther è esplicito – e, quel che più conta, lo è in sede di pubblicascrittura – nel riferire le perplessità che aveva suscitato e continuava a su-scitare a Zurigo il genere di pubblicistica antiromana da lui proposto.Purtroppo, la scarsità di studi su figure anche di primo piano del mondoculturale e religioso zurighese del Cinquecento non facilita l’identifica-zione dei riferimenti di Gwalther. Un solo riferimento sembra, già a pri-ma lettura, non potersi escludere: lo stesso capo della Chiesa di Zurigo,Heinrich Bullinger; e, come vedremo, si tratta d’un riferimento confer-mato da testimonianze indubitabili.

Cinque anni prima della doppia edizione zurighese del libro diGwalther, esattamente nell’agosto del 1541, su richiesta d’uno dei predi-catori di Francoforte, Melchior Ambach, Bullinger aveva autorizzato lastampa d’un suo libretto sull’Anticristo (Vom Antichrist und seinem Reich),nel quale era riprodotta, in traduzione tedesca, parte del suo commentodel 1536 alle epistole paoline ai Tessalonicesi.5 Ma né un simile scrittoné un libro analogo a quello di Gwalther sarebbero pensabili nella pro-duzione teologica di Bullinger della seconda metà degli anni Quaranta,cioè in anni nei quali la situazione generale era profondamente mutata inragione d’un evento col quale nessuno poteva evitare di misurarsi: laconvocazione del concilio. Nei due decenni precedenti, dentro e fuoridel mondo germanico in rivolta, lo scetticismo sulla volontà riformatricedella Chiesa romana aveva fatto versare fiumi di inchiostro sulla sua rilut-tanza di fronte alla prospettiva della convocazione del concilio. Si era,poi, passati alla denuncia dell’egemonia che su di esso veniva esercitata daRoma: un tema pubblicistico sul quale, come è noto, concentrò subitobuona parte delle sue energie l’esule Vergerio. Ma intanto bisognavaprendere atto che ora il concilio c’era e lavorava con determinazione,analizzando e condannando – ormai quasi completamente al riparo da

3 Ibid., p. B1r.4 Ibid., p. A7v.5 Heinrich Bullinger. Bibliographie, I, Beschreibendes Verzeichnis der gedruckten Werke von

Heinrich Bullinger, bearbeitet von JOACHIM STAEDTKE, Zürich, Theologischer Verlag, 1972,n. 83, p. 44.

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ANTONIO ROTONDÒ

preoccupazioni e rimpianti per l’unità, vivissimi appena pochi anni prima– l’intero patrimonio delle novità teologiche accumulatosi in trent’annidi rivolta contro Roma. Di fronte a questo evento, a Zurigo come aWittenberg e a Ginevra, la difesa di quel patrimonio rendeva urgenti, piùche l’isolato rilancio di ripetitive figurazioni apocalittiche, approfondi-menti e contestazioni dottrinali tali da motivare, di fronte all’opinionepubblica religiosa e politica europea, l’irreversibilità della frattura.

Certo, la riproposta, di natura prevalentemente emotiva, d’una glo-bale identificazione dell’Anticristo con la Chiesa romana poteva avereuna maggiore efficacia – come a Cremona pensava Giacomo Susio e neiGrigioni il Vergerio – tra le file del movimento eterodosso italiano, chevedeva rispecchiate le proprie aspettative di riforma in una visione più omeno chiara di quanto era stato attuato e di quanto tuttora avveniva ol-tralpe. Come è risaputo, il movimento era numericamente consistente,ma dottrinalmente e organizzativamente fragile. In esso, il grado di coe-sione di scelte e di orientamenti dottrinalmente difformi dalla tradizioneo risolutamente avversi alla tradizione dipendeva molto spesso dalla più omeno sommaria convinzione che tutto ciò cui si era voltato le spalle co-stituiva una realtà da distruggere in quanto nata o escogitata «in synagogadiaboli». Era ciò che gli stessi inquisitori potevano sentirsi dire diretta-mente o a proposito di uomini d’ogni ceto sociale: da un popolano mila-nese o da un girovago libraio bresciano o da un prete udinese dalla giovi-nezza movimentata, o a proposito d’un podestà del contado modeneseche (si diceva) «subvertebat rusticos» e sosteneva che «papistas omnes an-nihilandos», oppure a proposito d’un giovane dottore di legge di forma-zione padovana, che a Venezia andava mostrando allusivamente le im-magini che illustravano gli pseudogioachimitici Vaticinia de summis pontifi-cibus; 6 e così via. Come dimostra il caso dell’utilizzazione di temi della

6 Il popolano milanese è Damiano d’Angera, garzone di fabbricanti di velluto prima aMilano (1553), poi a Reggio, a Modena (1554), a Venezia e infine di nuovo a Modena, do-ve venne processato nel 1562. Alla consueta domanda dell’inquisitore se avesse mai parlato«de rebus fidei» rispose: «Se io avessi il Testamento novo latino o vulgare, ch’io ho letto, iosaprei dir quello ch’io ho detto». Nello stesso interrogatorio del 3 aprile, dichiarò che «el Pa-pa è satanasso et che l’ho ritrovato in le Scripture et che li preti et frati sono satanassi et chetutto provaria per le Scripture, et che li Lutherani sono uomini da bene» (Modena, Archiviodi Stato, Fondo Inquisizione, busta 3, Processi 1557-1563, fasc. «Damiano de Angleria»). Il li-braio bresciano è Giovanni Giacomo Tabita, processato a Modena nel 1555. Nell’abiura, sulpunto «de ecclesia» dichiarò «quod sit invisibilis, ex praedestinatis» e a proposito della Chiesaromana «quod non sit vera, sed synagoga diaboli» (ibid., busta 3, «Liber sextus», Processi1550-1561, c. 156r). Sulla già nota figura del prete udinese Giovanni Battista Clario vedi

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II - ANTICRISTO E CHIESA ROMANA

tradizione gioachimita, queste configurazioni della Chiesa romana comeuna gigantesca «anatomia Antichristi» attingevano anche alla letteraturaapocalittica nelle forme più varie in cui essa ebbe voga in Italia nei primidecenni del Cinquecento. Tuttavia, rispetto alle forme antiche e recentidella letteratura apocalittica d’origine colta o di carattere e destinazionepopolari, la caratteristica distintiva di quelle configurazioni diabolichedella realtà ecclesiastica consisteva nel fatto che ora esse non tanto eranovòlte a suscitare aspettative quanto a descrivere una realtà già attuata e dademolire. Come vedremo, i contemporanei non sottovalutarono il nessotra queste figurazioni sataniche delle strutture ecclesiastiche e – per rima-nere nel genere di letteratura di cui ci stiamo occupando – quel misto diderisione, di ironia e di sarcasmo con cui il genere dell’invettiva anticle-ricale e il genere meno innocuo della letteratura pasquillesca avevanosgretolato l’immagine dell’istituzione e delle sue tradizioni. Dalle critichedell’invettiva anticlericale e dal dileggio della letteratura pasquillesca allecomplessive configurazioni della Chiesa come costruzione diabolica ilpassaggio non era stato né era, di per sé, necessario. Ciò che lo rese pos-sibile fu la mutuazione più o meno schematica – cioè a livelli molto va-riabili di consapevolezza degli obiettivi e delle conseguenze – di dottrinegiunte in Italia grazie a una circolazione notoriamente dilagante del librod’oltralpe. Il problema storico della cosiddetta «Riforma in Italia» è l’i-dentificazione e la descrizione di queste variabili forme di consapevolezzacon cui, per un cinquantennio, uomini d’ogni strato sociale ritennero –secondo una gradazione articolatissima di lucidità e di impegno attivo –di poter demolire o trasformare o riformare o ritoccare le strutture e leforme che la società cristiana aveva assunto in Italia. Più avanti tenteremo– mediante riferimenti a casi individuali e a qualche gruppo, momento e

LUIGI FIRPO, Ricerche campanelliane, Firenze, Sansoni, 1947, pp. 28-32, 310-318 (su documen-ti veneziani), e LUIGI DE BIASIO, L’eresia protestante in Friuli nella seconda metà del secolo XVI,«Memorie forogiuliesi», LII, 1972, pp. 142-146 (su documenti udinesi). Il podestà di Baisi,Girolamo Fogliano da Formigine, processato nel luglio del 1555, ricavava le sue idee sullaChiesa e sul papato da assidue letture di libri eterodossi (Modena, Archivio di Stato, FondoInquisizione, busta 3, Processi 1550-1565, fasc. «Girolamo Foiano de Formigine»). Il diffondi-tore dei Vaticinia pseudogioachimitici era Francesco Regolo da Sebenico (Venezia, Archiviodi Stato, Sant’Ufficio dell’Inquisizione, busta 11, fasc. «Francesco Regolo», costituto del 6 set-tembre 1553, c. 44v: «Lui mi mostrò un certo libretto del beato Joachim in el qual ghe erade’ stemi stampati delli pontefici con de’ sparvieri in mano et chi de loro era a chavalo etchi aveva le chiavi in mano et chi una cosa et chi un’altra. Et ve dirò la pura verità, chequelle cose me dispiacevano, perché le mi pareva cosa vittuperosa et contra la giesa. Do-mandato che cosa diceva el dito Francesco sopra el dito libro, respose: el diceva che questecose erano profezie»).

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ambiente significativi – un’analisi della diversa ampiezza con cui la meta-fora dell’Anticristo veniva applicata alla realtà ecclesiastica e, di riflesso espesso esplicitamente, alla società che vi si modellava. Sostituire, come èstato proposto recentemente, questa analisi con l’assunzione d’un generi-co criterio «della persecuzione e della sofferenza» in base al quale «delimi-tare l’area della Riforma», significa proporre un’evasiva stravaganza me-todologica.7

Ma intanto Cremona, Udine, Brescia, Modena ... non erano Zurigo.Qui, di fronte all’offensiva del concilio, una chiesa teologicamente auto-revole, dalle strutture ormai solide e dai contenuti dottrinali peculiarissi-mi, poteva apprestarsi valide difese solo mediante una chiara messa apunto delle ragioni di principio che l’avevano spinta a dissociazioni irre-versibili. Era un’urgenza che, al di là di Zurigo, investiva tutte le nuoverealtà ecclesiastiche emerse dalla rivolta contro Roma, e ancor più dovela complessità della situazione e delle pressioni politiche poneva il pro-blema della partecipazione al concilio. A Wittenberg, a questa urgenza sirispose con la Confessio Saxonica: un documento che Melantone, che loscrisse, e gli esponenti di tutte le Chiese sassoni, che lo sottoscrissero,vollero privo di ogni esitazione nella riconferma intransigente della vali-dità del proprio patrimonio dottrinale, e solenne nel dichiarare, più chedi fronte al concilio di fronte alla posterità, le ragioni dello strappo pro-clamato ormai come definitivo («Necesse est nos etiam ad posteros relin-quere publica testimonia [...], ne posteritas de nobis secus iudicet»); maanche documento nel quale è solo apparentemente sorprendente il fattoche, a soli sei anni dall’ultima e più violenta raffigurazione della Chiesaromana come incarnazione dell’Anticristo pubblicata da Lutero, vi fosse-ro abbandonati le figurazioni e i toni apocalittici che avevano predomi-nato nella pubblicistica antiromana del trentennio precedente. A Zurigo,

7 Mi riferisco a quanto si legge in SILVANA SEIDEL MENCHI, Erasmo in Italia, 1520-1580,Torino, Bollati Boringhieri, 1987, p. 23. Su questo libro dovrò tornare altrove, prevalente-mente attraverso confronto tra la documentazione già a mia conoscenza e le conclusioni chene sono state tratte. Quanto alla «sofferenza», in base alla quale si dovrebbe «delimitare l’areadella Riforma», sarà opportuno ricordare che né il raffinato protonotario apostolico PietroCarnesecchi – che all’alba del 1o ottobre 1567 un osservatore fededegno vide presentarsi al-l’appuntamento del rogo «tutto attillato, con la camicia bianca, con un par di guanti e unapezzuola bianca in mano» – né quegli anabattisti veneti che preferivano rimanere nelle car-ceri veneziane per farvi propaganda delle loro dottrine tra gli altri detenuti, né DomenicoScandella detto Menocchio (e, ovviamente, neppure Silvio Pellico e Antonio Gramsci ...)chiedono agli storici di risolvere l’interpretazione delle loro vicende in termini di «sofferen-za»: insomma, questa non è storia alla quale si possa guardare come a un deposito di vicendepersonali e di eventi sui quali esercitare un poco pudico gusto del patetico.

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l’equivalente della Confessio delle Chiese sassoni fu un contemporaneoopuscolo di Bullinger, che già solo dal titolo rivela le intenzioni dell’au-tore e le preoccupazioni del momento: Antithesis et compendium evangelicaeet papisticae doctrinae: unde nullo negotio quivis intelliget quantum inter se hodiepartes distent et quid partium quaelibet vel probet vel improbet.8 Al di là d’unasimile messa a punto, tutto ciò che Bullinger era disposto a dire nelle sueomelie era – come, per l’appunto, fece nel gennaio del 1551 – che ilconcilio non cercava la verità secondo Scritture, ma mirava a confermaregli errori di Roma.9 Certo, Bullinger non rimase indifferente alle reazio-

8 Heinrich Bullinger, Bibliographie cit., I, nn. 239, 241, pp. 217-218. Una più tarda edi-zione (1560), messa a stampa non si sa dove né da chi, altera sostanzialmente la struttura e leintenzioni originarie del libretto, aggiungendo una Declaratio de praestantissimis Christi et An-tichristi moribus cuiusdam viri pii et fidelis. Per gli anni anteriori, l’attenzione di Bullinger ai di-battiti conciliari è dimostrata dal contributo che egli diede alla stampa degli Acta concilii Tri-dentini curata da Francisco de Enzinas (Dryander): Acta concilii Tridentini, anno MDXLVI cele-brati: Una cum annotationibus piis et lectu dignissimis. Item ratio cur qui Confessionem Augustanamprofitentur non esse assentiendum iniquis concilii Tridentini sententiis iudicarunt: per Philippum Me-lanchthonem, [Basilea, Oporino], 1546. Sul pregio testuale delle copie dei primi decreti tri-dentini fornite da Bullinger a Dryander vedi HUBERT JEDIN, Storia del concilio di Trento, II,Brescia, Morcelliana, 1962, p. 363, che tuttavia ignora la già nota attribuzione della stampadegli Acta a Dryander (cfr. EDUARD BOEHMER, Francisci Dryandri Hispani epistolae quinquaginta,«Zeitschrift für historische Theologie», XL, 1870, pp. 395, 396, 398 sgg.). Il polemicoDryander tratta con notevole obiettività, nelle Annotationes, la materia dei decreti, certamen-te per influenza di Bullinger, col quale aveva avuto conversazioni al riguardo a Zurigo.

9 È significativo che il testo latino e tedesco di questa omelia rimanesse inedito fino alSettecento (cfr. Heinrich Bullinger, Bibliographie cit., I, nn. 229-230, p. 114). Circolò, invece,in una sconosciuta traduzione italiana del Vergerio, messa a stampa a Caspano nell’aprile del1551 (ibid., n. 228, p. 113). Le aggiunte del Vergerio («Scripsisti tu in hoc genere ea quae exexperientia rerum Germanicarum nosti; addidi ego ea quae ex Romanae curiae experientianovi») dipesero da iniziativa indipendente dalla volontà di Bullinger (cfr. Bullingers Korre-spondenz mit den Graubündnern, hg. von TRAUGOTT SCHIESS [Quellen zur Schweizer Geschich-te, 23], Basel, Adolf Geering, 1904, I, pp. 193-199). Iperbolicamente, Vergerio attribuivaalla diffusione delle sue raffigurazioni dell’Anticristo un’influenza decisiva sull’andamento delconcilio: «Quum Antichristus – scriveva a Bullinger a proposito della stampa dell’omelia dalui rimaneggiata e messa a stampa – concilium adornet veluti quoddam propugnaculum [...]certe evertimus illi a fundamentis quicquid cotidie edificat, quum passim huiuscemodi libel-los evulgamus» (ibid.); e ancora ai primi di maggio: «Tua demonstratio iam sparsa est magno,quod certo rescivi, illius bestiae dolore. Sed insaniat et fremat; nam propediem interficietur»(ibid., p. 200). L’annotazione di Bullinger nel suo diario non esprime al riguardo reazioned’alcun genere (Diarium de Jabre 1504-1574, hg. von EMIL EGLI [Quellen zur Schweizer Ge-schichte, 2], Basel, Adolf Geering, 1904, pp. 39-40). Non sappiamo se Bullinger fosse alcorrente della volontà di Vergerio di presentarsi al concilio (FRIEDRICH HUBERT, Vergerios pu-blizistische Thätigkeit nebst einer bibliographischen Übersicht, Göttingen, Vandenhoeck und Ru-precht, 1893, pp. 121-122).

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ni della Confederazione contro il libro di Gwalther.10 Ma è anche certoche egli ritenne inattuale il punto di vista di Gwalther secondo il quale,quando l’Anticristo incalza – come avveniva con l’apertura del concilio enell’imminenza dello scontro tra l’imperatore e la lega di Smalcalda – «al-l’hora hassi a suonar fortemente la tromba [...] bisogna eccitar gl’huominialle arme»: 11 insomma, una forma di pubblicistica che agli occhi di Bul-linger non poteva che risultare evasiva, nel momento in cui urgevanoapprofondimenti dottrinali e riaffermazione dei princìpi. Tutto ciò sem-brò a Gwalther un modo di disertare il campo della lotta, seguìto da uninutile proliferare di dispute condotte da «theologi gonfiati e poco menche serafici»: l’Anticristo incalza – diceva – e «eglino fra tanto sono mira-bilmente industriosi et s’affaticano in travagliare qualche misero fratuccioet sacerdotuccio, et così si compiacciono et insuperbiscono a maravigliase per avventura esce della lor bocca qualche bel detto, nuovo, mordace[...], ma non consentono che il capo et prencipe di costoro sia offeso».12

Sarebbe superfluo seguire qui le reazioni che il libro di Gwalther suscitòa Zurigo tra il 1546 e il 1550: se è vero che per un momento esso costi-tuì un problema politico, un motivo di turbamento dei rapporti tra laConfederazione e la Chiesa di Zurigo, è pur vero che la prefazione do-cumenta sufficientemente l’anteriore e forte disparere degli ecclesiasticipiù autorevoli sul genere stesso di pubblicistica antiromana che Gwaltherproponeva. Qui basterà prendere atto che fu proprio Bullinger a impedi-re che la traduzione del Susio venisse stampata a Zurigo e poi a opporsial trasferimento in Italia del libro già stampato a Basilea. Oswald Myco-nius, il teologo basileese che ci informa di ciò, scrisse a Bullinger che era

10 Alla data del 29 gennaio 1547, Bullinger annota nel suo Diarium cit., p. 34: «Re-spondimus, Gualterus et ego, ad accusationem Quinquepagicorum super edito Antichristo,idque fecimus coram diaconis». Frequenti riferimenti alla lunga controversia tra la Confede-razione e la Chiesa di Zurigo sono nelle delibere della Confederazione dal gennaio 1547 al12 settembre 1548 (cfr. Eidgenössische Abschieden, Zürich, Band 4, 1d, 1882, pp. 758, 775,794, 799, 830, 834, 876, 889, 1021). Le discolpe di Gwalther indirizzate alla Confederazio-ne sono del 29 gennaio e del 28 maggio 1547 (Zurigo, Staatsarchiv, E. II. 440, cc. 341-343,344-345: Rudolf Gwalthers Verantwortung wegen der Vorwürfe gegen sein Büchlein vom Antichrist;per queste notizie devo vivi ringraziamenti al Dr. Ulrich Helfenstein, direttore dello Staats-archiv di Zurigo). In una lettera a Gwalther da Losanna, del 1o marzo 1547, Pierre Viret sidice molto preoccupato delle conseguenze che il contrasto aveva avuto a Zurigo (Zurigo,Zentralbibliothek, F. 41, c. 56r: «Mihi dolet quod audiam te tam cito experiri quod de eoscripsisti. Nam hic rumor est tibi ob huius libelli editionem gravissimas non solum tibi, sedtoti vestrae civitati huius opera turbas esse excitatas»).

11 L’Antichristo cit., p. A8r.12 Ibid., p. A7v.

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giusto il parere di Vergerio, secondo il quale niente c’era da sperare dalnuovo papa, e che, impedendo che l’Antichristus di Gwalther venisseportato a conoscenza degli italiani, lui, Bullinger, aveva finito con l’im-pedire che venisse portato alla loro conoscenza l’Anticristo stesso e «eiusmysterium», cioè la connivenza e l’appoggio dell’imperatore, di re eprincipi, dei quali esso si giovava.13

Neppure sul tema più idoneo a «eccitar gl’huomini alle arme» Gwal-ther riuscì a suscitare emozioni e a riscuotere consensi. Scritto quandogià si sapeva imminente l’attacco degli eserciti imperiali contro la lega diSmalcalda, il libro si diffonde nella descrizione delle rovinose turbolenzeseguite ai contrasti tra principi e tra città della Germania. Gwalther saprovocare la concentrazione del lettore sulla gravità del momento con-trapponendo, come in un fortissimo chiaroscuro, la situazione presenteagli eventi degli ultimi decenni. Dopo che «la parola dell’Evangelio» furivelata «da venticinque et più anni ai popoli di Germania», l’essenzialeera stato raggiunto: la tirannide dell’Anticristo era stata smascherata; la

13 Il 12 aprile 1550, quando ancora era all’oscuro dell’intervento di Bullinger presso leautorità basileesi, Myconius gli scrisse: «Casu hodie accepi conciones Gualtheri contra Anti-christum versas esse Italice et hic impressas, ut mittantur in Italiam; proditorem quemdamrem indicasse magistratui atque hodie de hoc consultatum. Quid vero statutum adhuc ne-scio» (Zurigo, Staatsarchiv, E. II. 336a, c. 326r; cfr. CARLOs GILLY, Spanien und der BaslerBuchdruck bis 1600. Ein Querschnitt durch die Spanische Geistesgeschichte aus der Sicht einer euro-päischen Buchdruckerstadt, Basel und Frankfurt, Helbing und Lichtenhahn, 1985, p. 339, nota230). È decisiva per il chiarimento dell’episodio la lettera che lo stesso Myconius scrisse aBullinger il 1o maggio successivo: «Comitiis futuris stupendum Caesaris consilium circum-fertur, nempe quod in animo sit omnes, qui ipsius non receperint Interitum [rectius: Inte-rim], excommunicare, eos autem qui receperint et non apte observent bello petere. Quod siverum est, ausim proclamare tyrannum qualis non fuit ab initio mundi. Quamobrem pie fac-tum fuisset, si Antichristum Gualtheri Italice versum et hic impressum in lucem venire non prohibuis-ses, si non Antichristus solus potuisset agnosci, sed etiam eius mysterium: caesares, reges,principes etc. [...] Papa novus scribit concilium se facile laturum, modo sedis Romanae nonsugilletur, sed maneat incolumis. Hic si Caesar vel micam haberet sapientiae coelestis, imo sihumano more sapiens foret, an non deberet nosse Papam esse diabolum, postquam tot suntmala sedem istam deturpantia? Sed coecus fertur ut equus furibundus usque dum praecipi-tem se dabit aliquando [...] Quamobrem non temere nuper Vergerius: Non est quod speresde Papa novo aliquid boni» (Zurigo, Staatsarchiv, E. II. 336a, c. 227r; il corsivo è sottoli-neato nel testo). Da Losanna, Pierre Viret si espresse con presupposti analoghi. Ma alla ri-chiesta di Gwalther di procurare una traduzione in francese dell’Antichristus rispose: «Scribesde exitu tragoediae tibi et vestrae ecclesiae excitatae huius libelli, ut audio, causa. Deindematurius deliberabitur de versione» (Zurigo, Zentralbibliothek, F. 41, c. 56r). La traduzionepromessa da Viret venne pubblicata a Ginevra solo dodici anni dopo, nel 1559 (PAUL CHAIX,ALAIN DUFOUR, GUSTAVE MOECKLI, Les livres imprimés à Genève de 1550 à 1600, Genève,Droz, 19662, p. 39).

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nuova dottrina aveva mandato in rovina «tutta quella fabbrica dell’Anti-cristianesmo», e «a guisa di fumo» erano scomparsi «li terrori delle con-scientie».14 Il cammino non era stato privo di ostacoli, ma la verità avevaprevalso. Erano state vane le rabbiose reazioni dell’imperatore, di papi, ree principi potentissimi: «Volevano tagliar la tenerella biada dell’Evange-lio», e invece li «habbiamo noi veduti azzuffati insieme et tra sé consu-mati horribilmente».15 Ma le cose sono mutate: «Hora quei medesimi cistanno con le spade sul collo [...], hora rimescolano ogni cosa di incendiet di uccisioni».16 E gli effetti sono ormai palesi: la tirannide dell’Anticri-sto finora s’era rivolta contro i singoli cristiani; ora i suoi stratagemmi ele sue violenze si rivolgono «contra potentissimi principi, contra famosis-sime città», e già si vede «tutta la Germania ardere del suo fuoco».17 «Ri-svegliamoci, adunque, fratelli» ecc.18 Anche su questo punto è lo stessoGwalther a registrare il parere contrario di quanti dicevano che c’eranogià abbastanza disordini, discordie, tumulti. Gli si rispondeva: «Che giovaporre il fuoco nella fornace et l’olio sul fuoco?».19 Nel luglio del 1547, inun solenne rito pubblico indetto «propter bellum Germanicum a Caesarecontra foedus Protestantium susceptum», Bullinger diede inizio al com-mento della profezia di Daniele; ma non pubblicò mai queste omelie, semai altre ne tenne, in quel contesto emotivo, oltre quella di cui parla nelsuo diario.20

Tra i teologi di Zurigo che svalutavano i moduli pubblicistici predi-letti da Gwalther, un’eccezione sembrerebbe essere rappresentata daTheodor Bibliander. Ma è un’eccezione solo apparente. Attorno al 1550,nessuno quanto questo già maturo e prestigioso teologo scrisse sul temadell’Anticristo. Figura tra le più importanti, insieme col suo maestro ecollega Konrad Pellikan, del mondo culturale e religioso zurighese delCinquecento, Bibliander guardava, come si sa, all’Oriente: razionalista,per un momento si lasciò affascinare persino dai sogni di Postel e dallesue visionarie assicurazioni che v’era colà un gran pullulare di «semichri-stiani», di «nicodemisantes innumerabiles», che con inconscia impazienza

14 L’Antichristo cit., p. B3r-v.15 Ibid., p. B3v.16 Ibid.17 Ibid., p. A6r.18 Ibid., p. A6v.19 Ibid., p. A7r-v.20 HEINRICH BULLINGER, Diarium cit., p. 34.

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attendevano il messaggio cristiano.21 Ha, in parte, radici in questi fervorivisionari persino ciò che negli scritti di Bibliander si riesce a intravederedi un incipiente comparatismo tra religioni.22 In generale, a chi, prima edopo gli appelli del genere di quello di Gwalther, riduceva ogni prospet-tiva di riforma al solo esito dello scontro con Roma, queste visioni ne-cessariamente dovevano apparire evasive: tali erano apparse, come vedre-mo, a Lutero e ben presto sarebbero apparse evasive a Zurigo nella ver-sione che ne proponeva Postel.23 Qui interessa che in questa diversa di-mensione dell’orizzonte religioso di Bibliander la nozione di Anticristonecessariamente conservava le molteplici valenze antiche: designava laChiesa romana, ma poteva ancora designare il Turco o l’imperatore, op-pure, all’occorrenza, una combinazione di queste tre realtà. Nel papa,Bibliander è tentato di vedere – con un termine proprio della specula-zione apocalittica antica – l’«Antichristus ultimus».24 Ma, al di là di questafigurazione apocalittica conclusiva della successione dei tempi nei qualiSatana aveva operato e continuava a operare nel mondo, l’investitura delpapa come Anticristo aveva negli scritti di Bibliander un significato di-verso da quello che assumeva nel libro di Gwalther. Come Gwalther,anche Bibliander era convinto che la conoscenza dell’Anticristo andavaapprofondita: «Investigemus – scriveva – quia tempus et salus omniumpostulat».25 Ma, a differenza di Gwalther, Bibliander non ne deduceva in-citamenti a escogitare modi e forme con cui «eccitar gl’huomini alle ar-me», né in senso proprio né in senso metaforico. Nel 1553, in un’Oratiode restituenda pace in Germanico Imperio, Bibliander incitò, sì, città e princi-pi della Germania a espellere l’Anticristo; ma ciò dicendo, intendevaproporre loro la promozione d’un rivolgimento culturale negli animi enelle menti: diceva che non era vero che l’incivilimento culturale della

21 Vedi più avanti, pp. 449-452, 457-458. Su Bibliander l’unico studio complessivo è:EMIL EGLI, Theodor Bibliander, «Analecta reformatoria», II, 1901, pp. 1-166. È ricco di nuoveindicazioni il capitolo «Bucer et Bibliander» in J. V. POLLET, Martin Bucer. Études su la corres-pondance, Paris, Presses Universitaires de France, II, 1962, pp. 309-334, in part. pp. 324-326,dove, per quanto riguarda l’Anticristo, sono trascurati gli aspetti che qui, invece, vengonosottolineati.

22 Sull’argomento tornerò altrove.23 Vedi più avanti, pp. 454-461.24 RUDOLF PFISTER, Das Türkenbüchlein Theodor Biblianders, «Theologische Zeitschrift»,

IX, 1953, p. 447.25 Ad illustrissimos Germaniae principes et Optimates liberarum atque Imperialium civitatum:

Oratio Theodori Bibliandri de restituenda pace in Germanico Imperio caeterisque politicis: deque conser-vandis sacris et civilibus hominum coetibus quos turbare studet improbus hostis Antichristus, Basileae,per Ioannem Oporinum, 1553, p. 53.

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Germania era provenuto da Roma; asseriva con convinzione che i piùlontani antenati dei principi e di quanti ora sedevano nei consigli cittadi-ni erano stati essi i primi a istituire accademie; ed era pur nata in Germa-nia l’arte della stampa; osava persino suggerire che una tale opera di ri-fondazione culturale del «regnum Christi» avrebbe portato giovamentoanche a Roma.26 Del resto, Bibliander era dell’opinione che, se il papaincarnava l’Anticristo, tuttavia esso non era più una forza satanica temibi-le per la rettitudine della dottrina; la consapevolezza di far parte d’unarealtà ecclesiastica separata ma già saldamente radicata, gli dava persinol’agio di affermare che gli effetti della Riforma erano ormai visibili anchea Roma, dove gli stessi pontefici ora giudicavano, parlavano e scrivevanodelle cose della Chiesa in modo diverso da come avveniva quarant’anniprima e da come era avvenuto nei secoli precedenti.27 È significativo che,nel compendiare il suo noto libro contro il concilio (Amplior consideratiodecreti synodalis Tridentini, 1551), Bibliander insistesse sulla necessità dicontrapporre a scontri e violenze verbali la più feconda opera di rimo-zione dell’ignoranza, che Bibliander riteneva la vera causa dello smarri-mento nel quale era caduto il mondo cristiano; ma ciò doveva presup-porre unicamente «notitiam rerum divinarum, quae habet rationem nontrucidandi, sed docendi».28 La guerra, in una qualsiasi delle forme teoriz-zate fino a quegli anni («guerra santa», «guerra giusta» ecc.), sia tra cristia-ni sia contro non cristiani, era estranea all’orizzonte mentale di Biblian-der. Nel 1553 – cioè l’anno stesso in cui s’era rivolto ai principi e allecittà tedeschi – con la pubblicazione di una delle sue opere più suggesti-ve, il De fatis monarchiae Romanae somnium vaticinum Esdrae prophetae, Bi-bliander impresse alla pubblicistica antiromana sull’Anticristo una svoltaclamorosa, alla quale non si conoscono (o almeno io non conosco anco-ra) le reazioni dello stesso mondo teologico zurighese.29 Ci aspetteremmo

26 Ibid., p. 82.27 THEODORI BIBLIANDRI De legitima vindicatione Christianismi veri, Basileae, ex officina

Ioannis Oporini, 1553, pp. 17-18: «Ipsi Romani pontifices aliter nunc iudicant, aliter lo-quuntur, aliter scribunt de rebus ecclesiae quam ante annos quadraginta et retro saeculis ali-quot sit factum». Cfr. MARTIN STEINMANN, Johannes Oporinus cit., pp. 74-75.

28 Vedi Briefwechsel der Brüder Ambrosius und Thomas Blaurer, bearbeitet von TRAUGOTT

SCHIESS, Freiburg i. Br., II, 1910, p. 138, lettera ad Ambrosius Blaurer, del 19 settembre 1551.29 De fatis monarchiae Romanae somnium vaticinum Esdrae prophetae: quod Theodorus Bi-

bliander interpretatus est, non coniectatione privata, sed demonstratione theologica, historica et mathe-matica, Basileae, [Oporinus, 1553]. Il rimando all’Oratio de restituenda pace in Germanico Impe-rio, a p. b 4v, indica chiaramente la connessione tra le due opere. Faccio uso dell’esemplaredella Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Raccolta Guicciardini, 2-3-13.

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II - ANTICRISTO E CHIESA ROMANA

(noi e probabilmente molti lettori coevi, a Zurigo e altrove) pagine riso-nanti di invettive nello stile con cui per primo Lutero aveva descritto la«monarchia romana» come la prima causa e insieme l’esito ultimo dell’o-pera corruttrice dell’Anticristo. Il libro si apre, invece, con una lunga de-dica «Ad Iulium III et caeteros ecclesiae Romanae praesides», nella qualevengono argomentate ampiamente le ragioni dell’invito a concorrere aun’iniziativa missionaria verso i popoli ancora lontani dal cristianesimo eper l’instaurazione della pace universale.30 L’orizzonte al quale Biblianderguarda non ha confini. La comune predicazione si sarebbe dovuta rivol-gere «ad Iudaeos et Mahumedicos, Turcas, Tartaros, Saracenos et aliasgentes»: 31 il messaggio che proveniva dalla profezia di Esdra era sufficien-temente autorevole per spingere tutti i cristiani a intraprendere concor-demente ciò che, inascoltati, avevano già suggerito Giovan Francesco Pi-co della Mirandola, Reuchlin, Lutero, Zwingli, Ecolampadio.32 Biblian-der poneva una sola condizione: che la Chiesa romana la smettesse diguardare con intolleranza alle altre Chiese cristiane: «Quare vos etiam ae-quiore animo ferre decebat aliarum Christi ecclesiarum iudicia et memi-nisse illius vulgaris versiculi: qui quae vult dicit, quae non vult audiatidem».33 Significativamente, il «vulgaris versiculus» è tratto dagli Adagia diErasmo.34 E la nozione di Anticristo qui non designa più alcuna realtàistituzionale: l’Anticristo torna a essere l’impersonale potenza del male,che in questo caso opera allontanando dalle verità del cristianesimo po-poli e stirpi. Visibilmente, questi scritti di Bibliander documentano il

30 Ibid., pp. a 2r-a 4v: «Ad Iulium III et caeteros ecclesiae Romanae praesides conside-ratio de Iudaeorum et Christianorum defectione a Christo et ecclesia et fide catholica: item-que de Iudaeorum et Christianorum conversione ad Christum Iesum et ecclesiam Dei sanc-tam ac fidem catholicam». A p. a 2r-v: «Proinde res ipsa clamat me vestram salutem quaerereet solidam gloriam et ecclesiae Romanae totius incolumitatem, puto aequissimum esse utstatuatis haec a me scripta esse et vobis ante alios omnes oblata, sique manusculum nonaspernamini, nuncupata et dedicata vobis non ex odio et malevolentia aut insolentia, sed exanimo cupido provehendi notitiam Christi servatoris et gloriam necnon ecclesiae Dei sanc-tae incolumitatem, pacem, decus et singulorum Christianorum, Mahumedicorum, Iudaeo-rum, Paganorum, quantum a me per Domini bonam voluntatem et opem fieri possit, aeter-nam et temporariam salutem».

31 Ibid., p. b 4r.32 Ibid., p. b 1r.33 Ibid.34 DESIDERI ERASMI ROTERODAMI Opera omnia, Lugduni Batavorum, curis et impensis

Petri Vander, II, 1703, pp. 36F-37A.

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ANTONIO ROTONDÒ

massimo di decantazione del genere di pubblicistica antiromana fondatasull’equivalenza Anticristo-papato. Ma, sia pure in forma tendenziale,questa decantazione si avverte anche negli scritti di Bullinger, uomo noncerto trasgressivo, come Bibliander era sempre sul punto di divenire, escettico verso le prospettive semivisionarie del genere di quelle di Bi-bliander. Nelle cento omelie sull’Apocalisse pubblicate nel 1557, Bullin-ger riconduce l’analisi del testo dall’«esegesi attualizzata» – secondo l’e-spressione appropriata con cui Hans Dieter Rauh ha caratterizzato aspettidel pensiero escatologico di Gerhoch von Reichersberg 35 – alla profeziadell’imminenza della fine dei tempi: con soddisfazione di Calvino e deiginevrini, l’Anticristo romano tornava ad avervi rilievo; ma Bullinger sa-peva bene che degli «omnes per Germaniam et Helvetiam Galliae, An-gliae, Italiae aliorumque regnorum vel nationum nomine Christi exules»,ai quali il libro era dedicato, in realtà non tutti erano esuli per responsa-bilità romane.36 Pochi anni dopo, con sessantasei omelie su Daniele, pub-blicate nel 1565, ma pronunciate a partire dal 1562, cioè nel clima del-l’imminente esplosione delle guerre di religione annunciata dall’eccidiodi Vassy, Bullinger intese spiegare ai predicatori quale uso essi dovevanofare del libro di Daniele e quale fosse l’utilità che poteva trarsi da uncommentario di esso: ma visibilmente Bullinger guardava ora a una mol-teplicità di realtà pericolose, nelle quali l’Anticristo operava subdolamen-te; e la magra silloge dei luoghi biblici addotti da Bullinger a sostegnoanche dell’identificazione dell’Anticristo con la Chiesa romana risultapiuttosto convenzionale.37

35 HANS DIETER RAUH, Das Bild des Antichrist im Mittelalter: von Tyconius zum deutschenSymbolismus (Beiträge zur Geschichte der Philosophie und Theologie des Mittelalters. N.F,Bd. 9), Münster, Aschendorff, 1973, p. 437 sgg.

36 In Apocalypsim ... conciones centum, authore Heinrycho Bullingero, Basileae, per IoannemOporinum, 1557. Sulle difficoltà che la censura basileese oppose a Oporino per la stampa dellibro vedi MARTIN STEINMANN, Johannes Oporinus cit., pp. 89-90. Sulle reazioni favorevoli diGinevra vedi ANDRÉ BOUVIER, Henri Bullinger réformateur et conseiller oecuménique, le successeurde Zwingli, d’après sa correspondance avec les réformés et les humanistes de langue française, Neuchâ-tel, Delachaux, Paris, Droz, 1940, pp. 184-187, e per le quattro edizioni ginevrine in fran-cese PAUL CHAIX, ALAIN DUFOUR, GUSTAVE MOECKLI, Les livres imprimés à Genève cit., pp. 33-34, 58, 61. È una delle opere più diffuse di Bullinger: sulle otto edizioni in latino e sulleventun edizioni in francese, tedesco, inglese e olandese vedi Heinrich Bullinger, Bibliographiecit., I, nn. 327-356, pp. 155-168.

37 Daniel sapientissimus Dei propheta, qui a vetustis polystor, id est multiscius, est dictus, expo-situs homeliis LXVI ..., authore Heinrycho Bullingero, Tiguri, excudebat C. Froschoverus, 1565.Dichiaratamente, Bullinger non intende dare un commentario esegetico, ma scrive perché«omnibus in ecclesia docentibus commonstratur quomodo perspicue, iusto ordine et cum

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II - ANTICRISTO E CHIESA ROMANA

Da quando Rudolf Gwalther aveva proposto il rilancio d’una formadi pubblicistica esasperatamente incentrata sull’identificazione dell’Anti-cristo con la Chiesa romana, erano passati solo pochi anni. Evidentemen-te, sono i mutamenti della prospettiva storica generale, e non la sola ana-lisi interna di questo genere cupo di letteratura religiosa, a fornire le ra-gioni per cui l’equivalenza papato-Anticristo divenne sempre meno oaddirittura cessò (come nel caso di Bibliander) di essere l’unico ed essen-ziale nucleo emozionale della pubblicistica antiromana. Una, forse la piùdecisiva, di queste ragioni fu l’apertura e poi lo svolgimento del conciliofino alla conclusione della sua seconda fase trentina: il fallimento del con-fronto diretto con gli evangelici e i protestanti approfondì la frattura, maconsolidò la coscienza delle alterità e facilitò la comune percezione dellediversità. Come è noto, Paolo Sarpi attribuì al concilio la responsabilitàd’avere «stabilito lo schisma et ostinate le parti»; né, dopo quattro secoli,è ancora del tutto scomparsa la tentazione di dar veste di problema stori-co alla questione degli errori che sarebbero stati commessi da entrambe leparti. In realtà, con le sue ridefinizioni e delimitazioni dottrinali e col la-voro di approfondimento teologico che queste sollecitarono nelle nuovechiese, il concilio contribuì potentemente a razionalizzare la tumultuosae ineliminabile realtà di fratture già avvenute nelle articolazioni politiche,religiose e culturali dell’Europa. E gli storici, in quanto tali, non hannodi che stracciarsi le vesti. L’esistenza, sempre contestata ma riconosciutacome realtà di fatto, d’una molteplicità di chiese con istituzioni, accade-mie e corpi dottrinali autonomi spostò i contrasti sempre di più sul pianodottrinale. È appena il caso di ricordare che l’Anticristo non scomparvedalle elaborazioni teologiche e dai congegni controversistici delle nuovechiese, né come figurazione propriamente apocalittica né come comples-siva rappresentazione della Chiesa romana: è noto quanto teologi e pub-blicisti come Pierre Viret e Lambert Daneau (e i loro confutatori di parteavversa) abbiano contribuito alla formazione e al consolidamento d’unasorta di logica generale dell’antitesi Cristo-Anticristo come contrapposi-zione tra Chiesa romana e mondo teologico ed ecclesiastico emerso dallaRiforma; agli inizi degli anni Ottanta, il teologo William Whitacker nefece argomento di corsi alla Facoltà teologica di Cambridge; e la nega-zione dell’equivalenza Anticristo-Chiesa romana accrebbe l’avversionedei calvinisti verso Grozio; e così via. Ma, una volta delimitato il suo

utilitate populo Dei hic propheta praedicari possit». La data di inizio delle omelie è a p. aa2r.La rapida silloge dei luoghi biblici sul papa come Anticristo è alle pp. 129v-131r.

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campo d’azione (si diceva: «le terre dell’Anticristo») e cessata la sua fun-zione di oppressore dell’intera cristianità, l’Anticristo romano assunse ilvolto dell’ostinato seminatore di errori: divenne – salvo che in emergen-ze tragiche quali, ad esempio, le guerre di religione – una costante, masvigorita iterazione concettuale. Nel frattempo, altre realtà avevano giàcominciato a candidarsi all’investitura di Anticristo. Ad esempio, il pre-coce modulo propagandistico dell’Anticristo nelle vesti di Lutero ripreseuna particolare voga in rapporto ai disegni di conquista cattolica delNuovo Mondo.38 E nell’ultima parte di questo scritto vedremo che il pa-pato, uno dei termini del tradizionale binomio papato-Anticristo, diven-ne, già a partire dal 1550, la designazione metaforica d’ogni genere dipotere oppressivo.

2. Anticristo e papato in Lutero

Una ben diversa capacità di suggestione rivoluzionaria l’identificazio-ne dell’Anticristo col papato aveva avuto agli inizi della Riforma. La di-mensione che questa identificazione finì con l’assumere nel pensiero diLutero nei primi anni della sua ribellione contro Roma è qui un passag-gio obbligato.39

38 Per l’Italia, uno dei primi scritti (se non il primo in assoluto) in cui l’identificazionedell’Anticristo con Lutero è connessa ai disegni missionari verso il Nuovo Mondo è la Brevedichiaratione sopra l’apocalipse de Giovanni, dove si prova esser venuto il precursor de Antichristo etavvicinarsi la percossa da lui predetta nel sesto sigillo, opera a’ fedeli utilissima (colophon: Impressoin Milano per Francesco Cantaloro et Nocento da Cicognera chi sta in Verzero. NelMDXXXVIII. A dì sedece di Novembre). Il nome dell’autore, il canonico regolare latera-nense Serafino da Fermo, è nella sottoscrizione della dedica a Lucrezia Pico Rangoni e a p.78v. Uso l’esemplare della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Pal. x. 3. 1. 25, indica-tomi dal collega Cesare Vasoli, che ringrazio. Bibliografia precedente su Serafino e colloca-zione della Breve dichiaratione nell’apocalitticismo legato al Nuovo Mondo, in ADRIANO PRO-SPERI, America e Apocalisse. Note sulla «conquista spirituale» del Nuovo Mondo, «Critica storica»,XIII, 1976, pp. 1-61, in part. pp. 40-44.

39 Sull’argomento resta fondamentale HANS PREUSS, Die Vorstellungen vom Antichrist imspäteren Mittelalter, bei Luther und in der konfessionellen Polemik. Ein Beitrag zur Theologie Luthersund zur Geschichte der christlichen Frömmigkeit, Leipzig, J. C. Hinrich, 1906, in part. pp. 83-182. In polemica con Preuss, HARTMANN GRISAR-FRANZ HEEGE, Luthers Kampfbilder, I, «Pas-sional Christi und Antichristi». Eröffnung des Bildenkampfer (1521), Freiburg i. B., Herder, 1921,in part. pp. 11-15. Sul periodo più tardo della vita di Lutero, MARK U. EDWARDS Jr., Luther’sLast Battles. Politics and Polemics, 1531-1546, Leiden, Brill, 1983, in part. pp. 33-36, 78-79,109-110, 182-183. Opportune avvertenze sulle deformanti interpretazioni «ecumeniche» alriguardo sono ora in HEIKO A. OBERMAN, Teufelsdreck: Eschatology and Schatology in the «Old»

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II - ANTICRISTO E CHIESA ROMANA

L’equiparazione papato-Anticristo s’era fatta strada nella mente diLutero – non senza qualche riluttanza ad attenuare lo scetticismo con cuiegli aveva sempre guardato alla letteratura apocalittica – già nell’annosuccessivo alla pubblicazione delle Tesi: nel dicembre del 1518, il papa ègià peggiore del Turco.40 Gli si era imposta come un’ammissione libera-toria da dubbi angosciosi alla lettura della Declamatio di Valla nell’edizio-ne di Hutten: un libro del quale Lutero rimase incantato, come scrissePontien Polman sia pure con una punta di ironia storicamente del tuttoimmotivata.41 Poi l’immagine gli si era ingigantita sotto la penna durantei ventun mesi circa intercorsi tra la disputa di Lipsia e la dieta di Worms.La mostruosa rappresentazione dell’Anticristo in vesti pontificali gli si eraingigantita nella mente e negli scritti nella misura in cui si era venutoconvincendo che riforma ed eliminazione delle degenerazioni del costu-me ecclesiastico implicavano necessariamente aperto contrasto con Ro-ma. Al momento della partenza per Worms, questa convinzione nonammetteva più compromessi: indulgenze, papa, concili, pareri delle uni-versità, canoni – scriveva nella risposta ad Ambrogio Catarino – doveva-no considerarsi questioni definitivamente chiuse; con le sue argomenta-zioni ormai Catarino giungeva troppo tardi; che il papa fosse l’Anticristoera ormai una conclusione irrinunciabile («conclusum est papam esse An-

Luther, «The Sixteenth Century Journal», XIX, 1988, pp. 435-450. Molta bibliografia gene-rale in KLAUS AICHELE, Das Antichristdrama des Mittelalters, der Reformation und Gegenreforma-tion, Den Haag, Martinus Nijhoff, 1974, pp. 211-226. È ancora utile la ricerca pionieristicadi MAURICE GRAVIER, Luther et l’opinion publique. Essai sur la littérature satirique et polémique enlangue allemande pendant les années décisives de la Réforme (1520-1530), Paris, Aubier, s.d. (ma1942). Ma sull’argomento, studi recenti innovano decisamente: si cita, per tutti, ROBIN

BRUCE BARNES, Prophecy and Gnosis. Apokalipticism in the Wake of the Lutheran Reformation,Stanford, California, Stanford University Press, 1988. D’ora in avanti, nelle citazioni delleopere di Lutero, farò uso delle sigle WA (Weimarer Ausgabe) e EA (Erlangener Ausgabe).

40 WA, Briefwechsel, I, p. 270, lettera a Wenceslaus Link, del 15 dicembre 1518: «Peio-rem Turcis esse Romam hodie puto me demonstrare posse».

41 WA, Briefwechsel, II, pp. 48-49, lettera a Spalatino, del 24 febbraio 1520. PONTIEN

POLMAN, L’élément historique dans la controverse religieuse du XVI e siècle (Universitas CatholicaLovaniensis. Dissertationes. Series II, t. 23), Gembloux, J. Duculot, 1932, p. 172. L’ironia diPolman deriva dal fatto che egli (seguendo, come del resto tutta la storiografia cattolica deltempo, il Grisar) nega che ci sia stata evoluzione nel pensiero di Lutero sull’Anticristo: «L’i-dée du pape-antichrist n’est pas le fruit mûr d’une évolution pénible de la pensée de Luther:elle n’est somme toute qu’une manoeuvre de sa polémique: l’expression la plus mordante desa haine envers le pape» (p. 173). Il riferimento polemico è a HANS PREUSS, Die Vorstellungencit., pp. 102-119. Ma sull’efficacia che la Declamatio di Valla ebbe in Germania vedi ora l’ec-cellente studio di WALFRAM SETZ, Lorenzo Vallas Schrift gegen die Konstantinische Schenkung: zurInterpretation und Wirkungsgeschichte, Tübingen, Niemeyer, 1975 (per Lutero e, in genere, peril primo Cinquecento, pp. 151-176).

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tichristum»).42 La Responsio a Catarino è datata 1o aprile 1521, cioè ilgiorno precedente la partenza di Lutero per Worms.43

Gran parte della Responsio è un’esposizione dei vv. 23-25 del cap.VIII di Daniele. In essa Lutero non si preoccupa di avvolgere annunciprofetici in ambigue formulazioni oracolari: analizza una realtà nella qua-le la profezia di Daniele è presupposta come già attuata compiutamente.Tuttavia, se in Daniele Lutero legge la previsione d’una realtà che nel pa-pato è già «perfecte impleta [...] ac si post factum descripsisset»,44 signifi-cativamente egli fonda la sua nozione di Anticristo principalmente su IIThess., II, 4: l’Anticristo è colui che si eleverà al di sopra di Dio e neusurperà il posto nel tempio.45 Senza esitare, Lutero attribuisce al testopaolino – topos tra i più ricorrenti, ma anche tra i più controversi dellaletteratura escatologica medioevale – un significato pienamente attuale:l’incondizionata autorità che il papa si attribuisce e la tirannide che egliesercita nella Chiesa e sulle coscienze dei cristiani sono il riscontro stori-co esauriente della piena attuazione della predizione paolina.46 Anzi, èquesto l’unico riscontro storico possibile: poiché l’Anticristo non può es-sere fuori della Chiesa («nemo enim extra ecclesiam Dei est Antichris-tus»), esso non può essere impersonato dal Turco.47 Il Turco è una realtà

42 Ad librum eximii nostri magistri Ambrosii Catharini, defensoris Silvestri Prieriatis acerrimi re-sponsio. Cum exposita versione Danielis VIII de Antichristo, in WA, VIII, pp. 707-778.

43 Ad librum ... Catharini ... responsio cit., p. 778 (testo e apparato).44 WA, Tischreden, III, n. 3555, p. 409.45 Ad esempio, Ad librum ... Catharini ... responsio cit., pp. 729, 734, 741, 742, 764, 769,

776; Adversus execrabilem Antichristi bullam, WA, VI, p. 602; De captivitate Babylonica ecclesiaepraeludium, WA, VI, p. 537. Frequentemente anche in WA, Tischreden, ad esempio III, n.3055a, p. 158; n. 3055b, p. 159; n. 3130, p. 179.

46 Ad librum ... Catharini ... responsio cit., pp. 741-742. È noto che per l’oscurità del te-sto paolino s’era già pronunciato s. Agostino (Civ. Dei, XX, 19), e questa ammissione auto-revole rese più facilmente dilatabile la varietà delle interpretazioni successive. Sulle difficoltàdegli esegeti medievali informa diffusamente HANS DIETER RAUH, Das Bild des Antichrist cit.,pp. 55-71.

47 WA, Tischreden, III, n. 3443, p. 318. Sul pensiero di Lutero e sulla letteratura lutera-na coeva sui Turchi vedi HARVEY BUCHANAN, Luther and the Turks, 1519-1529, «Archiv fürReformationsgeschichte», XLVII, 1956, pp. 145-159, e JOHN W. BOHNSTEDT, The InfidelScourge of God: The Turkish Menace as Seen by German Pamphleteers of the Reformation Era(Transactions of the American Philosophical Society, 56, part 9), Philadelphia, 1968. Ma sututti gli aspetti della propaganda antiturca per l’intero Cinquecento sono ora fondamentaligli studi di MICHAEL J. HEATH, Crusading Commonplaces: La Noue, Lucigne and Rethoric againstthe Turks, Genève, Droz, 1986 (in particolare per Lutero e i suoi oppositori, pp. 13-21); eIDEM, Islamic Themes in Religious Polemic, «Bibliothèque d’Humanisme et Renaissance», L,1988, pp. 289-315. Non si può escludere che Lutero conoscesse il Tractatus de futuris Chris-

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II - ANTICRISTO E CHIESA ROMANA

esterna al cristianesimo: è «mala bestia», ma non incarna l’Anticristo,«quia non est in ecclesia Dei».48 Com’è noto, il problema era reso discottante attualità dalla crescente presenza militare turca in Europa e di-venne tragico sul finire degli anni Venti con l’assedio di Vienna. La lette-ratura antiturca contro la quale Lutero reagiva è in gran parte nota, cosìcome è noto che, insieme con profezie e vaticinii vecchi e nuovi, essacomprendeva – com’è del resto caratteristico di tutte le tradizioni di testiprofetici – riprese e adattamenti fortemente attualizzanti anche di scrittibasilari della escatologia medioevale. Pubblicisti tra i più impegnati nellapropaganda antiturca rivolgevano in alto, a principi, a monarchi e all’im-peratore, i loro appelli alla crociata, e stimolavano, in basso, le emozionireligiose della gente comune. L’esempio di Sebastian Brant è caratteristi-co dell’insistenza in queste due direzioni della pubblicistica antiturca neiprimi due decenni del Cinquecento, fino ai primi interventi di Lutero.In scritti di intonazione eroico-umanistica, per un ventennio Brant pro-mise a Massimiliano sicure vittorie sui Turchi, e nello stesso ventennio,con le ben sessantuno dispendiose silografie di cui corredò le sue almenoquattro edizioni dello scritto più importante dell’escatologia medioevale,la Revelatio (o Revelationes) dello Pseudo-Metodio, diffuse figurazioni ditruci massacri di infedeli e di folgoranti vittorie dei cristiani sull’Anticri-sto, «quo facilius – scriveva nella prefazione – spiritus prophetici multisinnotescat vaticinium»: e i «multi» cui Brant si rivolgeva erano gli stratipopolari («popularis provincia»), gli «idiotae» (qui identificati con glianalfabeti).49 Nel giro d’un decennio, il fallimento della Guerra dei con-

tianorum triumphis in Saracenos di Annio da Viterbo, uno dei più convinti sostenitori dell’ideache l’Anticristo si fosse storicamente incarnato in Maometto e fosse operante nella minaccio-sa realtà del mondo islamico. Sul trattato di Annio, sulle varie edizioni e sulla nota aggiuntada Lutero alla edizione di Wittenberg (1537) della De monarchia disputatio dello stesso Anniovedi l’importante saggio di CESARE VASOLI, Profezia e astrologia in un testo di Annio da Viterbo,in Studi sul Medioevo cristiano offerti a Raffaello Morghen per il novantesimo anniversario dett’IstitutoItaliano per il Medio Evo (1883-1973), Roma, nella sede dell’Istituto, 1974, II, pp. 1027-1060(ora in IDEM, I miti e gli astri, Napoli, Guida, 1977, pp. 17-49).

48 WA, Tischreden, III, n. 3443, p. 318.49 Sulle edizioni di Pseudo-Metodio vedi ERNST SACKUR, Sibyllinische Texte und For-

schungen, Halle a. S., Max Niemeyer, 1898, pp. 3-7, in part. pp. 3-4, dove tuttavia è ignora-ta l’edizione di Brant del 1515, che a sua volta è la sola nota a MARJORIE REEVES, The Influen-ce of Prophecy in the Later Middle Ages. A Study in Joachimism, Oxford, The Clarendon Press,1969, p. 353. Io uso l’edizione del 1504 nell’esemplare posseduto dalla Biblioteca NazionaleCentrale di Firenze (Magl. 15. 5. 195): De revelatione facta ab angelo beato Methodio, Basileae.per Michaelem Furter, opera et vigilantia Sebastiani Brant Anno, 1504, die XII Martii (co-lophon), terza delle edizioni del Brant a me note, dopo quelle del 1498 e del 1500 (quest’ul-

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tadini renderà gli strati popolari delle città e delle campagne tedesche an-cor più impermeabili alla proposta di simili miraggi. Mi limito a un soloesempio. Nel febbraio del 1527, l’umanista Wolfgang Rychard scriveràda Ulm: «Apud agricolas et civitatensem plebem summa spes est in Tur-cae adventu. Hinc evenit quod, proh dolor, nostrum vulgus clandestineadfectat Turcae adventum et imaginatur lenius vivere sub Turca vel dia-bolo quam sub suis quibus hactenus dominis».50 Quanto a Lutero, già nel1518, l’anno stesso in cui Brant dedicò a Massimiliano l’ultima delle sue«neniae nyciteriae», scrisse che «praeliare adversus Turcas est repugnareDeo visitanti iniquitates per illos»; e l’affermazione venne inclusa fra lesue quarantun proposizioni erronee elencate nella bolla Exsurge Domine,fu condannata dalla Sorbona (1521) ed entrò nel Catalogus haereticorumomnium pene di Bernardo di Lussemburgo (1524).51 Neppure la generaleemozione suscitata dall’assedio di Vienna distolse Lutero dal riproporre ilproblema che sarebbe stato dibattuto durante tutto il secolo: cioè l’illicei-tà della «guerra santa». Emozioni religiose suscitate dall’appello alla cro-ciata e promesse di fulgidi trionfi contro l’Anticristo erano visti da Luterocome diversivi dalla riflessione sui mali propri della cristianità: le pietredel sepolcro di Cristo («sepulchrum illud corporale, quod Saraceni te-nent») – diceva – non interessano a Dio più di quanto, secondo s. Paolo,possa interessargli un branco di buoi; il vero sepolcro da liberare è la

tima con contemporanea edizione in tedesco). Non mi risulta che queste edizioni procurateda Brant siano state studiate nella loro caratteristica di stampe popolari, a proposito dellaquale vedi la lettera di dedica del Brant a Johannes Meder: «... motus fortassis Gregorianaeconstitutionis lectione, qua scriptum reliquit picturam rerum gestarum esse necessariam.Nam quod legentibus scriptura hoc et idiotis praestat pictura cernentibus, quia in ipsa igno-rantes vident quid sequi debeant, in ipsa legunt qui literas nesciunt. Unde et praecipue im-peritis pro lectione pictura est. Tuo igitur iussu Deo amabilis pater tuoque suasit hanc quamcoram cernis popularem subii provinciam. Tabulas utcunque sculpendas ordinavi quo faci-lius spiritus prophetici multis innotescat vaticinium. Fecique id eo libentius quo gloriosumreipublicae Christianae contra Infideles Thurcasque inibi repromissum propius existimo foretriumphum» (c. aiv). Sul testo della Revelatio vedi ora MARC LAUREYS, DANIEL VERHELST,Pseudo-Methodius, Revelationes: Textgeschichte und kritische Edition. Eirc Leuven-Groninger For-schungsprojekt, in The use and abuse of Eschatology in the Middle Ages, ed. by DANIEL VERHELST,Leuven Univ. Press, 1988, pp. 112-136. Sugli altri scritti antiturchi del Brant, vedi EDWIN

H. ZEYDEL, Sebastian Brant, New York, Twayne Publishers, 1967, pp. 125-142.50 CARL TH. KEIM, Wolfgang Richard, der Ulmer Arzt. Ein Bild aus der Reformationszeit,

«Tübinger theologische Jahrbuch», XII, 1853, pp. 307-373, in part. p. 340.51 GEORGE W. FORELL, Luther and the War against the Turks, «Church History», XIV,

1945, p. 257 (con riferimento alle Resolutiones disputationum del 1518); HERVEY BUCHANAN,Luther and the Turks cit., pp. 148-149; MICHAEL HEATH, Crusading Commonplaces cit., p. 15.

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Scrittura, «in qua veritas Christi, per papistas occisa, sepulta iacuit».52 In-somma, Lutero non era disposto a identificare l’Anticristo né col Turconé con alcun’altra realtà esterna al cristianesimo, e ancora meno era di-sposto ad avvolgere la sua convinzione che esso fosse già operante nelmondo e fra i cristiani nelle ambiguità delle profezie, che – diceva – «proambiguitate ante implentur quam intelliguntur, tum longe in aliud spec-tant quam vulgo sonant».53 Concetto, figurazione e forme della popola-rizzazione dell’immagine dell’Anticristo cessavano di essere le tradizionaliespressioni d’una letteratura suscitatrice di emozioni e di aspettazioni, perdivenire denuncia diretta dell’istituzione ecclesiastica, la mostruosa rap-presentazione di un’abnorme realtà da demolire.

Con una metafora suggestiva uno studioso tedesco ha definito«Transsubstantiation des Bösen» questa trasformazione radicale della vec-chia leggenda escatologica dell’Anticristo operata da Lutero.54 Ma questaimmagine efficace è storicamente valida solo se con essa si vuole indicarela profondità del mutamento, non una capacità quasi magica di operareun improvviso rovesciamento di strutture mentali tenaci – in questo casola comune e radicata convinzione che la realtà del cristianesimo vivessedi una contrapposizione permanente con l’impersonale potenza del maledesignata dalla nozione biblica di Anticristo: una contrapposizione i cuiesiti ultimi si riteneva fossero decifrabili. Lutero sapeva bene che designa-zioni di singoli papi come individuali incarnazioni dell’Anticristo nonerano mancate nella letteratura escatologica medioevale – ultime, le esco-gitazioni profetiche dell’ammirato Savonarola. La tradizione gioachimitarimasta più aderente al pensiero di Gioacchino si era attenuta alla distin-zione tra una «ecclesia spiritualis», che la Chiesa romana non aveva per-duto i titoli a rappresentare neppure nei periodi di peggiore decadenza, euna «ecclesia carnalis», impersonata da Roma quale centro e sede corrut-trice dell’Impero.55 Ma questa distinzione non sempre era valsa a salvare imovimenti di ispirazione gioachimita dall’accusa di sconfinamenti nell’e-resia. Pietro di Giovanni Olivi si mantenne riservato – per esitazione oper la logica stessa del suo pensiero – sulla possibilità di identificarel’«Antichristus mysticus» col papa e con l’intera struttura gerarchica della

52 De abroganda missa privata, in WA, VIII, p. 477.53 Ibid., p. 476.54 WILL ERICH PEUCKERT, Die grosse Wende: I, Das apokalyptische Saeculum und Luther,

Darmstadt, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, 1966, pp. 110-119.55 Vedi MARJORIE REEVES - BEATRICE HARSCH, The «Figurae» of Joachim of Fiore, Oxford,

The Clarendon Press, 1972, pp. 147-149, 184-191, 282-283.

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Chiesa.56 Ma Ubertino da Casale e Beghini e Spirituali di Provenza – chepure si richiamavano tanto a Gioacchino quanto all’Olivi – non esitaro-no, con una forte radicalizzazione del pensiero tanto di Gioacchinoquanto dell’Olivi, a identificare l’Anticristo con Bonifacio VIII o conGiovanni XXII o con Benedetto XI.57 Con frequenza sempre maggiore,indizi della presenza dell’Anticristo erano stati individuati in singoliaspetti della realtà ecclesiastica. L’utilizzazione del tema escatologico del-l’Anticristo in funzione riformatrice si era valsa da tempo della nozioneplurima di «Anticristi», intesi come prefigurazioni di quell’Anticristo lacui comparsa veniva annunciata e minacciata come il compimento d’unevento catastrofico risolutore. Sia pure per un momento, persino Adsoneseppe vedere (se non si tratta, come io sospetto, d’una interpretazione at-tualizzante d’altra età) membra del «corpus Antichristi» dovunque chie-rici e laici, canonici e monaci spregiavano il bene, contravvenivano allaregola e vivevano contro giustizia.58 Con Gerhoch von Reichersberg,«praeambula» dell’Anticristo vengono intravisti praticamente in ogni an-golo della Chiesa e della cristianità.59 E una simile esegesi attualizzante – èappena il caso di ricordarlo – era al fondo della nota ripresa del profeti-

56 MARJORIE REEVES, The Influence of Prophecy cit., pp. 194-201; RAOUL MANSELLI, La«Lectura in Apocalypsim» di Pietro di Giovanni Olivi. Ricerche sull’escatologismo medioevale, Roma,Istituto Italiano per il Medio Evo, 1955, pp. 219-255; IDEM, La terza età, Babylon e l’Anticri-sto mistico (A proposito di Pietro di Giovanni Olivi), «Bullettino dell’Istituto storico italiano peril Medio Evo e Archivio Muratoriano», LXXXII, 1970 (ma 1974), pp. 45-79, in part. p. 70sgg.

57 HANS PREUSS, Die Vorstellungen cit., p. 45, e ora più ampiamente RAOUL MANSELLI,Spirituali e Beghini in Provenza, Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1955, pp.162-163; MARJORIE REEVES, The Influence of Prophecy cit., pp. 203-207; e ancora, in polemicacon la Reeves, RAOUL MANSELLI, La terza età cit., pp. 70-71, che sottolinea il radicalismo diqueste identificazioni dell’Anticristo con singoli papi e il significato che esse ebbero fino aLutero: dove, tuttavia, l’accenno a Lutero non può che indicare una continuità soltantomorfologica; una differenza sulla quale ricordo con vivo rimpianto le conversazioni avutecon l’amico Manselli.

58 ERNST SACKUR, Sibyllinische Texte und Forschungen cit., pp. 105-106: «Nunc quoquenostro tempore multos Antichristos novimus esse. Quicunque enim sive laycus, sive canoni-cus sive monachus contra iustitiam vivit et ordinis sui regulam impugnat et quod bonum estblasphemat, Antichristus est et minister Sathanae». Il testo del Libellus de Antichristo di Adso-ne è riportato interamente, dall’edizione Sackur, anche in KARL YOUNG, The Drama of theMedieval Church, Oxford, The Clarendon Press, 1933, II, pp. 496-500 (il brano cit. è a p.497). Importante su Adsone HANS DIETER RAUH, Das Bild des Antichrist cit., pp. 153-164.

59 Cfr. soprattutto De investigatione Antichristi, I, 7 (MGH: Libelli de lite imperatorum etpontificum, t. III, p. 317), la descrizione della Chiesa come «Spelunca latronum et synagogaSathanae». Fondamentale su Gerhoch, HANS DIETER RAUH, Das Bild des Antichrist cit., pp.416-474, in part. sul De investigatione, pp. 446-467.

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smo gioachimita dei primi decenni del Cinquecento. Rimane da stabilirecon precisione fino a qual punto Lutero avesse conoscenza di questa let-teratura e ne traesse suggestioni; ma sarebbe assurdo affermare che il con-testo in cui maturò il suo pensiero fosse estraneo a queste forme di aspet-tazioni apocalittiche – come da tempo va giustamente sottolineandoHeiko A. Oberman.

Tuttavia Lutero ruppe con questa tradizione escatologica. Tutta l’e-scatologia medioevale, comprese le sue reviviscenze, considerate generi-camente gioachimitiche, degli anni in cui Lutero scriveva, individuavamali presenti e ne definiva la rilevanza nella prospettiva di un’imminenzacatastrofica più o meno ravvicinata, più o meno differita nel tempo. Ciòche entrava in gioco erano il presente e il futuro, mai le radici del presen-te. Fu questo loro insediarsi nello spazio insondabile tra presente e futuroa consentire a profeti, astrologi e visionari di suscitare emozioni e aspet-tative, di farsi a loro modo interpreti delle tensioni e delle fluttuazionidella vita religiosa e politica europea e di operare su di essa. Loro formi-dabile strumento era la possibilità di accelerare o differire l’imminenza dieventi catastrofici o il compimento dei tempi. Come abbiamo visto, Lu-tero ironizzò sul gioco dei calcolatissimi rapporti tra previsione e compi-mento. Per lui, il futuro cessava di essere oggetto di escogitazioni profe-tiche: l’Anticristo aveva già compiuto la sua opera; presente e futuro do-vevano essere i tempi della riforma da realizzare mediante la lotta per losradicamento di tutti i mali ereditati dal passato. In fondo, fu questo ro-vesciamento dei tempi a determinare la prospettiva storica propria di Fla-cio Illirico e dei suoi collaboratori, nella cui opera monumentale, comesi sa, il ricorso a testi profetici è logicamente più che frequente.60 Signifi-cativamente, della letteratura escatologica medioevale Lutero si sentì in-teressato soltanto a quella che era riducibile a profezia post eventum: comenel caso della celebre utilizzazione che nel 1527 Andreas Osiander fecedei Vaticinia de summis pontificibus.61 Il significato esclusivamente attuale in

60 Su questo genere di problemi, anche se per epoca diversa, suggerimenti di metodo sitraggono da uno degli ultimi saggi editi di ARNALDO MOMIGLIANO, Dalla Sibilla pagana alla Si-billa cristiana: profezia come storia della religione, «Annali della Scuola Normale Superiore di Pi-sa». Classe di lettere e filosofia, s. III, vol. XVII, 1987, pp. 407-428.

61 Sull’edizione in tedesco di Osiander vedi GOTTFRIED SEEBASS, Bibliographia Osiandrica.Bibliographie der Gedruckten Schriften Andreas Osianders d. Ä (1496-1552), Nieuwkoop, DeGraaf, 1971, p. 41. Sul contenuto e sulle reazioni di Lutero e di Melantone, vedi MARJORIE

REEVES, The Influence of Prophecy cit., pp. 452-454, 490; EAD., Some popular Prophecies from thefourteenth to the seventeenth Centuries, in Popular Belief and Practice, ed. by G. J. CUMING andDEREK BAKER, Cambridge, University Press, 1972, pp. 107-134, in part. p. 122; ROBERT W.

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cui Lutero assunse la nozione di Anticristo è una delle ragioni che spie-gano anche il suo interesse per il pensiero di Wyclif e di Hus sull’argo-mento. E in questo caso il legame del pensiero di Lutero con la tradizio-ne escatologica tardo-medioevale si presenta veramente consistente.

Non c’è ragione di dubitare che, quando Lutero consultò a Lipsia gliatti del concilio di Costanza per documentarsi contro le accuse di hussiti-smo rivoltegli da Eck, abbia riflettuto, oltre che sulle dottrine di Hus,anche sui cinquantotto errori attribuiti a Wyclif e condannati a Costanza– tanto più che, com’è noto, uno dei trenta errori di Hus (il venticin-quesimo) rimandava al precedente elenco degli errori di Wyclif.62 Qualeche sia la soluzione da dare alla questione del momento in cui il pensierodi Wyclif entrò nell’evoluzione di Lutero, è dunque certo che fin dal lu-glio del 1519 egli seppe che opinione di Wyclif era che «patulus Anti-christus» non era solo questo o quel papa, ma tutta la loro successione, «atempore donationis ecclesiae».63 Tutto ciò non potrebbe suggerire moltodi più che la ricerca di sempre opinabili analogie tra il pensiero di Wyclife quello di Lutero, se Lutero stesso non avesse provveduto a precisare lamisura della sua dipendenza dal pensiero di Wyclif. Nel 1528, quandovolle dare forza persuasiva alla sua equiparazione di papato e Anticristo,Lutero pubblicò il commento all’Apocalisse del lollardo John Purvey, «utorbi – scrisse nella relativa prefazione – notum faceremus nos non esseprimos qui papatum pro Antichristi regno interpretentur».64 La prefazio-ne al commento di Purvey è uno dei documenti più importanti per sta-

SCRIBNER, For the Sake of Simple Folk. Popular Propaganda for the German Reformation, Cam-bridge, University Press, 1981, pp. 142-147, e ora in particolare DAVID HEFNER, «Regnum vs.sacerdotium» in a Reformation Pamphlet, «The Sixteenth Century Journal», XX, 1989, pp. 617-630. Per esempi analoghi di utilizzazione di profezie gioachimite nel mondo protestante an-cora MARJORIE REEVES, Joachim of Fiore and the Prophetic Future, London, SPCK, 1976, pp.136-165 («Joachim and Protestantism»), in part. pp. 137-139.

62 La prima stampa degli atti del concilio di Costanza, che è anche quella consultata daLutero nella biblioteca universitaria di Lipsia nel corso della Disputa, è: Acta scitu dignissimadocteque concinnata Constantiensis concilii celebratissimi, Hagenau, Heinrich Grun, 1500. I dueelenchi degli errori di Wyclif e di Hus sono in appendice.

63 «Papa est patulus antichristus. Non solum illa persona simplex, sed multitudo papa-rum a tempore donationis ecclesiae, cardinalium, episcoporum, et suorum complicum alio-rum, est antichristi persona composita, monstruosa» (Conciliorum oecumenicorum decreta, curan-tibus JOSEPHO ALBERIGO et al., consultante HUBERTO JEDIN, editio tertia, Bologna, Istituto perle scienze religiose, 1973, p. 423, dove la lezione «patulus antichristus» sostituisce quella, at-tenuante, di «patronus antichristi» dell’edizione Mansi, con ritorno alla stampa del 1500).

64 La prefazione di Lutero è in WA, XXVI, p. 123. Il mio scolaro Paolo Baldi richiamala mia attenzione sul fatto che essa è riportata da Matthias Flacius nel suo Catalogus testiumveritatis qui ante nostram aetatem reclamarunt papae (ed. Basileae, Oporinus, 1556, pp. 928-930).

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bilire il confine che separa Lutero anche dalle più radicali attualizzazionidell’escatologia tardo-medioevale. Lutero lavorò alla stampa del com-mento di Purvey nello stesso anno in cui Osiander attualizzò gli pseudo-gioachimitici Vaticinia de summis pontificibus. E anch’egli, combinandoesattezze, approssimazioni e vere e proprie imprecisioni, fece del com-mento apocalittico lollardo un messaggio suggestivo: con approssimativenotazioni paleografiche riportò il manoscritto a un settantennio prima,cioè al clima di qualche decennio posteriore a quello scisma «quod tan-dem Constantiensi conciliabolo per sanguinem Iohannis Hus et Hiero-nymi Pragensis velut sacrificio quodam placatum et finitum est»; l’attri-buzione del commento a Purvey gli consentì di evocare il carcere diLutterworth, nel quale Purvey era stato cappellano durante la detenzionedi Wyclif; la costanza nella fede e i supplizi subiti dagli uomini cui ilcommento di Purvey dava voce erano un ammonimento, cosicché,«quanquam nos simus hoc saeculo illis longe eruditiores et liberiores, pu-dendum tamen sit quod in tanta barbarie et captivitate detenti nobis tan-to spiritu et fortitudine fuerint fortiores et audaciores». Tuttavia neppurelì Lutero omise di avvertire che Purvey, «vitio temporis et regno caliginisimpeditus», non aveva visto con sufficiente chiarezza ciò che «hoc saecu-lo nostro loquimur et sentimus». Si riferiva al limite che egli sottolineòripetutamente nella rappresentazione della Chiesa romana come personi-ficazione dell’Anticristo tanto di Wyclif quanto di Hus. Vi torneremo trabreve.

Nel 1519, anche nelle posizioni di Hus Lutero trovò quanto bastavaperché la sua visione della Chiesa romana ne venisse spinta sempre di piùverso una globale identificazione di essa con l’Anticristo. È noto che l’in-contro di Lutero con la tradizione hussita non fu facile.65 Quanto sia statadecisiva la pur impulsiva scoperta che ne fece a Lipsia è dimostrato – perquanto riguarda, in particolare, la problematica di cui ci stiamo occupan-do – dal dilagare, nella pubblicistica luterana, di contenuti e forme dellapubblicistica hussita: a cominciare dallo scritto di maggiore diffusionedella prima pubblicistica luterana, il Passional Christi und Antichristi, cheriprendeva i contenuti e l’efficace modulo propagandistico dell’«antitesi»

65 Vedi SAMUEL HARRISON THOMSON, Luther and Bohemia, «Archiv für Reformationsge-schichte», XLIV, 1953, pp. 170-187; WALTER DELIUS, Luther und Hus, «Luther-Jahrbuch»,XXXVIII, 1971, pp. 9-25. Le note affermazioni di Lutero a Lipsia sono finemente analizza-te da SCOTT H. HENDRIX, We all are Hussits?, «Archiv für Reformationsgeschichte», LXV,1974, pp. 133-161.

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da almeno due precedenti modelli della letteratura hussita.66 Quando nel1524 Otto Brunfels gli dedicò la sua edizione degli scritti di Mattia di Ja-nov (ma sotto il nome di Hus), Lutero si era già reso conto delle molteaffinità che il proprio pensiero presentava con le visioni della Chiesa ro-mana come incarnazione dell’Anticristo elaborate dal movimento hussita,da Jan Milic a Mattia di Janov e allo stesso Hus: affinità consistenti, piùprecisamente, nella negazione che l’Anticristo fosse realtà esterna al cri-stianesimo e nella negazione che il suo avvento riguardasse il futuro enon il presente e il passato.67

Ciò che, invece, secondo Lutero, né Wyclif né Hus avevano vistochiaramente era il fatto che l’Anticristo aveva attuato i suoi disegni dicorruzione nella dottrina prima che nei costumi. L’avvento nel mondodella potenza del male designata dalla nozione biblica di Anticristo risale,sì, al momento stesso in cui è sorta l’istituzione nella quale essa ha potutoinsediarsi. Ma secondo Lutero ciò andava inteso nel senso che l’assettodel cristianesimo nella forma visibile dell’istituzione ecclesiastica era lalunga storia della costruzione d’un edificio nel quale prima di tutto eranostati i principi cristiani ad essere completamente capovolti. Perciò, l’An-ticristo non è una realtà rappresentabile soltanto nella forma d’una mo-struosa «anatomia» (l’«anatomia Antichristi» della pubblicistica hussita) al-le cui membra corrispondano le varie parti della realtà ecclesiastica cor-rotta. Esso è prima di tutto una forza perversa che ha operato e opera

66 È ancora fondamentale al riguardo l’introduzione di GEORG KAWERAU all’edizionedel Passional Christi und Antichristi, in WA, IX, pp. 677-700, in part. pp. 678-679. L’edizio-ne delle Tabulae di Nicola di Dresda ora in MASTER NICHOLAS OF DRESDEN, The Old Colorand the New, by HOWARD KAMINSKY et al. (Transactions of the American Philosophical So-ciety», n.s., LV, part I), Philadelphia, 1965, con importante introduzione dello stesso Ka-minsky. Vedi ora GERALD FLEMING, On the Origins of the «Passional Christi und Antichristi» andLucas Cranach the Elder’s Contribution to Reformation Polemics in the Iconography of the Passional,«Gutenberg Jahrbuch», 1973, pp. 351-368. Un’acuta analisi del contenuto in ROBERT W.SCRIBNER, For the Sake of Simple Folk cit., pp. 150-158. Sulla forma pubblicistica dell’«antite-si» vedi KLAUS AICHELE, Das Antichristdrama cit., pp. 166-174, e sull’«antitesi» nel particolaregenere del Passional KONRAD HOFFMANN, Typologie, Exemplarik und reformatorische Bildsatire, inKontinuität und Umbruch. Theologie und Frömmigkeit in Flugschriften und Kleinliteratur an derWende vom 15. zum 16. Jahrhundert, hg. von JOSEPH NOLTE, HELLA TROMPERT, CHRISTOF

WINDHORST (Tübinger Beiträge zur Geschichtsforschung, 2), Stuttgart, Klett-Cotta, 1978, p.189 sgg. Sulla propaganda hussita nei primi anni della Riforma vedi SIEGFRIED OYER, Jan Husund der Hussitismus in den Flugschriften des ersten Jahrzehnts der Reformation, in Flugschriften alsMassenmedium der Reformationszeit, hg. von HANS-JOACHIM KÖHLER (Tiibinger Beiträge zurGeschichtsforschung, 13), Stuttgart, Klett-Cotta, 1980, pp. 291-307.

67 In generale, HOWARD KAMINSKY, A History of the Hussite Revolution, Berkeley and LosAngeles, University of California Press, 1967, pp. 39-55.

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predisponendo ingannevoli congegni teorici e insinuando con successofalsi princìpi, antitetici ai presupposti essenziali del cristianesimo. Con glianni, Lutero tornò sempre più frequentemente su questa differenza, insi-stendovi fino al limite della dissociazione della propria azione dall’opera-to di Wyclif e di Hus. Nel 1533, disse che tanto le idee di Wyclif (cioè iltrattato De Christo et suo adversario Antichristo) quanto la predicazione diHus non avevano tenuto conto della distinzione tra insegnamento e mo-do di vivere, tra corruzione della dottrina e corruzione dei costumi. A sestesso, invece, Lutero rivendicò il primato assoluto («non era ancora maiavvenuto ...») d’aver combattuto il papato non «sotto l’aspetto morale»,ma «sotto l’aspetto teologico»: la sua «vocazione» era stata quella di con-futare l’insegnamento del papa e di contestarne «il regno e l’ufficio», nondi condannare i costumi dei papisti, che del resto, diceva, non sempreerano peggiori dei costumi di quanti pure si erano affrancati dalla tiranni-de romana; mutamenti e riforme nella prassi cristiana sarebbero necessa-riamente conseguiti alla confutazione della dottrina; e concludeva: «Io hovinto, e non ho vinto in altro modo che insegnando giustamente».68 In-somma – quali che fossero, nel 1533, le ragioni per paventare gli effettid’un rapporto immediato tra elaborazione dottrinale e scontro con larealtà – sta di fatto che agli inizi degli anni Trenta Lutero si diceva con-vinto del principio secondo il quale rinnovata consapevolezza dottrinalesignifica di per sé rivolgimenti nella realtà e riforme.

Un decennio prima – cioè negli anni decisivi della sua ribellionecontro Roma, e decisivi anche per l’elaborazione e la diffusione della te-matica antiromana di cui ci stiamo occupando – Lutero non aveva népensato né operato con atteggiamento mentale così scisso tra dottrina erealtà. Il problema è stato discusso in passato e sarà discusso probabilmen-te all’infinito. Sta di fatto che in quegli anni l’esposizione del pensiero diLutero fu sempre vigorosamente impastata di riscontri in una realtà anti-tetica. Non si tratta soltanto della violenta polemica sugli abusi nell’ap-pello alla nobiltà tedesca – dove è spiegabile che la denuncia fosse mar-tellante. La denuncia della corruzione di tutta la realtà ecclesiastica deltempo non era stata meno martellante quando, meno di due mesi prima,Lutero aveva contrapposto risolutamente la sua concezione della chiesacome invisibile comunità spirituale dei credenti alla Chiesa romana ri-dotta a realtà «esteriore e materiale», costruzione visibile fondata solo suicanoni e non sulle Scritture, e pertanto priva della capacità di assicurare

68 WA, Tischreden, I, pp. 294-295.

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mezzi di salvezza. Insomma, anche in questo caso l’attacco al papato«sotto l’aspetto teologico», che in Vom dem Bapstum zu Rom è senza dub-bio la parte più importante dello scritto, non fu affatto disgiunto dall’at-tacco «sotto l’aspetto morale». Da un punto di vista puramente morfolo-gico – cioè delle forme e degli schemi propri della letteratura escatologi-ca – questa contrapposizione tra chiesa spirituale e invisibile e chiesa ma-teriale e visibile poteva richiamare (e in Italia in qualche caso richiamò)la contrapposizione tra «ecclesia spiritualis» e «ecclesia carnalis» dell’esca-tologia medioevale di ascendenza prevalentemente gioachimita. Sennon-ché nella contrapposizione teorizzata da Lutero era ormai diverso loschema storico al quale le due nozioni di chiesa si riferivano. Il pathos (e,all’interno degli ordini religiosi, l’angoscia tragica) che l’escatologia me-dioevale fu in grado di suscitare derivava dalla previsione o dall’annuncioo anche solo dalla percezione del pericolo che la Chiesa, in quanto «ec-clesia spiritualis», e l’Impero, quale «ecclesia carnalis», tendessero a con-fondersi, quando non addirittura a combaciare. Nella prospettiva di Lu-tero una simile fenomenologia delle emozioni indotte dalle dinamichedel profetare diveniva inoperante. Niente di meno immaginabile che asimili emozioni fosse ormai disponibile un qualsiasi lettore o fautore oseguace della polemica antiromana di Hutten. Negate la continuità e lasopravvivenza dell’Impero, Lutero eliminava uno dei due termini suiquali si era fondata tanto la bilanciata, ma pur sempre instabile, distinzio-ne medioevale tra sacro e profano quanto le conseguenti tensioni escato-logiche derivanti di tempo in tempo dalla contrapposizione tra l’uno el’altro. L’Impero romano, quarto (secondo l’esegesi di Lutero) dei regnidi Daniele, era definitivamente morto: al popolo germanico ne era statatrasmessa una parvenza puramente verbale. In realtà, ad esso era succedu-to il papato che, proprio in virtù di questa finzione della sopravvivenzadell’Impero, sorretta fraudolentemente dalla falsa donazione di Costanti-no, aveva potuto innalzarsi «super omnes reges, super omnes episcopos,super coelum et terram».69 Insomma, Lutero addossava al papato, isolatosullo scenario di almeno dodici secoli di storia (cioè «dal tempo in cuiebbe la presunzione di innalzarsi sopra l’intera cristianità» 70), la responsa-

69 Ad librum ... Catharini responsio cit., p. 723: «Translatum est autem ad Germanos Ro-mani imperii vocabulum, cum res iam nulla imperii amplius esset. Tamen ea occasio eratqua elevaretur homo ille super omnes reges, super omnes episcopos, super coelum et ter-ram, et sic firmaretur regnum in manu eius, effecto etiam in hoc mendacium diplomate nontam mendaci quam stolidissimo de donatione Constantini».

70 Von dem Bapstum zu Rom, in WA, VI, p. 315.

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bilità di impersonare, da solo, l’«ecclesia carnalis» della vecchia escatolo-gia medioevale. Non è mai esistita manipolazione profetica del futuro infunzione del presente priva del tutto di escatologia, cioè priva di presup-posti in uno schema di storia universale – e ciò vale probabilmente, qualeche ne sia la misura, persino per la produzione oracolare dell’antichitàclassica.71 La risaputa impermeabilità di Lutero a suggestioni gioachimiti-che dipese precisamente dal mutamento radicale che egli apportò alloschema storico generale: a Roma non c’erano mai state due realtà, econseguentemente non c’era mai stata alcuna sorta di dialettica contrap-posizione tra una chiesa dello spirito e una chiesa della carne; essa era sta-ta sempre e soltanto la sede in cui l’Anticristo aveva messo in opera icongegni d’un potere esercitato ai danni di tutta la cristianità. Per gli an-ni in cui Lutero elaborò e diffuse freneticamente questa identificazionedel papato con l’Anticristo, la diretta denuncia della realtà fu tale che –quale che debba essere l’accezione del termine propaganda negli studi re-lativi – è arduo distinguere tra elaborazione teorica, da una parte, e, dal-l’altra, tecniche e processi argomentativi mediante i quali egli rese plausi-bile questa sua rappresentazione del papato a lettori d’ogni strato sociale.L’incontro dei suoi scritti con la più diffusa letteratura antiromana fu im-mediato. Fin dalle Tesi: due (50 e 86) delle novantacinque proposizioni,evidenziando il contrasto tra le ricchezze della Curia e la miseria del po-polino tedesco esposto alle «estorsioni» dei predicatori di indulgenze, fa-cilitarono la lettura dell’intero documento nel contesto della polemicaantiromana di Hutten. Almeno una delle numerose reminiscenze del Va-discus di Hutten nell’appello alla nobiltà tedesca è sicuramente testuale.Tuttavia l’ampiezza della penetrazione dei motivi antiromani elaborati daLutero va, ovviamente, ben al di là di ciò che è possibile accertare attra-verso minuti riscontri filologici. Sui testi di Lutero subito Melantone po-té costruire facilmente i suoi efficacissimi commenti alle ventisei incisionidi Cranach nel Passional Christi und Antichristi. La popolarizzazione del-l’immagine dell’Anticristo in paramenti pontificali fu rapidissima: nell’e-

71 La negazione più recente del carattere messianico della quarta ecloga di Virgilio è inMORTON SMITH, On the History of a’ p o k a l ú p t w and a¿ p u k á l u f i v in Apocalypticism in the Medi-terranean World and the Near East. Proceedings of the International Colloquium on Apocalypticism.Uppsala, August 12-17, 1979, ed. by DAVID HELLHOLM, Tübingen, J. B. Mohr, 1983, p. 13.Vedi, in contrario, ARNALDO MOMIGLIANO, Dalla Sibilla pagana alla Sibilla cristiana cit., pp.411-412, dove tuttavia si lascia cadere la testimonianza dell’Alessandra di Licofrone addottain una delle precedenti stesure dello stesso saggio (cfr. IDEM, Saggi di storia della religione roma-na. Studi e lezioni 1983-1986, a cura di RICCARDO DI DONATO, Brescia, Morcelliana, 1988,p. 187.

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secrazione di quella mostruosa figurazione si espressero le proteste e leaspettative così di lettori dei Colloqui di Erasmo come di autori e lettoridella già foltissima letteratura pasquillesca o delle Epistolae obscurorum viro-rum o della Trias Romana e degli altri scritti antiromani di Hutten. Nellaprimavera del 1521, la Litaneia Germanorum, diffusa e poi cantata parodi-sticamente nelle città tedesche fra le trepidazioni popolari e le incertezzeche caratterizzarono la vigilia della partenza e poi il viaggio di Luteroverso Worms («Ut Martinum Lutherum ... brevi Wormaciam ventu-rum ...»), compendiò tutte le attese con cui veniva seguita e fatta propriala violentissima polemica di Lutero contro Roma. Vi si invocava la defi-nitiva liberazione dalla tirannide romana, dalla sfrenata barbarie dei teolo-gi sofisti, dalla minaccia delle scomuniche e dalle superstizioni dei mona-ci. Dal giovane imperatore e dai principi riuniti a Worms si attendeva laliberazione delle popolazioni tedesche e dei loro vescovi dalle esosità fi-scali della Curia. Si invocava il ristabilimento della pace religiosa e il ri-torno al costume cristiano mediante la liberazione dai sofismi degli scola-stici e dalle ipocrisie di pseudoteologi e pseudoprofeti. La parodia sichiudeva con l’invocazione dell’abbattimento del papa, idolo dei prepo-tenti e fomite di corruzione, con un’immagine che in quegli stessi mesiCranach veniva incidendo nell’ultima tavola del Passional Christi und An-tichristi: «Dominus praecipitet eum de cathedra pestilentiae et conteratcaput eius, et qui seipsum fecit deum orbis terrarum sit alibi diabolus dia-bolorum in aeternum».72 Una libellistica notoriamente sterminata ripresee inculcò questa immagine con cui si esprimevano il rifiuto delle struttu-re ecclesiastiche e la condanna radicale di tutta la loro storia, in base allaconvinzione che la corruzione della dottrina aveva generato pratiche eistituti a loro volta generatori di corruzione, in un processo di destituzio-ne dei fondamenti del cristianesimo durato quanto l’intera storia del pa-pato.73

72 ULRICI HUTTENI Opera quae reperiri potuerunt omnia, ed. EDUARDUS BÖCKING, Lipsiae,II, 1859, pp. 52-59, dove si esclude l’attribuzione della Litaneia a Hutten.

73 Sulla propaganda religiosa nel Cinquecento è fondamentale il volume già citato Flug-schriften als Massenmedium der Reformationszeit, curato da HANS-JOACHIM KÖHLER con studi im-portanti specialmente sulle tecniche e i processi della propaganda. Sui criteri di ricerca e suiprimi risultati del «Tübinger Flugschriftenprojekt», diretto dallo stesso Köhler, quest’ultimoha informato recentemente in The «Flugschriften» and their Importance in Religious Debate: AQuantitative Approach, in «Astrologi hallucinati». Stars and the End of the World in Luther’s Time,ed. by PAOLA ZAMBELLI, Berlin-New York, Walter de Gruyter, 1986, pp. 153-175. Sul di-verso uso dei libelli le posizioni più lontane sono rappresentate dagli studi di Köhler (adesempio, Fragestellungen und Methoden zur Interpretation frühneuzeitlicher Flugschriften, in Flug-

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3. Il «Liber generationis desolatoris Antichristi»

Non conosco scritto propagandistico di provenienza luterana (postoche sia mai possibile avere una conoscenza esauriente d’una simile ine-sauribile letteratura) in cui questa interazione generatrice di corruzionetra dottrina e istituti sia resa facilmente accessibile a un largo pubblicopiù di quanto lo è nel libello di cui intendiamo seguire la diffusione e gliadattamenti, o la sua presenza anche soltanto sintomatica, in vari ambien-ti e situazioni della storia religiosa del Cinquecento. Leggiamone intantoil testo intero nella redazione che ne giunse nelle mani di Andreas Stang-wald, uno degli interlocutori e commensali di Lutero.74

Liber generationis desolatoris Antichristi,filii hypocriseos, Diaboli filii.

Diabolus genuit caliginem.Caligo autem genuit ignorantiam.Ignorantia autem genuit errorem et fratres eius.Error autem genuit liberum arbitrium et arrogantiam ex philautia.Liberum arbitrium autem genuit meritum.Meritum autem genuit gratiae oblivionem.Gratiae autem oblivio genuit praevaricationem.Praevaricatio autem genuit diffidentiam.Diffidentia autem genuit satisfactionem.Satisfactio autem genuit sacrificium.Sacrificium autem genuit sacerdotem ex unctione sacerdotii.Sacerdos ex unctione genuit superstitionem.Superstitio autem genuit hypocrisin regem.

schriften als Massenmedium cit., pp. 1-27) e di Steven Ozment (cfr. Pamphlet Literature of theGerman Reformation, in Reformation Europe: A Guide to Research, ed. by STEVEN OZMENT, St.Louis, Center for Reformation Research, 1982, pp. 87-105, con ampia bibliografia). Esem-pi recenti di ricerche esemplari: ROBERT W. SCRIBNER, For the Sake of Simple Folk cit. e oraIDEM, Popular Culture and Popular-Movements in Reformation Germany, London and Roncever-te, The Hambledon Press, 1987; PAUL A. RUSSELL, Lay Theology in the Reformation. PopularPamphleteers in Southwest Germany, 1521-1525, Cambridge University Press, 1986.

74 Riporto il testo da EA, Tischreden, IV, pp. 281-283, sostituendo, nel titolo, «desola-tionis» con «desolatoris», secondo le altre redazioni delle quali si parlerà più avanti. Ibid., p.281 (e WA, Tischreden, VI, p. 230) i riferimenti alle edizioni del libello nelle raccolte cin-quecentesche delle Tischreden (Aurifaber, Stangwald, Selnecker).

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Hypocrisis autem rex genuit quaestum et ea quae sunt offertorii.Quaestus autem genuit purgatorium.Purgatorium autem genuit fundationem anniversariorum.Fundatio anniversariorum autem genuit patrimonium ecclesiae.Patrimonium autem ecclesiae genuit mammona.Mammon autem genuit luxum.Luxus autem genuit saturitatem.Saturitas autem genuit ferociam.Ferocia autem genuit immunitatem.Immunitas autem genuit dominationem.Dominatio autem genuit pompam.Pompa autem genuit ambitionem.Ambitio autem genuit simoniam.Simonia autem genuit papam et fratres eius cardinales in transmigra-

tione Babylonis.Et post transmigrationem Babylonis papa genuit mysterium iniquitatis.Mysterium autem iniquitatis genuit theologiam sophisticam.Theologia autem sophistica genuit abiectionem Scripturae.Abiectio autem Scripturae genuit tyrannidem.Tyrannis autem genuit mactationem sanctorum.Mactatio autem sanctorum genuit contemptum Dei.Contemptus autem Dei genuit dispensationem.Dispensatio autem genuit licentiam peccandi.Licentia autem peccandi genuit abominationem.Abominatio autem genuit confusionem.Confusio autem genuit anxietatem.Anxietas autem genuit quaestionem.Quaestio autem genuit argumentum veritatis, ex qua revelatus est

desolator papa, qui dicitur Antichristus.

Il libello è anonimo, come gran parte degli scritti analoghi.75 La com-petenza teologica dell’autore è dimostrata dalla sua abilità nel dedurrel’uno dall’altro tutti gli aspetti della corruzione ecclesiastica, in una com-plessiva concatenazione concettuale e storica che mira a dare un com-

75 Le mie ricerche per l’identificazione dell’autore non hanno avuto esito. Il solo che, amia conoscenza, si sia posto il problema fu EDUARD BOEHMER, Spanisb Reformers of two Centu-ries from 1520, Strassburg and London, II, 1883, p. 110, che però si limita a riferire il sugge-rimento di John T. Betts di studiare le analogie con la Tragedia del libero arbitrio di FrancescoNegri.

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pendio di tutta la polemica antiromana e delle connessioni tra denunciadella corruzione della dottrina e denuncia della corruzione dell’istituzio-ne. Si penserebbe alla provenienza dello scritto da uno dei centri di ela-borazione della nuova teologia. È comunque certo che il libello circolòin Germania in una versione tedesca eseguita su un originario testo in la-tino. Giunse a Wittenberg e Lutero ne parlò a tavola, come testimoniaJohannes Aurifaber, che ne accolse il testo in tedesco nella sua raccoltadelle Tischreden. Tutte le successive raccolte delle Tischreden, fino a quellacompresa nell’edizione critica di Weimar delle opere di Lutero, riporta-no il libello o nel solo testo tedesco o nella doppia redazione tedesca elatina. L’attribuzione a Lutero, della cui penna il libello non sarebbe in-degno, è esclusa dalla testimonianza autorevole di Stangwald, il secondo,dopo Aurifaber, della serie di ordinatori delle Tischreden. Le notizie datedallo Stangwald sono preziose: «Dieser schöne Pasquillus – egli scrive –ist nicht von D. Martin, sondern von einem andern Theologen gestellet,weil er aber im Deutschen was dunkel, hab ich das lateinische Originalallhie setzen wöllen».76 L’inclusione del libello nella serie delle «Tischre-den aus veschiedenen Jahren» dell’edizione critica di Weimar significache da esse non si possono trarre elementi per la sua datazione. L’esisten-za d’un originale in latino indica che non necessariamente il pasquillo fucomposto in Germania. La data anteriore a ogni altra riguardante la suacircolazione è, come vedremo, quella in cui esso circolò in Italia agli ini-zi degli anni Quaranta, cioè in anni nei quali comparvero analoghi scrittiitaliani di non minore perizia e abilità. Insomma, il libello potrebbe an-che essere opera di un italiano: scritti come l’Imagine di Antechristo del-l’Ochino o come il Pasquino in estasi del Curione furono subito ritenutidegni d’essere letti in tedesco.77

4. Deduzioni radicali: il «Pasquino in estasi» di Curione

Una prima testimonianza importante della circolazione che il libelloebbe in Italia è la copia che se ne conserva in un codice vaticano conte-

76 EA, Tischreden, IV, pp. 281-282.77 Per le due traduzioni in tedesco dell’Imagine di Antechristo dell’Ochino vedi EDUARD

BOEHMER, Spanish Reformers cit., II, pp. 107, 109; e per le traduzioni del Pasquino in estasiMARKUS KUTTER, Celio Secondo Curione. Sein Leben und sein Werk (1503-1569), Basel undStuttgart, Helbing und Lichtenhahn, 1955, p. 285.

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nente scritti e documenti raccolti da Vittore Soranzo.78 Segnalato laconi-camente fin dal 1925 da Pio Paschini, solo recentemente questo codice èdivenuto oggetto di un’analisi dall’ampiezza adeguata al suo valore dicomplessiva testimonianza delle relazioni che, tra il 1540 e il 1550, si sta-bilirono, da una parte, tra prelati e gruppi di tendenze già pronunciata-mente eterodosse sparsi in varie città italiane e, dall’altra, personalità an-che tra le più eminenti del movimento riformatore in Germania (Lutero,Butzer).79 Ciò che si intravede attraverso questa raccolta di carte compro-mettenti è solo la punta emergente d’un mondo ancora in gran partesommerso: un mondo che potrebbe forse riemergere dagli atti del pro-cesso del Soranzo e dalle carte sequestrategli a Bergamo da Michele Ghi-slieri nella primavera del 1551.80 La copia del libello si inserisce nella retedi relazioni che il codice già documenta. E probabilmente non è da con-siderare casuale il fatto che la raccolta del Soranzo si apra con il Liber ge-nerationis Antichristi: cioè, non con una qualsiasi pasquinata, ma con unodegli scritti di propaganda antiromana tra i più violenti e tra i più abil-mente congegnati di tutta la libellistica del secolo.

78 Biblioteca Apostolica Vaticana, Vaticano latino 10755, cc. 1r-2r. Cfr. Bibliothecae Apo-stolicae Vaticanae Codices Vaticani Latini 10701-10875, recensuit JOHANNES BAPTISTA BORINO,Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, 1947, p. 205.

79 PIO PASCHINI, Un episodio dell’Inquisizione nell’Italia del Cinquecento. Il vescovo di Berga-mo Vittore Soranzo, Roma, Editrice F.I.U.C., 1925, p. 59 (ora, con ritocchi, IDEM, Tre ricerchedi storia della Chiesa nel Cinquecento, Roma, Edizioni liturgiche, 1945, p. 140), dove gli scritticonservati dal codice vaticano sono detti erroneamente in «versione». Vedi ora PAOLO SI-MONCELLI, Inquisizione romana e Riforma in Italia, «Rivista storica italiana», C, 1988, pp. 5-125, dove (pp. 16-17) sono pubblicate integralmente la lettera di Lutero diretta «Pr. Rom.Curiae» e (pp. 107-113) le due lettere di Butzer rispettivamente del 23 dicembre 1541 e 1o

aprile 1544. Al collega Símoncelli sono grato per aver richiamato la mia attenzione sul codi-ce, ancora prima della pubblicazione del suo saggio.

80 Sull’entità del fascicolo processuale del Soranzo sono importanti i documenti utiliz-zati da LUIGI CHIODI, Eresia protestante a Bergamo nella prima metà del Cinquecento e il vescovo So-ranzo. Appunti per una riconsiderazione storica, «Rivista di storia della Chiesa in Italia», XXXV,1981, pp. 456-485. Da una supplica che i fratelli del Soranzo rivolsero al Consiglio dei Diecirisulta che il Ghislieri era andato «propria auctoritate nel studio del nostro fratello, asportandoquello li è parso di quello» (p. 473). Non c’è ragione di ritenere che il codice di cui ci stia-mo occupando e il cui possesso fu rimproverato al Soranzo in Castel Sant’Angelo il 26 giu-gno 1551 sia la sola cosa compromettente che il Ghislieri portò con sé al suo rientro a Ro-ma. Rimasero, invece, a Bergamo i libri del Soranzo che il Ghislieri confiscò «in casa di uncontadino» («certe casse», secondo un’istruzione del Consiglio dei Dieci al residente venezia-no a Roma; «due casse», secondo la citata supplica dei fratelli del Soranzo»), se nel dicembredel 1552 l’inquisitore di Bergamo «era per far bruciare pubblicamente in quella città alcunilibri del Rev.do Episcopo che furon tolti al tempo che esso si trovava a Roma» (ibid., pp.472-474).

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In questa redazione, il libello presenta due caratteristiche notevoli.Prima di tutto nel titolo. A parte un’analoga ma non altrettanto efficaceparticolarità in una redazione che, come vedremo, circolò più tardi inTransilvania, il titolo riproduce quello di tutte le altre redazioni note; maqui è sormontato da un titolo più generale: Genealogia papae. Più tardiprevarrà, come vedremo, questo titolo. Trattandosi di scritto di propa-ganda, il particolare non è irrilevante.

«Genealogia papae» comunica più immediatamente l’idea centraledello scritto: la nascita e la progressiva rivelazione dell’Anticristo coinci-dono con la nascita del papato e col processo attraverso il quale esso haattuato la sua opera di corruzione. L’efficacia della formula propagandi-stica usata dall’anonimo autore del libello dipende proprio dall’adozionedello schema genealogico (suggerito da Matth., I, 1-16), che non mi ri-sulta fosse consueto nella libellistica coeva sull’Anticristo. Erano comunischemi meno rigidi, come «de ortu et tempore», «de nativitate et mori-bus»: il primo aveva il suo archetipo nel celebre scritto di Adsone; il se-condo, più insistentemente, nella libellistica hussita.81 A fronte di formedi propaganda basate su un simile sistema dilatabile di concetti, l’assun-

81 Va, tuttavia, notato che, per quanto riguarda il De ortu et tempore Antichristi di Adso-ne, la tradizione manoscritta si arresta al secolo XV (cfr. ADSO DERVENSIS, De ortu et temporeAntichristi necnon et tractatus qui ab eo dependunt, edidit D. VERHELST [Corpus Christianorum.Continuatio Mediaevalis, XLV], Turnholti, Typographi Brepols editores Pontificii, 1976, pp.8-19, 35-42). La tematica espressa dalla formula «de vita et moribus» si arricchì notevolmen-te, allorché nel 1524 comparvero a stampa, a cura di Otto Brunfels e sotto il nome di Hus,gli scritti di Mattia di Janov: cfr. MATTHIAS JANOV, Opera, Nachdruck der Ausgabe Strass-burg, 1524. Mit einem Vorwort von ERICH BEYREUTER und einer Einleitung von WERNER-FRIEDRICH-ALOIS JACOBSMEIER, Hildsheim-New York, Georg Olms, 1975. La flessibilità diqueste formule consentiva una facile dilatazione del tema a seconda dell’ampiezza della realtàstorica che si intendeva denunciare come manifestazione dell’Anticristo, adattandosi agevol-mente a forme di denuncia che collegavano la realtà religiosa a quella politica e sociale.Qualche esempio. Scriveva Mattia di Janov nel De regno, populo, vita et moribus Antichristi:«Antichristo adhaerebunt maxime potentes, magnates, divites, canonici doctoresque et reli-giosi»; oppure: «Antichristi versutias intelligent simplices, docti a Deo et qui Deum in veri-tate quaerunt» (pp. LXXXVII e XC). Quando nel 1522 usci ad Augusta una traduzione in tede-sco del celebre Dialogus inter clericum et militem super dignitate papali et regia di Giovanni di Pa-rigi (Cfr. MICHAEL PEGG, A Catalogue of German Reformation Pamphlets (1516-1550) in SwissLibraries, Baden-Baden, Valentin Koerner, 1983, n. 1044, p. 94), essa costituì un messaggiocoerente con i contenuti della libellistica politica di quegli anni; ma il Dialogus ancor piùrappresentò un messaggio politico-religioso per lettori dei primi scritti antiromani di Lutero,allorché fu ristampato insieme con l’anonimo De nativitate et moribus Antichristi (la stampa èpriva di data e di insegne editoriali; sull’esemplare conservato alla Zentralbibliothek di Zuri-go il possessore colto annotò: «Dialogus sapit Marsilium de Padua»).

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zione dello schema genealogico imponeva la costruzione d’una linead’argomenti la cui efficacia dipendeva dalla concatenazione tra loro edalla concatenazione dell’assieme. In ciò l’anonimo autore del Liber gene-rationis Antichristi dimostrò una straordinaria abilità. In primo luogo, perquanti (ed erano quelli ai quali principalmente il libello era rivolto) ave-vano della polemica antiromana di Lutero una conoscenza frammentaria,desunta da letture casuali o da discorsi occasionali, egli articolò e insiemesintetizzò, nella forma d’un rapido processo deduttivo, tutto il preceden-te lavorio polemico di scansione dei tempi dottrinali e storici della corru-zione della Chiesa: e l’evidenza dei nessi genealogici sostituiva la sintassipropria della trattazione e dell’invettiva argomentate su complesse basistorico-dottrinali.82 Ridotte al minimo, per non dire pressocché inesi-stenti, anche le difficoltà linguistiche che potevano opporsi a un facile ac-cesso al contenuto e alla linea logica del libello: l’impiego d’un solo ter-mine veramente dotto («... arrogantiam ex philautia») sembrerebbe pre-supporre soltanto lettori colti; ma, come vedremo, sono innumerevoli icasi, noti e meno noti, in cui il facile latino del libello e d’altri scritti si-mili non costituì una barriera insormontabile neppure per lettori social-mente «senza latino», se dalla coscienza turbata. Ma di efficacia straordi-naria è soprattutto l’impianto generale del processo di nascita del papatoe della sua rivelazione come creazione diabolica. L’autore non si avvaledei consueti richiami scritturistici carichi d’una collaudata suggestività:niente Daniele e simili; nessun richiamo a escogitazioni e calcoli profeticicaratteristici dei testi escatologici antichi e recenti. L’inizio e il compi-mento del processo di rivelazione dell’Anticristo e della sua vera identitàsono contrassegnati da due scenari tragici. Alle origini, Satana ha diffusonel mondo una densa caligine. Ne è seguito un generale offuscamentodegli animi e delle menti. La conseguente propensione degli uomini al-l’errore li ha indotti all’arroganza della fiducia in se stessi. È un prologoin cui Satana ha già compiuto interamente il suo disegno, avendo le suearti subdole creato una situazione in cui libero arbitrio e presunzione dimeriti personali capaci di riscatto hanno generato la dimenticanza della

82 Sulle tecniche della semplificazione del linguaggio nei pamphlets vedi il bel libro diJOSEF SCHMIDT, Lestern, lesen und lesen hören: Kommunikationsstudien zur deutschen Prosasatire derReformationszeit, Bern, Lang, 1977. In particolare, MONIKA RÖSSING-HAGER, Wie stark findetnichtlesekundige Rezipient Berücksichtigung in den Flugschriften?, in Flugschriften als Massenmediumcit., pp. 77-137, ha analizzato le semplificazioni sintattiche (con particolare riferimento aEberlin von Günzburg).

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grazia («gratiae oblivio»). Intenzione del libellista è di esaltare e inculcareil principio della giustificazione per la sola fede. Ma evidentemente laforma prescelta non è quella dell’esaltazione assertiva. Né quanti in Italialeggevano e diffondevano il libello ritenevano che funzione e pregio del-lo scritto consistessero in una semplice riproposta della giustificazione perfede. Per lettori che già contrapponevano la fede alle opere e per lettoriancora alla ricerca d’una soluzione meno esitante del problema, l’efficaciapersuasiva del libello consisteva nell’evidenza con cui vi era dedotta dal-l’abbandono della fede l’intero processo di capovolgimento del messaggiocristiano, qui scandito nelle varie fasi, sapientemente annodate l’una al-l’altra, della perversione dottrinale e della corruzione del costume. La di-menticanza della grazia, cioè lo smarrimento della fede nella giustificazio-ne per i meriti di Cristo, ha generato la convinzione della necessità e va-lidità di opere satisfatorie («Diffidentia autem genuit satisfactionem»). Ecosì ha preso avvio, con l’istituzione della pratica sacrificale («Satisfactioautem genuit sacrificium. Sacrificium autem genuit sacerdotem ex unc-tione sacerdotii»), la progressiva costruzione d’un edificio nel quale l’of-ferta venale di surrettizi mezzi di salvezza ha costituito la base dell’accu-mulo di potenza e di ricchezze. Era nient’altro che una sequenza schele-trica degli argomenti essenziali della teologia di Lutero e della Riformain generale.

Verso la fine degli anni Quaranta, lettori italiani di scritti così effica-cemente compendiosi avrebbero compreso più facilmente perché Fran-cesco Negri chiamava il libero arbitrio una «tragedia». Ma, agli inizi dellostesso decennio, una radicale condanna della Chiesa come proliferazionedi un’originaria astuzia di Satana era una deduzione ancora niente affattoovvia e necessaria tra quei larghi strati di lettori italiani ai quali pure lalettura del Liber generationis Antichristi sembrava proponibile. Notoria-mente, nozioni come giustificazione, opere, fede, meriti, libero arbitrioerano già da tempo al centro delle preoccupazioni religiose di uomini edonne di tutti gli strati della società italiana: in alto, così al centro delleconversazioni nelle corti come al centro delle aspettative di quei prelati,chierici e pii umanisti che, ad esempio, guardavano con interesse allosvolgimento e agli esiti dei colloqui di Ratisbona; in basso, persino alcentro delle ordinarie conversazioni delle donnette nei lavatoi pubblici edei frequentatori dei mercati – secondo una arcinota informazione lascia-ta da un preoccupato testimone del tempo. Non mancano testimonianzeche, all’interno stesso di questa concordia nell’esaltazione del primatodella fede o, più decisamente, dell’unicità della fede giustificante, unaconsapevolezza non generica di distinzioni e diversità di orientamenti già

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si esprimeva in reazioni dai toni polemici. Ci si riferisce, evidentemente,non alle più frequenti testimonianze di condanna provenienti da ambien-ti ecclesiastici (inquisitoriali e non) avversi a ogni avvisaglia e istanza dinovità: in queste si condanna tutto e tutti, con conseguenze prospetticheche dovremo vedere in almeno un caso, quello del vicario diocesanoGiovanni Domenico Sigibaldi e della caratteristica situazione di Modena.Nel 1541, cioè nell’anno stesso per il quale è documentata la diffusionein Italia del Liber generationis Antichristi, il ben noto orefice venezianoAlessandro Caravia – per rimanere nell’ambito d’una letteratura rivolta alarghi strati popolari – univa insieme incondizionata esaltazione del pri-mato della fede e tradizionale invettiva anticlericale contro la Chiesa di-venuta «mercato» e i suoi comandamenti «mercantia»; ma al tempo stessoil Caravia biasimava anche con astio («che la polve gli abbrugi del salni-trio») che fossero in troppi gli «ignoranti», gli «artesanuzzi», che si atteg-giavano a dottori di Sacre Scritture e che di predestinazione e di liberoarbitrio si discutesse nelle barberie, nelle sartorie e nelle fucine dei mani-scalchi: una ritornante curiosità, non dissimile, secondo il Caravia, dallesottigliezze teologiche dei frati, di volere «si per sottile / vedere il pel dil’ovo in la gallina», quando doveva bastare «veder de’ Vangeli bene il te-sto», limitarsi a «creder nel Credo e dir il Pater nostro / e non di fede farmille scappuzzi».83

Tuttavia, sebbene attestata da innumerevoli testimonianze simili aquella del Caravia, l’esistenza d’una diffusa tendenza popolare a dedurredalla giustificazione per la sola fede un complessivo discorso teologico al-ternativo – cioè a percorrere lo stesso itinerario concettuale suggerito dascritti come il Liber generationis Antichristi – resta ancora una mera consta-

83 Il sogno dil Caravia, con gratia e privilegio, 1541 (colophon: In Vinegia. Nelle case diGiovann’Antonio di Nicolini da Sabbio. Ne gli anni del Signore, MDXLI. Dil mese diMaggio), pp. B IIIv, B IVv (cfr. CARLO GINZBURG, Il formaggio e i vermi. Il cosmo d’un mugnaiodel ’500, Torino, Einaudi, 1976, pp. 30-31, 162-163). Sul Caravia resta fondamentale VIT-TORIO ROSSI, Un aneddoto della storia della Riforma a Venezia, in IDEM, Scritti di critica letteraria,III: Dal Rinascimento al Risorgimento, Firenze, Sansoni, 1930, pp. 191-222. L’incartamentodel processo veneziano è ora pubblicato da ENRICA BENINI CLEMENTI, IL processo del gioielliereveneziano Alessandro Caravia, «Nuova rivista storica», LXV, 1981, pp. 628-644. ImportanteROBERTO SIMIONATO, Alessandro Caravia: la fortuna editoriale e critica, «Quaderni veneti», IV,1987, pp. 87-120. Il sogno, debitamente annotato, comparirà in appendice alla monografiasul Caravia che la dott. Benini Clementi sta preparando per la collana «Studi e testi per lastoria religiosa del Cinquecento». [Vedi ora ENRICA BENINI CLEMENTI, Riforma religiosa e poesiapopolare a Venezia nel Cinquecento. Alessandro Caravia (Studi e testi per la storia religiosa delCinquecento, 7), Firenze, Olschki, 2000].

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II - ANTICRISTO E CHIESA ROMANA

tazione: ciò che resta ancora oscuro è il processo attraverso il quale unasequenza di ragionate deduzioni dal principio dell’unicità della fede giu-stificante fornì argomenti per la negazione della validità della realtà eccle-siastica qualitativamente diversi dalla tradizionale invettiva contro la cor-ruzione della Chiesa. La ricostruzione di questo processo non può cheprocedere nel rispetto delle sequenze cronologiche. I pochi processi su-perstiti intentati prima del 1542 contro mercanti e bottegai, maestri discuola, monaci, notai, preti, rivenduglioli e artigiani, e quelli, più nu-merosi, intentati, a partire dalla seconda metà del 1542, dai rinnovati tri-bunali dell’Inquisizione, evidenziano molti scorci di questa evoluzione.Il riferimento insistente, nei processi contro quella gente comune, agliaspetti più corposi, istituzionali, della realtà ecclesiastica e la conseguentedenuncia di essa e delle sue radicazioni nella società consentono di iden-tificare un genere di evoluzione in cui l’inquietudine religiosa e il diffusodisagio (o l’«ansietà», come diceva il nostro anonimo libellista) delle co-scienze non si arrestano più all’esigenza mistica d’una riforma interioreincentrata, sia pure con differenze evidentemente non trascurabili, sull’e-saltazione o sul primato o sull’unicità della fede giustificante. In formasempre più insistente, la nozione di Anticristo nel significato elaborato daLutero e diffuso dalla pubblicistica luterana e protestante in genere, di-venne, come vedremo, la cifra delle invettive antiecclesiastiche che carat-terizzarono questa evoluzione. Libri e libelli e l’ampiezza, i modi e l’in-cidenza della loro circolazione restano lo strumento tra i più idonei allaricostruzione di questo processo. Soffermiamoci su almeno uno dei libriche agli inizi degli anni Quaranta ebbero in Italia maggiore diffusione, ilPasquino in estasi: soprattutto perché con esso il Curione, osservatore giàda più d’un decennio della realtà religiosa italiana attraverso una vasta re-te di conoscenze e di frequentazioni, sollecitò e insieme finì col descrive-re quel processo di deduzioni radicali dal principio della giustificazioneper fede, nel quale venne a inserirsi la diffusione di scritti come il Libergenerationis Antichristi.

Tutta l’irridente polemica antiromana del Curione si fonda sulla con-trapposizione tra «philautia» e fede, dove il termine fede ha significato ri-gorosamente esclusivo di ogni altra alternativa di salvezza: nelle edizioniaccresciute, l’inferno è la sede di «tutti quelli che hanno avuto fidanzadella lor salute in alcun’altra cosa, che in Giesù Christo».84 La Chiesa è

84 Pasquino in estasi, nuovo, e molto più pieno, ch’el primo, insieme co’l viaggio de l’inferno.Aggiunte le Propositioni del medesimo da disputare nel Concilio di Trento (colophon: Stampato a

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una costruzione di canonisti. E non c’è conciliazione tra pietà e canoni:con la rappresentazione degli effetti di quella costruzione, proiettata abil-mente in una visione ultraterrena – cioè al di fuori delle frammentarie eperciò riduttive percezioni quotidiane d’una realtà completamente di-storta – Curione intende evidenziarne globalmente la natura mistificante.Quale che debba essere, tra le successive rielaborazioni in latino e in vol-gare del Pasquino in estasi, lo strato testuale più vicino all’elaborazione an-teriore all’espatrio del Curione (estate 1542),85 ciò che resta immutato in

Roma, nella botega di Pasquino, a l’istanza di Papa Paulo Farnese con gratia et privilegio),p. 212.

85 Sulle edizioni in italiano e in latino e sulle traduzioni in altre lingue, vedi MARKUS

KUTTER, Celio Secondo Curione cit., pp. 284-285. Sull’edizione in italiano anteriore all’espa-trio del Curione restano fondamentali le due lettere del nunzio a Venezia Fabio Mignanellial cardinale Alessandro Farnese del 1o e del 22 febbraio 1543 (cfr. BENEDETTO NICOLINI,Aspetti della vita religiosa, politica e letteraria del Cinquecento, Bologna, Tamari Editori, 1963, pp.67-68). La diffusione del Pasquino in estasi nell’edizione segnalata dal Mignanelli dovette es-sere così larga da meritare, insieme con la prima raccolta ginevrina delle Prediche dell’Ochi-no, una menzione speciale nel primo decreto contro i libri pericolosi emanato il 12 luglio1543 dall’Inquisizione romana ( JOSEPH HILGERS, Der Index der verbotenen Bücher, in seinerneuen Fassung. Dargelegt und rechtlich-historisch gewürdigt, Freiburg i. Breisgau, HerderscheVerlagshandlung, 1904, pp. 483-486, in part. p. 484). Tuttavia le testimonianze precise sulettori di questa prima edizione sono molto rare: due riguardano vicende della vita religiosabolognese (cfr. sotto, nota 192). Che la prima idea dell’opera (se non addirittura una primastesura) risalga al soggiorno veneziano del Curione risulta dalla dedica ai due magistrati ber-nesi Hans Franz Nägeli e Jakob von Wattenwyl di Caeli Secundi Curionis Pasquillus ecstaticus,una cum aliis etiam aliquot sanctis pariter et lepidis Dialogis, quibus praecipua religionis nostrae Capi-ta elegantissime explicantur, senza data né luogo, p. a4r (cfr. MARKUS KUTTER, Celio Secondo Cu-rione cit., p. 28). La congettura che la redazione più vicina a quella anteriore all’esilio siaquella in latino inclusa nei Pasquillorum tomi duo, Eleutheropoli, 1544, II, pp. 427-529, sifonda sulla sola constatazione che questa è la redazione più breve rispetto alle successive,cioè quella ancora priva della narrazione della discesa all’inferno. Per un’esposizione vivacedell’opera e per alcuni suoi temi polemici caratteristici, vedi ALBANO BIONDI, Il «Pasquillusextaticus» di C. S. Curione nella vita religiosa della prima metà del ’500, «Bollettino della Societàdi studi valdesi», 1970, n. 128, pp. 29-38. Vale la pena osservare che le date di stampa dellesuccessive edizioni potrebbero essere precisate stabilendo la data esatta delle note vicendedella nobildonna lucchese Camilla Guinigi, rispetto alle quali, di edizione in edizione, ilCurione aggiorna le distanze di tempo («... abhinc triennum puto» in Pasquillus exstaticus cit.,p. 41; «già cinque anni» in Pasquino in estasi, nuovo, e molto più pieno cit., p. 49). Qui si fa usoprevalentemente della redazione in latino di Pasquillorum tomi duo e di quella in italiano diPasquino in estasi, nuovo, e molto più pieno cit. Resta da chiarire a quale delle redazioni latine eitaliane si riferisca la notizia sulla traduzione eseguita a Venezia, con la connivenza del Car-nesecchi, da Francesco Maria Strozzi (GIOVANNI SFORZA, Riflessi della Controriforma nella Re-pubblica di Venezia, «Archivio storico italiano», XCIII, 1935, pp. 214-216; cfr. GIGLIOLA FRA-GNITO, Un pratese alla corte di Cosimo I. Riflessioni e materiali per un profilo di Pierfrancesco Riccio,«Archivio storico pratese», LXII, 1986, p. 18).

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tutte le redazioni sono i due punti essenziali del messaggio che l’autoreaffida al libro: il papa è l’incarnazione pienamente attuata dell’Anticristo;il cristiano ha il diritto di discutere e il dovere di confutare, sulla basedelle Scritture, i principi distorti e le perverse strategie con cui esso è riu-scito a modellare la realtà storica del cristianesimo. È la proposta e insie-me, attraverso la narrazione della metamorfosi di Marforio, l’interlocuto-re di Pasquino, la descrizione d’un passaggio non facile dal rifugio misti-co nell’esaltazione della fede alla rappresentazione della Chiesa come co-struzione e personificazione dell’Anticristo. È il riscontro di questo pas-saggio che bisogna cercare nei documenti, se si vuole identificare, al di làd’una originaria concordia sulla centralità e l’unicità della fede giustifi-cante, processi che in quegli anni si arrestano e altri che si evolvono e siradicalizzano.

Con Marforio, l’itinerario descritto dal Curione comincia, per cosìdire, da zero. In lui Curione impersona il tipo di credente dalla forma-zione rigidamente tradizionale: non ha letto il Vangelo; ha solo familiari-tà («solum assuevi») con le Clementine e con le Decretali.86 Nonostantela sua armatura canonistica («tot annis in iure canonico et subtilitatibusIoannis de gamba rotta versatus sum»),87 Marforio ha disponibilità a in-formarsi di tutte le strane e rumorose novità che sente intorno. E va daPasquino. La curiosità di Marforio è dapprima puntigliosa: se, a propositodel culto dei santi, Pasquino parla, senza tante distinzioni, di usanze ido-latriche, lui lo avverte: «De diis Christianorum loquimur, Pasquille»; etrova sconveniente parlarne come se si trattasse di inezie lucianesche(«mittamus nugas Lucianicas suo authori»); 88 uso ad apprendere soltantoattraverso il genere di comunicazione assertiva, ha difficoltà a seguire lefinezze maieutiche del Curione («nimis Socratice mecum disputas»).89 Èovvio che, come vuole l’intenzione e il genere stesso del dialogo, alla fi-ne Marforio è vinto: alla fine della prima edizione, si congeda con lapromessa di essere «sincerus et Christianus»; e alla fine delle edizioni ac-cresciute, si licenzia desideroso che Pasquino mantenga presto la promes-sa, nientemeno, «di fargli vedere ancora in estasi la rovina del mondo e ’liudicio tremendo di Giesù Christo».90 Tuttavia, l’itinerario di Marforio

86 Pasquillorum tomi duo cit., II, p. 466.87 Ibid., II, p. 435.88 Ibid., II, p. 428.89 Ibid., II, pp. 436-437.90 Pasquino in estasi cit., p. 274.

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ANTONIO ROTONDÒ

da canonista a cristiano non avviene senza difficoltà. Basterà soffermarsisu due fasi della sua metamorfosi.

A Marforio non sono estranee escogitazioni escatologiche. Canoni-sta, non avrà avuto le inquietudini o – come nel 1515 rilevava LeandroAlberti nella sua dedicatoria degli pseudogioachimitici Vaticinia de summispontificibus – la coeva «curiositate delli mortali [...] che non lassa cosa al-cuna ad fare, per poter venire a la cognitione de le cose passate, et inve-stigare la presente et etiam le future»; 91 ma inquietudini e attese eranotroppo diffuse perché Curione non dovesse plausibilmente presupporreche potesse esserne toccato anche un uomo dalla formazione di Marfo-rio. La convinzione di Marforio è quella comune, che cioè la venuta del-l’Anticristo è cosa che riguarda il futuro, non il presente: dunque, nonuna realtà, ma eventualmente una minaccia, e per giunta una minacciatra le meno preoccupanti, cioè tra le più differite nel tempo («... cum Iu-deorum Meschia venturum»).92 Nel corso del dialogo, come nella realtàdi quegli anni, la metamorfosi di Marforio può giungere, senza troppedifficoltà, fino al traguardo della sostituzione della struttura canonisticadel suo sapere religioso con l’esaltazione della fede e con un alternativogusto della pietà. E su questa base, Marforio può anche finire col condi-videre, come avveniva al Caravia, il genere dell’invettiva tradizionalecontro il malcostume e la corruzione della Chiesa. Ma Marforio non sadove trovare i segni dell’attuale presenza dell’Anticristo, di cui gli parla ilCurione: «Qui possum scire an iam sit?».93 La scoperta di segni della pre-senza già operante dell’Anticristo e ancor più la deduzione che la Chiesa,ed essa soltanto, ne era la personificazione, presupponevano un impegna-tivo processo di deduzioni: sul piano generale della storia che stiamo nar-rando implicava, in sostanza, distacco irreversibile, a meno di costrizionie processi, da quella matrice di moderate aspirazioni riformatrici che usadenominarsi «evangelismo». Il Pasquino in estasi è, come il Liber generatio-nis Antichristi, tra gli scritti di larga diffusione che intesero accelerare e,come vedremo, accelerarono questo processo.

Sull’esempio di Lutero, Curione contrappone a Marforio, e in gene-

91 Prophetia dello Abbate Ioachino circa li Pontifici, Stampada ne l’alma et inclita Città diBologna per magistro Hieronymo di Benedicti Cittadino Bolognese, 1515, p. C2r (cfr. RO-BERTO RUSCONI, «Ex quodam antiquissimo libello». La tradizione manoscritta delle profezie nell’Ita-lia tardomedioevale: dalle collezioni profetiche alle prime edizioni a stampa, in The Use and Abuse ofEschatology cit., p. 462).

92 Pasquillorum tomi duo cit., II, pp. 437-438.93 Ibid., II, p. 438.

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re a quelle che egli considera visioni e calcoli escatologici dilatorî, l’inter-pretazione di II Thess., II, 4 come profezia già pienamente attuata: Cristoè già stato scacciato dal tempio e non c’è chi meriti più appropriatamenteil nome di Anticristo di colui che gli si è sostituito e vi si fa adorare.94

L’identificazione dell’Anticristo col papa sarà meglio esplicitata nelle edi-zioni accresciute del Pasquino in estasi, mediante un ammiccante giocoanagrammatico.95 Nella redazione che plausibilmente è da supporre la piùvicina alla prima edizione, l’Anticristo impersona colui che ha la respon-sabilità d’avere introdotto nella Chiesa, al posto dell’esemplare umiltà emitezza di Cristo, un’abnorme quantità di elementi numinosi. E quidavvero Curione alza il tiro. All’atterrito Marforio (che, una volta vinto,dirà: «Miracula me cogebant»).96 Curione propone una sua teoria dell’usopolitico dei miracoli. I miracoli, dice Pasquino, sono caratteristici deitempi in cui si annunciano sovvertimenti e rovine nell’ordine della so-cietà; ogni volta che, «ob perversam religionem», l’ira di Dio sta per ab-battersi sul mondo e «rem publicam funditus velle evertere», ci sono santiche fanno miracoli, «gentem ne resipiscat miraculis retinent»; il VecchioTestamento testimonia che i miracoli di Baal furono tanto più frequentiquanto più i profeti annunciavano l’ira di Dio.97 La forza propria dell’e-ducazione e la persuasività del portento radicano nelle menti la religionein cui si nasce al punto di non poter più giudicare diversamente («... ut sivelim in hac re iudicare – confessa Marforio – non possim neque etiamaudeam»), mentre a dichiarazioni e comportamenti trasgressivi consegueil pericolo che essa subito ti si rivolga contro e si vendichi («timeo ne, siquid in illius maiestatem dicam, illa se subito de me vindicet»).98 È la sur-rettizia capacità dell’Anticristo di operare portenti persuasivi e, all’occor-renza, minacciosi («saeva miracula») a tenere vincolate le coscienze. Visi-bilmente, Curione fa del culto dei santi e di tutta la struttura devozionalefondata su di esso la manifestazione della presenza falsamente numinosadell’Anticristo: una millenaria, gigantesca operazione di sublimazione nu-minosa di uomini la cui unica preoccupazione era stata, invece, l’imita-zione di Cristo con mitezza e umiltà di cuore («Qui fit ergo, ut sanctosceu quosdam immanes tyrannos et vindictae appetentissimos metuas?»); el’umanista Curione auspica la distruzione, o quanto meno una profonda

94 Ibid.95 Pasquino in estasi, nuovo, e molto più pieno cit., pp. 18-19.96 Pasquillorum tomi duo cit., II, p. 437.97 Ibid., II, pp. 438-439.98 Ibid., II, p. 436.

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ANTONIO ROTONDÒ

revisione critica, della letteratura agiografica.99 Non ci sarà rinnovamentodella società cristiana fino a quando la fede sarà soffocata da queste par-venze numinose che persuadono e atterriscono, ma che, in realtà, posso-no nuocere soltanto a chi vi crede, non a chi le respinge e le condanna: 100

«Et quid te – domanda, spazientito, Pasquino – tam superciliose urgentmiracula? Nescis ubi illa sunt frequentia summae insidiae esse signa?».101 Secosì non fosse, cosa sarebbe dovuto accadere in Germania, dove «partimcombusserunt, partim in cryptas reiecerunt» tutti questi simulacri del-l’Anticristo? 102

Ma a questo punto l’itinerario di Marforio rischia di arrestarsi. Lasomma di novità prospettategli da Curione era sconvolgente: dall’usopolitico dei miracoli, con quell’irrefutabile riferimento testamentario allatirannide idolatrica di Baal, alla denuncia dei vincoli imposti alle coscien-ze dalla nascita e dalla forza dell’educazione, a quel richiamo impassibiledella recisa iconoclastia operata in Germania. E Marforio risponde: «Tunimis altum sapis, Pasquille»; bisogna credere con semplicità, e non im-porta che semplicità equivalga a ignoranza («... simplicitatem et ignoran-tiam unam esse et eandem»).103 I documenti del tempo testimoniano ab-bondantemente la realtà di questo passaggio difficile dell’evoluzione diMarforio, questo suo moto di resipiscenza, l’impulso a tornare, di frontea spinte radicali, alle rassicuranti certezze della tradizione: meglio esseresemplici e ignoranti, e «non multum fatigare cum rebus sacris et permit-tere magnis theologis omnia».104 Su questo punto Alessandro Caravia ave-va possibilità di essere ascoltato. Un solo esempio. Un artigiano modene-se processato a Bologna e poi giustiziato a Modena, nel ripercorrere lesollecitazioni cui era stato sottoposto per anni dai componenti più audacidel gruppo di cui aveva fatto parte, narrò all’inquisitore: «Sempre, in tuttili ragionamenti occorsi tra noi di tal materia, io havevo displicentia nel-l’animo, et sentivo cruccio nella mia mente, et partito ch’io era da loro,

99 Ibid., II, p. 437. A p. 492 si auspica l’eliminazione della letteratura agiografica: «... etutinam habeamus horum [dei santi] historias aliquando eliminatas; miraberis tam vastammendaciorum partem rescissam». Meno radicalmente in Pasquillus exstaticus cit., p. 65: «... etutinam habeamus horum historias repurgatas».

100 Pasquillorum tomi duo, II, p. 439.101 Ibid., II, p. 438.102 Ibid., II, p. 439.103 Ibid.; a p. 441: «Certe, Pasquille, ego hactenus semper credidi, debere nos simplices,

hoc est ignorantes esse».104 Ibid., II, p. 439.

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me n’andavo pure alle mie divotioni, cioè alle chiese, alle messe et alleprediche in S. Petronio et in S. Martino».105 La distinzione tra semplicità eignoranza, tra candore e credulità, è il secondo dei due temi essenziali delPasquino in estasi. La semplicità di per sé associata all’ignoranza è concettoconiato da quanti hanno avuto interesse a trarne vantaggi («Sic censue-runt quos horum saeculorum ignorantia pingues fecit»).106 La semplicitàdel cristiano va, invece, associata all’obbligo d’una perfetta conoscenzadella dottrina che egli professa.107 Il precetto evangelico «ScrutaminiScripturas» (Iohan., V, 39) è rivolto a tutti i cristiani.108 Lasciarsi sottrarrele Scritture, com’è avvenuto col consolidarsi degli ordini religiosi e conla nascita delle scuole teologiche, significa esporsi a ogni sopruso in nomedi esse:

Quis est enim – conclude il Curione – qui nescit superioribus saeculis, dumadhuc dormitarent literae, Christianos omnes istos ceu dei nepotes aestimasse eo-rumque consulta pluris fecisse quam Christi? Nam Christum ignorabant, quem exEvangelio, quod apud hos captivum erat, oportebat cognovisse. Porro isti cum li-brum pacis et libertatis soli tractarent, vulgus autem putaret eos omnia sua ex hocunico libro adducere, cum ipsi mendaciis undequaquam contractis et horrendis mi-raculis et purgatoriis confictis populum onerarent, fuit factum ut partim sui admira-tione, partim timore miserum popellum ad omnes nugas credendas compulerint. Sivelis Evangelium illorum temporum videre et onera et sarcinas quibus populumonerarint, iurabis legem Iudaicam centuplo (quantum ad externa pertinet) mitioremfuisse. Et ut ad propositum redeamus, cum Evangelium huiusmodi consiliis olimextinctum sit, et iam rursus reviviscat, necessum est ad eadem remedia recurrere eticcirco est quod dicebam, novas rursus larvas apud eos excogitari, quibus stultosmortales rursus avocent ad suam illam tam sordidam servitutem.109

Insomma, il Curione sollecita i suoi lettori in senso contrario a quel-lo che abbiamo esemplificato con la posizione del Caravia e col suo bia-simo dell’indiscrezione teologica di sarti, barbieri e fabbri. Le varie rac-colte di Prediche dell’Ochino, la cui circolazione in quegli anni risultaspesso segnalata e denunciata unitamente o contemporaneamente al Pa-

105 Modena, Archivio di Stato, Fondo Inquisizione, busta 4, processo Marco Magnavacca,costituto del 17 dicembre 1566.

106 Pasquillorum tomi duo cit., II, p. 441.107 Ibid., II, pp. 441-442.108 Ibid., II, p. 439.109 Ibid., II, p. 465.

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squino in estasi e all’Imagine di Antechristo dello stesso Ochino,110 ribadisco-no gli stessi concetti. In una delle più diffuse raccolte delle sue prediche,il problema dell’accesso alle Scritture da parte di «inliterati, idioti et sim-plici» è svolto in un apposito e polemicissimo capitolo, Se è bene, o male,che ciascheduno cerchi chiarirsi della sua fede, se l’è vera, o no: molti, «e parti-colarmente nel regno di Antechristo» – scrive l’Ochino – ritengono chesia un gran male che nelle verità di fede ormai voglia veder chiaro«ognuno indifferentemente, maxime le donne, li inliterati, idioti et sim-plici». La ragione che di ciò Ochino comunica ai suoi lettori è «che li ca-pi del regno di Antechristo, con sottile e diabolica astutia, si sieno sforzaticosì di occultarle per esser tanto più adorati chome persone divine e taliche soli infra li altri habbin lume de’ divini secreti»; è pretestuosa l’ipotesiche, se gli «idioti» avessero accesso alle Scritture, facilmente cadrebberoin errori ed eresie, perché, al contrario, sono «i savi et prudenti del mon-do» i più inclini agli errori, in quanto «la loro magior prudentia et sa-pientia humana», che Dio considera stoltezza, li dispone a resistere all’a-zione dello Spirito; del resto, «s’è visto per esperientia che dove li simpli-ci hanno acceptato lo Evangelio et creduto in Christo, li savi del mondonon li hano creduto, imo l’hanno perseguitato»; 111 e così via. Con tuttoquesto non era, ovviamente, incompatibile il messaggio che a questostesso riguardo era provenuto dalla traduzione del Nuovo Testamento diBrucioli; ma, al confronto, esso ora appariva generico. Come il Curionee già prima di lui in tutta la sua «larvata» predicazione italiana, anche l’O-chino partiva dalla contrapposizione tra «philautia» e fede: come per ilCurione, anche per l’Ochino la corruzione della Chiesa non era unarealtà la cui denuncia potesse esaurirsi in una sterile invettiva; bisognavacercare la ragione originaria che aveva fatto della Chiesa una costruzionediabolica; e questa ragione era la dimenticanza della fede e della grazia;«Et tutto è stato con diabolica astutia, per havere occasione d’arricchirsiet d’ingrandire la loro autorità, acciò sieno adorati come dei in terra [...].Et che sia il vero, guarda che sopra questa diabolica opinione dell’operesono fondati tutti li loro mulinelli dell’impie satisfationi, quanto al foro

110 Vedi la lettera del Mignanelli cit. alla nota 85 («Pasquino in estasi, Prediche di fra Ber-nardino, Antichristi stampati et cartelli impii et vituperosi sono andati tanto attorno in Vene-zia ...»). Tre giorni dopo, l’ambasciatore estense a Venezia, Tebaldo Tebaldi, mandava a Er-cole II d’Este una copia dell’Imagine di Antechristo (cfr. BENEDETTO NICOLINI, Aspetti della vitareligiosa, politica e letteraria del Cinquecento cit., p. 57).

111 Sermones de fide Bernardini Ochini Senensis, s.l. (ma Ginevra) 1544, pp. d3r-v, d6r-v,d7v (cfr. Espositione di Bernardino Ochino di Siena, sopra la Epistola di S. Paulo alli Romani, s.l.(ma Ginevra), 1545, p. A2v).

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spirituale, del sacrifitio della messa, de’ meriti, indulgentie, purgatorio,voti et religioni humane, et così dell’assolutioni, beneditioni, simonie etaltre loro impiissime impietà».112 L’analogia con l’impianto concettuale delLiber generationis Antichristi è tale da giustificare almeno la tentazione d’at-tribuirlo all’Ochino.

Quanti avevano già letto il Liber generationis Antichristi (come vedre-mo tra breve, in almeno una delle redazioni note esso circolò in Italiaprima che il Pasquino in estasi e le Prediche) vi avevano trovato i presup-posti essenziali tanto delle invettive dell’Ochino quanto della narrazionedella metamorfosi di Marforio. Anche nell’anonimo libello è centrale laragione per cui il «mysterium iniquitatis», originato dalla «gratiae obli-vio», si è radicato nella realtà: cioè la nascita della teologia («Mysteriumautem iniquitatis genuit theologiam sophisticam»), intesa come sofisma,cioè come giustificazione ideologica dell’edificio costruito da Satana. Neiprincipi e nella pratica, una tale elaborazione teorica si è risolta nell’ab-bandono e nel disprezzo delle Scritture. E di qui – deduce genealogica-mente l’autore del libello – tirannide, «mactatio sanctorum», dispense elicenza di peccare, fino al completo abominio. L’effetto ultimo di questoprocesso di corruzione sono stati una generale ansietà e un diffuso turba-mento delle coscienze («Confusio autem genuit anxietatem»). Già varistudiosi hanno analizzato con acume questo diffuso stato di ansietà cometerreno propizio al diffondersi delle nuove idee religiose.113 Il nostro libel-lista ne fa il secondo degli scenari tragici in cui egli colloca la nascita e larivelazione dell’Anticristo: il processo genealogico della progressiva cor-ruzione del cristianesimo s’era aperto, come abbiamo visto, con un gene-rale stato di offuscamento delle coscienze e delle menti; si chiude con ungenerale turbamento e con un’attesa ansiosa, tali da rendere indifferibili lasoluzione del problema e la rivelazione della verità («Quaestio autem ge-nuit argumentum veritatis»); e il momento della verità è rappresentatodalla rivelazione che il papa è l’incarnazione dell’Anticristo. Volutamen-te, lo scritto non ha riferimenti attuali: intenzione del libellista è che laconcatenazione dell’assieme dia il senso della ineluttabilità dell’inizio del-la Riforma.

112 Prediche di Bernardino Ochino da Siena. Novellamente ristampate e con grande diligentia rive-dute e corrette, s.l. né a., p. A7r.

113 Vedi, ad esempio, STEVEN OZMENT, The Reformation in the Cities. The Appeal of Prote-stantism to Sixteenth-Century Germany and Switzerland, New Haven, Yale University Press,1975, in part. p. 49; e con riferimento alla pratica della confessione, THOMAS N. TENTLER,Sin and Confession on the Eve of the Reformation, Princeton, Princeton University Press, 1977,in part. pp. 155-156.

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Nella redazione del libello conservata da Vittore Soranzo, una parti-colarità, alla quale abbiamo già accennato, consiste nell’invettiva finale,con richiamo implicito di Iohan., VIII, 9:

Vos ex patre diabolo estis, et desideria patris vestri vultis facere. Ille homicidaerat ab initio et in veritate non stetit.

Com’è noto, anche l’itinerario religioso del Soranzo ebbe inizio dallariflessione sul rapporto tra fede e opere. Ma, a parte l’annotazione di suamano con cui, durante la detenzione in Castel Sant’Angelo, il Soranzoriconobbe il possesso del manoscritto nel quale è conservato il Liber gene-rationis Antichristi, non si conosce a tutt’oggi (se non vado errato) una solacarta su cui egli abbia dichiarato alcunché delle sue idee. Risulta, perciò,difficile ricostruire, nel suo caso, quel seguito di progressive «illazioni» dalprincipio della giustificazione per fede che, per sé e per gli amici, Carne-secchi descrisse ai suoi giudici romani («Son cose, come ogni uno sa, cheobrepunt a pocho a pocho nelli animi nostri»).114 È significativo che nelfebbraio del 1551, pochi mesi prima della sua fuga in Svizzera, CelsoMartinengo fosse convinto che colloqui col Soranzo fossero i più idoneiad acquietare le sue laceranti riflessioni («questa è piaga del core») sulproblema del rapporto tra fede e opere.115 Com’è noto, nell’estate dellostesso anno, il papa da poco regnante, il moderato Giulio III Del Monte,sospese extragiudizialmente, cioè con effetti provvisori, il processo con-tro il Soranzo – anche se non è da sottovalutare la gravità del fatto che apatrizio veneziano veniva interdetto il pieno esercizio delle funzioni epi-scopali nella sua diocesi in terra veneta.116 Ciò che ancora resta da sapere èla reazione degli organi dell’Inquisizione di fronte a quella specie di ma-ledizione contro l’intera gerarchia ecclesiastica come figlia di Satana, concui si chiudeva un libello al quale poi seguiva, come una sorta di sua ap-pendice, una notevole documentazione sul dibattito sulla giustificazione,a partire dai colloqui di Ratisbona, e una quantità cospicua di testimo-nianze sui rapporti che gruppi eterodossi italiani avevano stabilito tra loro

114 Estratto del processo di Pietro Carnesecchi, a cura di GIACOMO MANZONI, «Miscellanea distoria italiana», X, 1870, p. 197.

115 MASSIMO FIRPO, DARIO MARCATTO, Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone.Edizione critica, Roma, Istituto storico italiano per la storia moderna e contemporanea, 1981-1989, 5 voll., II, 1984, pp. 1111-1112, lettera a Ippolito Chizzuola del 15 febbraio 1551 daMilano.

116 PIO PASCHINI, Tre ricerche di storia della Chiesa cit., p. 140 sgg.

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e col mondo religioso d’Oltralpe.117 È una documentazione che si riferisceall’arco d’un intero decennio: cosicché solo dalle risultanze della severainchiesta del Ghislieri (se ancora si conservano le carte relative) potrem-mo sapere quando il Liber generationis Antichristi entrò a far parte delle let-ture del Soranzo, se il violento contenuto del libello trova rispondenzenella sua evoluzione religiosa, se esso circolò nella rete di relazioni delvescovo di Bergamo e in che misura e su quanti ebbe capacità di sugge-stione e riscosse consensi. Ogni altro discorso sul significato che il Libergenerationis Antichristi ha nel contesto del problematico zibaldone del So-ranzo non può, per ora, andare oltre questi quesiti.

5. Libellistica antiromana e gruppi ereticali a Bologna

Circostanze e particolari più precisi emergono, invece, dalla docu-mentazione sulla circolazione che il Liber generationis Antichristi ebbe aModena e a Bologna. La data è il particolare più rilevante: 1541, cioè an-teriormente alla diffusione di scritti tra i più affini, per genere e per con-tenuto, come il Pasquino in estasi del Curione e soprattutto l’Imagine diAntechristo dell’Ochino, col quale più tardi il Liber generationis Antichristiapparirà congiunto, come vedremo, in almeno una stampa in lingua spa-gnola. Il 14 giugno 1541, il governatore di Modena Francesco Villa scris-se al duca di Ferrara che il Liber generationis Antichristi «per pasquineria eramolto lodata».118 Vedremo tra breve le circostanze in cui da Bologna il li-bello giunse a Modena e il significato della sua comparsa nel contestod’altri scritti simili e dei fermenti religiosi che si venivano manifestandosempre più apertamente nelle due città. Intanto le lodi del libello riferiteda Francesco Villa propongono la questione più generale del modo incui era accolta e letta e della funzione che ebbe in quegli anni la libellisti-ca di larga diffusione, la multiforme letteratura della derisione e del vitu-

117 Per la documentazione sul dibattito sulla giustificazione e per il resto del contenutodel codice si rimanda alla già citata descrizione di Giovanni Battista Borino (cfr. sopra, nota78). A c. 153r-161v la lunga lettera di «Fr. Bernardino [Ochino] cappuzzino a M. B. D. fra-tel maggior in Christo», ora pubblicata in BENEDETTO NICOLINI, Aspetti della vita religiosa, poli-tica e letteraria del Cinquecento cit., pp. 90-97, con la congettura che si tratti di «una rielabora-zione di una o più lettere del frate senese, compilata con intenti propagandistici o dallo stes-so Soranzo o da altro seguace del Contarini».

118 Vedi Documenti, 1, p. 192.

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perio antiecclesiastici, della quale il Liber generationis Antichristi è un’e-spressione tra le più violente.119

Nel presentare la più recente raccolta di pasquinate romane del Cin-quecento, Giovanni Aquilecchia ha fatto al riguardo osservazioni acutis-sime: a Roma, la polemica pasquillesca, espressione d’una società che simodella secondo l’immagine, le fazioni e i contrasti della corte pontificia,è priva di «qualsiasi esortazione alternativa, fosse pur solo sul genericopiano ideologico e religioso»; persino dalla sua reazione all’azione repres-siva di Paolo IV «risulta confermato il carattere sostanzialmente conserva-tivo della polemica pasquillesca: carattere inerente del resto a qualsivogliaprotesta di stampo radicale che miri – tramite la denuncia e conseguenteeliminazione del vizio (quando pure la denuncia non sia ingiustificata) –a una più corretta e quindi efficace amministrazione dello stato esistente»;insomma, «una produzione versificatoria che pur essendo da cima a fon-do imbastita di vituperi ad personam, si guarda poi bene dallo scalfire purminimamente la compattezza del sistema istituzionale e gerarchico di cuii personaggi colpiti pur sono l’immediato prodotto».120 Innocue nel qua-

119 Preziosa la recente raccolta Pasquinate romane del Cinquecento, a cura di VALERIO MA-RUCCI, ANTONIO MARZO e ANGELO ROMANO, presentazione di GIOVANNI AQUILECCHIA, Roma,Salerno Editrice, 1983, 2 voll. Su di essa vedi i rilievi di MASSIMO FIRPO, Pasquinate romane delCinquecento, «Rivista storica italiana», XCVI, 1984, pp. 600-621, e XCVII, 1985, pp. 775-783, le rispettive repliche del Marucci e dello stesso Firpo. Altre indicazioni in VALERIO MA-RUCCI, Nuove fonti manoscritte di pasquinate del Cinque e Seicento, «Filologia e critica», XIII,1988, pp. 102-109. Il vero limite dell’efficacia della raccolta in rapporto ad argomenti qualequello di cui stiamo trattando è che essa include soltanto produzione pasquillesca in versi. Ilcampo di indagine rimane ancora sterminato. Mi limito a una sola indicazione. Il ms. O. II.49 della Universitätsbibliothek di Basilea conserva una quantità notevole di pasquinate initaliano e in latino (alcune in redazione italiana e latina) edite e inedite. Come risulta da va-rie annotazioni marginali (ad esempio: «Quae praecedunt sex folia in catalogum cum reliquishuc transferenda sunt», c. 16r), il materiale pasquillesco adunato nel ms. era in preparazionedella stampa d’una raccolta di Girolamo Massari, della quale non ho altra notizia, oppure infunzione di una delle raccolte di pasquilli che in quegli anni venivano curate a Basilea spe-cialmente da Thomas Kirchmeyer. Il contributo italiano a queste raccolte provenne, oltreche dalla ristampa di pasquilli già comparsi nei Pasquillorum tomi duo di Curione, dallo stessoMassari, come risulta da una sua lettera a Gilbert Cousin del 24 ottobre 1553 (c. 11v). Seguela pasquinata: Hieronymus Massarius ad Iulium Tertium P. M. qui se annos centum et viginti victu-rum sperat.

120 Pasquinate romane del Cinquecento cit., I, pp. XI-XVI, e a pp. XXI-XXII anche le osserva-zioni di Valerio Marucci. Reazioni di segno diverso erano rare e potevano provenire solo daun mondo religiosamente estraneo a quello romano, com’è, ad esempio, il caso della letteradel 24 aprile 1555 con cui il gesuita Giovan Battista Viola, incitando Marcello II alle rifor-me, concludeva: «... sarebbono a loro dispetto constretti dalla stessa conscienza [...], gietandoli loro Pasquini et Marphoi nel fiume, col medemo Pasquino et Marphoio, con quali si va

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dro religioso, politico e sociale romano, le pasquinate, come ogni altraforma di libellistica analoga, hanno, invece, ben altra efficacia e comun-que ben altra intenzione allorché, diffuse fuori della cornice del mondoromano o prodotte fuori di Roma, si accompagnano alla diffusione e allalettura di scritti che dalla realistica descrizione della corruzione dellaChiesa traggono o suggeriscono la riprova della necessità di contestazionipiù radicali delle istituzioni e del mondo dileggiati e vituperati da Pa-squino. A questo genere di efficacia pensava a Basilea il teologo Wolf-gang Wissenburg, quando nel 1555, in anni di rinato interesse per la sati-ra pasquillesca a un decennio dalla famosa raccolta del Curione, incluse lepasquinate tra le altre forme di letteratura di larga diffusione, efficace perla denuncia della corruzione della Chiesa (figurazioni per ogni genere dipersone «non minus doctis quam appositis», cantilene, scritti allusivi,profezie ecc.).121 Limitiamoci a un solo esempio.

Nel maggio del 1568, alla domanda dell’inquisitore se fosse di suamano una copia del Divi Severi episcopi Neapolitani vaticinium mirabile, ilpadovano Marziale Clementi rispose che si trattava di «pasquinate, et chicercasse – aggiungeva – le case di questa terra el se ghe ne troveria in tut-te de qualche sorte».122 Evidentemente, nella dichiarazione del Clementi iltermine pasquinate, esteso alla nota Prophetia Sancti Severi (vedremo quale

ridendo il mondo de sommi pontifici, prelati et ministri dela chiesa santa» (Epistolae mixtaeex variis Europae locis ab anno 1537 ad 1556 scriptae, nunc primum a patribus Societatis Iesu in lu-cem editae, Matriti, excudebat Augustinus Avrial, t. IV, 1900, pp. 598-599; indicazione diOttavia Niccoli, che ringrazio).

121 Antilogia Papae: hoc est de corrupto ecclesiae statu, et totius Cleri Papistici perversitate. Scriptaaliquot veterum authorum, ante annos plus minus CCC et interea: nunc primum in lucem eruta, et abinteritu vindicata. Cum praefatione D. Wolfgangi Wissenburgii Theologi Basiliensis, ex officinaIoannis Oporini, 1555, pp. a 6v-7r: «Hos [difensori della vera fede] autem dedit [Dominus]non unius generis, sed diversos ac variis modis armatos [...]. Pasquilli (ut vocant) quibus nonnuper, sed ab ingruente fere errore liberius semper, etiam in ipsa urbe Roma et pontificisconspectu, Romanensium vicia et cleri statum corruptissimum corripere licuit. Quod prae-ter divinam ordinationem factum esse minime censendum est: utcunque lusum eam rem fe-cerint pontifices».

122 Venezia, Archivio di Stato, Sant’Ufficio dell’Inquisizione, busta 25, Contra Martialem diClemente, costituto del 26 maggio 1568. L’importanza di questo processo va molto al di làdell’utilizzazione che se ne fa qui. Si compone di due serie di costituti e interrogatori testi-moniali: quelli padovani, dal 15 aprile 1567 al 21 luglio 1568; quelli veneziani dal 19 agostoal 26 ottobre 1568. Gli atti padovani sono in copia spedita a Venezia. La fase veneziana delprocesso si chiude con una dichiarazione dei giudici («videntes eum debilem, macilentum etlanguidum») di inabilità dell’imputato alla tortura. Il processo fu probabilmente revocatodalla Congregazione del Sant’Ufficio, alla quale fin dal luglio del 1568 l’inquisitore padova-no aveva inviato gli atti e parte delle carte dell’imputato insieme col quesito «se egli sia daesser iudicato per heretico convinto di violente suspicione e presoncione overo di vehemente».

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fosse la versione che il Clementi ne diffondeva), assumeva un significatomolto lato: in ogni caso, se anche l’inquisito mirò, con ciò, ad attenuarela gravità dell’accusa di essere stato possessore e diffonditore dell’impres-sionante vaticinio, l’inquisitore padovano non si mostrò disposto a faredistinzioni. L’inizio dell’inchiesta sul Clementi e i lunghi interrogatoriche ne seguirono a Padova e a Venezia sono relativamente tardi (aprile1567-novembre 1568). Ma il relativo incartamento è tra i non pochi diquegli anni che consentono di risalire a parecchi decenni prima – in que-sto caso, per l’appunto, agli inizi degli anni Quaranta.

La lunga storia del Clementi emerse particolarmente dall’esame dellesue carte. Erano tante che si dovette procedere al loro esame in due tem-pi. La prima accusa, fondata sull’esame delle scritture più comprometten-ti, fu d’aver sostenuto che il papa era l’Anticristo. Veniva dedotta primadi tutto dal possesso di alcune copie della Prophetia Sancti Severi. Nellaversione che ne fu trovata fra le scritture del Clementi, questa profezia,tratta, com’è noto, dal Mirabilis liber, presenta evidenti adattamenti alla si-tuazione del Regno di Napoli. Riformare significava prima di tutto de-molire. Perciò essa prometteva lo sterminio del papa e di tutti i prelati(rappresentati in forma di lupi): un feroce condottiero proveniente daOriente («bestia orientalis») presto avrebbe aggredita e assoggettata tuttal’Italia; le città che avrebbero opposto resistenza sarebbero state rase alsuolo, le altre avrebbero avuto la libertà; l’Apulia sarebbe rimasta incerta;Napoli sarebbe stata conquistata e privata di tutto il suo fasto; all’avvici-narsi del conquistatore, il papa sarebbe fuggito da Roma, dovunque fattosegno di ludibrio, fin a quando «a bestia devorabitur cum suis lupis»; en-trato in Roma, il vincitore vi sarebbe stato accolto con giubilo dai Ro-mani «expulsione luporum»; qui, a opera dello Spirito Santo, si sarebbefatto battezzare con tutto il suo popolo; divenuto «agnus mansuetissi-mus», avrebbe fatto eleggere un pastore angelico che, insieme con dodicicardinali, avrebbe retto la Chiesa con santità e nella povertà; «et tunc ec-clesia Dei erit vera ecclesia»; ne sarebbe seguita un’età felice, senza guer-re; tutti i tiranni della terra sarebbero stati sterminati.123 Il Clementi disse

123 Trascrivo l’intero testo della profezia, che si presenta come una variante notevole ri-spetto alle redazioni già note: «Divi Severi episcopi Neapolitani vaticinium mirabile. Soleintrante Thaurum bestia orientalis cum incomparabili classe et inexpugnabili exercitu aggre-dietur Italiam. Laceram a militibus obtinebit. Civitates patentes libertate donabit, repugnan-tes vero solo aequabit. Apulia fluctuabit. A. et P. succumbent in proelio et in arbore suspen-dentur. Partenope calcabitur et omni fastu privabitur. Princeps lupus fugiet cum suis lupis abaspectu bestiae, sed quo ierit ludibrio habebitur, tandem a bestia devorabitur cum suis lupis.

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d’avere avuto copia della profezia a Salerno, dove tra il 1540 e il 1545aveva compiuto i suoi studi ed era entrato a far parte della corte del prin-cipe Ferrante Sanseverino.124 All’inquisitore disse anche che l’aveva avuta«nel tempo che fu posta fuori la inquisicione et lì credo che fusse postafuori questa profezia».125 Si trattava probabilmente d’una delle reazioni allapubblicazione della bolla istitutiva dell’Inquisizione romana, in questocaso da parte d’un gruppo eterodosso salernitano ancora poco noto, chesi muoveva attorno e all’interno stesso della corte del Sanseverino e chein lettere allo stesso Sanseverino si autodefiniva «chiesa di Salerno».126 Do-

F. et C. fugient ad extrema terrarum. Gentes quae in acquis sunt simulabunt metu bestiaeingentis. Bestia autem subacta Italia, Romam revertetur. Romani gaudebunt expulsione lu-porum. Bestia autem Spiritu Sancto cohoperante baptizabitur cum omnibus suis populis, etex bestia efficietur agnus mansuetissimus, et elligi faciet pastorem angelicum qui in omnisanctitate vitae et paupertate regat ecclesiam Dei cum duodecim cardinalibus et tunc ecclesiaDei erit vera ecclesia, et erit secundum tempus quietum et tranquillum sine aliquo bello, etextinguet omnes tyrannos qui sunt in terra. Forma triquetra laniabitur. Aenaria sequenti an-no submerget et magna pars Ianuae ex terraemotu corruet». Non sono riuscito a sciogliere leabbreviazioni, che evidentemente costituiscono elementi allusivi importanti per una pienadecifrazione del senso della profezia. Sul posto che essa occupa nel Mirabilis liber vedi JENNI-FER BRITNELL, DEREK STUBBS, The «Mirabilis Liber»: Its Compilation and Influence, «Journal ofthe Warburg and Courtauld Institutes», XLIX, 1986, pp. 126-149, in part. pp. 134-135.

124 Costituto padovano del 30 giugno 1568 («son stato cinque anni a Napoli», dove Na-poli è da intendersi Regno di Napoli), e costituto veneziano del 21 agosto 1568 («ero stato aSalerno 4 o 5 anni»). Nel costituto padovano del 26 maggio 1568, il Clementi dichiara d’a-vere avuto la profezia «da 25 in 30 forsi anni».

125 Costituto padovano del 3 luglio 1568. Nel riprodurre la profezia nel suo Thrésor desprophéties, in una redazione vicina a quella del Mirabilis liber, Guillaume Postel scrisse che essaera «commune en l’Italie» quando ne ebbe una copia a Parma nel 1543 (cfr. GUILLAUME PO-STEL, Thrésor des prophéties de l’univers. Manuscrit publié avec une introduction et des notespar FRANÇOIS SECRET, La Haye, Martinus Nijhoff, 1969, pp. 165-166).

126 La mancanza di notizie sulla diffusione di dottrine eterodosse a Salerno rende prezio-se le informazioni che il Clementi diede all’inquisitore veneziano, in particolare nei costitutidel 19 e del 21 agosto 1568. Ha importanza soprattutto una lunga lettera (non datata) scrittaal Sanseverino, a nome della «chiesa di Salerno», da tale Ludovico, che dal costituto padova-no del 1o luglio 1568 risulta essere Ludovico Dell’Oro («salernitano, scolare overo dotore»).Il Dell’Oro scrive al Sanseverino come a chi ha ricevuto la «regeneratione», ma non ancorala «renovatione». La lettera è in copia autenticata dal cancelliere del Sant’Ufficio padovano,Ludovico Graziani. Alla corte salernitana il Clementi aveva conosciuto Bernardo Tasso,Vincenzo Martelli, Girolamo Bulli, Orazio Vicari, Giovan Battista Capogrossi, FrancescoTorres e Alessandro Grandi; ma aveva avuto relazioni più strette solo con un gruppo di «ot-to o nove» persone che non nomina (costituto veneziano del 21 agosto 1568). Poiché nelcostituto padovano del 1o luglio 1568 l’inquisitore esorta il Clementi a confessare tutto «perscrivere a Salerno et estirpar questa mala pravità», probabilmente dipese proprio dalle infor-mazioni ricevute da Padova l’inchiesta svolta a Salerno nel luglio dello stesso anno, sullaquale vedi MICHELE MIELE, La penetrazione protestante a Salerno verso la metà del Cinquecento se-

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po molte reticenze, il Clementi ammise d’aver diffuso la profezia al suorientro a Padova.127

Negli anni successivi, la sua attività di propaganda antiromana non siera più arrestata. Quando furono aperte le casse contenenti il blocco piùconsistente delle sue carte, «ellevatae fuerunt infinitae literae familiares etquidam libri et scripturae».128 Subito l’attenzione dell’inquisitore fu attiratada un’oscura scrittura, un misto di lettere e di numeri, in cui una notaesplicativa assicurava che poteva dedursene con certezza che Paolo IV erala bestia descritta nel XIII capitolo dell’Apocalisse: e il richiamo a queltopos tra i più ricorrenti nella letteratura escatologica d’ogni tempo – inparticolare, all’attesa e alla fiducia dei santi che chi ha usato la spada ègiusto che muoia di spada (qui in gladio occiderit oportet eum gladio occidi. Hicest patientia et fides sanctorum) – apparentava questa scrittura, attribuita an-ch’essa alla penna di Pasquino, al contenuto della manipolazione in sensoviolento della Prophetia Sancti Severi. Quando l’inquisitore gli mostrò unfascio di altre pasquinate, il Clementi tentò ancora una volta di minimiz-zare: dichiarò d’averne avute «quattro volte de quelle che mi havi trovà»,tutte venute da Roma o da Venezia e diffuse «in qua et in là da diversiscolari».129 In realtà, le ventisette pasquinate selezionate dall’inquisitorecomponevano una rappresentazione della corruzione della Chiesa che ri-sultava coerente con le scritture esaminate dal tribunale con maggiore at-tenzione.130 Soprattutto era una rappresentazione coerente con quantodelle più impegnative riflessioni del Clementi risulta dalle testimonianzesui suoi discorsi e dal resto delle sue carte. Nel carcere di Padova il Cle-menti leggeva libri dai quali tentava di insegnare ai detenuti a dedurre l’i-nesistenza del purgatorio e dell’inferno: il purgatorio erano le prigioni,l’inferno la povertà e la miseria.131 In un «liberculus manuscriptus», cheaveva custodito gelosamente per molti anni (e del quale si conserva nelfascicolo processuale la trascrizione della seconda parte), leggeva chemesse votive e purgatorio, scomuniche e indulgenze erano mezzi con i

condo un documento dell’Inquisizione, in Miscellanea Gilles Gérard Meersseman, Padova, EditriceAntenore, 1970, II, pp. 829-848.

127 Costituto padovano del 3 luglio 1568.128 Atto del 22 giugno 1568.129 Costituto padovano del 30 giugno 1568.130 Sono elencate, con i rispettivi incipit e explicit, nei costituti padovani del 30 giugno e

del 1o luglio 1568. Otto di esse corrispondono a Pasquinate romane del Cinquecento cit., nn.398, 636, 651, 653, 654, 655, 661, 682.

131 Costituto padovano del 16 settembre 1568.

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quali «questi sacerdoti di Venere e di Bacco più facilmente si cavano tut-te le loro voglie con la roba, anzi con il sangue delle vedove et pupilli».132

E non perdeva occasione per dichiarare che «non è più cativa fede almondo quanto tra preti, frati et cardinali».133 A ogni colpo di scandaglionelle carte e nelle convinzioni del Clementi, le accuse si facevano via viapiù gravi: ad esempio, d’aver negato i miracoli e la venerazione dei santi,«a tanto de dire che Giesù Christo farebbe bene a scaciarli dal paradiso»(sulla base di appunti sul canone Venerabiles e sul salmo CXXXIV, 15, Si-mulacra gentium argentum et aurum, opera manuum hominum); d’aver negatola presenza reale del corpo e del sangue di Cristo nell’eucaristia (sulla basedel «liberculus manuscriptus»); d’aver sostenuto che non bisogna perse-guitare gli eretici (sulla base d’una scrittura a stampa «cartarum quinquecum dimidia, in quarto»); e così via.134

Una simile compenetrazione di negazioni radicali della tradizionedottrinale e insieme di propaganda antiecclesiastica ispirata al genere delladerisione pasquillesca, non era un’eccezione. Il processo del Clementi ètra i non pochi che documentano l’ampiezza di questa compenetrazione:le reticenti ammissioni del Clementi finirono col coinvolgere esponentidel patriziato veneziano come Alvise Cornaro e Antonio Barbarigo;dubbi degli inquisitori, forse elusi dall’abilità dissimulatoria del Clementi,riguardarono, ad esempio, Sperone Speroni e «la madama Giovacchina»,cioè la nobildonna genovese Caterina Sauli, moglie di Giovanni Gioac-chino da Passano, per almeno un ventennio figura centrale del movi-mento eterodosso nel Veneto; e tra la folla di quanti componevano, leg-gevano e diffondevano pasquinate s’affaccia, ancora una volta in modoenigmatico, un «Tizian» attivo negli anni Quaranta tra Venezia e Padova,con notizie che non sono incompatibili – compreso il suo servizio pressoi Cornaro – con quanto sappiamo del noto capo anabattista.135

132 La parte del «liberculus manuscriptus» conservata in trascrizione si intitola Sermone se-cundo della cena del Signore (il brano riportato nel testo è alla c. 14 non num.). Lo scritto erain possesso del Clementi fin dal 1562 (costituto padovano del 1o luglio 1568).

133 Costituto padovano del 16 settembre 1567.134 Costituti padovani del 9 luglio 1567 e del 26 maggio 1568.135 Era «di mano del quondam magnifico messer Alvise Cornaro» una pasquinata inclusa

in un «libercolo» di scritti analoghi, composti da tale Giovanni Paccalona, e portata a Padovadal «suddetto Titian, mio compare, che alhora stava in ca’ Cornaro» (costituto padovano del4 giugno 1568). Del Barbarigo viene fra l’altro esibita al Clementi una lettera compromet-tente (in data 27 novembre 1549) riguardante la diffusione della Prophetia Sancti Severi (costi-tuto padovano del 1o luglio 1568: «Io non ho ancora potuto haver la profezia, essendo nelle

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ANTONIO ROTONDÒ

Quando agli inizi degli anni Quaranta comparve a Bologna il Libergenerationis Antichristi, nella situazione religiosa della città c’erano già tuttii presupposti perché la diffusione d’un qualsiasi genere di libellistica anti-romana stimolasse reazioni diverse dalla tradizionale invettiva anticlerica-le. Nel caso particolare del Liber generationis Antichristi, esso giungeva co-me un compendio di dottrine già ampiamente note anche in larghi stratipopolari. È significativo che nel 1532 venisse stampato proprio a Bolo-gna, con approvazione e lodi anche di Leandro Alberti, il cosiddetto In-cendio de zizanie Lutherane del francescano osservante (tre anni dopo dive-nuto cappuccino) Giovanni da Fano, cioè la prima opera controversisticain volgare in cui l’urgenza di insegnare a «fuggire et schivare tutti li here-tici, massime Luthero perdito Antichristo con tutta la canaglia de la suaexcommunicata setta», era dedotta dalla constatazione che le loro dottri-ne erano ormai penetrate largamente in mezzo a «li idioti, illiterati etsimplici».136 Allo stato attuale delle ricerche, ogni tentativo di identificareperiodi e fasi di maggiore o minor crescita e poi declino del movimentoreligioso eterodosso a Bologna nella prima metà del Cinquecento e oltre,è destinato a scontrarsi con l’insufficienza delle nostre conoscenze: laframmentarietà delle notizie non consente ancora di valutare la reale en-tità delle adesioni; soltanto indizi sporadici consentono di stabilire colle-gamenti tra conventicole e gruppi la cui esistenza affiora insistentemente

mani di persona con cui non si può fare così a suo modo»). Nello stesso costituto le doman-de dell’inquisitore se il Clementi conosceva «missier Speron Speroni», «uno misier Fortunioet uno misier Trapolino», e Caterina Sauli. Con essi, il Clementi disse d’avere avuto soltantorelazioni generiche.

136 Opera utilissima vulgare contra le pernitiosissime heresie Lutherane per li simplici (colophon:Giovan Battista Faello bolognese in Bologna impresse l’anno del Signore 1532 del mese diSettembre). Incendio de zizanie Lutherane compare nel titolo ripetuto nel prologo. Dopo ladedicatoria a Paolo Pisotti, generale dell’ordine, il testo è preceduto dall’approvazione diAgostino Zanetti, in qualità di vicario del vescovo Alessandro Campeggi, e di Leandro Al-berti, in qualità di vicario dell’inquisitore Stefano Foscarari. L’Alberti dice d’aver letto il li-bro con grande soddisfazione, avendovi trovato, «vulgari sermone confectum», una specie diepitome («veluti epithoma quoddam») degli analoghi scritti di Fisher, di Catarino e di Eck.Faccio uso dell’esemplare della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, Raccolta Guicciar-dini, 11.11.78. A p. 104 è riportato il testo di una parodia del Te Deum, preceduta dall’av-vertimento: «Alcuni amici di Martin Luth. in laude sua cantano». Probabilmente si tratta discritto diverso dal libello del quale dà notizia Francesco Villa a Ercole II d’Este come giuntoa Modena insieme con il Liber generationis Antichristi (cfr. Documenti, 1, p. 194). Il 9 luglio1545, il residente estense a Venezia Tebaldo Tebaldi ne mandò una copia a Ferrara, inter-pretandolo come un libello antiluterano (Modena, Archivio di Stato, Ambasciatori, Venezia,busta 33, 85. III. 37: «Qui allegato mando all’Ecc.za V. il Te deum contra Luthero per farlaanchor consapevole delle basse nuove di qua»).

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dai documenti; e ancora poco o niente sappiamo delle mediazioni cheresero possibile una notevole omogeneità di dottrine e credenze nuovein strati eterogenei della società bolognese. Nel decennio anteriore aiprovvedimenti repressivi presi in coincidenza con la fase bolognese delconcilio e anteriore all’azione svolta, tra il 1548 e gli inizi del 1550, dal-l’inquisitore Girolamo Muzzarelli, i dati più rilevanti della situazione re-ligiosa bolognese sono due: in primo luogo, una notevole tensione deldibattito pubblico sulla giustificazione e sulle questioni più immediata-mente connesse (libero arbitrio, predestinazione); in secondo luogo, il fa-cile accesso alla letteratura eterodossa proveniente d’Oltralpe, tanto aopera del normale anche se guardingo commercio librario quanto attra-verso i numerosi studenti della «nazione germanica». E tutto ciò nellacornice d’una situazione cittadina caratterizzata dalla singolarità delle duesuccessive legazioni del Contarini e del Morone: inevitabilmente, la lorofama di sostenitori della giustificazione per fede confermava nella validitàdelle loro inquietudini quanti avevano dubbi sulla dottrina tradizionaledella salvezza, oppure alimentava, in quanti avevano già abbracciato lanuova dottrina, la supposizione d’una solidarietà ai vertici della chiesabolognese; 137 e in quegli anni, a Bologna, prediche discordi e discussionipubbliche sul problema della giustificazione erano, con l’analoga eccezio-ne di Modena, comportamenti meno trasgressivi che altrove.

A tener desta la tensione sul problema della salvezza nella forma deldilemma tra fede e opere un forte stimolo proveniva da frequenti predi-che e cicli di predicazione dagli orientamenti discordi o clamorosamentecontrapposti. È difficile sottovalutare l’effetto di simili eventi in situazio-ni in cui la percezione del nuovo si viveva ancora nella forma del turba-mento e dell’incertezza. I casi ai quali si riferiscono cronache cittadine edocumenti di vario genere meriterebbero di essere studiati approfondita-mente. Sull’argomento dovremo tornare tra breve, con riferimento aiprocessi mentali che quella predicazione senza univoche certezze finivacon l’accelerare. Intanto una testimonianza uscita dalla penna d’un singo-lare osservatore della realtà religiosa bolognese di quegli anni può dare la

137 Giustificata o meno che fosse, a tale supposizione offrivano base obbiettiva, ad esem-pio, le lettere indirizzate a Giovan Battista Scotti dal Carnesecchi e dal Soranzo, sulle qualivedi sotto, nota 160. Le dichiarazioni dello Scotti, secondo le quali il Morone «promisse dinon essequire commissione de Roma contra lutherani de Bologna, senza che prima non glifacesse advertiti. Et feceli elemosine de parecchi scudi ad esso Scoto, per dispensare a poverilutherani de Bologna», in MASSIMO FIRPO, DARIO MARCATTO, Il processo inquisitoriale del cardi-nal Giovanni Morone cit., II, pp. 248-249, 349, 762-764.

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misura dell’entità del fenomeno e delle sue risonanze nella vita cittadina.Il 17 maggio 1546, un giovane studente svizzero destinato a grande rino-manza nel mondo scientifico e politico europeo, Thomas Erastus, fece alteologo zurighese Konrad Pellikan un resoconto del genere di predica-zione che aveva ascoltato a Bologna dal periodo dell’avvento fino algiorno stesso in cui scriveva. Riferiva che durante l’avvento, poi durantela quaresima e poi ancora durante gli otto giorni del capitolo dei dome-nicani, aveva visto succedersi sui pulpiti delle chiese bolognesi, seguìti daun gran concorso di folle, predicatori dalle voci discordi. Durante la qua-resima aveva potuto ascoltare «quosdam indissimulanter impios, quosdampenitus pios nihil a veritate alienum dicentes». Altri avevano predicato«via media incedentes, nunc bene, nunc mediocriter, mox male iam op-time disputantes». Su tutti era prevalsa, suscitando emozione, la voced’uno degli ultimi predicatori al capitolo dei domenicani, che aveva par-lato della predestinazione «divinissime» (ed Erastus s’affrettava ad annota-re che gli era sembrato si fosse espresso con parole tratte letteralmente dascritti di Zwingli). La voce più incisiva gli era parsa quella d’un agosti-niano che, in una delle sue quaranta prediche «de regno Dei», non avevaproferito – diceva – una sola parola empia («nullum verbum impium»),ma soprattutto aveva parlato «docens sola gratia et misericordia Dei inhoc regnum nos adoptari propter merita non nostra sed Christi, et hancgratiam sola fiducia percipi posse intrepide affirmavit»; fra le altre sueprediche una era stata particolarmente rilevante, «de tollendis imaginibussancta et pia». È anche sintomo evidente del coinvolgimento della cittànell’attesa di tutto ciò che di volta in volta poteva essere udito predicaredai pulpiti il fatto che Erastus facilmente fosse riuscito anche a sapere (equindi a comunicare a Zurigo) che durante il capitolo degli agostinianida poco cominciato «illi qui sunt praedicaturi pii sunt viri, docti, religiosiet sancti». Ma le attese della città non erano le stesse di Erastus. Il giovaneascoltatore zwingliano concentrava la sua attenzione sulle asserzioni deipredicatori, alla ricerca di più o meno lontane consonanze con le propriedottrine e convinzioni e alla ricerca di tutto quanto potesse rendere in-telligibile la situazione religiosa bolognese ai suoi lontani interlocutori diZurigo – dal punto di vista di Zurigo. Indifferente alle ragioni di unapredicazione ancora così discorde, Erastus è anche indifferente alle emo-zioni dell’uditorio di fronte a quelle forme di eloquio così contrastanti.La sola volta che egli sposta l’attenzione dal pulpito sulla folla lo fa per-ché distratto dal clamore suscitato dalla reazione di un’ascoltatrice emo-zionata dalle argomentazioni del predicatore sulla predestinazione: edErastus considera quella reazione una manifestazione di parossismo dia-

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bolico.138 Il fatto è che, se testimonianze come questa di Erastus ci infor-mano su una predicazione così discorde e ci assicurano che i contenuti diquella predicazione potevano non di rado trovare rispondenze nel siste-ma di dottrine di chi ascoltava da una posizione di consapevole alterità,tuttavia esse sono espressione d’un tipo di osservazione fortemente selet-tiva degli aspetti che caratterizzavano in quegli anni, a Bologna e altrove,quei momenti collettivi dell’inquieta realtà religiosa italiana. Insomma,sfugge all’osservazione di un testimone come Erastus ciò che, invece, perlo storico è un elemento essenziale: la fluidità d’una situazione in cuiemozione e turbamento generati da incertezza e contraddizioni stimola-no al confronto e alla discussione e avviano alla ricerca d’una consapevo-lezza delle scelte. La propaganda opera con successo in queste situazionidi ricerca e di tensione emotiva.

Anche sul genere e sulla quantità della letteratura eterodossa chegiungeva e circolava a Bologna, la testimonianza d’un altro osservatorestraniero, il polacco Stefan Micanus, dà informazioni tagliate secondo

138 Zurigo, Zentralbibliothek, S. 60, n. 92: «Superioribus diebus Daemonicanes, Domi-nicani volui dicere, celebrarunt capitulum Bononiae et singulis illis octo diebus aliquis eo-rum suggestum conscendit, inter quos penultimus praedestinationem cum divinissime inter-pretaretur (videbatur mihi ipsissima Huldrici Zwinglii verba recitare), mulier quaedam dae-monio vexata, erectis in coelum et oculis et manibus, clamavit ne amplius loqueretur, senon posse audire. Hoc bis fecit me vidente. Sed eodem tempore concionator aliquantulumstupefactus obticuit, sed mox in se reversus, maiore studio, fervore et zelo ad finem orditamtelam perduxit. Hoc XIV Maii factum est. XVI eodem de loco concionatus est ille, quemsuperiori adventu ibidem concionatum esse scripsi, de cognitione Dei et quomodo in illamperveniamus pie docuit. XVII autem quidam ex Augustini familia concionem de regno Deisanctissime habuit, docens sola gratia et misericordia Dei in hoc regnum nos adoptari prop-ter merita non nostra, sed Christi, et hanc gratiam sola fiducia percipi posse intrepide affir-mavit. Cras, id est XVIII, succedet alius eiusdem ordinis et deinceps usque ad octo. Nam ethi suum capitulum heri, id est XVI, inceperunt. Omnes autem illi qui sunt praedicaturi piisunt viri, docti, religiosi et sancti. Quadragesima habuimus quosdam indissimulanter impios,quosdam penitus pios nihil a veritate alienum dicentes. Sed hic unus locum occupat: est au-tem Augustinianus et in templo divi Iacobi magna frequentia, magna integritate, pietate etsanctimonia veritatem annuntiavit quadraginta concionibus et in omnibus istis nullum ver-bum impium protulit. Quosdam postea habuimus media via incedentes, nunc bene, nuncmediocriter, mox male iam optime disputantes, inter quos divi Francisci habere potes. Interceteras suas conciones de tollendis imaginibus sanctam et piam habuit». Dell’interesse concui le lettere di Erastus dall’Italia erano lette a Zurigo si ricorderà Johannes Wolf in una let-tera indirizzatagli il 5 febbraio 1569 (Zurigo, Zentralbibliothek, F. 41, c. 205). Sul lungosoggiorno di Erastus a Bologna vedi RUTH WESEL-ROTH, Thomas Erastus. Ein Beitrag zur Ge-schichte der reformierten Kirche und zur Lehre von der Staatssouveränität, Lahr-Baden, MoritzSchauenburg, 1954, pp. 3-4, dove tuttavia non sono utilizzate né questa né altre lettere im-portanti di Erastus da Bologna.

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l’ottica tanto dell’osservatore quanto del destinatario delle informazioni(anche in questo caso Konrad Pellikan).139 Ma nel caso di questo polaccola testimonianza dà qualcosa di più significativo. Appena giunto a Bolo-gna da Padova per continuarvi gli studi non di legge, ma, seguendo ilconsiglio di Melantone, di medicina, subito Micanus era venuto a cono-scenza delle dottrine e degli orientamenti religiosi che avevano maggiorvoga tra gli studenti, e non solo fra gli studenti della «nazione germani-ca», ma più propriamente tra gli «Itali fratres». Ciò che v’è di notevolenella testimonianza del Micanus è il fatto che egli decida di riprenderecontatto col suo vecchio maestro zurighese non, com’era consueto, perinvocare aiuto in un’attività di proselitismo, ma perché era stato propriol’ambiente bolognese a risvegliare in lui il ricordo dell’insegnamento delPellikan a Zurigo.140 A Bologna non mancavano al Micanus – come eglistesso diceva – occasione e possibilità di riprendere il filo dei suoi interes-si religiosi, spezzato sei anni prima da dolorose vicende familiari dopo ilritorno da Zurigo a Cracovia: disponibilità e garanzia nel soddisfare lesue richieste gli erano assicurate da Lorenzo Torrentino e da ThomasAnglus, un libraio itinerante che batteva anche le vie commerciali traBologna e Zurigo; anzi, presso il Torrentino Micanus aveva, come Era-stus, il suo recapito postale e nella libreria del mercante brabantino co-nobbe, attraverso Erastus, il giovane imolese Andrea Coletto rientrato dapoco da Basilea dopo aver incontrato, ancora in compagnia di Erastus, ilPellikan a Zurigo, e ora corrispondente di Curione.141 Ma l’osservatorio

139 Vedi Documenti, 2, pp. 195-197.140 Ibid.; ma vedi anche Zurigo, Zentralbibliothek, F. 47, cc. 103-104 (originale), S. 56,

n. 111 (copia), la lettera dello stesso Micanus a Pellikan del 6 gennaio 1545: «Nunc autemoccasio scribendi fuit ista. Vidi hodie Biblia sacra Latina impressa apud vos nomenque tuumin praefatione adscriptum legi. Statim oravi Laurentium, Germanum bibliopolam, ut literas,quas ad te dare curaret, tibi tuto perferendas. Promisit et intra decem dies perventuras ad tetestatus est, quod utinam intelligam ex responso tuo quamprimum. Deus det ut te aliquandovideam». Le «Biblia sacra Latina» sono Biblia sacrosancta Testamenti Veteris et Novi nella tradu-zione diretta da Leo Jud, che Froschoverus aveva messo a stampa a Zurigo due anni prima,con prefazione del Pellikan. Sulla diffusione delle opere del Pellikan a Bologna vedi MASSIMO

FIRPO, DARIO MARCATTO, Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone cit., II, pp. 430,451-452. Il «Laurentius Germanus bibliopola» è il brabantino Lorenzo Torrentino, più notoper la sua attività di stampatore ducale al servizio di Cosimo I dei Medici a partire dal 1547(cfr. LEANDRO PERINI, Editori e potere in Italia dalla fine del secolo XV all’Unità, in Storia d’Italia,Annali 4, Intellettuali e potere, a cura di CORRADO VIVANTI, Torino, Einaudi, 1981, pp. 788,790-798).

141 Sul libraio itinerante Thomas Anglus e sulla sua disponibilità verso il Micanus vediDocumenti, 2, p. 196. La già citata lettera del Micanus a Pellikan del 6 gennaio 1545 (cfr. no-

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del giovane polacco sulla realtà religiosa bolognese e sugli orientamentidottrinali che vi prevalevano non era soltanto il mondo ristretto dei fre-quentatori della libreria del Torrentino. Una più larga cerchia di cono-scenze, contratte subito nello Studio, gli consentì di valutare la vastitàdelle informazioni che si avevano della letteratura teologica d’Oltralpe, eanzi di fare una specie di graduatoria delle preferenze. Era constatazionedi Micanus che tutti «omnibus recentioribus praeferunt divinissime etsyncerissime scribentem Huldricum Zuinglium». La grande stima che siaveva dello stesso Pellikan era stata la ragione che aveva spinto Micanus ariprendere i contatti con lui. Erano apprezzate le opere di Lutero, diBullinger, di Brenz e di Calvino. Sul problema dell’eucaristia molti – di-ceva – sono ancora luterani, ma la maggioranza «cum Zuinglio et nobis-cum sentiunt».142 Le informazioni di Micanus sul prevalere a Bologna, ne-gli anni Quaranta, di un orientamento teologico in senso zwingliano tro-vano conferma in innumerevoli altre testimonianze già note. Il limite delprofilo che Micanus presenta della situazione religiosa bolognese è piut-tosto nell’omogeneità e unilateralità dottrinali che egli ne deduce, conevidente compiacimento: quanti ancora propendono per le dottrine diLutero – scrive, ad esempio, sicuro di compiacere i teologi di Zurigo –lo fanno perché questi «magis nominatus et celebrior est», ma soprattuttoperché non hanno ancora letto le opere di Zwingli.143 Insomma, sembra aMicanus assai meno significativo rilevare per proprio conto, e poi comu-nicare a Zurigo, che circolava a Bologna anche una letteratura che non

ta 140) si chiude con la seguente raccomandazione: «Titulus literarum tuarum in Italiam talissit: Stephano Micano Polono, medicinae studioso, Bononiae. Eo absente, Laurentio biblio-polae dentur». La stessa raccomandazione è, ad esempio, nella lettera di Erastus a Pellikan del21 gennaio (1542?) (Zurigo, Zentralbibliothek, F. 47, c. 300: «Literas quas mittere voluerismitte ad librariam Laurentii Torrentini Germani bibliopolae»). La lettera di Curione diretta«Fortio Colletto», che Andrea Coletto portò in Italia al ritorno da Basilea, è in COELI SECUN-DI CURIONIS Selectarum epistolarum libri duo, Basileae, per Ioannem Oporinum, 1553, pp. 375-383 (cfr. Documenti, II, nota 3). Le notizie sulla repressione inquisitoriale a Imola, che sullabase di informazioni del Coletto Erastus fece giungere a Pellikan con lettera del 31 dicembre1544 (cfr. DANIEL GERDES, Specimen Italiae reformatae, Leiden, 1765, p. 70, riassunto, con ri-mando a Hottinger e a Schelhorn), vanno completate con la lettera, ben più importante,dello stesso Coletto a Pellikan dell’11 febbraio 1545 (Zurigo, Zentralbibliothek, F. 47, c.109, originale; S. 56, n. 158, copia). Le notizie essenziali riguardano le voci di differimentodel concilio, da cui il Coletto deduce che «Antichristus conatur quantum potest tenere im-perium mundi», e soprattutto la reazione d’un giovane imolese contro la predica d’un fratezoccolante che esaltava il valore delle opere.

142 Cfr. Documenti, 2, p. 196.143 Ibid.

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poteva certo avere rilievo nell’ottica d’un osservatore zwingliano, ma cheintanto era il veicolo più efficace della diffusione delle idee nuove in piùlarghi strati sociali. Era il genere di letteratura di cui faceva parte il Libergenerationis Antichristi. Come vedremo, su questo punto il primo edittodell’Inquisizione riguardante la circolazione di libri eterodossi, emanato aBologna due anni prima, era stato meno unilaterale.

Il violento libello certamente circolò nello Studio bolognese, se il giàricordato Francesco Villa scrisse a Ercole II d’Este che responsabile dellasua diffusione a Modena era uno studente mantovano di nome Pellegri-no (goliardescamente detto Mastino) fermatosi a Modena nel suo viaggiodi ritorno da Bologna a Mantova.144 In tutta l’esigua documentazione sulmovimento eterodosso bolognese non si incontra (se ho visto bene) nes-sun’altra testimonianza sulla circolazione del libello a Bologna, né agliinizi degli anni Quaranta né negli anni e decenni successivi. Ma non sitratta d’un caso eccezionale: in particolare per gli inizi degli anni Qua-ranta, non si hanno che pochissime testimonianze (credo non più di due)della circolazione persino di un’opera di larghissima diffusione come ilPasquino in estasi.145 La scomparsa o l’irreperibilità degli incartamenti pro-cessuali ci privano – diversamente che per altre situazioni – della possibi-lità di cogliere la presenza di scritti e libri nelle testimonianze sui luoghi esulle vicende in cui essi operarono. Scritto, non di rilevanza teorica, ma,come abbiamo visto, di grande efficacia propagandistica, il Liber generatio-nis Antichristi è l’espressione compendiosa d’una letteratura eterodossache, come ormai dovrebbe essere evidente, circolava abbondantementenello Studio bolognese. Ciò che, dunque, interessa qui è il fatto che lacircolazione del libello nello Studio e l’impegno nel diffonderlo testimo-niano, già nel 1541, accettazione del suo contenuto, cioè quel processodi deduzioni che dal principio della giustificazione per la sola fede comeunico mezzo di salvezza portava alla rappresentazione della Chiesa comeincarnazione dell’Anticristo. Il passaggio e la diffusione di quelle dedu-zioni radicali dall’élite colta dello Studio e del patriziato (insomma i letto-ri ai quali si riferiva il Micanus) in larghi strati popolari presuppongonociò che è realmente caratteristico del movimento eterodosso bolognese,cioè la sua notevole promiscuità sociale. Accenneremo soltanto ad alcuniepisodi.

È noto che tra il 1542 e il 1543 fu messo in atto a Bologna il primo

144 Cfr. Documenti, 1, p. 192.145 Vedi sotto, note 149 e 192.

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consistente intervento repressivo. La scomparsa dei relativi incartamentiinquisitoriali non impedisce di conoscere l’ampiezza numerica e la pro-miscuità sociale del gruppo di parecchie decine di persone che subito vifurono direttamente coinvolte. In due testimonianze che attribuiscono aBenedetto Accolti la funzione di capo di quella «congregazione» da pocodispersa, si legge che «quasi tutti erano mercanti et gente bassa», «gentebasse et plebeie».146 Ma gli ascoltatori e seguaci dell’Accolti sapevano chela loro attività avveniva in un più vasto contesto di complicità: fuggito daBologna l’Accolti, il ricorso alla tortura consentì di «scoprire infiniti dialtri fuori della congregatione, ma di una medesima dottrina».147 Negli an-ni successivi, l’Accolti minacciò e fece rivelazioni su quanti finì col con-siderare i responsabili dei suoi errori e della sua «rovina». I suoi primi ri-ferimenti furono all’ambiente dello Studio: lì – sappiamo – egli aveva so-stituito gli svogliati studi di diritto con la volontà d’apprendere il greco«per intender benissimo certe oppinioni oscure nelle Epistole di Paolo»; edallo Studio, sul filo dei suoi contatti con gli studenti tedeschi, avevapreso la via della libreria del Torrentino, dove «vendé in parte et in partecambiò in libri luterani» «la bellissima libreria di legge» di cui il cuginoprelato l’aveva dotato.148 Nel 1547 e poi nel 1564, sempre con riferimentoalle sue esperienze degli anni di studio a Bologna, minacce di rivelazioni

146 Il 3 febbraio 1543, il cardinale Benedetto Accolti informò da Roma il suo procura-tore in Ferrara Silvestro Aldobrandini dell’operato bolognese del suo omonimo cugino, scri-vendo: «Mercoredì prossimo vi scrissi ch’io havevo nuova da Bologna che quel nefario ni-mico di Christo haveva risoluto quel suo studio di theologia nel essersi scoperto per il piùabbominevole luterano che sia ancora stato dapoi che questa pestifera setta è in piede, et chenon solo si contentava d’esser lui impio et traditore a Christo et alla religione, ma andava di-ligentissimamente seminando queste empietà a gente basse et plebeie, alle quali leggeva pervulgare in camera sua et andava visitandone sotto spetie di charità quando erono amalati, etinstruendoli in questi dogmi et opinioni diaboliche» (cfr. RENZO RISTORI, Benedetto Accolti: aproposito di un riformato toscano del Cinquecento (testi e documenti), «Rinascimento», serie II, vol.II, 1962, doc. IV, p. 252). Con le informazioni dell’Accolti concordano le notizie che tregiorni dopo, il 6 febbraio, il letterato Scipione Bianchini scrisse da Bologna a LudovicoBeccadelli: «Delli nostri Lutherani la cosa sta così: un ms. Benedetto, nepote [rectius: cugino]del Car.le di Ravenna giovane, era Dottore di questa setta: haveva una casuzza in fiaccail-collo, nella quale la sera, dopo l’avemaria, convenivano da cinquanta auditori ad audire S.Paulo, i quali quasi tutti erano mercanti et gente bassa. La cosa si è scoperta et il capo se ne èfugito. De discipuli ne sono stati presi molti, huomini et donne» (cfr. GIGLIOLA FRAGNITO,Gli «spirituali» e la fuga di Bernardino Ochino, «Rivista storica italiana», LXXXIV, 1972, p.800, ora in EAD., Gasparo Contarini, un magistrato veneziano al servizio della cristianità, Firenze,Olschki, 1988, p. 286).

147 Ibid., p. 286.148 RENZO RISTORI, Benedetto Accolti cit., doc. XX, p. 285.

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e poi rivelazioni seriamente compromettenti dell’Accolti riguardarono,in primo luogo, il fiorentino Giovan Battista Maggi, una figura ancoraoscura, ma sulla quale sappiamo abbastanza per collocarla a mezzo tra l’a-zione di proselitismo in strati alti e bassi della città e il mondo dello Stu-dio, dal quale quell’azione in gran parte traeva impulso. Nel Maggi l’Ac-colti indicò colui che – diceva – «mi mostrò il Pasquino in ecstasi che eroalhora un putto»; ma è più significativa l’accusa che la sua abitazione bo-lognese era divenuta il punto di confluenza delle relazioni e delle com-plicità che l’Accolti e il Maggi stesso avevano stabilito con studenti tede-schi, che nella casa del Maggi avevano portato libri eterodossi d’ogni ge-nere («ce ne venevano le cataste»).149 Nel più ampio quadro cittadino,l’Accolti segnalava, poi, responsabilità in quei ceti alti della società bolo-gnese che subito videro e maggiormente, verso la fine del decennio,avrebbero visto colpiti da processi e condanne parecchi dei loro espo-nenti.150 Il riferimento, ad esempio, al «Cavalier Danese» indicava respon-sabilità d’un esponente del patriziato, sia che si trattasse di Ercole Danesi,più tardi Anziano della comunità, sia che si trattasse – come io ritengopiù probabile – di Giulio Danesi, il patrizio che pochi anni prima avevaaccolto nella sua casa Lisia Fileno quale precettore dei suoi tre figli.151

Dello stesso genere di complicità nel tipo di propaganda e di proselitismoa destinazione popolare svolto dall’Accolti è prova il fatto che l’immedia-to arresto e poi il clamoroso processo di Angelo Ruggeri, già Anzianodella comunità e da almeno due decenni prestigioso esponente del nota-riato, dipesero proprio dalle rivelazioni estorte con la tortura ad alcuni diquei «mercanti et gente bassa» che si erano adunati attorno all’Accolti.152

Ma l’ampiezza delle diramazioni e la promiscuità sociale del movi-

149 Ibid., doc. XVIII, p. 280 e doc. XXXII, pp. 304-305.150 A quanto è già noto sull’argomento va ora aggiunto l’importante contributo di MA-

RIO FANTI, Un progetto di riforma del Senato e una vicenda di eresia a Bologna alla metà del Cinque-cento, «L’Archiginnasio», LXXIX, 1984, pp. 313-335.

151 RENZO RISTORI, Benedetto Accolti cit., doc. XVIII, p. 280, e a p. 233 la congettura suErcole Danesi. Su Giulio Danesi vedi CAMILLO RENATO, Opere, documenti e testimonianze, acura di ANTONIO ROTONDÒ, Firenze, Sansoni, Chicago, The Newberry Library, 1968, pp.13, 59.

152 GIGLIOLA FRAGNITO, Gasparo Contarini cit., p. 286. Le più tarde (1547) minacce di ri-velazioni sul Danesi da parte dell’Accolti in RENZO RISTORI, Benedetto Accolti cit., doc.XVIII, p. 280. Ma sul Ruggeri vedi ora le notizie raccolte in MASSIMO FIRPO, DARIO MAR-CATTO, Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone cit., I, pp. 249-250, IV, pp. 197-198 e V ad indicem.

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II - ANTICRISTO E CHIESA ROMANA

mento eterodosso operante a Bologna agli inizi degli anni Quarantaemergono soprattutto dall’attività del merciaio Giovan Battista Scotti.Anch’egli fu oggetto delle minacce di rivelazioni da parte dell’Accolti.153

Il profilo di questo controverso personaggio affiora, ora, più distintamen-te da quattro importanti documenti che hanno trovato posto nella recen-te ricostruzione del processo del Morone.154 Tutto in lui risulta singolare,a cominciare dalla sua collocazione sociale. Quando morì nel 1586, uncronista annotò che «era il primo mercante di Bologna».155 Si trattò certa-mente di un’ascesa sociale conseguita nel ventennio successivo all’abiuradefinitiva (1547) dei suoi gravi trascorsi giovanili. Un altro merciaio, chelo conobbe attorno al 1540 e fu suo complice, lo ricorda, per quegli an-ni, come «persona ville, per esser nato da uno che faceva il mestiero delgarzolare, et credo fossero contadini».156 Nel 1558, all’età di quarant’anni,si dichiarò possessore d’uno stabile in Bologna e d’una fortuna di oltreduemila scudi investiti in due arti diverse.157 Tutto lascia pensare che lasua provenienza fosse da famiglia da poco inurbata, dedita a investire nel-l’esercizio di varie arti il peculio derivante da redditi nel contado. È pre-sumibile un suo buon livello di formazione giovanile – probabilmenteanche con cognizioni di latino, come nel caso del suo complice e poisuo accusatore, il merciaio Domenico Rocca («intendo il parlare latinocussì grossamente»).158 Non si spiegherebbe altrimenti la quantità stupefa-cente di relazioni personali che lo Scotti riuscì a contrarre con intellet-tuali di tendenze dichiaratamente eterodosse come, ad esempio, Ludovi-co Castelvetro, Francesco Porto, Filippo Valentini, e con prelati come il

153 RENZO RISTORI, Benedetto Accolti cit., doc. XVIII, p. 280. Nel 1549 fu, invece, loScotti a fare rivelazioni sull’Accolti (ibid., doc. XXXI, p. 301).

154 Si tratta delle tre deposizioni dello Scotti contro il Morone (MASSIMO FIRPO, DARIO

MARCATTO, Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone cit., II, pp. 245-249, 347-368,753-769) e della deposizione di Domenico Rocca contro lo Scotti (ibid., IV, pp. 462-472).Cfr. anche MASSIMO FIRPO, DARIO MARCATTO, Il primo processo inquisitoriale contro il cardinalGiovanni Morone (1552-1553), «Rivista storica italiana», XCIII, 1981, pp. 92-98, e MASSIMO

FIRPO, La fase difensiva del processo inquisitoriale del cardinal Morone: documenti e problemi, «Criticastorica», XXIII, 1986, pp. 138-142.

155 MASSIMO FIRPO, DARIO MARCATTO, Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Moronecit., IV, p. 463, nota 3.

156 Ibid., p. 471.157 Ibid., II, p. 754.158 Ibid., IV, p. 464. In altra parte della stessa deposizione, il Rocca dichiara, nel visibile

tentativo di attenuare le proprie responsabilità, di essere «persona idiotta et ignorante chenon havea cognitione di lettere latine» (p. 466).

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Morone, il Pole, il Soranzo, il Carnesecchi.159 Sue dichiarazioni a primavista tra le meno credibili risultano fondate: ad esempio, una lettera diCarnesecchi, indirizzatagli il 30 aprile 1544, dimostra persino più diquanto lo Scotti avrebbe dichiarato più tardi, cioè che il Carnesecchi glisi era rivolto come all’esponente di maggior rilievo del movimento ete-rodosso bolognese e gli aveva inviato scritti inediti di Valdés; e la conse-gna all’Inquisizione, da parte dello Scotti, delle lettere che aveva ricevutodal Soranzo conferma ovviamente le sue strette relazioni col vescovo diBergamo 160 – e queste stesse relazioni sono, probabilmente, alla base delledue circostanze che il Liber generationis Antichristi circolò a Bologna e chesi trovi nello zibaldone del Soranzo. Collocazione nel quadro sociale del-le arti e relazioni a livelli alti del mondo culturale e religioso davano alloScotti la possibilità di attrarre alle sue idee uomini del suo stesso ceto einsieme gli conferivano autorevolezza su di essi. Nel 1560, il suo accusa-tore ricorderà che, fin da quando l’aveva conosciuto («sono vintidoi invintiquattro anni»), lo Scotti «faceva setta et congregatione di molte gen-te, done, homini, frati, sore et d’ogni sorte».161 Decideva la destinazionedella gran quantità di libri che faceva giungere a Bologna e «havea distin-to li principali della accademia et congregatione che dovessero predicareet legere a quisti et a quilli che aderivano alle sue opinioni et haveano bi-sogno di essere in esse edificati».162 Tanto l’attività dell’Accolti e del suogruppo quanto l’attività delle minori conventicole già note sono, ora, ri-conducibili a questa azione di proselitismo organizzata dallo Scotti. Agliinizi del 1543, dal carcere bolognese lo Scotti ritenne urgente procurareche l’onnipresente tessitore Tommaso Bavellino, in quanto detentore ditroppi segreti, sfuggisse alla cattura riparando a Modena.163

159 Ibid., II, pp. 246, 350, 357-359, 761, 765. Cfr. MASSIMO FIRPO, La fase difensiva delprocesso cit., pp. 139-140.

160 La lettera di Carnesecchi allo Scotti, già in Estratto del processo di Pietro Carnesecchi cit.,pp. 518-519, è ora, con annotazioni, in MASSIMO FIRPO, DARIO MARCATTO, Il processo inquisi-toriale del cardinal Giovanni Morone cit., II, pp. 1107-1109. Le dichiarazioni dello Scotti che siriferiscono a quella lettera ibid., II, pp. 248, 357, 756. Sulla consegna all’Inquisizione dellelettere del Soranzo ibid., II, p. 355.

161 Ibid., IV, p. 464.162 Ibid., pp. 466-467.163 Ibid., pp. 467-468. Cfr. ANTONIO ROTONDÒ, Per la storia dell’eresia a Bologna cit., qui a

pp. 279-281 e la «voce» che ne ho redatta per il Dizionario biografico degli Italiani, VII, 1965,p. 306. Nel processo intentato contro il Bavellino a Modena nel settembre del 1545 e con-clusosi con la condanna in contumacia, le sue relazioni col Ruggeri sono testimoniate, comevoce corrente, da Antonio Mascarelli («... audivit dici ipsum fugisse Bononia propter quem-

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Le certezze religiose di questo tessitore e l’audacia con cui egli le esi-biva persino in aperta polemica con l’inquisitore sono uno degli esiti, cheanche ai contemporanei sembrò clamoroso, dell’attività di questi circoli,nei quali, in situazioni di simbiosi tra uomini di differenti livelli culturali,le inquietudini si mutavano in riflessione, i dubbi in convinzioni. Nelnoto gruppo del quale fece parte il droghiere Girolamo Rinaldi (o Ra-nialdi) – un caso più volte addotto come sintomatico del manifestarsi instrati sociali bassi dell’esigenza d’approfondire problemi religiosi forzandole tradizionali barriere culturali 164 – tra i quindici partecipi, popolani, osti,notai, calzolai, maestri di scuola, dei quali il Rinaldi rivelò i nomi (oltre«alios de quorum nominibus particulariter non recordatur»), risalta lapresenza di Angelo Ruggeri e del maestro di scuola Alessandro Gandi-no.165 Di questi circoli socialmente eterogenei numerose testimonianzedocumentano l’esistenza per tutti gli anni Quaranta e oltre: verso la finedel decennio, il calzolaio Bernardo Brascaglia sa che per suoi dubbi reli-giosi può far riferimento a un circolo che comprendeva esponenti vecchie giovani del patriziato e dello Studio; 166 e più avanti vedremo il casod’un circolo sopravvissuto sino alla fine degli anni Sessanta. Nel settem-bre del 1549, il legato bolognese Giovanni Maria Del Monte informò ilcardinale Marcello Cervini che, dopo l’abiura solenne pronunciata in SanPetronio da Ulisse Aldrovandi, da Girolamo Del Pino e da BernardoBrascaglia, l’inquisitore aveva fatto una severa reprimenda «a ciaschedun

dam qui illo fuit combustus, cuius erat socius») e da Pietro Gioioso («Ho inteso ch’el sudettoBavello è fugito da Bologna per paura de uno suo compagno el qual per causa de heresia fubrusiato a Bologna»): Modena, Archivio di Stato, Fondo Inquisizione, busta 2, «Contra Tho-mam Bavellam». I due testimoni si riferiscono alla voce che la sentenza contro il Ruggerifosse stata eseguita pro forma (cfr. ANTONIO BATTISTELLA, Il S. Officio e la Riforma religiosa in Bo-logna, Bologna, 1905, p. 24). Il fiorentino Francesco Tavani ricorderà, più di trent’anni do-po, l’efficacia della predicazione del Bavellino: «Io havevo maestro Thomaso Bavellino perhuomo c’havesse tanta sufficientia che con la sua dottrina l’havesse superato et vinto gli In-quisitori et frati per quanto mi era stato detto» (ibid., busta 6, processo Francesco Tavani,costituto del 19 ottobre 1579). Altri ricordi tardi della predicazione del Bavellino sono nelprocesso contro Francesco Piccinino (ibid., busta 5).

164 Vedi più avanti pp. 277-278; cfr. ADRIANO PROSPERI, Intellettuali e Chiesa all’iniziodell’età moderna, in Storia d’Italia, Annali 4 cit., p. 186.

165 Vedi p. 278, n. 90, dove «Angelo Nigerio praeceptor filiorum D. Polidori de Castel-lo» è lettura errata del documento, per «Ser Angelo Rugerio» (vedi ora MASSIMO FIRPO, DA-RIO MARCATTO, Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone cit., IV, p. 151). Dei sedicicomplici rivelati dal Rinaldi probabilmente era notaio anche «Ser Vincentius de Mangano».Sul Gandino e la sua posteriore condanna a morte (1583) vedi ANTONIO BATTISTELLA, Il S.Officio cit., p. 106.

166 Vedi pp. 284-290; cfr. CAMILLO RENATO, Opere cit., pp. 224-227.

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d’essi secondo la sua qualità: al canonico come canonico, al scholar comescholare, al calzolaro come calzolaro».167 È lecito dubitare che, della follache s’accalcava in San Petronio, quanto meno i tre condannati fosseroancora disposti a valutare le ragioni e la fondatezza delle loro convinzioniin base al rispettivo ruolo sociale.

L’ampiezza e la composizione sociale non sono tutta la realtà d’unasituazione di tensioni religiose (così come d’ogni altra situazione di ten-sioni): eludere l’identificazione dei suoi contenuti, o – come qui si prefe-risce – il progressivo prender forma dei suoi contenuti, significa restarfermi a caratterizzazioni generiche, compreso l’inflazionato termine «dis-senso». Agli inizi degli anni Quaranta è già in atto a Bologna, nella cor-nice d’una originaria e diffusa concordia sull’esaltazione del primato dellafede, un processo di profonda diversificazione degli orientamenti. Quan-do nel dicembre del 1542 puntualmente giunse anche a Bologna, prece-duta da avvertimenti romani, la prima raccolta ginevrina delle Predichedell’Ochino, il letterato Scipione Bianchini, già membro della famigliacardinalizia del Contarini, informò Ludovico Beccadelli dell’interessecon cui il libretto veniva letto.168 È ottima congettura che la minimizza-zione, da parte del Bianchini, del pregiudizio che la decima e ultima diquelle Prediche avrebbe arrecato alla memoria del Contarini – come si sa,chiamato in causa dall’Ochino come corresponsabile della sua fuga – di-pendesse dalla sua adesione, quale che ne fosse la misura, alla concezionecontariniana della giustificazione.169 Ma è ovvio che ciò non bastava per-ché il Bianchini si sentisse parte di una ben più inquieta realtà di uominie di circoli che si era via via venuta profilando a Bologna: perciò, senzascandalo ma con distacco, il Bianchini indicò quanti avevano accolto conmaggior interesse il libretto dell’Ochino come «questi novi nostri chri-

167 GOTTFRIED BUSCHBELL, Reformation und Inquisition in Italien um die Mitte des XVIJahrhunderts, Paderborn, Ferdinand Schöningh 1910, p. 203.

168 GIGLIOLA FRAGNITO, Gasparo Contarini cit., pp. 284, 304. Si riferiva alle Prediche diBernardino Ochino da Siena. Si me persequuti sunt, et vos persequentur. Sed omnia vincit veritas,[Ginevra, Jean Gérard], 1542, die X Octobris, da non confondere con la raccolta dello stessotitolo, comprendente venti prediche e nella quale la parola «Finis» dopo le prime dieci pre-diche e l’aggiunta, con numerazione autonoma, del libello Imagine di Antechristo, indicanoun’edizione in cui sono stati utilizzati gli esemplari residui delle stampe precedenti tanto del-le Prediche quanto del libello (faccio uso dell’esemplare della Raccolta Guicciardini, 3.3.65).Per i precedenti avvertimenti da Roma, diretti a Leandro Alberti e a Nicola Bargellesi, vediMASSIMO FIRPO, DARIO MARCATTO, Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone cit., IV,p. 192.

169 GIGLIOLA FRAGNITO, Gasparo Contarini cit., p. 288.

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stiani», i «nostri Lutherani» – ai quali, dunque, inutilmente si sarebbe ri-volto per avere un esemplare delle Prediche («non mi hanno per suo con-fidente»).170

La dissociazione riguardava prima di tutto il contenuto del libro del-l’Ochino e il diverso interesse con cui «Lutherani» e «novi christiani» loleggevano: ciò che per il Bianchini era interesse occasionale a un eventoclamoroso che coinvolgeva la chiesa bolognese, per i «novi christiani»era, invece, interesse agli sviluppi del problema della giustificazione, sulquale le loro riflessioni e discussioni erano stimolate da un più vasto con-testo di letture analoghe. Gli argomenti dell’Ochino ponevano ancoral’accento prevalentemente sulla fruizione interiore della giustificazioneper fede, sulla sua funzione pacificatrice delle coscienze: 171 e ciò spiega leesitazioni del Seripando, ondeggiante tra l’impressione che nelle Predichel’Ochino «tutto haveva raccolto nelli scritti de’ Lutherani» e il giudiziodel giorno dopo, secondo il quale in esse non vi era «cosa alcuna che nonfosse christianissima».172 In realtà, col distacco dell’esilio, l’Ochino era an-dato assai oltre. Dalla prevalente esaltazione della giustificazione come ri-fugio mistico nella fede era passato all’invettiva contro tutto ciò che siopponeva alla necessità che il cristiano «renascesse et diventasse un uomospirituale et che con viva fede sentisse et gustasse el gran beneficio diChristo».173 All’argomento dedicò un’intera predica (la terza, Chome la iu-stificatione per Christo è iniustamente perseguitata et falsamente calunniata). In-nanzitutto vi spiegava, con una notevole ripresa di argomenti propri del-la tradizione pauperistica, che calunniatori e persecutori della giustifica-zione per la sola fede perpetuavano l’antico disprezzo di quanti ritennero«una cosa stolta che per un crucifixo siamo iustificati» e rifiutarono il«Christo crucifixo» perché segnacolo di debolezza e non di ricchezza e dipotenza, una cosa «humana, infirma, povera, misera, vile, abiecta etignominiosa».174 Probabilmente, i «novi christiani» bolognesi potevano

170 Ibid., p. 284.171 Prediche cit., soprattutto nella più ampia e più efficace delle dieci prediche, l’ottava,

Delli effecti che fa la iustificatione per Christo (pp. D8v-E3r): «In prima, el iustificato sente la pa-ce della conscientia, imperoché sente che Christo ha satisfacto per li suoi peccati perfectissi-mamente, in modo tale che non dubita che li sono perdonati se ha perfecta fede, et questapace non si può per altre vie havere».

172 EDMONDO SOLMI, La fuga di Bernardino Ochino secondo i documenti dell’Archivio Gonzagadi Mantova, «Bullettino senese di storia patria», XV, 1908, p. 97 (cfr. GIGLIOLA FRAGNITO, Ga-sparo Contarini cit., p. 288).

173 Prediche cit., p. B3r.174 Ibid., p. B3v.

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leggere già nella prima redazione del Pasquino in estasi argomenti simili,caratteristici della coeva tendenza all’umanizzazione di Cristo e alla rap-presentazione del Cristo povero come antitesi al cristianesimo dei poten-ti.175 È spiegabile, insegnava loro l’Ochino, che quell’antico disprezzovenga perpetuato dalla Chiesa romana; la giustificazione per fede, che es-sa nega e perseguita, è contraria a tutto ciò che essa sancisce: ipocrisie esuperstizioni, forme illusorie di giustificazione per meriti satisfatorî, in-dulgenze e pratiche simoniache, «tutte le religioni trovate per humano etdiabolico spirito», entrate e autorità empiamente usurpate. È tutta la per-versa realtà contro cui la dottrina della giustificazione per fede si rivolge:«Et finalmente destrugge el regno di Antechristo».176 Tutta la pur esiguadocumentazione superstite sull’intervento repressivo degli inizi del 1543indica che i «novi christiani» bolognesi riflettevano e discutevano sull’an-titesi tra giustificazione per fede e realtà ecclesiastiche, fino a trarne unarappresentazione della Chiesa come incarnazione dell’Anticristo.

C’è un documento che non mi risulta sia mai stato messo nella debi-ta relazione con la storia religiosa bolognese degli anni dei quali ci stiamooccupando: il decreto con cui il 12 luglio 1543 l’Inquisizione romana in-tervenne drasticamente contro la circolazione dei libri eterodossi.177 Tuttociò che in quel documento non è linguaggio caratteristico dell’ufficialitàuniversale delle Congregazioni romane, è realtà bolognese: una realtà chePaolo III e la corte pontificia avevano potuto osservare da vicino e sullaquale anche intervenire direttamente durante i mesi del loro soggiorno aBologna.178 Uno degli aspetti della realtà bolognese che il decreto recepi-

175 Cfr. Pasquillorum tomi duo cit., II, p. 444 («... maxime in pauperibus, qui eius [Cristo]personam gerunt»), rimasto immutato in tutte le successive redazioni.

176 Prediche cit., pp. C5v-C6r: «La perseguitano ancho molto più perché la iustificationeper Christo gitta per terra tutte le religioni trovate per humano et diabolico spirito, anichilale nostre proprie iustificationi, dà bando alle humane indulgentie, manifesta le alchimie de’falsi christiani, fa fallir li simoniaci, tolle la auctorità a quelli che impiamente sela sonnousurpata, et finalmente destrugge el regno di Antechristo. Però non è da maravigliarsi se dallifalsi et impii christiani et dalli membri di Antechristo è perseguitata, che se la non diminuis-se la auctorità né facesse danno alle entrate, se ben fusse a Christo contraria, li impii non se-ne curarebbeno».

177 JOSEPH HILGERS, Der Index der verbotenen Biicher cit., pp. 483-486 (cfr. FRANZ HEIN-RICH REUSCH, Der Index der verbotenen Biicher. Ein Beitrag zur Kirchen- und Literaturgeschichte,Bonn, Verlag von Max Cohen und Sohn, 1883-1885, 2 voll., I, pp. 170-171).

178 Il decreto è datato Bologna. Il compito dell’inchiesta e della successiva sorveglianzasui libri eterodossi in circolazione veniva affidato a Tommaso Maria Beccadelli, inquisitoredi Bologna, Ferrara e Modena, o a un suo sostituto («et N. eius substitutum»), che per Bolo-gna fu Leandro Alberti o il dotto «inquisitor librorum» Nicola Bargellesi. Preso atto dell’ina-

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sce è la propagazione orale delle dottrine eterodosse («... ne quis audeatlibros praedictos haereticos [...] ab aliis lectos audire, nec cum aliquo,verbo vel in scriptis, communicare, docere nec praedicare»). È ovvio chenon si trattava d’un fenomeno nuovo né, per l’Italia, tipicamente bolo-gnese. In questi ultimi anni, gli studi sulla penetrazione per via di propa-ganda orale di dottrine eterodosse e di idee difformi dalla tradizione edalla norma, sul rapporto tra chi legge e chi ascolta e sui più o meno per-cettibili esiti non meccanici di questo rapporto, hanno fatto progressi no-tevoli, rivelando in ogni situazione l’ampiezza e l’incisività del fenome-no, in molti casi anche con deduzioni teoriche di notevole importanzaper lo studio, più in generale, delle dinamiche dei rapporti tra differentistrati sociali. Qui appare rilevante il fatto che la dimensione preoccupan-te della propaganda orale venisse recepita nel primo importante decretodell’Inquisizione romana sulla base dell’osservazione diretta della situa-zione bolognese; e ancora più importante appare il fatto che dell’ampiez-za di quel fenomeno l’inquisitore Tommaso Maria Beccadelli fosse venu-to a conoscenza diretta nella sua pratica inquisitoria dei mesi precedenti.La situazione quale si presentò al Beccadelli subito dopo i primi arresti èquella che abbiamo già descritta sommariamente attraverso l’azione diproselitismo di Benedetto Accolti e di Giovan Battista Scotti. Dagli in-terrogatori di popolani risultò subito che dubbi suscitati da prediche am-bigue o dissonanti dall’ortodossia, diffusione di libelli e di letteratura pa-squillesca, discussioni e letture in comune in circoli e conventicole ave-vano già radicato negli strati popolari una quantità preoccupante di errorigravissimi. La somma delle proposizioni teologicamente erronee registra-te dall’inquisitore ci interessa qui meno dei percorsi mentali nei quali ilpassaggio da iniziali inquietudini alla riflessione e alle convinzioni si iden-tifica con un lento processo di acquisizione di concetti propri dell’élite

deguatezza dei mezzi per far fronte alla gravità della situazione generale («quia nos praemissadiversis in partibus exequi et agere non valemus»), l’Inquisizione decideva la pubblicazionedel decreto (cioè l’inizio dell’inchiesta) nella sola giurisdizione inquisitoria del Beccadelli. Lacorte pontificia di stanza a Bologna poté rendersi conto della gravità della situazione a Mo-dena e Ferrara durante i suoi spostamenti anche in queste città. Testimonianze sulla rete dicomplicità che univa Bologna, Modena, Ferrara e Sassuolo nella circolazione di libri etero-dossi nel periodo in cui fu stilato il decreto, sono nelle dichiarazioni di Benedetto Accolti(RENZO RISTORI, Benedetto Accolti cit., doc. XXXII, 2, pp. 304-305) e nella deposizione diDomenico Rocca a carico di Giovan Battista Scotti (MASSIMO FIRPO, DARIO MARCATTO, Ilprocesso inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone cit., IV, p. 467). Per interventi diretti deicardinali al seguito di Paolo III nelle vicende inquisitorie bolognesi vedi JACOPO RAINIERI,Diario bolognese, Bologna, Regia Tipografia, 1887, p. 79.

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colta (dubbi sulla fondatezza della Vulgata, rifiuto critico della letteraturaagiografica, dissociazione del sacro dal magico, e così via): insomma, alleregistrazioni giudiziarie dell’inquisitore si preferisce il genere della narra-zione curioniana della metamorfosi di Marforio.

Una simile metamorfosi è possibile seguire attraverso la storia del giàricordato droghiere Girolamo Rinaldi, che presumibilmente è quellastessa dei suoi complici, ai quali egli attribuì le sue convinzioni.179 Nonsappiamo quando e come ebbe inizio l’interesse del Rinaldi alle novitàreligiose; ma certo, al momento dell’arresto, non era più un interesse re-cente, se egli aveva raggiunto una fermezza di convinzioni tale da con-fermarle davanti all’inquisitore. Il suo primo assillo era stato il problemadella giustificazione. Quando il 23 gennaio 1543 l’inquisitore gli chiese leragioni per le quali negava la validità delle orazioni rivolte alla Madonnae ai santi, il Rinaldi addusse l’autorità del versetto di Giovanni, X, 1, Quinon intrat per ostium in ovile ovium, sed ascendit aliunde, ille fur est et latro.180 Apartire da questo punto, tutte le fasi della metamorfosi religiosa di questopopolano riflettono aspetti generali della storia religiosa bolognese diquegli anni. I primi dubbi sull’efficacia delle opere, e conseguentementesulla validità d’ogni forma di pratica religiosa che non fosse il ricorso aCristo, gli erano stati suscitati dalla pubblica predicazione nelle chiesedella città. Il riferimento d’un predicatore al versetto del Vangelo di s.Giovanni l’aveva particolarmente impressionato; da allora, la novità deldiscorso l’aveva spinto a cercarne conferma in altre prediche, che era an-dato ad ascoltare nelle chiese bolognesi. Spiegando all’inquisitore le ori-gini della sua convinzione che i meriti di Cristo escludevano il ricorso al-la Madonna e ai santi, il Rinaldi le ricondusse interamente all’effetto di

179 Bologna, Biblioteca Comunale (Archiginnasio), Ms. B. 1927, cc. 1r-2r. Cfr. piùavanti, p. 277. Ritengo opportuno – anche a causa delle sviste in cui a suo tempo sono in-corso – trascrivere le parti del documento riguardanti i complici dei quali il Rinaldi fece inomi. Costituto del 23 gennaio: «Interrogatus respondit quod pluries alloquutus fuit Julia-num Forbicinum, magistrum Albertum de Peregrino, ser Vincentium de Mangano, et aliosde quorum nominibus particulariter non recordatur, exceptis Vincentio Garzolino et Jacobode Ruvere et Francisco Pestinella et Vincentio Buccaferro» (c. 1r). Costituto del 25 gennaio:«Ultra nominatos in examine supradicto ipse constitutus alloquutus fuit cum Hieronymo deCavazonibus, ser Angelo Rugerio preceptor filiorum D. Polidori de Castello, Nicholao deChristianis, magistro Alexandro Gandino, Francisco pistore, Petronio de Rigo sive de Ami-co vestito beretinii, Thoma Bavellino et magistro Blasio pistore cognato ipsius constituti.Qui omnes habent opiniones ipsius constituti et cum quibus multoties alloquutus fuit de si-milibus materiis de quibus supra ipse constitutus fuit interrogatus» (c. 2r).

180 Bologna, Biblioteca Comunale (Archiginnasio), B. 1927, c. 1r.

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II - ANTICRISTO E CHIESA ROMANA

quelle prediche («Et praedicta dici audivit publice a praedicatoribus in ci-vitate Bononiae in ecclesiis principalibus et sic interpretatus est ipse con-stitutus quod illa doctrina evangelica excludat sanctos et Virginem»).181 Inrealtà, le cose non erano state così semplici.

È stato osservato giustamente che in quegli anni il confine tra orto-dossia e eresia non era netto né per i predicatori né per i loro ascoltato-ri.182 Né poteva contribuire a stabilire distinzioni nette l’alternarsi di pre-diche e cicli di predicazione dagli orientamenti divergenti: come abbia-mo visto, per un periodo che comprendeva la predicazione dell’avventoe della quaresima e il capitolo d’uno degli ordini religiosi più importanti,Erastus poté fare, da Bologna, un resoconto impressionante della con-traddittoria varietà di messaggi che provenivano dai pulpiti; aveva potutoriscontrare contraddizioni persino tra quel che taluni predicatori asseriva-no dal pulpito e quanto quegli stessi precedentemente avevano affermatoin dispute e discussioni («mox male iam optime disputantes»). Insomma,era proprio di questi eventi collettivi suscitare dubbi e emozioni, non in-fondere consapevolezze dottrinali. Certo, non mancavano ascoltatori ingrado di opporre ferma convinzione della validità della tradizione oppu-re, al contrario, argomenti fondati su una già matura consapevolezza dellanecessità di negare, tutta o in parte, la validità della tradizione. È caratte-ristica dell’estraneità agli esiti emotivi del genere di predicazione di cui cistiamo occupando, la reazione d’un fabbricante d’armi bresciano dimo-

181 Ibid.182 CARLO GINZBURG, ADRIANO PROSPERI, Giochi di pazienza. Un seminario sul «Beneficio di

Cristo», Torino, Einaudi, 1975, pp. 26-29. Tuttavia, sul caso dal quale le osservazioni diGinzburg e Prosperi hanno preso le mosse, la predicazione modenese (1551) del canonicoregolare Giovanni Francesco da Bagnacavallo (cfr. ANTONIO ROTONDÒ, Atteggiamenti della vi-ta morale italiana cit., qui a pp. 234-236), io continuo a ritenere che si trattò di ambiguitàvolontaria: a cinque anni di distanza dal decreto tridentino, ambiguità involontaria sul pro-blema della giustificazione in chi dichiarava d’aver letto autori come Butzer è inimmagina-bile; e nel 1558 i testimoni non intendono scagionare il predicatore, ma, per l’appunto, ri-cordarne l’ambiguità, della quale alcuni ascoltatori si erano scandalizzati e avevano deciso dinon andare a sentire chi non poteva predicare – dicevano – liberamente come in Germania.Le stesse considerazioni valgono per il caso del predicatore del quale, nel settembre del1553, Ludovico Beccadelli scriveva a Marcello Cervini che «più tosto l’error suo è stato intacer quello c’havria potuto et dovuto dire contra li dogmi lutherani che per haver predica-to mala dottrina» (Giochi di pazienza cit., p. 196). Il seguito della lettera informa che il predi-catore era ritenuto colpevole anche «per il favor li facevano le persone suspette di quel luoco[Capodistria?]». Non si tratta di «ignoto predicatore», ma, come scrive lo stesso Beccadelli,del servita fra Cornelio da Bologna, noto ai frequentatori del circolo bolognese dell’Aldro-vandi e di Lelio Sozzini (vedi pp. 290-291; cfr. CAMILLO RENATO, Opere cit., p. 227).

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ANTONIO ROTONDÒ

rante a Bologna già da un ventennio: Ludovico Medegini.183 Fuggito daBologna poco prima che venissero arrestati quattordici dei suoi complici(alcuni dei quali suoi dipendenti) e raggiunto dall’inquisitore di Bresciaevidentemente su richiesta di Tommaso Maria Beccadelli, anche il Me-degini fece riferimento alle prediche che aveva ascoltato a Bologna, inparticolare a quella d’un predicatore che aveva distinto tra luterani cheopportunamente denunciavano gli abusi e luterani che negavano i sacra-menti: i primi non erano da biasimare; gli altri «erano da fusere et da es-sere aschivati».184 Non si trattava, come si sa, d’un fatto eccezionale. Lasua reazione a questa aperta e non inconsueta interpretazione morale del-la protesta di Lutero il Medegini la espose ai suoi dipendenti, con argo-menti che lasciano trasparire un contesto di riflessioni sul quale purtrop-po le sue dichiarazioni non danno più di qualche elemento allusivo: sullabase d’uno dei luoghi delle Scritture tra i più oscuri e dei più ricorrentinella letteratura chiliastica d’ogni tempo, il cap. XX dell’Apocalisse, tentòdi convincere i suoi interlocutori che non c’erano distinzioni da fare; Sa-tana dominava incontrastato «da poi che sancto Silvestro ha dotata la gie-sa»; e la cristianità era popolata di falsi profeti.185

Probabilmente l’evoluzione religiosa del Medegini aveva avuto iniziremoti: forse l’avevano accelerata esperienze e incontri fatti in viaggi espostamenti impostigli dall’esercizio della sua arte. La metamorfosi delRinaldi sembra compiersi, invece, tutta in orizzonte bolognese. Il filodelle sue riflessioni non si svolge nell’isolamento: partecipa, non di radocon comportamenti polemici, alle pratiche devote; 186 ma i luoghi dellasua nuova formazione sono i circoli, nei quali si va sempre più dislocan-do la sede della riflessione religiosa sua e dei suoi amici. Dai dubbi susci-tatigli dai predicatori alla certezza che Cristo è la sola via di salvezza ilRinaldi giunge attraverso la discussione con laici ed ecclesiastici («... aquibusdam tam religiosis quam saecularibus, quibus credidit et credit ipseconstitutus quod ostium est Christus»).187 Tutta la sua successiva riflessionesi rivolse alle implicazioni di questa certezza, con esiti inimmaginabili al

183 Venezia, Archivio di Stato, Sant’Ufficio dell’Inquisizione, busta 1, Processi 1541-1545,n. 4. Cfr. p. 279.

184 Ibid.185 Ibid.186 Bologna, Biblioteca Comunale (Archiginnasio), Ms. B. 1927, c. 1r (cfr. ADRIANO

PROSPERI, Intellettuali e Chiesa all’inizio dell’età moderna cit., p. 186; SILVANA SEIDEL MENCHI,Erasmo in Italia cit., p. 73).

187 Bologna, Biblioteca Comunale (Archiginnasio), Ms. B. 1927, c. 1r.

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di fuori di un’osmosi tra istanze religiose di questo popolano e più o me-no mature consapevolezze e convinzioni di suoi interlocutori di diversolivello culturale. Non sorprende che il Rinaldi possedesse un Testamentoin volgare; singolare, anche se non del tutto eccezionale, è, invece, il fat-to che egli si fosse dotato anche d’un Novum Testamentum di Erasmo,«quem dixit aliter non intelligere», ma al quale tentò di accedere (senzaesito) dandosi appositi strumenti.188 L’assunzione del Testamento comeunica autorità poneva al centro delle riflessioni del Rinaldi e delle discus-sioni della conventicola di cui faceva parte il confronto tra testo sacro erealtà religiosa circostante: come abbiamo visto, le discussioni sull’inter-pretazione da dare del luogo di Giovanni, X, 1 (e relativo contesto) rap-presentarono un passaggio cruciale nell’evoluzione religiosa del Rinaldi.189

In discussioni alle quali partecipavano, insieme con popolani, uomini dilivello culturale più alto, non sorprende che dalla funzione determinanteche vi assumeva l’esatta interpretazione del testo scaturisse il suggerimen-

188 Vedi p. 278. Cfr. SILVANA SEIDEL MENCHI, Erasmo in Italia cit., pp. 73-74, con ampli-ficazíone retorica del significato dell’episodio.

189 Solo che il Rinaldi e i suoi amici abbiano avuto sentore della clamorosa predicazionebolognese di Lisia Fileno (Paolo Ricci, poi Camillo Renato), rimasero certo impressionatidella sua quasi ossessiva insistenza sulla necessità che tutto, Erasmo compreso, andasse pospo-sto alla lettura del Testamento (CAMILLO RENATO, Opere cit., p. 70). Per quanto riguarda ilsoggiorno del Fileno a Bologna, a poca distanza di tempo dalla pubblicazione della mia edi-zione delle sue Opere, Carlo Ginzburg (Il nicodemismo. Simulazione e dissimulazione religiosanell’Europa del ’500, Torino, Einaudi, 1970, p. 140) sostenne, in base ai risultati d’una ineditaricerca di Alberto Merola «di imminente pubblicazione», che il Fileno sarebbe stato a Stra-sburgo alla scuola di Capitone, deducendone che tale soggiorno strasburghese gettava «unanuova luce sull’intero movimento ereticale italiano». Il credito dello studioso Ginzburg e,pur senza esagerare, l’interesse della prospettiva, crearono una viva ma prudente attesa dei ri-sultati delle ricerche del Merola. Per quanto mi riguarda, a distanza di circa vent’anni, credosi possa – perché no? – attendere ancora. Chi, invece, non ha perduto tempo è stata SilvanaSeidel Menchi (Sulla fortuna di Erasmo in Italia. Ortensio Lando e altri eterodossi della prima metàdel Cinquecento, «Rivista storica svizzera», XXIV, 1974, pp. 537-634), che si è affrettata aconfermare anche più di quanto sappiamo delle conclusioni del Merola, col seguente proce-dimento: 1. l’A. utilizza ampiamente (p. 549 sgg.) la lunga lettera di Giovanni Angelo Odo-ni a Erasmo del marzo (?) 1535, da Strasburgo (ALLEN, XI, n. 3002, pp. 81-104), nella qualesi legge (p. 95, ll. 598-599) che Fileno Lunardi era bolognese («An non Bononiensis meus hicPhilaenus Italus est?»); 2. utilizza (pp. 560-562) l’Apologia di Lisia Fileno (Camillo Renato),dove questi fin dal titolo si dice siciliano; 3. conclusione dell’A.: «Qui si accetta l’identifica-zione di Fileno Lunardi con Lisia Fileno, alias Camillo Renato, proposta da Alberto Merola»(p. 549). Rilevare negli studi altrui sviste e errori di poco conto è colpevole almeno quantole sviste e gli errori in cui tutti incorriamo. Non, pero, quando si presume di poter fondaresu un uso così disinvolto delle fonti un evento che dovrebbe far «nuova luce sull’intero mo-vimento ereticale italiano».

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ANTONIO ROTONDÒ

to al controllo e all’approfondimento di esso mediante il ricorso all’inter-pretazione di Erasmo. Il documento non consente di andare oltre; maquel che se ne deduce non è poco: in situazioni di promiscuità sociale eculturale, a Bologna come altrove, i «mercanti et gente bassa» di cui par-lava il Bianchini tentavano di dare fondamenti culturali alla loro riflessio-ne religiosa; sia pure in forma di un’esigenza cui si opponevano le limita-zioni culturali proprie dell’appartenenza a strati sociali «senza latino», ilcontrollo critico del testo spingeva al di là dell’assunzione della sempliceformula «sola Scriptura»; e la lettura delle vite dei santi (ma il Rinaldinon dice di quale libro si trattasse),190 condotta alla luce della ferma con-vinzione dell’unicità del ricorso a Cristo, significava quanto meno unembrione di diffidenza critica sulla letteratura agiografica, secondo il sug-gerimento dato a Marforio dall’umanista Curione. Gli inquisitori (e nondi rado, in passato, gli storici) registravano come qualcosa tra l’avventatoe lo stravagante le asserzioni dissonanti dall’ortodossia di queste «gentebasse et plebeie» – indifferenti ai processi attraverso i quali idee contrariealla norma si radicavano nelle loro menti. In realtà, ogni volta che il do-cumento inquisitorio offre il varco alla possibilità di analisi non succubedegli schemi e delle formulazioni giudiziarie, è possibile intravedere pro-cessi di mutazione religiosa e culturale non dissimili da quello descrittodal Curione. Come Marforio, il Rinaldi e gli uomini della sua cerchia,acquisita la certezza dell’unicità della fede giustificante, non si arrestaronopiù. Dalla discussione particolarmente insistente sull’inanità di pratichedevote («super veneratione Virginis et sanctorum, super precibus illisporrigendis ... super imaginibus») i loro discorsi si estesero progressiva-mente ad argomenti come la predestinazione, il libero arbitrio, il rappor-to tra fede e opere; poi, si mutarono in denuncia della realtà ecclesiastica:denuncia delle ricchezze della Chiesa e dei mezzi con cui essa se le pro-cacciava (purgatorio, indulgenze), dei voti monastici, del celibato delclero, dell’autorità dei concili.191 Era un passaggio non facile dalle idee allarealtà, cioè dalla riflessione su principi teologici nuovi, o riproposti esentiti come nuovi, a una denuncia della realtà ecclesiastica motivata di-

190 Bologna, Biblioteca Comunale (Archiginnasio), Ms. B. 1927, c. 1r.191 Ibid., cc. 1v-2r: «... allocutus fuit super praedestinatione, super libero arbitrio, super

veneratione Virginis et sanctorum, super precibus illis porrigendis, super conciliis, super fideet operibus, super imaginibus, super votis, super caelibatu praesbiterorum, super divitiis ec-clesiae, de indulgentiis, de purgatorio» (vedi p. 278; cfr. MASSIMO FIRPO, DARIO MARCATTO,Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Morone cit., IV, p. 466).

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versamente che in passato: passaggio non facile né nel caso del circolo delRinaldi – qui, evidentemente, assunto come filo conduttore della storiadelle inquietudini religiose popolari e della loro evoluzione nella Bolo-gna degli inizi degli anni Quaranta – né in infiniti altri casi. Sulla base deisoli incartamenti inquisitoriali è sempre poco agevole, quando non addi-rittura impossibile, dipanare – ed è ciò che qui interessa maggiormente –il filo di questi processi di graduale penetrazione e approfondimento dellaprotesta religiosa come un progressivo radicarsi di nuove convinzioni.Eppure è solo dai risultati d’un simile lavoro che può dipendere la rile-vanza storica della partecipazione al movimento riformatore di strati so-ciali dei quali, per Bologna, abbiamo assunto come prototipo il droghie-re Rinaldi. Sollecitazioni e stimoli intellettuali che evoluzioni individualiricevono dal contesto in cui esse avvengono, ed esiti non meccanici d’u-na propaganda stimolatrice qui sono essenziali.

La presenza di Tommaso Bavellino tra i complici del Rinaldi, oltreche prova della vivacità e dell’audacia delle discussioni che si svolgevanoin quel circolo, è anche prova che esso era parte di quella più ampia fa-scia di interlocutori ai quali Giovan Battista Scotti rivolgeva, come s’èvisto, la sua intensa propaganda con oculata distribuzione di libri e diammaestramenti orali. Ed è persino inimmaginabile che, in un circolofrequentato da un uomo della levatura intellettuale di Angelo Ruggeri enel quale poteva maturare persino l’esigenza d’un popolano di accederealle interpretazioni neotestamentarie di Erasmo, non giungessero gli ef-fetti di quelle forme di propagazione delle nuove idee rilevate nel già ri-cordato decreto del 12 luglio 1543. Delle due sole opere che in quel de-creto venivano segnalate nominativamente – il Pasquino in estasi e le Pre-diche dell’Ochino – la prima fu certamente tra le letture del Rinaldi; 192 edopo quanto s’è detto precedentemente, non occorre insistere sugli effet-ti sollecitatori d’una simile lettura. Influenza più precisamente riscontra-bile sull’evoluzione religiosa del Rinaldi ebbe un altro scritto del Curio-ne, il Pasquino incarcerato.193

192 JOSEPH HILGERS, Der Index der verbotenen Bücher cit., p. 484; Bologna, Biblioteca Co-munale (Archiginnasio), Ms. B. 1927, c. 2r: «Vidit Pasquinum in estesi sibi constituto tradi-tum a quodam filio Marci de Covellis».

193 Ibid., c. 2r: «Et quidam magister Alexander [Gandino] habet librum Pasquini carce-rati». Del libello si conosce soltanto il testo latino in due redazioni, pubblicate entrambe inPasquillus ecstaticus cit., pp. 182-201 (Iudicium Pasquilli, seu Pasquillus captivus), pp. 253-286(Exemplum processus sive actionis adversus Pasquillum a Pontifice Paulo tertio in concilio Cardinaliuminstitutae). La seconda redazione informa, dopo il titolo: «Ex Italica in Germanicam, et ex

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Libello di piccola mole, il Pasquino incarcerato non presentava, certo,nulla di paragonabile all’impressionante grandiosità tragicomica della vi-sione del cielo papistico del Pasquino in estasi. Ma la sua efficacia propa-gandistica non era da meno. Scritto dopo la riorganizzazione dell’Inqui-sizione, esso era l’immaginaria e tempestiva descrizione d’un processo di-retto dal cardinal Carafa alla presenza della corte pontificia. Le imputa-zioni e le risposte dell’imputato componevano la somma dei nuovi prin-cipi di fede che il Curione vedeva messi in causa e dei quali inculcava,con la descrizione del comportamento di Pasquino («hic sum in imo tur-ris neque erubesco vinctus caussa Christi»), la necessità della professioneaperta.194 La rispondenza delle imputazioni rivolte contro Pasquino aglierrori confessati dal Rinaldi fa di questo libretto del Curione la tramadelle riflessioni che sottostanno alle dichiarazioni del Rinaldi stesso nellapur schematica registrazione processuale del suo inquisitore. Come nelcaso delle Prediche dell’Ochino, anche in quello del Pasquino incarceratoc’era, come vedremo, almeno una ragione particolare perché esso destas-se l’interesse di lettori bolognesi. In risposta all’accusa di negare l’efficaciadelle opere, ovviamente Curione mette in bocca a Pasquino contestazio-ni sapientemente intessute di riferimenti testamentari.195 Ma in questoviolento libello Curione non intese montare lo scenario di una disputasulla giustificazione: gli premeva denunciare ciò che per lui era l’esitoprevedibile di speranze cullate da molti negli anni precedenti («O quamstupidum est vulgus, quam ignarus orbis, posteaquam sperat vestris con-

Germanica rursus in Latinam a quodam pietatis studioso conversum». La menzione delPasquillus captivus nel processo del Rinaldi prova ora che il libello fu scritto certamente nel1542. Più precisamente, è da ritenere che fu scritto posteriormente al 21 luglio 1542, datadella bolla (Licet ab initio) di istituzione del Sant’Ufficio: a p. 182 il «Rabbinum quendam ca-cologiae peritissimum, inquisitorem primarium, Daemonicanum, hostem evangelii» è il car-dinal Carafa (cfr. p. 184). Se non sono intervenuti ritocchi nella traduzione in latino, il libel-lo è da considerare scritto posteriormente alla morte del Contarini (24 agosto 1542): «Inter-rogare Cardinalem Contarenum vestrum poteratis, num hunc articulum concesserit prote-stantibus, illum scilicet verum et sanctum (quemadmodum est) agnoscens, etsi vos illum inconsistorio vestro noluistis comprobare: quod si hunc negatis, quem concedetis?» (p. 190).Lo stesso riferimento al Contarini nell’Exemplum processus sembra, invece, indicare che que-sto fu scritto prima della morte del prelato veneziano: «Quaerite ex Cardinali Contareno,num Lutheranis hoc axioma in comitiis Ratisbonensibus concesserit. Certe catholicum hocet sanctum, ut est, confessus fuit, licet in conciliabulo ut parum recte concessum nolueritis».Segue quella che è una probabile aggiunta: «Interim bonus ille Contarenus Bononiae ob hancconfessionem pharmaco interiit: quod ipse non multis horis antequam animam ageret, con-fessus fuit» (p. 267).

194 Iudicium Pasquilli cit., p. 201.195 Ibid., pp. 188-189.

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ciliis restitutam iri ecclesiam Dei»),196 insomma, il crollo d’ogni aspettativadi riforma di iniziativa romana. In una situazione in cui fede e opere so-no assunte come contrassegni di scelte ormai inconciliabilmente contrap-poste, sulla bocca di Pasquino la negazione dell’efficacia delle operenon può che mutarsi in denuncia delle opere della Chiesa stessa: «Haecsunt opera vestra».197 E la denuncia era fondata sulla contrapposizionetra Scritture e canoni («An non estis Christiani? non legitis Scripturassacras?», chiede Pasquino; e il tribunale: «Sunt nobis statuta nostra, de-creta nostra et decretalia»).198 Lettori particolarmente disponibili ad ac-cogliere la prospettiva polemica del Curione erano perciò quanti già ave-vano assunto le Scritture come unico termine di confronto tra verità difede e pratiche religiose: un’humus religiosa in parte preesistente a questiimpulsi alla denuncia dell’istituzione ecclesiastica provenienti da scritticome quello del Curione; ma neppure o non più riconducibile a caratte-rizzazioni vaghe come «evangelismo», «paolinismo» ecc. In ceti colti, untale rapporto diretto tra Scritture e pratica religiosa generava critica con-sapevole e si mutava in una progressiva eliminazione ragionata dell’auto-rità della tradizione. Nei ceti popolari generava critica e rifiuto della fun-zione normatrice dell’istituzione ecclesiastica, con argomenti in cui il ri-chiamo alle Scritture si combinava con constatazioni suggerite dall’espe-rienza quotidiana e dalla saggezza popolare: Francesco Tavani – un tessi-tore la cui partecipazione ai circoli eterodossi inizia a Bologna nei primianni Quaranta e si chiude a Modena con un terzo processo di tre decen-ni dopo – diceva ai suoi salariati che non trovava nelle spole e nelle na-velle con le quali tesseva la «dottrina» secondo la quale gli ordini mendi-canti dovevano vivere di elemosine; e a un popolano del contado mode-nese, Natale Andreotti, «pareva gran cosa che si potesse aiutare un mortoco’ danari, massimamente da un povero a un ricco che non ne habia bi-sogno et che non gli li domanda».199 A questa critica frammentaria diaspetti incongruenti della realtà ecclesiastica, desunta dall’esperienza quo-tidiana e con una logica elementare, scritti come il Sommario della SacraScrittura o le Prediche dell’Ochino o gli scritti pasquilleschi del Curionesostituivano, con quella loro efficace mescolanza di principi e di rappre-

196 Ibid., p. 190.197 Ibid., p. 193.198 Ibid., p. 183.199 Modena, Archivio di Stato, Fondo Inquisizione, busta 5, processo Francesco Tavani,

costituto del 7 ottobre 1579; processo Natale Andreotti da Nirano, costituto del 14 aprile1572.

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sentazione, una chiave di interpretazione che trascendeva l’orizzonte so-ciale dell’esperienza quotidiana: fornivano una rappresentazione globaledella realtà ecclesiastica e delle sue radicazioni nella società come costru-zione religiosamente e socialmente mistificante. Il percorso religioso delRinaldi è tipico. Il riferimento alle Scritture (forse con qualche incursio-ne, mediata da appartenenti al circolo di cui faceva parte, nelle annota-zioni neotestamentarie di Erasmo) lo aveva disincagliato dai primi dubbi,suscitatigli da una predicazione incerta e contraddittoria, sul problemadella salvezza come alternativa inquietante tra fede e opere. Poi, a lui e aisuoi amici, il Pasquino in estasi aveva presentato quella visione sconcer-tante del cielo in cui la proiezione della Chiesa e delle sue articolazioniistituzionali rappresentava una somma di valori capovolti. Tra tutti i librie libelli che circolarono a Bologna in quel periodo, non sarà stato, certo,il solo Pasquino incarcerato ad accendere fra il Rinaldi e i suoi amici l’inte-resse e la discussione sui fondamenti dell’istituzione ecclesiastica.200 Ma ècerto che furono la lettura e il contenuto di quel libello a dar forma alleloro riflessioni e a determinare l’andamento dei loro discorsi. Le loro di-scussioni su purgatorio, indulgenze e ricchezze della Chiesa ebbero la lo-ro efficace base argomentativa nelle corrispondenti pagine del libello delCurione: il vero purgatorio del cristiano è la croce della sua stessa esi-stenza, durante la quale egli si purifica con la fede nel sacrificio di Cristo;la Chiesa gli propone, invece, una sorta di «pagatorium», una rete vastis-sima di pratiche, nella quale restano impigliate le anime degli incauti; le

200 È ovvio che il possesso e la lettura del Pasquino incarcerato, documentati dal processo,e la corrispondenza precisa tra il contenuto del libello e le confessioni del Rinaldi non esclu-dono che scritti dello stesso genere abbiano alimentato le discussioni sue e dei suoi amici. Ladocumentazione qui utilizzata – da quella riguardante l’attività di Benedetto Accolti alle ac-cuse contro Giovanni Battista Scotti e all’editto dell’Inquisizione del 12 luglio 1543 – proval’ampia circolazione di analoga letteratura eterodossa a Bologna in quegli anni. Ma, quandosi tratta di ricostruire i processi mentali di uomini come il Rinaldi, occorre individuare let-ture e testi precisi, non surrogabili da testimonianze generiche o surrettizie. Non ho trovato,ad esempio, alcuna prova che circolasse a Bologna An den christlichen Adel deutscher Nation diLutero nell’anonima traduzione e manipolazione Libro de la emendatione et correctione dil statoChristiano, Anno MDXXXIII (uso uno dei due esemplari della Raccolta Guicciardini dellaBiblioteca Nazionale Centrale di Firenze, segnatura 3-3-333), contrariamente a quanto scri-ve SILVANA SEIDEL MENCHI, Sulla fortuna di Erasmo in Italia cit., p. 544 (cfr. EAD., Le traduzioniitaliane di Lutero nella prima metà del Cinquecento, «Rinascimento», XVII, 1977, p. 64), dove èpubblicata (pp. 626-631) un’importante lettera, inedita ma già nota, di Giovanni AngeloOdoni a Martin Butzer, del 13 giugno 1534 da Venezia, nella quale si dice che «hic» (cioè aVenezia) un libro «italice versus, cui titulus est de Ecclesiae instauratione» si vende «qua-tuor ... marcellis argenteis» (cioè in moneta veneziana). Non si vede come questa lettera del-l’Odoni possa documentare che il libro «andava a ruba» a Bologna!

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indulgenze e le mille altre invenzioni diaboliche, con cui si inebriano glisprovveduti, messe, bolle, visite delle chiese, anniversari, sono state esco-gitate «solum amplificandi caussa regnum Antichristi, ut uberiores red-dantur census vestri».201 E così sul resto delle discussioni vagamente con-fessate dal Rinaldi (o registrate schematicamente dall’inquisitore): il celi-bato, che s. Paolo attribuisce a suggerimenti del diavolo, copre un’im-mensa realtà di ipocrisia e di corruzione; 202 conventi, monaci e voti mo-nastici sono divenuti una tale realtà che «si redirent qui haec collegiaconstituerunt, ea radicitus estirparent»; pronunciano voti «ut sibi mer-centur paradisum» e fondano nuove regole «ne observent quae suntChristi»; ingordi e di peso al mondo, dovrebbero essere costretti a guada-gnarsi da vivere col sudore della fronte; non si vede quale utilità apportialle vedove e ai poveri tutta quella loro profusione di ricchezza nel co-struire cappelle e conventi.203 Ma da questa rappresentazione del malco-stume ecclesiastico, divenuta usuale nella libellistica di quegli anni (ilmalcostume monastico era anche al centro del Sommario della Sacra Scrit-tura), i popolani del circolo bolognese del Rinaldi non traevano semplicidenunce del genere tradizionale dell’invettiva antiromana e antimonasti-ca. Certo, la rappresentazione di tutto ciò che l’umanista Curione consi-derava effetto del potere catalettico dell’ignoranza e della superstizionetraeva forza persuasiva anche dai riferimenti ad aspetti propri dell’oriz-zonte sociale di quei popolani: le ricchezze accumulate dalla Chiesa gra-zie a pratiche devote che, come lacciuoli invisibili, avvolgono e tengono«simplicem plebeculam intricatam et captivam»; 204 i costumi smodati degliordini mendicanti «ex sudore et sanguine pauperum ociosi victitantes»; 205

la credulità di tante povere contadine che, pur essendo state già defrauda-te del poco che possedevano per i loro figli, tuttavia destinano ancoraqualcosa alla celebrazione di messe di suffragio; 206 e così via. Ma né questerappresentazioni del Curione né le reazioni dei lettori del suo libello sirivolgevano solo contro una somma di abusi: la loro denuncia riguardavail principio che aveva rappresentato e rappresentava di per sé un’alterna-tiva di corruzione, cioè l’esaltazione delle opere rispetto alla fede, deimeriti rispetto alla giustificazione per la sola fede. Un’alternativa di prin-

201 Iudicium Pasquilli cit., p. 185.202 Ibid., p. 186.203 Ibid., p. 197.204 Exemplum processus cit., p. 257.205 Ibid., p. 279.206 Iudicium Pasquilli cit., p. 197.

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ANTONIO ROTONDÒ

cipio che il Curione evidenziava, collocando tra le contestazioni di Pa-squino il richiamo – propagandisticamente bene assestato – alle ultimevicende del Contarini: prima ne avevano disapprovato le concessioni fat-te a Ratisbona sul principio della giustificazione; poi lo avevano avvele-nato.207 La confessione resa dal Rinaldi all’inquisitore d’aver creduto e dicredere tuttora «quod ostium est Christus» e la congiunta confessione chela riflessione sua e del gruppo dei suoi amici si era spinta – per deduzioneo per suggestioni tratte da scritti come quelli del Curione – alla denunciadegli aspetti fondamentali dell’istituzione ecclesiastica e delle sue radica-zioni nella società, indicano quale fosse il salto qualitativo della posizioneassunta da quei popolani di fronte alla situazione religiosa del loro tempo:dalla satira anticlericale e dall’invettiva antimonastica di tipo tradizionale,l’una e l’altra desunte da esperienze e constatazioni circoscritte al loroorizzonte sociale, erano passati alla convinzione che la riforma dellaChiesa e della società che su di essa si modellava era possibile soltanto at-traverso un mutamento di istituzioni e di princìpi.

Dalle poche carte del processo del Rinaldi non risulta che né lui né isuoi amici si spingessero fino ad affermare apertamente che la Chiesa eracreazione dell’Anticristo. Per altre vie, o per le stesse vie percorse dal Ri-naldi, era, invece, giunto a questa conclusione esplicita Ludovico Mede-gini. L’assidua lettura del Vangelo e dei «santi padri» l’aveva convinto che«seguitar la fede di Christo secondo lo Evangelio et non secondo li mo-derni sacerdoti» significava rifiutare la mediazione di un’istituzione cor-rotta, che suggeriva precetti mistificanti: era sufficiente confessarsi «avantia Dio»; la preghiera regolata da ritmi liturgici e imposta da precetti («dirdeterminatamente tanti pater noster et tante ave Maria») era una «pazzia»;«le giese sono apotheghe»; e come abbiamo già visto, aveva finito colconsiderare la Chiesa un’istituzione interamente pervasa dallo spirito del-l’Anticristo, a partire dalla donazione di Costantino.208 Più significativo èil fatto che a Bologna a questa stessa conclusione era giunto colui che siconsiderava ed era considerato il mentore dell’intero movimento, Gio-vanni Battista Scotti: il suo accusatore, Domenico Rocca, riferì all’inqui-sitore che, in «congregationi et adunationi di ogni sorta di gente», loScotti aveva insegnato che il papa era l’Anticristo, essendo contrario agli

207 Cfr. sopra, nota 193. Sulle voci di morte per avvelenamento del Contarini vedi GI-GLIOLA FRAGNITO, Gasparo Contarini cit., pp. 274, 296, 298.

208 Cfr. sopra, nota 185.

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II - ANTICRISTO E CHIESA ROMANA

insegnamenti di Cristo tutto il suo operato.209 A distanza di vent’anni, ilRocca ricordava ancora uno dei «molti passi della Scrittura» che lo Scottiaveva addotto al riguardo: il versetto di Matteo, XXIII, 2, Super cathedramMoysi sederunt scribae et pharisaei. Vedremo almeno altri due casi in cuiquesto riferimento scritturistico ebbe un rilievo particolare.

L’equivalenza di Anticristo e Chiesa romana era una delle convinzio-ni alle quali si era giunti in un vero e proprio sodalizio bolognese, delquale facevano parte uomini di chiostro ed esponenti dello Studio e delpatriziato e la cui importanza è stata messa in risalto da studi recenti perla partecipazione di Ulisse Aldrovandi e di Lelio Sozzini.210 Non vi eraestraneo il gusto della derisione di aspetti superstiziosi della pratica reli-giosa e del culto, e addirittura l’escogitazione beffarda di analogie con ifondamenti dei dogmi; né si escludeva – come nel caso del Sozzini – lamanifestazione pubblica di protesta.211 La nozione di Anticristo vi era in-tesa come pervasiva dell’intera realtà ecclesiastica: il «moderno papa» èl’Anticristo previsto in «molti detti [...] della Scrittura»; la Chiesa romanaè fondata sull’adulterazione del pensiero dei «dottori»; essa è «synagogadel diavolo», quella «germanica santa et giusta». Non era esclusa la parte-cipazione di popolani: per dubbi sull’eucaristia si rivolse all’Aldrovandi ilcalzolaio Bernardo Brascaglia, vent’anni dopo giustiziato come sostenito-re dell’idea che la Chiesa era personificazione dell’Anticristo.212 A metàdel 1549 la dispersione di questo circolo non pose fine alla partecipazionedell’élite colta e del patriziato al movimento eterodosso bolognese. Lo si

209 MASSIMO FIRPO, DARIO MARCATTO, Il processo inquisitoriale del cardinal Giovanni Moronecit., IV, pp. 465-466.

210 Vedi pp. 285-290. Il primo dei due costituti, in data 5 luglio 1549, del processocontro Ulisse Aldrovandi (in copia mandata all’inquisizione di Modena) è edito in CAMILLO

RENATO, Opere cit., pp. 224-227. Il secondo, in data 13 giugno (nell’originale, probabilmen-te per errore del copista, luglio), è in Modena, Archivio di Stato, Inquisizione, busta 6, Pro-cessi 1575-1580), fasc. «Miscellanea». L’annotazione, in calce al secondo costituto: «Isti suntcontestes; desunt alii singulares graviores» dimostra che le nove persone menzionate nel do-cumento erano solo una parte dei membri di quel sodalizio.

211 Cfr. costituto del 13 giugno: «Dicea che l’hostia consecrata gli facea racordar l’andatadel pontico nelle forze della gatta, la qual, doppo il trastular con esso, il magna»; «Sonandodi festa la città per le rogationi, messer Ulisse mi dicea nella camera soa: ‘Oldi, oldi l’idola-tria’». Sulla protesta pubblica del Sozzini vedi LELIO SOZZINI, Opere cit., pp. 31-32.

212 La menzione del Brascaglia è nel costituto del 5 luglio (cfr. CAMILLO RENATO, Operecit., p. 225); la sentenza della sua condanna a morte, in data 28 gennaio 1567 in ANTONIO

BATTISTELLA, Il S. Officio cit., pp. 182-184 (p. 182: «... contra Pontificem romanum quod sitAntichristus, non maioris auctoritatis quam ceteri homines»). Il resto, nel cit. costituto del13 giugno.

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ANTONIO ROTONDÒ

vide vent’anni dopo, quando l’inquisitore Antonio Balduzzi mise in attola stessa severa azione repressiva con cui aveva operato Girolamo Muzza-relli. Agli inizi del 1567, la fuga in Valtellina del più noto inquisito bolo-gnese di quell’anno, Giovanni Battista Bovio, fu, non l’esito della vicen-da religiosa d’un isolato, ma il distacco da un contesto di complicità e dicontemporanee condanne di uomini dello stesso ceto sociale alto: pochimesi dopo, il gentiluomo Matteo Lupari confesserà d’aver «dato certi de-nari ad uno heretico, per mandarli a Chiavenna a Battista dei Boi hereti-co fugitivo».213 E la sentenza di condanna a morte in contumacia di Giro-lamo Vittori delinea una figura la cui attività determinò la sorte degli altrinumerosi gentiluomini (Paolo e Matteo Lupari, Antonio Ludovisi, Giro-lamo Guastavillani, Ludovico Fiera) che nello stesso anno il Balduzzi sot-topose a processo.214

Sembra, invece – per quanto è possibile dedurre da una documenta-zione estremamente frammentaria – che l’azione inquisitoria del 1549abbia posto fine a quella promiscuità sociale che aveva caratterizzato ilmovimento eterodosso bolognese nel decennio precedente. È quanto ri-sulta dalle vicende ancora sconosciute d’un consistente gruppo di popo-lani – merciai, tessitori, tintori, battilana, pittori, stracciaiuoli, sarti, cia-

213 Dublino, Library of Trinity College, ms. 1224, c. 165 (cfr. T. K. ABBOTT, Catalogueof the Manuscripts in the Library of Trinity College, Dublin, Dublin and London, 1900, n. 89, p.248; KARL BENRATH, Atti degli Archivi romani della Biblioteca della Trinità in Dublino, «La rivistacristiana», VIII, 1880, p. 141). Per l’identificazione esatta della figura e della provenienza so-ciale del Bovio vedi ora MARIO FANTI, Un progetto cit., pp. 326-330; sul suo pensiero durantel’esilio DELIO CANTIMORI, Eretici italiani del Cinquecento cit., pp. 313-315, 343.

214 ANTONIO BATTISTELLA, Il S. Officio cit., p. 185: «... se veluti caput et magistrum in ci-vitate Bononia professum fuisse, esse, habuisse errores et haereses huiusmodi et inter aliosdisseminando et quamplures personas edocendo et in talibus erroribus et haeresibus indu-cendo et instruendo et aliis haereticis libros haereticales ope, consilio et auxilio favisse eos-que caeteros ad scholam et in propriis ipsius Hieronymi aedibus convocando et ipsis convo-catis legendo et cum eis super talibus erroribus et haeresibus ut in suum sensum et erroresipsos ac haereses traheret et confirmaret tractando, disputando, disserendo, aliquid dicendoet faciendo ac procurando ut quamplures lucrifaceret ad sui ipsius ac caeterorum haeretico-rum sectam perditissimam». La sentenza è del 22 marzo 1567. La data delle sentenze riguar-danti gli altri gentiluomini bolognesi (20 settembre 1567) sembra indicare che il procedi-mento contro di loro fu una conseguenza del processo contro il Vittori. Nella sentenza dicondanna del Guastavillani si legge: «Havendo notitia il padre Inquisitore di Bologna che tu,Hieronimo Guastavillani, figliuolo di messer Angelo Michele gentilhuomo bolognese, erisospetto de heresia et che, essendo stato adimandato se sapevi che Hieronimo Vittorio fosse hereticoet in casa sua si facessero conventicole, l’havevi negato, sapendo essere vero» (Dublino, Li-brary of Trinity College, ms. 1224, cc. 203r-204r). Per la presenza del Vittori a Ginevra nel1567 vedi JEAN BARTHÉLEMY G. GALIFFE, Le refuge italien de Genève aux XVI e et XVII e siècles,Genève, H. Georg, 1881, p. 159.

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battini – la cui attività durò ininterrotta per due decenni.215 Si muovevanotutti, di preferenza, nel mondo mobilissimo dei tessitori, tra Bologna,Modena, Ferrara, Venezia, Mantova: il tessitore Tommaso Bavellino –che è quanto meno alle origini della formazione di questo gruppo, primadi sparire del tutto dagli atti inquisitoriali se non, come abbiamo già vi-sto, per il ricordo vivissimo che aveva lasciato di sé tra i suoi complici –si sposta a suo agio tra Bologna, Modena e Ferrara, a seconda dell’anda-mento dell’azione repressiva nelle tre città; per gli stessi motivi, France-sco Tavani sposta almeno due volte, da Modena a Bologna e poi da Bo-logna a Modena, la sua azienda tessile (che nel 1579 comprendeva, tral’altro, «due tellari da panno» e «uno da rassette basse»), sempre inconte-nibile, in entrambe le città, nel dichiarare ai suoi dipendenti avversioneradicale alle strutture ecclesiastiche (con evidente allusione a uno dei testipiù ricorrenti nella pubblicistica sull’Anticristo, II Thess., II, 4, dicevache il papa «si facea adorare»; e confesserà che, insieme con i suoi amici,aveva detto «d’ogni cosa contra la Santa Chiesa Romana»); provenienteda Venezia, dove, secondo il racconto della moglie Diana, era «divenutoheretico», si unì al gruppo bolognese il tessitore Antonio Albertanza, ir-refrenabile nel dir «male de’ preti et frati»; il tintore Rinaldo Brugato daCento, dopo aver lavorato per quattro anni a Modena, viene anch’egli aintegrarsi in questo gruppo bolognese di inquieti tessitori e, fuggito dallecarceri dell’inquisizione, muore nel 1571 in casa del tintore mantovanoAlessandro Roveda, presso il quale s’era rifugiato in attesa di partire perGinevra; 216 e così via. Nessuna delle pur numerose testimonianze che li

215 Oltre che dal già cit. processo di Francesco Tavani (cfr. sopra, nota 199), notizie det-tagliate su questo gruppo di popolani provengono dal processo del sarto modenese MarcoMagnavacca, giustiziato il 22 febbraio 1567 (Modena, Archivio di Stato, Fondo Inquisizione,busta 4, Contra Marcum Magnavaccam tonsorem pannorum). Ricco di notizie, in particolare sullerelazioni che gli aderenti a quel gruppo intrattenevano col mondo dei tessitori fuori di Bo-logna, è il voluminoso incartamento riguardante Lucrezia Cavalieri, moglie del tintore ro-magnolo Rinaldo Brugato, complice del Magnavacca e fuggito dalla prigione bolognese(ibid., busta 5).

216 Sul Bavellino vedi sopra, nota 163. Sul Tavani il suo processo già citato (cfr. sopra,nota 163), costituto del 16 novembre 1579, dove l’inquisito fa risalire agli anni Quaranta unsuo soggiorno bolognese di 12-13 anni, e, con riferimento a un primo processo, «questo –disse – fu dell’anno (credo) 1549». Nello stesso costituto: «Bacigavo poi alcuni seduttori iquali mi furono messi per le mani dal sudetto Antonio Amadeo et particolarmente mi messeper le mani un Giov. B. Rasaro et un maestro Marco Magnavacca [...]. Et mi ricordo ancheche mi lodavano un messer Vincenzo Cenerini da Bologna, mercante da panno, con dirmiche loro era galanti huomini et particolarmente che Giov. Batt. Rasaro era litterato et cheleggeva bene». Il riferimento al Bavellino e al Magnavacca documenta le origini dell’attività

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riguardano fa riferimento a complicità in ambienti di livello sociale piùalto. Anche i loro processi sono degli anni 1566-1567, cioè contempora-nei ai processi contro il Vittori e contro il Bovio; ma è una contempora-neità che si spiega con la severità dell’azione repressiva cui subito avevadato impulso anche a Bologna la recente elezione di Pio V Ghislieri. In-somma, è forte l’impressione che, a differenza di quanto era accaduto ne-gli anni Quaranta, ci fosse ora una netta divaricazione tra il mondo reli-gioso di questi popolani e la cerchia dei gentiluomini che si riunivano at-torno al Vittori. Neppure può essere considerata una testimonianza di re-lazioni e di osmosi di idee la coincidenza tra la convinzione di questi ar-tigiani che non fosse lecito uccidere gli eretici («Quod ecclesia non debe-ret effundere sanguinem haereticorum») 217 e quanto pochi anni dopo ilBovio sostenne in Valtellina.218 Si tratta di idee la cui diffusione nei cetipopolari non presuppone necessariamente, per decenni così inoltrati delCinquecento, la frequentazione e la mediazione di ceti colti. L’impres-sionante complesso di dottrine ereticali che nel 1570 l’inquisitore di Fer-rara, Paolo Costabili, poté attribuire (parte per confessione, parte in basea testimonianze) al contadino modenese Pellegrino Baroni non è spiega-bile con una sua frequentazione della «casa di qualche gentilhuomo» che,ipotizzata come ovvia dal visitatore della diocesi modenese, è stata con-fermata con buone congetture come esperienza fatta soltanto trent’anniprima in casa di gentiluomini bolognesi.219 Nel frattempo la diffusione di

del gruppo e insieme la sua continuità come è documentata dal processo del Magnavaccastesso. L’inventario, in data 19 novembre 1579, dei beni del Tavani, affidati alla moglie Ca-milla Marescotti, in Modena, Archivio di Stato, Fondo Inquisizione, busta 1, alla data. PerAntonio Albertanza (o Albertazzi) vedi il cit. processo di Lucrezia Cavalieri, costituto dellamoglie Diana, senza data; e nel costituto della stessa Lucrezia del 1o settembre 1571 le noti-zie su Rinaldo Brugato; vedi anche il processo del Magnavacca, costituto del 17 dicembre1566.

217 La proposizione figura nelle due sentenze di condanna del Magnavacca, quella bolo-gnese del 16 maggio 1560 e quella del 10 febbraio 1567 (entrambe nel cit. fascicolo del pro-cesso Magnavacca).

218 DELIO CANTIMORI, Eretici italiani cit., p. 315.219 L’ipotesi del visitatore della diocesi modenese, fra Girolamo da Montalcino, è in Ar-

chivio Vaticano, Concilio Tridentino, filza 94: Visita della diocesi di Modena, 1565, c. 82r: «Inquel populo [Savignano sul Panaro] v’è Pelegrino Grasso, concubinario, lutherano, quale fuaccusato dal visitatore, anzi, minacciato, si fuggì da Modena, intendo dire essere ripatriato.Questo è un povaro contadino infermo, bruttissimo, basso di statura. Parlando con esso, mifaceva stupire, dicendo cose false, ma ingegniose, per il che ho giudicato che l’habbia impa-rate in casa di qualche gentilhuomo» (cfr. CARLO GINZBURG, Il formaggio e i vermi cit., pp.136-145, in partic. p. 140). «Povaro contadino» è da intendersi come espressione di compa-timento. In realtà, il Baroni, generoso nel fare elemosine (Modena, Archivio di Stato, Fondo

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dottrine di provenienza anabattista era stata larghissima anche tra popola-ni le cui vicende e le cui idee non sono sempre riportabili all’ambito delmovimento anabattista così come risulta delimitato nella nota delazionedi don Pietro Manelfi. Ora, se, per Bologna, le testimonianze tuttora adisposizione non documentano rapporti tra la cerchia del Vittori e il vi-vace gruppo bolognese di tessitori che Antonio Balduzzi disperse neglistessi anni, esse documentano, invece, che al centro del loro mondo reli-gioso vi fu la figura d’un popolano che già nel 1551 il Manelfi aveva de-nunciato come anabattista proprio in quella parte della sua delazioneconsegnata, a Bologna, nelle mani dell’inquisitore Leandro Alberti.

Era giunto a Bologna probabilmente nel 1555. Lo conoscevano tutti– compreso il Manelfi – come Baldassarre «bambinaro», dal suo mestieredi fabbricante di bambole.220 In un estratto del processo bolognese diMarco Magnavacca (1566) è detto «Baldassar quondam Ioannis de Vene-tiis»; nella sentenza che il 22 gennaio 1567 deferì lui stesso al braccio se-

Inquisizione, busta 6, Processi 1569-1573, «Liber duodecimus», processo Pighino Baroni, te-stimonianza di Andrea Martini del 21 maggio 1570), era un contadino di condizioni agiate,possedendo cinque pezze di terra «arborate a vite» e una pezza «casamentiva» in Savignano(ibid., Rettori: Modena e Modenese, Savignano, copialettere, f. 86r: «Pelegrino Baroni dettoGrasso»). Molte delle idee che Pighino, secondo la distinzione dell’inquisitore, confessò o glivennero attribuite, erano ampiamente diffuse nel contado modenese. Ad esempio, nel feudodi Nirano (presso Fiorano), Natale Andreotti sosteneva che «morto il corpo era morta l’ani-ma», con le stesse contraddizioni rilevate da Ginzburg a proposito di Pighino (vedi processoNatale Andreotti da Nirano cit. alla nota 199, deposizione di Bernardina Pellicani del 25gennaio 1574). A Monfestino, il prete Giovanni Tremanini, del quale un testimone diceva«pare habbia devorato la Grecia» (l’inquisitore Camillo Campeggio lo descriveva così: «Pre-sbyter quidam nomine Ioannes Tremaninus [...] modo huc modo illuc tamquam profugus setransfert et iudicis faciem declinare studet») sosteneva pubblicamente (a detta d’un testimo-ne, anche fra i contadini) che «l’anima è mortale». Questa convinzione del Tremanini risali-va a vent’anni prima, secondo la testimonianza di Giovanni Antonio Del Pino, che fra l’al-tro dichiarò: «Io ho inteso dire a esso don Giovanni che per il tempo passato havea tenuto etcreduto morto il corpo perisse anchora l’anima, ma di puoi si era levato di questa openioneper haver sentito al tempo di notte certi strepiti in un palazzo, per i quali haveva conosciutoche erano spiriti» (ibid., busta 3, Processi 1550-1565, «Liber octavus», processo Don GiovanniTremanini, deposizione di Giovanni Antonio Del Pino del 23 agosto 1564). A Sassomolare(presso Pavullo), il conte Cesare Montecuccoli negava l’esistenza dell’inferno e l’immortalitàdell’anima, secondo la testimonianza d’un gruppo di preti, che associavano tali credenze delMontecuccoli ai suoi costumi libertini (oltre che ai suoi soprusi ai danni della giurisdizioneparrocchiale): ibid., busta 6, Processi 1569-1573, «Liber duodecimus», processo Cesare Mon-tecuccoli, deposizione del 29 maggio 1570. E così via.

220 Cfr. CARLO GINZBURG, I costituti di don Pietro Manelfi, Firenze, Sansoni, Chicago, TheNewberry Library, 1970, p. 39: «Baldessera colla moglie, anabattisti». Nel suo costituto del13 agosto 1571, Lucrezia Cavalieri raccontò all’inquisitore che il marito Rinaldo era riuscitoa fuggire da Bologna prima dell’arresto perché avvertito da un figlio di Baldassarre.

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colare, «Baldassarre di Giovanni di Santa Maria del Gallo».221 Quanti fre-quentavano la sua bottega e la sua abitazione soprastante per discutere diproblemi religiosi, vi si recavano con circospezione: vi «convenivanonon tutti in una volta – accertò l’inquisitore – ma quando una parte equando un’altra [...] e tutti sapevano l’uno dell’altro».222 Spesso, d’estate,«mentre il fromento era nelle spighe», ritenevano più prudente riunirsifuori di Bologna, «nelli prati delli Crosati», oppure «verso il Monte», perstudio comune del Testamento o anche per la lettura di scritti d’attualitàreligiosa (ad esempio, «alcuni fogli di carta scritta a mano [...] in difesadel Vergellio, che già era fuggito per lutherano»).223

Con queste cautele e forse anche perché, morto Leandro Alberti(1552), si era perduta a Bologna la memoria della sua menzione nella de-lazione del Manelfi, per un decennio Baldassarre poté svolgere indistur-bato un’intensa propaganda. Parlatore accattivante («molto efficace e ve-loce nel parlare», secondo Pietro Lago), traeva autorevolezza dal raccontodel proprio passato. Presentava le sue esperienze religiose come legate auna lunga pratica del mondo (parlava di «diversi viaggi di mare et com-battimenti navali, dell’arsenale di Venezia» 224), a conoscenza di uomini e

221 La sentenza è in Bologna, Archivio di Stato, Atti del Torrone, n. 393, 1567, cc. 57v-59v; l’estratto del processo, un ampio costituto del 1o settembre 1566, è nel cit. processo delMagnavacca.

222 Lettera dell’inquisitore di Bologna, Antonio Balduzzi, all’inquisitore di Modena Ni-colò del Finale, del 26 novembre 1566, che accompagnava la copia di sei costituti del pro-cesso del Magnavacca, che perciò sono inclusi nel suo cit. fascicolo modenese. Scriveva ilBalduzzi: «Et acciò Vostra Paternità habbi maggior lume in venire in cognitione della verità,l’avertirò d’alcuni particolari. Et prima che quelli che sono nominati nelle scritture che glimando, cioè maestro Baldessara Venetiano, mastro Bernardino Milanese agucchiarolo, mae-stro Marc’Antonio [da Manerbio] dipintore, maestro Piero chiamato Romagnolo, maestroZanino Magnano, maestro Rinaldo tintore et esso maestro Marco cimatore, convenivanonon tutti in una volta, ma quando una parte e quando un’altra nella casa del detto maestroBaldessara nella Mascharella, a trattare di queste cose heretice che sono deposte, e tutti sape-vano l’uno dell’altro e si conoscevano per tali». Per distrazione, il Balduzzi non menzionaGirolamo Castellati, del quale pure unisce copia di parte d’un costituto del 28 settembre1566. La sentenza di Bernardino Rasola, in data 22 marzo 1567, in Bologna, Archivio diStato, Atti del Torrone, n. 393, 1567, cc. 316v-319r-v (cfr. ANTONIO BATTISTELLA, Il S. Officiocit., p. 99). In una successiva lettera del 17 dicembre, il Balduzzi comunicava che altri com-plici erano stati «maestro Marino Francese zavattino» e «un altro chiamato Alessandro Panza-chia marzaro». La sentenza del Panzacchi in Bologna, Archivio di Stato, Atti del Torrone, n.393, 1567, cc. 313r-314r. Per la esecuzione, avvenuta l’8 ottobre, cfr. ANTONIO BATTISTELLA,Il S. Officio cit., p. 99.

223 Processo di Marco Magnavacca, costituto del 17 dicembre 1567.224 Ibid., estratto dell’interrogatorio di Baldassarre del 1o settembre 1566.

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di eventi, a una lunga attività clandestina svolta a Venezia e a Ferrara: «Sivantava, sentendo io lui et gli altri compagni – testimonia il Magnavacca– che lui in Ferrara haveva insegnato et persuaso molti altri in questa fedelutherana in Ferrara et in Venetia, et ci diceva che lui era stato ministroin Ferrara et haveva hospitalità in casa sua, perché la Duchessa vecchia diFerrara gli dava degli letti et danaro, tanto al mese, per alloggiare i luthe-rani forastieri che capitavano a Ferrara».225 Non erano vanterie. Era giuntoa Ferrara prima del 1543, anno in cui vi subì un processo, come risultadalla sentenza bolognese del 1567. Nel 1555 Ambrogio Milanese, aliasGirolamo Cavalli, dichiarò che, insieme con altri due anabattisti (un fa-coltoso orefice e un sarto di nome Filippo), Baldassarre aveva avuto libe-ro accesso presso Renata ogni volta che gli era occorso danaro.226 Agliamici bolognesi non nascose le sue convinzioni e la sua stessa identità dianabattista: dalla sentenza risulta che aveva sostenuto l’inefficacia del bat-tesimo degli infanti e la necessità del ribattesimo. Gli incartamenti pro-cessuali di Baldassarre e dei suoi complici, deferiti come lui al braccio se-colare agli inizi del 1567, permetterebbero di verificare quali fossero, inquegli anni, le possibilità e le difficoltà d’una propaganda volta intenzio-nalmente a radicalizzare precedenti posizioni «luterane», a provocare ilpassaggio dal «luteranesimo» all’anabattismo («... et de Lutherano perfettolo facessimo anabattista», spiegava il Manelfi 227). Ma la documentazionesopravvissuta non consente di dire se ebbero effetti i tentativi di Baldas-sarre di radicare le sue convinzioni in quel gruppo nel quale pure eraascoltato come «precettore et maestro».228 Le sole dichiarazioni (quelle delMagnavacca) nelle quali vengono evocate frammentariamente le discus-sioni che le idee di Baldassarre suscitavano hanno il limite caratteristicodi questo genere di fonti, cioè la reticenza: ora esse accennano a reazioniunanimi di rifiuto e addirittura di aborrimento, ora ammettono che vifossero stati consensi e dissensi.229 Ciò su cui l’intera documentazione te-

225 Processo Magnavacca, costituto del 17 dicembre 1566.226 BARTOLOMMEO FONTANA, Renata di Francia duchessa di Ferrara, Roma, Forzani e C.,

III, 1899, p. LI. Il sarto Filippo è ricordato dal Manelfi (CARLO GINZBURG, I costituti cit., p. 39).227 IDEM, I costituti cit., p. 72.228 Processo Magnavacca, costituto del 19 dicembre 1566.229 Costituto del Magnavacca del 17 dicembre 1566: «Voleva che credessimo tutti tre

[oltre al Magnavacca, Rinaldo Brugato e Giannino Magnano] che Christo non era nato diMaria Vergine, ma che Dio haveva fabricato un bambino al modo suo et lo pose ai piedi diMaria Vergine, et lei poi lo notrì et allatò, ma la cosa ci spiacque tanto a tutti, che mostrassi-mo di aborirla molto, che poi lui non hebbe ardire di proseguire più tal pazzia. Et alle voltemi trovava solo et mi diceva: ‘‘Io ho da dire di gran cose, ma ..., et non seguiva più inanti,

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stimonia unanimità è la radicale condanna delle istituzioni ecclesiastiche.Su questo punto, il presupposto della propaganda di Baldassarre era, evi-dentemente, quello che gli anabattisti italiani avevano posto, secondo ilManelfi, tra i punti qualificanti della loro dottrina: «Tenere la Chiesa ro-mana essere diabolica et antecristiana».230 In sede processuale, l’affermazio-ne sarebbe stata gravissima; e Baldassarre e i suoi amici dissimularono:dissero che negavano «l’authorità del papa», genericamente; oppure chene rifiutavano l’autorità temporale come usurpazione; e Baldassarre dissi-mulò al punto di affermare «ch’el papa fosse vescovo di San GiovanniLatherano e non di più authorità ch’habbino gli altri episcopi».231 Ma al dilà di queste dissimulate attenuazioni delle loro convinzioni, il vero pen-siero di Baldassarre e dei suoi amici sulle strutture ecclesiastiche e su tuttociò che essi respingevano come «constitutioni humane»,232 non resta inat-tingibile. Lo lasciarono intravedere quando dovettero rispondere all’in-quisitore sulla questione centrale d’ogni procedimento inquisitorio: qualifossero i mezzi della salvezza. Marco Magnavacca dichiarò che era con-vinzione comune a tutti la certezza della grazia impetrata direttamente daDio, e perciò la certezza della salvezza («certus eras te habere gratiam Deiet gloriam consequuturum»).233 La presenza preminente di Baldassarre fa-rebbe pensare alla formulazione che di questo dilatabilissimo tema teolo-gico era stata data nel sinodo anabattistico di Venezia del settembre del

ma soggiongeva: Questo ‘ma’ vuole dire di gran cose’’». Ad altra domanda il Magnavacca ri-sponde con incertezza: «Non solo io, ma anco gli altri [mostravamo] di credere contro lidetti articoli [...] Potrebbe però ancor essere che qualcheduno delli predetti miei compagninon credesse così tutti li predetti articoli et gl’altri non nominati, ma hereticali però, et ioero uno di quelli che non credeno tutto quello che persuadeva il detto Baldassara».

230 CARLO GINZBURG, I costituti cit., p. 33.231 Processo Magnavacca, costituto del 17 dicembre 1566; sentenza modenese del lo feb-

braio 1567; estratto dell’interrogatorio di Baldassarre del 1o settembre 1566. Nell’interroga-torio di Bernardino Rasola, dello stesso giorno: «Dissero anchora che il papa non haveva au-thorità alcuna et che le sue cose valevano niente et che faceva per cavare denari».

232 Ibid., costituto del 17 dicembre 1566.233 La proposizione è nella sentenza modenese del Magnavacca già citata (cfr. sopra, no-

ta 231). L’abiura bolognese (cfr. ibid.): «Item iuro me credere corde et profiteor ore quodhomo absque speciali Dei revelatione non potest esse certus se habere gratiam Dei et deberesalvari. Et consequenter abiuro, revoco, detestor et abnego illam haeresim qua dixi me essecertum habere gratiam Dei et gloriam consequuturum». Nella versione di Baldassarre, se-condo l’estratto del suo interrogatorio del 1o settembre 1566: «Del libero arbitrio io tenevoquesto, che noi non potevamo cosa alcuna senza la gratia d’Iddio; ma, aiutati dalla gratíad’Iddio, eramo poi liberi ad ogni cosa, et tutti dicevamo et tenevamo che, quando Dio donala gratia ad alcuno, l’homo è sforzato ad accettarla et non gli può fare resistenza».

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1550: «Gli eletti essere giustificati per la eterna misericordia et charità diDio senza nessuna opera visibile; intendendo senza la morte, il sangue etgli meriti di Cristo».234 Ma, o Baldassarre non aveva condiviso gli esiti delmovimentato sinodo di Venezia, oppure dissimulò: la fede nel beneficiodella morte di Cristo ridiventa nelle sue dichiarazioni il fondamento dellacertezza della grazia e della salvezza.235 Tra l’infinita misericordia di Dio el’uomo, che egli salva gratuitamente, la Chiesa ha interposto «institutionihumane» fomiti di idolatria: indebitamente s’è costituita in surrettizio or-dine sacro, mentre l’unico sacerdote è Cristo; col culto dei santi ha di-stolto dall’invocazione dovuta soltanto a Dio; versa il sangue degli ereti-ci; stabilisce speciose differenze tra i peccati, che invece «sunt aequalia»,essendo l’unico peccato mortale «mori sine gratia Dei»; è idolatria l’euca-ristia; idolatria il culto delle immagini, escogitato «pro libro ignoran-tium». Uno dei più assidui frequentatori di queste riunioni, il tessitorefaentino Pietro Lago, sapeva indicare ai suoi amici quello che gli sembra-va il luogo delle Scritture più adatto alla riflessione su questa abnormecostruzione satanica: il sesto capitolo di Baruch.236

6. A Modena patrizi e popolani discutono dell’Anticristo

Il modo in cui nel giugno del 1541 il Liber generationis Antichristi ven-ne nelle mani del vicario della diocesi di Modena, Giovanni DomenicoSigibaldi, è un episodio caratteristico del genere di sorveglianza messo inatto dal vicario nel tentativo di identificare i responsabili della preoccu-pante diffusione di dottrine eterodosse nella città. La rapida inchiesta cheil Sigibaldi formalizzò nella sede del vescovado all’insaputa, come sem-bra, del pur dinamico inquisitore fra Domenico da Bergamo, mirò a te-ner segreta la fonte delle informazioni: un chierico, don Orio Bastardi,frequentatore resipiscente del circolo degli «accademici», convinto dal Si-gibaldi a non rendere pubblica la propria resipiscenza, «per poter penetrar

234 CARLO GINZBURG, I costituti cit., p. 35.235 Estratto dell’interrogatorio di Baldassarre del 1o settembre 1566.236 Costituto del Magnavacca del 19 dicembre 1566: «... lessi alla presentia di detto Bal-

dassarre, di detto Pietro, quel vecchio dipintore [Marcantonio da Manerbio], il detto Giro-lamo [Castellati], un capitolo capitale (?), cioè il sesto di Barucco profeta, che mi fu mostra-to da detto Pietro col dito, dicendomi ch’io lo legessi, et lessi anco sopra il Testamento No-vo un capitolo della epistola di s. Paolo alli Corinthi». Se la lettura dei due testi faceva parted’un discorso unitario, il secondo riferimento può essere a II Cor., XIII, 1 sgg.

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li secreti loro».237 I due interrogatori di cui si compone l’inchiesta non la-sciano dubbi su un particolare rilevante: lo studente mantovano in viag-gio da Bologna verso Mantova aveva consegnato il libello al mercanteAlberto Baranzoni come ad amico, «ut ostendere posset aliquibus eiusamicis».238 Si tratta, dunque, d’un episodio che rientra nel quadro delleiniziative e intenti propagandistici comuni che erano alla base delle stret-te relazioni tra circoli eterodossi di Modena e di Bologna.239 Se le dichia-razioni del Baranzoni non furono volutamente riduttive, la circolazionedel Liber generationis Antichristi non sfuggì alla sorveglianza del Sigibaldiper più d’una settimana. Ma tanto era bastato perché, come s’è già visto,il governatore di Modena, Francesco Villa, potesse riferire a Ferrara che illibello era molto apprezzato («per pasquineria è molto lodata»).240 La linea

237 Vedi Documenti, 1, nota 3.238 Ibid., p. 195.239 Per gli inizi degli anni Quaranta, le testimonianze più significative sono quelle che

riguardano l’attività bolognese di Giovanni Battista Scotti e di Benedetto Accolti. Per loScotti vedi MASSIMO FIRPO, DARIO MARCATTO, Il processo inquisitoriale cit., II, pp. 246, 350,358-359, 362; IV, p. 467 (contatti personali e corrispondenza con Ludovico Castelvetro, Fi-lippo Valentini, Gabriele Falloppia, Francesco Porto, Antonio Gadaldino, Francesco Camu-rana). Quanto all’Accolti, dopo la fuga da Bologna trovò ospitalità e libri a Modena e a Sas-suolo. In particolare, egli stesso dichiarò d’aver trovato ospitalità e libri («un’infinità») in casadel medico Niccolò Machella, una delle figure più prestigiose tra quante convenivano nelcircolo verso il quale il Sigibaldi aveva indirizzato le prestazioni delatorie del suo chierico(cfr. RENZO RISTORI, Benedetto Accolti cit., p. 365). A conferma della dichiarazione dell’Ac-colti sui libri che aveva potuto leggere a Sassuolo, si veda la lettera di fra Domenico da Imo-la al Morone in data 7 giugno 1567: «Si tiene bene che il Bonvicino debbia dire di qualcunoche già erano suoi amici, a qualli ancho li dava de libri, et questo vogliano che sia circa ledecine delli anni» (ANGELO MERCATI, Il sommario del processo di Giordano Bruno, con appendice didocumenti sull’eresia e l’inquisizione a Modena nel secolo XVI, Città del Vaticano, BibliotecaApostolica Vaticana, 1942, p. 141). Il Mercati (ibid.) propose congetturalmente di identifica-re il Bonvicino di questa lettera di fra Domenico da Imola con Buonvicini Possidonio. Sitratta, invece, di Tommaso Bonvicino, capitano e luogotenente di Ercole Pio. Il processocontro di lui è in Modena, Archivio di Stato, Fondo Inquisizione, busta 4, Processi 1567-1568,«Liber decimus», ricco di particolari sulla diffusione di dottrine e libri eterodossi a Sassuolo enella giurisdizione dei Pio (ad esempio, testimonianza di fra Pietro da Rimini del 3 luglio1566: «Ho sentito dire che lui ha una catastra de libri lutherani»; testimonianza di GiacomoLolli del 5 febbraio 1567: «Morotto Bonvicino suo fratello, mi disse ch’a lui Thomaso vene-vano le montagne de libri»). Un «avviso» da Roma in data 20 luglio 1568 informava: «È ar-rivato da Sassuolo il Bonvicino et è stato posto all’inquisitione, et così il mastro di casa didonna Giulia Gonzaga» (ibid., Cancelleria ducale: Avvisi, busta 6, c. 363). Doveva essere liberogià nel febbraio del 1570, se il 19 di quel mese Ercole Pio concede un privilegio a lui («doc-tor Thomas») e ai fratelli Morotto, Antonio e Domenico (ibid., Particolari: Bonvicini, subTommaso).

240 Cfr. Documenti, 1, p. 192.

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argomentativa, che già conosciamo, del libello neppure lascia dubbi suchi poteva leggerlo col pieno consenso e con le lodi di cui parlava il Vil-la. Si trattava evidentemente di lettori non più disposti soltanto a una po-lemica antiecclesiastica incentrata unicamente sulla denuncia degli abusi.Fu questo l’equivoco in cui cadde il Sigibaldi, allorché tentò di dare unadefinizione complessiva di tutta quell’inaudita eruzione di fermenti di ri-bellione che gli suggerì la rappresentazione di Modena come una nuovaPraga.241 Tutto ciò che il Sigibaldi sembra fosse riuscito a capire era che i«lutheranizzanti» modenesi erroneamente deducessero dalla critica degliabusi la loro volontà di «esterminar l’authorità et potestà ecclesiastica etpontificia»: erroneamente, perché – diceva – il fondamento di quell’au-torità e potestà «non consiste ne li costumi, come loro presupponeno».242

Non affideremo la soluzione d’un simile problema a effimere lodi d’unpasquillo.

Certo, c’erano ragioni perché il Sigibaldi s’appigliasse a questa sem-plificazione. A Modena, la polemica contro la corruzione ai vertici e allaperiferia dell’istituzione ecclesiastica continuava a essere violenta: unarealtà radicatasi nell’opinione pubblica specialmente negli anni della re-cente dominazione pontificia. Il cronista Tommasino Lancillotti registraun campionario inesauribile di simili reazioni. E Pasquino era stato, testi-mone lo stesso Lancillotti, un interlocutore dell’opinione pubblica mo-denese particolarmente irridente. Neppure il Sacco di Roma vi aveva su-scitato forti emozioni; anzi, in anni più vicini a quelli che qui interessa-no, quello stesso evento poteva addirittura essere evocato come l’esem-pio d’altri eventi possibili, punitivi del malo esempio della curia e – nellostile ed espressioni di Pasquino – dell’idolatria romana dell’oro e dell’ar-gento.243 Ma la sommaria assimilazione delle idee dei «lutheranizzanti»

241 MASSIMO FIRPO, DARIO MARCATTO, Il processo inquisitoriale cit., II, p. 897, lettera alMorone del 10 novembre 1540 (cfr. p. 695).

242 Ibid., p. 885, lettera al Morone del 26 ottobre 1540.243 Non ne era rimasto emozionato il Lancillotti, che, sebbene uomo notoriamente pio,

non esitò ad annotare che «Dio ha fatto un grande miracolo a punire tutta Roma da capo apiede» (TOMMASINO DE’ BIANCHI detto DE’ LANCELLOTTI, Cronaca modenese [«Monumenti distoria patria delle provincie modenesi», Parma, Fiaccadori, II-XIII, 1862-1884], II, 1865, p.304). L’annotazione del Lancillotti è tanto più significativa in quanto segue alla trascrizioned’una violenta pasquinata che, giunta a Modena nel 1518, era stata rimessa in circolazionenel 1527 e che al cronista sembrò degna di nota «per essere al proposito al presente, e per es-sere accaduto è stato per le cause sottoscrite, perché el non se credeva se non in oro e argen-to» (ibid.). Gli editori ottocenteschi della Cronaca hanno omesso il testo della pasquinata, chesi trova, oltre che nel ms. della Cronaca (Modena, Biblioteca Estense, a. T. 1. 3 = Ital. 533,

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modenesi a queste diffuse espressioni della polemica antiecclesiastica deri-vava da presupposti radicati nella mentalità d’un esperto di canoni e giàda più d’un ventennio accorto amministratore della diocesi quale era ilSigibaldi. Derivava, in primo luogo, dall’indifferenza del Sigibaldi a unaconoscenza ravvicinata, anche se non necessariamente compromissoria,delle idee che si esprimevano nella crescente protesta di tanta parte dellacittà. Nel periodo più agitato della predicazione modenese dell’agostinia-no Egidio da Bergamo, tutto ciò che egli seppe riferire al Morone sulcontenuto delle prediche fu che «alchuno m’ha pur detto non so che, al-chuno ch’el predica catholicamente»; né seppe riferire di più sul contro-verso passato del frate se non che gli erano state attribuite «certe here-sie».244 Quando, poi, dal suo osservatorio di Modena Sigibaldi provava aguardare alla complessiva rivoluzione del secolo, compendiava tutte ledeviazioni dei «moderni heretici» nella «speranza (utinam vana) – comescriveva sempre al Morone – che l’authorità ecclesiastica vada in fumo etche ne li altri articoli li sia licito quel che li piace, secondo la libertà chri-stiana carnale a loro modo intesa».245 La polemica contro gli abusi – cheforse preoccupavano il Sigibaldi più di quanto fosse la norma d’un vica-rio diocesano del tempo – era irrilevante rispetto all’intangibilità del ca-none che sorreggeva la potestà dell’istituzione; ma quando essa si risolve-va in critica dell’incontestabile esercizio dell’autorità ecclesiastica, alloracostituiva una minaccia alla sola garanzia contro l’instaurazione d’una «li-bertà christiana carnale». Probabilmente da questa visione delle cose nac-que la rottura di Giovanni Bertari col Sigibaldi in iniziative riformatrici

cc. 63v-64r), nei Pasquillorum tomi duo cit., II, pp. 302-305 (cfr. Carmina Burana, ed. HILKA-SCHUMANN, Heidelberg, Carl Winter, 1930, I, p. 44, con bibliografia, che tuttavia ignora l’e-dizione del Curione). Dieci anni dopo, nel febbraio del 1537, in un singolare dialogo epi-stolare tra Pasquino e la Bonissima (figurazione modenese della saggezza popolare), quest’ul-tima trasse occasione dalla pubblica denuncia di un’usurpazione di uffici perpetrata in dispre-gio degli ordinamenti cittadini, per deplorare ciò che, eccezione a Modena, a Roma era in-vece malo esempio e norma di curia: un groviglio di benefici «intertiati et intrigati» con ar-bitrarie designazioni ereditarie di nipoti e pronipoti, tale «ch’el diavolo non saperia far peg-gio»; non c’era di che meravigliarsi se Dio aveva mandato i lanzichenecchi a porre almenoun provvisorio rimedio («a schurmar la pignata»); c’era, invece, da prevedere che «una favilladel presente serà più del passato fiamma». E Tommasino trascrisse (ma anche questo fuomesso nell’edizione ottocentesca) nella Cronaca quel fittizio carteggio tra le «cose degne dimemoria», compresa l’investitura di Pasquino come «protettore del populo modenese». SulSacco di Roma come avveramento, secondo Lancillotti, di varie profezie, vedi OTTAVIA

NICCOLI, Profeti e popolo nell’Italia del Rinascimento, Bari, Laterza, 1987, pp. 15-17, 222-225.244 MASSIMO FIRPO, DARIO MARCATTO, IL processo inquisitoriale cit., II, pp. 924, 932, lette-

ra al Morone del 1o marzo 1541.245 Ibid., p. 1020, lettera al Morone del 3 giugno 1541.

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ispirate dal Morone prima della sua partenza per la Germania («ad refor-mationem cleri, ad doctrinae sanitatem et ad vitiorum exstirpationem acmorum correctionem»): una dissociazione che, come dimostra l’evolu-zione religiosa del Bertari, significò comunque diversità di vedute sulrapporto tra abusi e dottrina, cioè sul concetto stesso di riforma.246 Uncomportamento meno indifferente, un interesse meno generico, anche sedistaccato e polemico, alla conoscenza dei problemi che venivano emer-gendo anche dalle poche azioni inquisitorie che a Modena si intrecciaro-no con i tempi della sua corrispondenza col Morone, avrebbero rivelatoal Sigibaldi che non si trattava più di denuncia della corruzione e di po-lemica contro gli abusi: gli avrebbero rivelato quanto si fosse ormai anda-ti lontano in fatto di connessione tra abusi e dottrina e di motivazionidottrinali della negazione dei fondamenti dell’istituzione ecclesiastica.Erano gli ambienti nei quali il Liber generationis Antichristi venne subitoletto e lodato e nei quali la rappresentazione della Chiesa e delle sue radi-cazioni nella società si evolverà proprio nel senso suggerito da quel libel-lo e da letteratura analoga. Per Modena, la documentazione utile per laricostruzione di queste posizioni religiose e della loro evoluzione è piùabbondante che per le altre situazioni. La utilizzeremo per casi che qui sipresentano particolarmente significativi.

Il 1o marzo 1541, Sigibaldi informò il Morone dello scandalo suscita-to da una disputa che «uno Francesco Sighizzo» aveva avuto col gesuitaGiacomo Laínez (un testimone riferì che «propter multitudinem astan-tium non potuit ingredi cameram in qua contendebatur»).247 Al processo

246 Il motu proprio (privo di data nella copia che se ne conserva) con cui Paolo III desi-gnava il Bertari tra i coadiutori del Sigibaldi, è pubblicato in MASSIMO FIRPO, DARIO MAR-CATTO, Il processo inquisitoriale cit., III, pp. 111-112. Sulle futili ragioni con cui il Sigibaldispiegò al Morone l’evoluzione religiosa del collaboratore vedi ibid., II, p. 981.

247 Ibid., p. 925. Il processo in Modena, Archivio di Stato, Fondo Inquisizione, busta 2,Processi 1489-1549, «Liber quintus», processo Francesco Sighizzi (l’informazione sulla folladei presenti è nella testimonianza di Filippo Bergola del 15 febbraio 1541). Era di solidoceppo mercantesco, coinvolto anche nei decenni successivi in azioni inquisitoriali. Il 20marzo 1568 abiurò davanti al Morone Giulio Cesare di Girolamo Sighizzi, dando notizieche risalgono agli anni della predicazione modenese del canonico regolare Giovanni France-sco da Bagnacavallo, cioè agli inizi degli anni Cinquanta (ibid., busta 4, «Liber decimus»). Auna stretta sorveglianza sarà sottoposto, più tardi, Spinazzo Sighizzi a causa delle sue relazio-ni con l’esule Giulio Sadoleto, del quale era procuratore: in un tardo Elenco di denunciati, diquelli che abiurarono, c. 33v, si legge: «Spinatius Sighitius defertur, sed dubitative, velut su-spectus de fautoria haereticorum, praecipue Iulii Sadoleti» (ibid., busta 1, Carteggio 1329-1601, inserto 10; cfr. ANTONIO ROTONDÒ, Esuli italiani in Valtellina nel Cinquecento, «Rivistastorica italiana», LXXXVIII, 1976, qui a p. 427). Quando nel 1550 Francesco mori appena

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che ne era seguito a metà febbraio vari studiosi hanno già fatto riferimen-ti occasionali.248 Ma nel contesto di questa ricerca la figura e l’attività delSighizzi meritano ben altra attenzione. Rapporti sospetti, forse anche pa-rentela, con i Carandini – ospiti, com’è noto, di Lisia Fileno nella lorovilla della Staggia – e partecipazione attiva alle lezioni di Giovanni Berta-ri su s. Paolo indicano l’ambito nel quale il Sighizzi s’era formate o avevaconsolidate le proprie convinzioni.249 Il processo riguardò prevalentemen-te affermazioni del Sighizzi sulla predestinazione. Ma la discussione suquesto argomento non poteva essersi svolta se non in un contesto di altreaffermazioni su questioni controverse, come del resto dichiarò uno deipresenti («contentionem habuerunt de multis circa fidem, praesertim depraedestinatione»).250 L’intransigenza con cui il Sighizzi negava il valoremeritorio delle opere gli valse l’ovvio richiamo del Laínez all’obbligo disottostare all’autorità della Chiesa. E su questo punto la negazione del Si-ghizzi non fu meno intransigente. Il primato delle Scritture toglieva all’i-stituzione ecclesiastica ogni esclusiva autorevolezza dottrinale: l’autoritàdella Chiesa non era superiore a quella di chiunque altro esibisse le Scrit-ture («non solum ecclesiae se remittebat, sed cuilibet qui ostenderet ei-dem sacras literas»).251 Con particolare energia il Sighizzi contestava l’i-dentificazione, su cui insisteva il Laínez, della Chiesa con la «sede aposto-lica». E proprio a questo riguardo il Sighizzi si lasciò andare ad afferma-zioni (le sole che gli atti del processo riportano in volgare) che uscivanodalla pur audace esibizione disputativa delle proprie convinzioni e distin-

quarantenne, il Lancillotti (Cronaca cit., IX, p. 273) annotò che era vissuto con eccessiva«sumptuosità» e che era «ignorante e senza lettere». Delle due annotazioni la seconda è la me-no probabile. Nel cit. Elenco di denunciati, c. 11r, si legge: «Franciscus Sigitius, de haeresi dela-tus anno 1541 a pluribus. Examinatus, partim negat partim exponit dicta sua; sine conclusio-ne est processus. Nominatus postmodum invenitur a multis ut haereticus de anno 1562». Manei pochi processi modenesi del 1562 conservatisi non ho trovato riferimenti al Sighizzi.

248 SUSANNA PEYRONEL RAMBALDI, Speranze e crisi cit., pp. 246-247; MASSIMO FIRPO, DA-RIO MARCATTO, Il processo inquisitoriale cit., II, p. 925.

249 Probabilmente era una Carandini la moglie Elena. In degli Excerpta ex libro Dominiepiscopi Foscararii, c. 3v si legge: «Francesco Sigitio, Barbara Carandini: creditur quod istiobierint et quod sint relationes antiquae» (Modena, Archivio di Stato, Fondo Inquisizione,busta 1, Carteggio 1329-1601, ins. 8). Per la comune opera di proselitismo con TommasoCarandini vedi più avanti. Sull’ospitalità data a Lisia Fileno da Anna e Tommaso Carandininella loro villa della Staggia vedi CAMILLO RENATO, Opere cit., pp. 78, 167, 169, 192-193,200. L’attenta partecipazione del Sighizzi alle letture paoline del Bertari è dimostrata dallasua testimonianza del 13 aprile nel processo di quest’ultimo (ibid., busta 2, Processi 1489-1549, «Liber quintus», c. 6r).

250 Processo Francesco Sighizzi, testimonianza di Egidio Guidoni del 15 febbraio 1541.251 Ibid., costituto del 16 febbraio 1541.

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guevano polemicamente tra insegnamento dei papi e l’esser buon cristia-no: i papi «gli sono homini, potriano cosi fallare come mi, se non mo-strano la Sacra Scrittura. Io qui starò e voglio essere bon cristiano».252 Ilprocesso si interruppe senza accertare quali fossero le conseguenze che ilSighizzi traeva da questa sua distinzione. Quando nel 1550 il Sighizzimorì, sia pure con qualche esitazione il Lancillotti annotò che si era riti-rato «alquanto»: solo avrebbe aspettato il momento delle disposizioni te-stamentarie per assegnare alla scelta di esequie dimesse il significato d’unrifiuto polemico di voler «pompa e finzere santità».253

Ma non fu così. In realtà, anche dopo il processo il Sighizzi svolseun’intensa attività di propaganda. Intanto, già dal processo era emersoche andava diffondendo «multa haereticalia» nelle vicine campagne mo-denesi («per villam Freti, scilicet parochie S. Salvatoris, inter comitatinosdicit et disseminat multa haereticalia»); e il testimone se ne diceva cosìcerto da suggerire che «possunt sumi informationes ab ipsis comitatinis».254

Né questa né la coeva testimonianza sul genere di predicazione con cuiLisia Fileno «andava suvertendo li villani» sono le sole su tentativi di dira-mazioni del robusto movimento eterodosso modenese dalla città nelcontado: e se anche l’analisi di esse non modifica – per quanto provviso-riamente mi risulta – la tesi generale d’una scarsa recettività del mondorustico italiano alle idee riformatrici, tuttavia esse testimoniano, per Mo-dena e il Modenese, una possibilità di espansione che si giovava d’unaancora forte persistenza di rapporti tra città e campagna. Ciò che risultaevidente da tutte le testimonianze sull’evoluzione religiosa del Sighizzi esulla sua propaganda è la coerente deduzione d’una radicale polemica an-tiecclesiastica da un’originaria opzione per l’unicità della fede giustifican-te: insomma, un caso tipico dei percorsi religiosi di cui ci stiamo occu-pando in queste pagine. Quanto la propaganda del Sighizzi sia stata inci-siva risulta da un episodio tardo dell’attività inquisitoriale modenese: unepisodio che, tuttavia, credo sia destinato a rimanere oscuro nei suoiaspetti forse più interessanti, nonostante l’indagine contestuale sempre

252 Ibid., testimonianza di Benedetto Carandini del 15 febbraio 1541.253 Le annotazioni del Lancillotti (Cronaca cit., IX, p. 273) sono confermate da una de-

nuncia contro Elena Sighizzi («Domina Helena de Brexillo quondam uxor D. Francisci deSigitiis») presentata da una sua domestica al vicario dell’inquisizione di Modena, fra Costan-zo da Modena, in data 24 marzo 1553: «Audivisse ab eadem quod, cum mortuus est maritussuus, fecit eum sepelire sine luminibus et aliis solemnitatibus solitis» (Modena, Archivio diStato, Fondo Inquisizione, busta 3, Processi 1550-1559).

254 Processo Francesco Sighizzi, testimonianza di Tommaso Fontana del 15 febbraio 1541.

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necessaria in una documentazione che, per Modena in particolare, si pre-senta frammentaria in primo luogo a causa della varietà dei criteri di con-duzione dell’ufficio che l’ha prodotta. Nel marzo del 1568, GiovanniBattista di Stefano Capello attribuì l’origine dei suoi errori a «istigationeet sugestione» di Francesco Sighizzi e di Cesare Bellencini, il primo suoparente, cognato il secondo: dunque, un trio legato da vincoli di paren-tela, di solido ceppo mercantesco con disponibilità finanziarie in città epossessi nel contado.255 Tra le «heresie» alle quali, «circa vinti anni» prima,i due congiunti avevano cercato di guadagnarlo, ce n’erano d’un genereche il Capello asserì di non aver mai voluto condividere, soprattutto –diceva – «perché non mi parea che le ragioni et authoritadi della Scrittu-ra Sacra che mi adducevano fossero così chiare»; aveva tenuto e letto i«libri latini et volgari che trattavano delli suddetti et altri errori» che i duecongiunti gli avevano dato, ma aveva saputo sempre evitare errori diversida quelli cui ora stava per abiurare. Come si vede, una ricostruzionequanto meno sospetta.256 Tuttavia, a parte i più o meno gravi errori che

255 Modena, Archivio di Stato, Fondo Inquisizione, busta 4, Processi 1566-1568, «Liberdecimus». Il processo si compone della sola deposizione del 29 marzo 1568.

256 Il solo filo che potrebbe portarci agli errori che il Capello si premurò di escluderedal ricordo delle sue ventennali convinzioni è dato dal poco che si sa delle vicende inquisi-toriali del Bellencini. Su di lui, attivo e poi morto nel clima di tolleranza instaurato a Mode-na dal Foscarari, l’inquisizione modenese non ebbe modo di intentare processi e produrrecarte. Risultava «suspectus» all’inquisitore Angelo Valentini, allorché nell’agosto del 1555questi fu richiesto di deporre nell’ambito del processo del Morone (MASSIMO FIRPO, DARIO

MARCATTO, Il processo inquisitoriale cit., II, p. 413). Probabilmente fu la morte a evitargli l’ar-resto, del quale si attendeva l’ordine da Roma, come risulta da una lettera di Ercole II d’Esteal governatore di Modena, Alfonso Trotti, del 18 settembre 1558: «Appresso volemo che, seper caso venisse commissione alcuna da Roma de ritenere messer Cesare Bellencini, ce neavvisiate, non [riferendo?] altro sin che non vi facciamo saper la mente nostra intorno a ciò»(Modena, Archivio di Stato, Rettori dello Stato: Modena, cart. 66b, Alfonso Trotti, 1558, alladata). Ma tutto ciò che resta di più preciso è una breve annotazione che si legge nei cit.Excerpta ex libro Domini episcopi Foscararii, c. 1r: «Cesar Belencinus, in Sancto Barnaba. 16 Ian.ego secum egi de baptismate, de certitudine gratiae, de perseverantia gratiae, promisit re-sponsurum de purgatorio». Il fatto che la conversazione col Foscarari vertesse in primo luo-go sul battesimo richiama la partecipazione del Bellencini alla cerchia dell’influentissimoGiovanni Maria Tagliadi detto il Maranello, maestro di grammatica, lettore di Serveto conpropensioni (forse soltanto episodiche) anabattiste (ibid., Fondo Inquisizione, busta 4, Processi1566-1568, «Liber decimus», Contra Ioannem Mariam Taliatum a Maranello). Il Tagliadi s’eradisfatto di molti libri (Serveto, Erasmo, il Sommario della Sacra Scrittura) nel 1559, quando fupubblicato l’Index librorum prohibitorum di Paolo IV (costituto del 25 gennaio 1567, c. 2v).Nel costituto del 13 febbraio 1570 il Bellencini è ricordato dal Maranello tra i «complici inbuona parte delli miei errori» (c. 12v). Tuttavia va notato che la parte sul battesimo dellaconversazione col Foscarari poteva anche riferirsi a quanto in una delle sue prediche mode-

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Giovanni Battista Capello si premurò di rimuovere dal proprio passato,anche solo ciò di cui il Sighizzi e il Bellencini erano riusciti a convincer-lo l’aveva mutato profondamente: soprattutto ne aveva mutato radical-mente il modo di porsi di fronte all’istituzione ecclesiastica. Gli avevanoinsegnato un cristianesimo spoglio di esteriorità e di pratiche devote e ritisurrettizi. Il principio della giustificazione per fede gli aveva rivelato l’i-nanità di tutta quella gigantesca struttura devozionale che era il culto deisanti, la futilità di venerare immagini e accendere lumi davanti «alle figu-re de’ santi et de Dio», l’infondatezza della nozione stessa di purgatorio edella conseguente pratica dei suffragi: insomma, un itinerario religioso si-mile a quello di Marforio. Il Capello ne aveva tratto conseguenze imme-diate: aveva finito persino col chiudere «una certa chiesa la quale – dice-va – [è] sopra certi miei terreni». Probabilmente, il Capello tenne chiusala pieve nelle sue terre per tutti gli anni («circa dieci anni») durante i qua-li rimase «in tali errori». Non sappiamo quali fossero, di fronte a quel-l’improvviso mutamento delle consuetudini religiose in quell’angolo delmondo rustico, le reazioni dei contadini che dipendevano da questa figu-ra socialmente anfibia, non rara nel movimento eterodosso modenese.Qui le idee e le azioni di uomini come il Sighizzi, il Bellencini, il Capel-lo, così come le idee, le azioni e le disavventure di innumerevoli altri chela documentazione associa a loro, interessano in quanto evidenziano ilmaturare e il radicarsi d’un rifiuto dell’istituzione ecclesiastica spinto finoalla rappresentazione di essa come costruzione dell’Anticristo. È una rap-presentazione che a Modena divenne via via più frequente fino a tutti glianni Sessanta. La documentazione ne indica insistentemente l’origine e lacostruzione concettuale già nella cerchia dei Carandini nella villa dellaStaggia e nella connessa predicazione di Camillo Renato ancora nelle ve-sti di Lisia Fileno. Lasciamoci guidare ancora dal filo dell’attività del Si-ghizzi.

Alla fine degli anni Sessanta, un popolano, «magister Iacobus quon-dam Ioannis de Gandulphis», rievocò davanti all’inquisitore fatti e perso-ne di poco meno d’un trentennio.257 Lo fece con la percezione esatta che

nesi aveva dichiarato Giovanni Francesco da Bagnacavallo (nella versione d’un testimone:«Praedicando de baptismo ipse praedicator omnia videbatur tribuere misericordiae Dei, nihilde operibus»), che il Bellencini aveva frequentato anche privatamente (vedi p. 236).

257 Modena, Archivio di Stato, Fondo Inquisizione, busta 4, Processi 1567-1568, «Liberdecimus», Contra Iacobum Gandulfum Mutinensem. Il fascicolo si compone d’un rapido inter-rogatorio condotto da fra Nicolò del Finale, inquisitore di Ferrara, in presenza del Morone,il 24 marzo 1568 e della conseguente abiura. Più ampio è il costituto del 10 marzo 1569,

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il clima nella città era mutato non solo in conseguenza delle particolaricondizioni createsi al ritorno del Morone: su eventuali deviazioni delpresente il Gandolfi rispose che «non si parlava più in Modena di questecose»; i complici erano tutti morti; ed erano morti anche i più lontaniresponsabili dei suoi errori, Tommaso Carandini e Francesco Sighizzi.258

Sennonché, ciò che nei tardi costituti del Gandolfi è narrazione compen-diosa, comprensibilmente selettiva di esperienze che si erano sovrappostenel corso di decenni, è invece rappresentazione diretta in un atto di de-nuncia del marzo 1545, nel quale la moglie, «domina Catharina uxor do-mini Iacobi de Gandulphis», espone all’inquisitore tutto ciò che il maritosentiva dire continuamente («continue audit») in casa Carandini e poi ri-feriva a lei, in parte soltanto come cose udite, in parte come convinzionigià fatte proprie («aliquando ex ore eorum, aliquando [...] affirmative»).259

Dunque, di contro a compendî tardi di vicende contratte in schematiciatti d’abiura, una testimonianza che ci riporta, in un momento ancorafluido della vita religiosa modenese, al centro delle discussioni attraversole quali, in uno dei circoli più vivaci della Modena di quegli anni, un ge-nerico dissenso veniva prendendo forma d’una visione radicalmente al-ternativa della vita religiosa, tanto nella dottrina quanto nella pratica.Non sapendo leggere, il Gandolfi era costretto a farsi leggere da altri i li-bri che gli venivano dati da Tommaso Carandini e dal Sighizzi: due inparticolare, «unus qui est fratris Bernardini Occhini, alter domini PetriMartyris Florentini.260 Come vedremo, le argomentazioni svolte nel libro

sollecitato all’inquisitore di Ferrara fra Paolo Costabili dal cardinale Scipione Rebiba. Inquest’ultimo il Gandolfi dichiara d’avere «circa sessantatre anni». Sull’atto di denuncia dellamoglie Caterina vedi sotto, nota 259.

258 Processo Gandolfi, costituto del 24 marzo 1568: «Io fui instrutto da messer TomasoCarandino vinti anni sono et messer Francesco Sigizzo, ambedui morti». La risposta sullascomparsa a Modena di discorsi devianti è nel costituto del 10 marzo 1569.

259 La denuncia di Caterina Gandolfi, in data 8 marzo 1545, è nello stesso fascicolo. Èseguita da una breve deposizione di Bartolomea Boarina «quasi uno ore confitens superscrip-ta omnia esse vera». Se ho visto bene, dopo questa denuncia il nome del Gandolfi non com-pare in altri atti inquisitoriali modenesi, comprese le citate annotazioni del Foscarari, fino alprocesso del 1568.

260 Mentre è difficile stabilire quale fosse la raccolta di Prediche dell’Ochino, il libro delVermigli non può che essere il suo solo scritto in volgare finora noto; Una semplice dichiara-tione sopra gli XII articoli della fede christiana di M. Pietro Martyre Vermigli Firentino (sic). Nonmoriar, sed vivam, et narrabo opera Domini, Psal. 117. Nella inclyta Basilea, dell’Anno 1544,del mese di Febr. (uso l’esemplare della Raccolta Guicciardini, 6-8-60). Nel costituito del24 marzo 1568 il Gandolfi dichiarerà: «Io hebbi una volta un libretto volgare dal suddettoTomaso [Carandini] quale dicea male della religione de santi»; e nel costituto del 10 marzo

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del Vermigli, facilmente identificabile con Una semplice dichiaratione sopragli XII articoli della fede christiana, si intrecciano, anche esplicitamente, conle insistenti argomentazioni dell’Ochino sulla Chiesa come costruzionedell’Anticristo. Probabilmente, queste letture suggerite alla Staggia ebbe-ro, anche solo attraverso il Gandolfi, una propagazione più consistente diquanto risulti dai documenti.261 Quanto al Gandolfi, si trattava questa vol-ta d’un destinatario dell’opera di persuasione e di propaganda del Caran-dini e del Sighizzi sprovvisto degli strumenti che consentivano, invece, aGiovanni Battista Capello di controllare «le ragioni et authoritadi dellaScrittura» che di volta in volta gli venivano addotte. Questa assenza d’unpersonale filtro culturale fa delle informazioni date dal Gandolfi una fon-te molto attendibile, probabilmente unica, sui contenuti precisi di quelle«mille heresie» che Tommasino Lancillotti vedeva provenire da casa Ca-randini e propagarsi persino tra i contadini delle ville del Nonantolano,intorno alla Staggia.262

Gran parte delle affermazioni conseguenti all’assunzione del principiodella fede giustificante che il Gandolfi sentiva pronunciare e discutere allaStaggia – negazione del purgatorio, condanna delle messe votive, rifiuto

1569: «Io non so leggere, ma hebbi uno libro picolo dal sudetto Carandino, qual libro mifaceva legere da le done in qua e là».

261 La denuncia del 1545, e poi il costituto del 10 marzo 1569, ricordano soltanto un«maestro Antonio cappellaro», nella cui casa il Gandolfi aveva portato i libri avuti dal Caran-dini. Ma anche le tracce di quest’altro popolano, originario di Novara, si perdono negli annisuccessivi, per ricomparire, se ho visto bene, soltanto nei processi contro il tessitore di lanaFrancesco Bordiga e contro il falegname Francesco Secchiari (Modena, Archivio di Stato,Fondo Inquisizione, busta 5A, Processi 1568, «Liber undecimus»).

262 LANCILLOTTI, Cronaca cit., VIII, p. 195. L’importanza del circolo della Staggia non èsufficientemente sottolineata negli studi recenti. La denuncia di Caterina Gandolfi è, ch’iosappia, il documento più ricco sulle idee che vi si discutevano. Ma testimonianze più parti-colari non sono rare. Un episodio analogo a quello del Gandolfi riguarda Francesco di Lu-dovico Villanova, che nel marzo del 1568 confesserà al Morone: «Io ho creduto da più di 25anni in qua che non si trova altro purgatorio delli nostri peccati che Giesù Christo, et que-sto perché, havendo sentito un padre di S. Domenico della Mirandola che, legendo le epi-stole di S. Paolo in Domo qua in Modena et allegando alcune parole di S. Paolo alli hebrei,disse che il nostro purgatorio siede alla destra del Padre et trovandomi io un giorno di poinella villa detta la Stazza et rifferendo tali parole con messer Thomaso Carandino detto Bar-bazza, cercassimo et trovassimo in S. Paolo a gli hebrei in vulgare simili parole, per il che iomi fermai et seguitai in detta opinione» (Modena, Archivio di Stato, Fondo Inquisizione, bu-sta 5A, Processi 1568, «Liber undecimus», processo Francesco Villanova, costituto del 25marzo 1568). L’episodio risale alla primavera del 1541 e ai controversi effetti della predica-zione di fra Bartolomeo Ghiselini della Mirandola, interlocutore del Renato e poi sospettatodi eresia (CAMILLO RENATO, Opere cit., p. 87; MASSIMO FIRPO, DARIO MARCATTO, Il processoinquisitoriale cit., II, pp. 965-966).

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del culto delle reliquie, inanità dei digiuni, critica del celibato ecclesiasti-co, critica del culto dei santi – trova riscontro nel documento che rispec-chia anche le idee che negli anni precedenti si erano venute radicando inquel circolo, cioè l’Apologia che Lisia Fileno pronunciò davanti agli in-quisitori di Ferrara nella prima decade di dicembre del 1540.263 Il fatto chealla Staggia il Gandolfi sentisse argomentare la negazione del culto deisanti con la dottrina del sonno delle anime dopo la morte è prova delpersistere dell’insegnamento del Siciliano nella cerchia che lo aveva ospi-tato fino al giorno dell’arresto.264 Sennonché, già a distanza di pochi annidalla scomparsa del Fileno dalla scena religiosa modenese, i problemi chesi discutevano alla Staggia erano ormai lontani da quello che era stato iltema centrale della sua predicazione, cioè la ricerca di una «communisconcordia totius ecclesiae Dei», in una prospettiva consistente «in pacifì-canda Germania cum ecclesia Romana».265 Bruciata in pochi anni una si-mile prospettiva, ora anche nella cerchia dei Carandini non solo era ca-duta, ma si escludeva ogni possibilità di conciliazione. Caterina Gandolfiriferì che il marito vi aveva sentito esaltare «omnes Lutheranos qui suntin Germania»: espressioni che, come si sa, in molti casi erano prive direali e durature implicazioni, ma che nel contesto in cui erano pronun-ciate esprimevano una forte polemica contro la Chiesa romana, conside-rata una realtà irreformabile, una costruzione satanica. È quanto risultadal confronto tra il contenuto del libro del Vermigli, giunto prontamen-te da Basilea alla Staggia, e le schematiche dichiarazioni del Gandolfi.Quanto del contenuto di quel libretto questo popolano sia riuscito a farproprio facendoselo leggere «in qua e là» qui è meno importante dellaconstatazione che il Carandini e il Sighizzi decisero di diffonderlo con ladestinazione che il Vermigli stesso gli aveva assegnato, cioè come «cathe-

263 CAMILLO RENATO, Opere cit., pp. 33-89.264 Nello stesso interrogatorio Caterina Gandolfi formula in due modi diversi, ma non

contraddittori, la negazione del culto dei santi riferitale dal marito: «Quod de sanctis malesentit, scilicet quod non sunt adorandi et quod sunt homines sicut nos»; «quod sancti nonsunt in paradiso» e «quod nos erimus sicut ipsi». Tanto nell’Apologia quanto nel corso degliinterrogatori del processo (costituto del 13 dicembre 1540), il Fileno delimitò la sua tratta-zione della dottrina del sonno delle anime a discussioni con studenti bolognesi (CAMILLO RE-NATO, Opere cit., pp. 64-65, 184; cfr. qui avanti, pp. 271-273). Ma della diffusione di questastessa dottrina a Modena il Morone scrisse al Contarini il 21 maggio 1542 (Epistolarum Regi-naldi Poli S. R. E. cardinalis et aliorum ad ipsum, ed. ANGELO MARIA QUIRINI, Brescia, GiovanniMaria Rizzardi, 1744-1757, III, p. CCLXVII; cfr. MASSIMO FIRPO, Gli «spirituali», l’Accademia diModena e il formulario di fede del 1542: controllo del dissenso religioso e nicodemismo, «Rivista di sto-ria e letteratura religiosa», XXX, 1984, p. 61).

265 CAMILLO RENATO, Opere cit., pp. 74-75.

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chismo a’ rozzi et non piena dottrina agl’intendenti christiani».266 Insom-ma, la volontà di diffonderlo presupponeva ovviamente adesione al suocontenuto. In esso, non poteva essere più netta la contrapposizione tra laChiesa romana e la «congregatione de’ fedeli» intesa come «corpo uni-versalmente raccolto d’ogni sorte [di] persone», senza distinzione di lin-gue e di nazioni, «composta di tutti coloro i quali alla christiana fede so-no per ispirito santo chiamati»: «qualunque di spirito santo son digiuni eprivi a questo corpo non s’appartengono».267 E di questa funzione essen-ziale dell’ispirazione il Gandolfi aveva parlato alla moglie Caterina («quodSpiritus Sanctus loquitur per os eius»). Il Vermigli assicurava, poi, ai suoilettori che questa chiesa invisibile esisteva tuttora. Con le sue «arti satani-che», la Chiesa romana l’aveva sempre insidiata, non distrutta.268 Una diqueste arti con cui Roma «ha perturbato e confuso ogni cosa» è l’aversovrapposto al Vangelo una sapienza estranea, aver voluto «rimescolareinfinite abominationi della gentilità riformandole et correggendole (comeessi dicono, anci mentono) in meglio».269 Probabilmente l’inquisitore rias-sunse con una proposizione corrente nella polemica antiromana quanto ilGandolfi aveva riferito alla moglie sulle discussioni che al riguardo si fa-cevano alla Staggia: «quod evangelium nunquam est praedicatum nisinunc». Ma venticinque anni dopo fu lo stesso Gandolfi a precisare chealla Staggia aveva «sentito dire da quelli prenominati che altre volte sipredicava Aristotile et simili cose», non il Vangelo.270 Ma i papi, che «sin-golarmente et capi della Chiesa et apostolici si fanno chiamare», hannoescogitato – continuava il Vermigli – ben più perverse alternative al do-minio dello Spirito sulla comunità cristiana. Si sono opposti e si oppon-gono «con tutta la lor potenza» alla diffusione d’una retta concezione del-la giustificazione, che hanno sostituito con «humani statuti, infiniti lacciet trappole».271 Tutto ne è risultato sfigurato: in primo luogo i sacramenti.Intenzionalmente, il Vermigli si limitava (promettendo una trattazionepiù ampia) a denunciare l’«intolerabile idolatria» alla quale era stata, diconseguenza, ridotta l’eucaristia.272 E tra le discussioni che avvenivano alla

266 Una semplice dichiaratione cit., p. 56.267 Ibid, pp. 115, 117.268 Ibid., p. 123.269 Ibid., p. 122.270 Costituto del 10 marzo 1569.271 Una semplice dichiaratione cit., pp. 124-125.272 Ibid., p. 126.

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Staggia, Caterina Gandolfi denunciò per prime quelle sull’eucaristia («di-cit assertive quod in hostia consecrata non est corpus verum in carne, sedin spiritu»). Probabilmente, tra i contenuti religiosi condensati e irrigiditiin verbali inquisitoriali come la denuncia di Caterina Gandolfi, da unaparte, e dall’altra l’esposizione articolata delle fonti (in questo caso Unasemplice dichiaratione del Vermigli) cui essi sono, in tutto o in parte, riferi-bili, ci sarà sempre uno scarto ineliminabile. Così, poteva essere facil-mente accessibile, o quanto meno esercitar fascino su popolani come ilGandolfi, la prospettiva d’una chiesa invisibile che, in quanto priva di di-stinzioni sociali, attuava il concetto dell’«impartialità di Dio» («non con-tadini, non femine, non principi, non servi, non poveri, non ricchi, nonbarbari, non civili o gentil populi ha riguardato, quasi che a eleggerli perla condittione volesse muoversi»).273 Più ostico, meno immediato, dovevarisultare (per un popolano come il Gandolfi, ma forse anche per i suoimentori della Staggia) il distacco dai sia pur criticati e respinti meccani-smi quotidiani del sacro, per accedere a una nozione di Spirito come«virtù occulta che habbia forza di spignere et muovere», insomma a unaforma aristocratica di religiosità le cui esigenze venivano esaurite dall’i-spirazione, dalla fiducia in una forza che «gl’animi et cuori de’ fedeli effi-cacemente spigne, muove, persuade, regge, consola, illumina et final-mente opera quanto a nostra santificatione s’appartiene».274 In ogni caso, laprospettiva religiosa del Vermigli provvedeva un ideale paradigma, ilmodello polemico d’una chiesa il cui fine non era «l’amplificare tyranni-de, monarchia o temporal giurisdittione, non [...] l’accumulare thesori etricheze terrene, non [...] reggere stati, trattar guerre, occupare città, sot-tomettersi provincie et regni».275 Tanto più che l’invettiva antiromana delVermigli era quanto mai aspra. Con l’usurpazione della dottrina, con l’e-scogitazione di tradizioni il cui fine era «il trarre da ogni parte qualcheguadagni, il dilatare o confermare la loro tyrannica autorità», i papi ave-vano fatto di sé degli idoli. Bernardino Ochino aveva, sia pure succinta-mente (il riferimento è certamente all’Imagine di Antechristo), dimostratoquanto fossero stridenti le antitesi tra Cristo e colui che si fa chiamaresuo vicario: è difficile dire che cosa «hoggi vi sia rimaso da Antichristo etdal Diavolo non corrotto et guasto».276 E su testimonianza del marito, Ca-

273 Ibid., p. 120.274 Ibid., pp. 98-99.275 Ibid., pp. 123-124.276 Ibid., p. 135.

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terina Gandolfi denunciava che alla Staggia si diceva che il papa era l’An-ticristo («de papa dicit quod est Antichristus»).

Con la ricostruzione dell’attività di Francesco Sighizzi si è inteso in-dicare la varietà degli strati sociali nei quali trovava interlocutori unapropaganda fortemente polemica contro l’istituzione ecclesiastica. Non èun caso eccezionale. Altri profili simili si potrebbero ricostruire sulla basedella documentazione inquisitoriale modenese. Ma agli inizi degli anniQuaranta fu soprattutto un evento dalla forte risonanza collettiva ad acce-lerare, a Modena, la riflessione e le scelte d’un vasto pubblico sul rappor-to tra fede e istituzione. Le emozioni e le reazioni che esso suscitò deter-minarono una tipica situazione di tensione propizia all’espansione dellenuove idee e a iniziative di propaganda. Si tratta della predicazione qua-resimale del noto francescano conventuale Bartolomeo della Pergola.277

L’episodio ha una data significativa, 1544; coincide, perciò, con lapresenza a Modena dell’altro francescano (da poco uscito dall’ordine)Bartolomeo Fonzio.278 Al di là degli ingegnosi aggiustamenti che il Pergo-la tentò d’apportare al contenuto delle sue prediche nella pubblica ritrat-tazione del giugno successivo, qui evidentemente contano più le testi-monianze dirette degli uditori sull’impressione che essi stessi ne ebbero esulle conseguenze che ne trassero. La documentazione mette in evidenzauna varietà molto sfumata di reazioni, rispondente alla varietà di reazioniche simili eventi collettivi suscitavano, come abbiamo già visto per Bolo-gna, in anni di incertezza e di orientamenti ancora non definiti. Ma cifurono anche ascoltatori che nelle prediche del Pergola trovarono stimoliad approfondire loro dubbi suscitati da altri eventi più o meno recenti.Ercole Platesio, un pio mercante destinato a fare esperienze religiose piùcomplesse durante suoi soggiorni in Francia, vi trovò la soluzione di

277 È ovvio che, trattandosi qui delle risonanze che la predicazione del Pergola ebbe trai suoi ascoltatori, la perdita tanto del processo del 1544 quanto di quello del 1556 ci privadelle fonti più importanti. Molto, tuttavia, ci dicono al riguardo soprattutto le parti del pro-cesso del 1544 che ci sono pervenute perché incluse nel processo del Morone: la Ritrattazio-ne pronunciata a Modena nei giorni 15-16 giugno 1544 e le osservazioni dell’inquisitore diBologna, Tommaso Maria Beccadelli, sulla prima stesura della medesima (MASSIMO FIRPO,DARIO MARCATTO, Il processo inquisitoriale cit., II, pp. 435-436; III, pp. 236-279; per le duedeposizioni del Pergola nel processo contro il Morone vedi II, pp. 429-440, e III, pp. 736-745). Sul Pergola vedi ora CESARE BIANCO, Bartolomeo della Pergola e la sua predicazione etero-dossa a Modena nel 1544, «Bollettino della Società di studi valdesi», n. 151, luglio 1982,pp. 3-49.

278 Vedi più avanti, p. 279; cfr. ESTER ZILLE, Gli eretici a Cittadella nel Cinquecento, Citta-della, Rebellato Editore, 1971, pp. 169-172; SUSANNA PEYRONEL RAMBALDI, Speranze e crisicit., pp. 250-252.

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dubbi suscitatigli già dalla lettura del Sommario della Sacra Scrittura e dalleprediche su s. Paolo di Bartolomeo Ghiselini della Mirandola, ascoltatein duomo tre anni prima.279 Più esplicitamente, l’orefice Ercole Cervi sidirà sicuro d’essersi «confermato meglio nelli errori» ascoltando il Pergo-la, dopo che i primi dubbi gli erano stati suscitati dalla predicazione di fraTommaso da Brescia nella quaresima del 1540, cioè nel pieno della con-trastata predicazione modenese degli Agostiniani.280 Altri vi trovaronoconferme e spinte a una radicalizzazione di loro certezze già acquisite. Ilcaso più notevole è quello del marchese Giovanni Rangoni, una figurararamente assente dalle carte inquisitoriali modenesi riguardanti i due de-cenni successivi, prima che nel 1567 morisse esule a Sondrio.281 Del Per-gola diceva che gli si sentiva obbligato più che verso il padre.282 Ma eraanche tra i frequentatori del Fonzio.283 Dei due francescani il Rangoni fe-ce propria, in primo luogo, la polemica radicale contro l’istituzione ec-clesiastica. Fu certamente tra gli ascoltatori del Pergola che ne compen-diavano il pensiero, deducendo dalla sua insistenza sulla nozione di «per-don generale» («ogni giorno replicava questo vocabulo ‘perdon genera-le’») la critica dissimulata dell’istituzione ecclesiastica come una somma ditradizioni umane («se diffuse assai nelle traditioni humane, per il qual ra-gionamento pareva che lui escludesse tutte le traditioni della chiesa).284

Una deduzione che assumeva per gli ascoltatori un carattere tanto più ra-dicale quanto più netta sembrava loro la contrapposizione che intravede-vano nelle argomentazioni del Pergola: da una parte, la certezza della sal-vezza assicurata a tutti i credenti in virtù del «perdon generale»; dall’altra,

279 Modena, Archivio di Stato, Fondo Inquisizione, busta 5, Processi 1568, «Liber undeci-mus», processo Ercole Platesio, costituto del 27 marzo 1568.

280 Ibid., processo Ercole Cervi, costituto del 15 marzo 1568: «Predicò in questa città diModena un frate di Santo Agostino chiamato, credo, fra Tommaso, et dicendo in pulpitomanifestamente heresie, io cominciai ad accostarli et crederli in molti punti, et di poi, ha-vendo il Pergola, frate di Santo Francesco, a predicar in questa città et ancor lui predicandocose hereticali et ascoltandolo, io mi confermai meglio nelli errori, cioè credendo che nel-l’altra vita non sia purgatorio et conseguentemente che i suffragi dei vivi non giovino aimorti et che il papa non habbia autorità sopra la chiesa di Christo, cioè di far leggi, et cheperò non sia peccato il mangiar carne in dì prohibiti». Su fra Tommaso da Brescia vedi MAS-SIMO FIRPO, DARIO MARCATTO, Il processo inquisitoriale cit., II, pp. 954, 955.

281 Vedi pp. 241-244.282 Modena, Archivio di Stato, Fondo Inquisizione, busta 3, Processi 1550-1565, processo

Giovanni Rangoni, testimonianza di Antonio Mascarelli del 2 agosto 1552 («quod maioremobligationem habebat praedicatori illi qui nominatur il Pergola quam patri suo»).

283 Ibid., busta 5, Processi 1568-1573, «Liber duodecimus», processo Antonio Maria Fer-rarese, costituto del 26 marzo 1568.

284 MASSIMO FIRPO, DARIO MARCATTO, Il processo inquisitoriale cit., III, pp. 238, 242, 268.

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una somma di pratiche e di tradizioni che il francescano sembrava svalu-tare in base al principio – a detta d’un testimone, enunciato fin dal primogiorno – secondo il quale «tutte le religioni sono fondate dalla sapientiadella carne».285 Insomma, i lettori modenesi del Beneficio di Cristo vi ritro-vavano il suo presupposto fondamentale.286 Ma soprattutto ciò che dienergicamente nuovo gli ascoltatori del Pergola trovavano nelle sue pre-diche era, in sostanza, l’esplicitazione delle potenzialità eversive di quelrassicurante libretto: il testo della sua ritrattazione contiene quanto basta adocumentare che un uditorio ormai sensibilissimo al gioco dell’esplicitoe dell’implicito, delle affermazioni e dei silenzi, ritenne che per tutta laquaresima il francescano aveva insinuato una denuncia estesissima di tut-to quanto – a fronte della sola valida garanzia di salvezza consistente nellafede nel beneficio di Cristo – rientrava nel novero delle tradizioni uma-ne, delle escogitazioni suggerite dalla «sapientia della carne», in un mil-lennio e mezzo di errori e in conseguenza del fatto che l’ipocrisia s’eraassisa «super cathedram Moysi».287 Insomma, ancora un caso di sollecita-zione al passaggio dalla meditazione individuale caratterizzata dall’«alle-grezza» interiore che un libro di pietà come il Beneficio di Cristo mirava adinfondere, alla denuncia di tutto ciò che nella realtà era in contrasto conesso. Gli effetti di questa sollecitazione risultano dalle dichiarazioni e dallastessa attività di quanti allora e poi, per decenni, si richiamarono agli in-segnamenti del Pergola. Risultano, in primo luogo, dalle dichiarazionidel Rangoni.

Il nome del Rangoni compare tra quelli d’un gruppo di personecontro il quale l’inquisizione modenese svolse un’inchiesta in data moltovicina alla predicazione del Pergola. Risultò che quattro di esse, compre-

285 Ibid., pp. 246, 263, 265.286 Rispondenze plausibili tra il Beneficio di Cristo e le affermazioni attribuite al Pergola

da testimoni che deposero nel corso del processo e riportate spesso testualmente nel testodella ritrattazione, sono state notate da CESARE BIANCO, Bartolomeo della Pergola cit., pp. 29-30. Ma sono riscontrabili persino reminiscenze testuali. Tale è, ad esempio, oltre che la ri-presa di concetti come «perdon generale», «allegrezza» ecc. (cfr. BENEDETTO DA MANTOVA, IlBeneficio di Cristo. Con le versioni del secolo XVI. Documenti e testimonianze, a cura di SALVATORE

CAPONETTO, Firenze, Sansoni-Chicago, The Newberry Library, 1972, pp. 19, 22, 26, 41,43, 69), l’espressione «ha tolto sopra di sé tutti gli peccati nostri» (ibid., pp. 22-23; cfr. MAS-SIMO FIRPO, DARIO MARCATTO, Il processo inquisitoriale cit., III, p. 268).

287 Ibid., pp. 243-244. L’accusa di omissione, in quegli anni sempre più frequente neiconfronti dei predicatori, ricorre spesso nella Ritrattazione. Le accuse d’essersi richiamato aMatth., XXIII, 2, Super cathedram Moysi sederunt scribae et pharisei, e d’aver detto «che la chiesaè stata in errore 1.500 anni» non sono riferite testualmente. Quanto alla seconda, l’osserva-zione del Beccadelli informa che «multi testes hoc deponunt» (ibid., II, p. 435).

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so il Rangoni, riprendevano argomenti del Pergola sulla confessione: ilfedele ricorre al sacerdote, soltanto «tanquam accipiens consilium»; equesta negazione d’ogni autorità del sacerdote sulle anime investiva l’in-tera struttura ecclesiastica.288 Su questo punto, in sedi più riservate, quantifrequentavano il Fonzio avevano appreso idee più drastiche: si partivadalla critica delle comuni pratiche devozionali («letaniae autem et aliaesupplicationes et invocationes sanctorum»), per finire col discutere e ne-gare i fondamenti stessi dell’autorità che le aveva istituite: la vera chiesanon ha mai istituito simili pratiche, che «potius sunt [...] infidelitates etpraesumptiones quam aliquid aliud catholicum»; la plausibilità di tali fri-vole istituzioni umane dipende dal fatto che «ecclesia semper Christi ap-parenter extabat in pontificibus et phariseis et scribis»; in realtà, come alleorigini la vera chiesa era rappresentata da Giuseppe, da Maria e da Nico-demo, così oggi («nostris temporibus») essa risiede non nei pontefici e neiprelati, ma «in pauperibus personis non cognitis mundo».289 È impossibile

288 Modena, Archivio di Stato, Fondo Inquisizione, busta 2, Processi 1489-1549, Contraplures et praesertim dominum Vincentium Ferraronum presbyterum, Gabriotum Tassonum, Geminia-num Manzolum, Ioannem Rangonum. Si tratta d’una denuncia di fra Teofilo da Mantova al vi-cario dell’inquisizione fra Agostino da Imola in data 25 dicembre 1546. Dichiarava fra Teo-filo: «Hi omnes una eamet sententia atque opinione ore proprio dixerunt quod homo velmulier, quando vadit ad sacerdotem, non confitetur ut remittantur peccata sua, quia sacer-dos non habet auctoritatem remittendi, sed vadit ad sacerdotem tanquam accipiens consi-lium et est potius signum humiliationis quando huiusmodi personae vadunt ad sacerdotem.Item dixerunt quod summus pontifex nullam habet auctoritatem super animas nostras». Se-gue l’accusa di negare il purgatorio e il culto dei santi e di dubitare del libero arbitrio. Per lecorrispondenti accuse rivolte al Pergola d’aver negato la potestà del sacerdote di assolvere,ma soltanto di dare consigli e in generale d’aver taciuto sull’«autorità della chiesa et suoi pre-lati di assolvere et ligare li peccati et excomunicare et absolvere dalla excomunicatione, im-porre digiuni et altre autorità», vedi MASSIMO FIRPO, DARIO MARCATTO, Il processo inquisitorialecit., III, pp. 251-252, 258.

289 Modena, Archivio di Stato, Sant’Ufficio dell’Inquisizione, busta 2, De quodam Bartholo-meo Fontio Veneto presbitero, deposizione di Pietro Gioioso del 24 aprile 1544: «... quod dictainstitutio [delle litanie, invocazioni dei santi ecc.] non erat a Deo, et respondendo tacitaeobiectioni forsan sibi faciendae, asseruit quod fuerunt institutae ab ecclesia ex eo quod eccle-sia fuit illa quae Christum crucifixit et ipsi non est credendum quoniam ecclesia semperChristi apparenter extabat in pontificibus et phariseis et scribis, sed vere erat in Iosepho etMaria et Nicodemo etc., et sic nostris temporibus ecclesia extat in pauperibus personis noncognitis mundo, non autem in istis summis pontificibus et reliquis prelatis ecclesiae, quo-niam de summis pontificibus, ut constat in aliquo concilio, possunt esse aliqui haeretici. Etideo non est credendum istis [litanie ecc.], quoniam a vera ecclesia non sunt institutae, quiasunt ordinationes hominis et absque verbo Dei, ut potius sunt huiusmodi letaniae et similesinvocationes infidelitates et praesumptiones quam aliquid aliud catholicum». Il resto delleaccuse è riferito anche in una lettera del vicario dell’inquisizione Angelo Valentini al duca diFerrara del 30 giugno 1545, inclusa nel fascicolo.

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dire fino a qual punto l’insinuante predicazione del Pergola nella corniceufficiale del maggior tempio cittadino e la meno inibita predicazione se-miclandestina del Fonzio concordassero su concetti così eversivi dei fon-damenti dell’ordinamento ecclesiastico. Ma è certo che i loro ascoltatorivi trovarono un filo comune che le univa. Di quei concetti il Rangonifu uno degli assertori più convinti. Ne fu anche un diffonditore senza re-more in una cerchia che con gli anni si andò allargando sempre di più.La convinzione di far parte d’un movimento che univa quanti si andava-no «confortando l’un l’altro con darsi speranza che un giorno si debbapredicar la verità evangelica tanto tempo fa perseguitata et occultata», lospingeva a un’intensa attività di propaganda, sorretta anche dalla presun-zione che il prestigio del casato lo mettesse al riparo da azioni inquisito-rie.290 Assunse come motivo ispiratore di questa sua attività l’ammoni-mento di Matth., XXIV, 24-26, Surgent enim pseudochristi et pseudoprophe-tae ..., uno dei testi più ricorrenti nella letteratura d’ogni tempo contro«pseudocristi» e «pseudoprofeti», che il Rangoni applicava all’intera strut-tura ecclesiastica e ai suoi annunci quotidiani della presenza di Cristo inessa, smentiti insieme dalla falsità della dottrina e dalla corruzione dei co-stumi.291 Quanto alla dottrina, il Rangoni riteneva che norma inderogabi-le dovesse essere il richiamo alle Scritture, la cui testimonianza egli esige-va sempre e dovunque, persino in conversazioni che egli intavolava «inecclesia maiore».292 Non perdeva occasione per denunciare come idolatriatutte le forme esteriori del culto, dallo «strepito» delle campane, che anient’altro chiamavano se non «ad idolatriam committendam», alla cele-brazione della messa.293 Era noto per la sua capacità di suscitare dubbi eturbamenti: un popolano, Andrea Tosabecco, confidò al canonico Nico-lò Buzale che era stato il Rangoni a suscitargli tali dubbi sull’eucaristia«ut non posset pacata conscientia interesse missae».294 Lo stravolgimentodelle Scritture aveva fatto della Chiesa un’istituzione satanica, un’incar-nazione dell’Anticristo; e non temeva di indicarne i responsabili allo stes-so canonico Buzale, al quale diceva «summum pontificem esse Antichri-stum et quod cardinales nihil aliud erant quam demones. Item dicebat de

290 Ibid., busta 3, Processi 1550-1565, processo Giovanni Rangoni, testimonianza di Lu-dovico da Lione del 19 marzo 1566.

291 Ibid., deposizione di Nicolò Buzale del 13 maggio 1563.292 Ibid., denuncia di Antonio Mascarelli del 12 agosto 1552.293 Ibid., deposizione di Nicolò Buzale del 13 maggio 1563.294 Ibid.

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fratribus quod erant demones».295 Della sua volontà di dare ampia diffusio-ne a queste ragioni della sua polemica contro l’ordinamento ecclesiasticosi conosce un solo episodio: la sua proposta al pittore Girolamo Comi,incontrato nel duomo, di riprodurre una «carta stampata», il cui conte-nuto più tardi il Comi descrisse all’inquisitore così: vi «erano alcuni ve-scovi che dormivano et alcuni lupi che portavano via le pecore et alcunivescovi che giocavano et alcuni cappellani che lasciavano portar via lepecore et alcune volpi vestite da frati che predicavano alli agnelli».296 Lacircolazione di questa «carta stampata» giunta a Modena nelle mani delRangoni e popolata di figure (lupi, volpi, agnelli) ricorrenti nella libelli-stica antiromana, figurata e non, del tempo, è un’ulteriore testimonianzadell’uso propagandistico che di questo genere di immagini («cartelli impiiet vituperosi» li chiamava il nunzio a Venezia Fabio Mignanelli) 297 si face-va anche in Italia: un uso sul quale si conoscono varie testimonianze ge-nerali, ma la cui dimensione quantitativa resta tuttora inesplorata.298

Neppure il caso del Rangoni è un’eccezione. La configurazione dellaChiesa romana come personificazione dell’Anticristo è un tema ricorren-te nella documentazione inquisitoriale modenese (nelle ammissioni, siapure reticenti, degli stessi inquisiti, oltre che nelle accuse contro di essi).Una delle difficoltà nel precisarne le dimensioni e le variazioni di signifi-cato dipende da una particolarità delle fonti, alla quale s’è già accennato.Nel 1568, l’anno in cui si concentra il maggior numero di processi (eperciò la maggior quantità di documenti), la certezza dell’assoluzione inforza del noto privilegio concesso da Pio V al Morone provocò un gran

295 Ibid.296 Ibid., busta 5, Processi 1568, «Liber undecimus», processo Girolamo Comi, costituto

del 22 marzo 1568. Il Comi disse d’essersi rifiutato di riprodurre l’immagine.297 Vedi sopra, nota 110.298 Un esempio caratteristico è quello descritto dal residente estense a Venezia Tebaldo

Tebaldi in una lettera a Ercole II del 9 dicembre 1544: «Da Trevigi è stato mandato al legatoapostolico uno Christo in croce stampato in un foglio di carta reale, con un arbore pieno didetti della Scrittura, che conchiudono niuno essere ubligato a far opera buona, volendosisalvare, impercioché Christo, con la sua passione ha supplito per tutti» (Modena, Archivio diStato, Cancelleria ducale: Ambasciatori, Venezia, busta 33/85, II, 66). Un esempio interessanteè la figura commissionata dal noto predicatore Andrea Ghetti da Volterra a «un più saggiopittore che non è il Michelangelo» e da lui stesso descritta al cardinale Benedetto Accolti inuna lettera del luglio 1544 (GIGLIOLA FRAGNITO, Un pratese cit., p. 24). Un esemplare dellamedaglia di cui si parla nella testimonianza sulla propaganda di un abitante di Oderzo (cfr.GIOVANNA PAOLIN, I contadini anabattisti di Cinto, «Il Noncello», n. 50, 1980, p. 93) è ripro-dotto in Forme e destinazione del messaggio religioso cit., p. 96, tavv. 3-4.

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numero di comparizioni e di confessioni spontanee.299 Gli atti relativi, perquanto schematici, contengono, certo, preziosi elementi retrospettivi sultrentennio precedente e oltre. Ma il limite del loro valore documentarioè ovvio: quando è possibile, un confronto, anche solo per assaggi, con ladocumentazione anteriore al 1568 indica che la procedura sommaria pre-vista dal breve di Pio V assicurò, di fatto, a parecchie decine di personedal passato compromettente anche l’immunità per confessioni fortementeselettive. Una garantita facilità di omissioni in cui si attuava, nella mutatasituazione della città, una volontà di dissimulazione, di reticenza e dioblio, comune anche a quanti, parallelamente, subivano, come «vehe-menter suspecti», procedimenti inquisitorî preceduti dalla normale faseistruttoria e articolati in interrogatorî stringenti.300

I casi in cui negli atti di entrambi i tipi di procedimenti compare laconfessione d’aver creduto che la Chiesa romana (identificata, di norma,col papa) fosse l’Anticristo sono rarissimi. Vi ricorre più spesso l’ammis-sione d’aver creduto e sostenuto che il papa non avesse alcuna autoritàsulla Chiesa o d’avere applicato temporaneamente la nozione di Anticri-sto a singoli eventi e a personalità singole. Il fabbro Giovanni BattistaMeschiari disse d’aver perseverato per quindici anni nella convinzioneche il papa non aveva «authorità sopra la Chiesa di Dio», se fosse stato«un papa cattivo, cioè di mala vita»; 301 e Girolamo Comi, il pittore alquale s’era rivolto il Rangoni, ammise d’aver creduto che Paolo IV ave-

299 Il breve di Pio V (10 febbraio 1568) è in CESARE CANTÙ, Italiani illustri, Milano, Li-breria Brignola, II, 1873, pp. 455-456. Concedeva al Morone «piena et libera licenza et po-testà di potere liberare et absolvere nell’uno et l’altro foro da tutte l’heresie et censure et pe-ne [...] ciascuno heretico della città et diocese sopradetta che havrà ricorso a te». Diversa-mente che nel caso di analogo privilegio concesso molti anni prima da Giulio III al Foscara-ri, il breve di Pio V imponeva la «presenza di pubblico notaro et testimoni» nonché di duemaestri in theologia o professori di quella o altri periti, secondo la forma dei sacri canoni». Ilbreve è richiamato all’inizio di ognuno dei procedimenti sommari cui esso diede luogo, eciò serve a distinguerli agevolmente dai processi che, parallelamente, il vicario dell’inquisi-zione conduceva contro già indiziati o incarcerati e contro renitenti all’invito del Morone.

300 L’esatta consistenza numerica dei due tipi di procedimenti rimane tuttora da accerta-re. Il già citato (cfr. sopra, nota 247) Elenco di denunciati, di quelli che abiurarono, cc. 1r-2velenca ventun nomi di persone che «abiuraverunt coram Ill.mo et R.mo Card. Morone demense Martii 1568» (in realtà due abiure, quelle di Giulio Cesare Pazzani e di LudovicoMazzoni, avvennero il 27 aprile). Dai miei appunti (non più ricontrollati sui documenti)tanto questo numero quanto quello riguardante processati al di fuori degli effetti del breve diPio V, risultano inesatti per difetto.

301 Modena, Archivio di Stato, Fondo Inquisizione, busta 4, Processi 1566-1568, «Liberdecimus», processo Giovanni Battista Meschiari, costituto del 23 marzo 1568.

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va incarnato l’Anticristo quando «distenne in prigione il vescovo di Mo-dena et altre persone ingiustamente»; poi il Comi s’era ricreduto sullostesso papa Carafa.302 È ovvio che si trattava della confessione di errori benpiù lievi di quello in cui erano incorsi quanti avevano letto e lodato il Li-ber generationis Antichristi e si erano lasciati convincere dalle deduzioni ge-nealogiche di quel libello o da argomenti simili svolti in scritti analoghi.L’assunzione della nozione di Anticristo come definita nel genere discritti di cui quel libello è un esempio particolarmente incisivo, significa-va condanna globale dell’istituzione ecclesiastica; molto meno colpevol-mente, l’applicazione episodica del concetto di Anticristo a eventi, figuree aspetti singoli della realtà ecclesiastica rientrava, tutto sommato, nel sol-co di quella corrente dell’escatologia medioevale nella quale la nozionedi Anticristo (e la derivata nozione plurima di «Anticristi») era stata edera in funzione della denuncia di singoli aspetti o di singoli momenti del-la corruzione ecclesiastica. Di questa scala di gravità si rendevano conto,oltre che gli inquisitori, anche gli inquisiti. Ed è significativo che la con-sapevolezza di una tale distinzione fornisse plausibili argomenti di difesaanche in strati popolari: nel 1553, il sarto Ludovico Zinanino ammised’aver parlato male del papa con i suoi lavoranti; ma – si affrettò a preci-sare – «non de pertinentibus ad fidem, sed ad mores».303 Nell’aprile del1568, fu processato, tra i «vehementer suspecti», Erasmo Barbieri, unvenditore ambulante di stracci e vetri, dei quali andava a rifornirsi a Ve-nezia, e figura tra le più vivaci di quel mondo di popolani le cui storie,sul finire degli anni Sessanta, l’inquisitore modenese setacciò attentamen-te: solo al quarto interrogatorio il Barbieri ammise, sotto tortura, d’avercreduto e sostenuto che il papa era l’Anticristo.304 Un mese prima, Giaco-mo Gandolfi non aveva dovuto temere d’essere sottoposto a tortura o adaltri scandagli inquisitorî ammettendo, davanti al Morone, d’aver credutoche «il papa che si trova in peccato non ha authorità nella chiesa diDio».305 Ma ora sappiamo che con questa sua tarda ammissione il Gandolficopriva un passato di opinioni ben più radicali, apprese venticinque anni

302 Ibid., busta 5, Processi 1568-1574, «Liber undecimus», processo Girolamo Comi, co-stituto del 22 marzo 1568.

303 Ibid., busta 3, Processi 1550-1565, processo Gabriele e Ercole Zinaro e Ludovico Zi-nanino.

304 Ibid., busta 4, Processi 1566-1568, «Liber decimus», processo Erasmo Barbieri, costi-tuto del 21 aprile 1568.

305 Processo di Giacomo Gandolfi cit., costituto del 24 marzo.

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prima alla Staggia e attraverso la lettura, diretta o indiretta, di scritti del-l’Ochino e del Vermigli, la cui diffusione era partita proprio da quel cir-colo ancora oggi più celebre che realmente noto. Nel 1568 (e negli annivicini al 1568), tra i modenesi processati come «vehementer suspecti» oche si affollarono nel vescovado per abiurare spontaneamente, quanti tac-quero d’aver creduto, in un passato più o meno lontano, che la Chiesaromana incarnasse l’Anticristo? E quanti quelli che, come fece il Gandol-fi, derubricarono il loro reato d’opinione mediante un consapevole spo-stamento di significato d’una nozione come quella di Anticristo, che lapropaganda delle nuove idee aveva caricato di sensi ben più eversivi diquello corrente attraverso le stampe «gioachimitiche» in volgare, in pre-diche, pronostici e profezie? Se ho visto bene, tra quanti abiuraronospontaneamente, soltanto uno, il mercante Giulio di Giovanni AntonioAbbati, confessò d’aver «tenuto et creduto il papa essere Antichristo etnon havere alcuna authorità nella chiesa universale»; 306 e tra i processaticome «vehementer suspecti», soltanto pochi altri, oltre il Barbieri, forni-rono agli inquisitori qualche laconica informazione sull’insistenza e suimodi con cui il tema dell’equivalenza tra Anticristo e Chiesa romana eratornato in tutto quell’intreccio di discussioni e di letture che per piùd’un trentennio avevano avuto come loro sfondo le case private, la piaz-za e le botteghe. Nel complesso, in ambedue i tipi di procedimenti, lereticenze degli inquisiti mirarono a frapporre uno spesso schermo tra loroe un passato che li aveva visti coinvolti in una condanna globale dell’isti-tuzione ecclesiastica. E tuttavia non si tratta d’uno schermo impenetrabile.

Bisogna risalire agli anni anteriori al 1568 e alla relativa documenta-zione. Da essa risulta che l’inquisizione modenese s’era trovata ben prestodi fronte alla diffusione di idee che negavano radicalmente tutti i fonda-menti dell’istituzione ecclesiastica. Quando nel settembre del 1555 venneconvocato dal vescovo Egidio Foscarari, lo stampatore bresciano Gio-vanni Giacomo Tabita già da sette anni era convinto che la chiesa invisi-bile dei predestinati fosse la sola vera chiesa.307 Anche nel caso del Tabita,la forte contrapposizione tra la chiesa invisibile e quella romana conside-rata «synagoga diaboli», fa riferimento a fonti dichiarate: fra le altre, come

306 Modena, Archivio di Stato, Fondo Inquisizione, busta 4, Processi 1566-1568, «Liberdecimus», processo Giulio Abbati, costituto del 28 marzo 1568.

307 Ibid., busta 3, Processi 1550-1565, «Liber sextus», cc. 155r-158r, De abiuratione Io.Iacobi Tabitae Brixiensis. Il suo nome risulta annotato nei cit. Excerpta ex libro Domini Epi-scopi Foscararii, c. 3v: «Giovanni Iacobo da Bressa stampatore».

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nel caso del Gandolfi, anche scritti dell’Ochino e Una semplice dichiarationedel Vermigli.308 L’intero corpo delle convinzioni del Tabita (l’elenco dellesue «culpae et mala opera contra fidem catholicam», che il Foscararicompose prima di sottoporlo ad abiura) è un riflesso caratteristico dellasua piccola biblioteca di lettore fortemente interessato a problemi religio-si e forse anche di stampatore trasgressivo. La negazione dei meriti delleopere («negabat satisfactionem et merita operum») gli era stata suggerita oconfermata o rafforzata dalla lettura d’un libro, il Beneficio di Cristo, chedifficilmente poteva sfuggire a chi a qualsiasi titolo operava nel mondolibrario. Nel passaggio dalla convinzione del valore salvifico della sola fe-de nel beneficio di Cristo alla valutazione e giudizio della realtà eccle-siastica, le conclusioni del Tabita furono severe, una critica distruttiva.L’osservazione della realtà era, ovviamente, alla radice delle sue reazioni eriflessioni; ma gli argomenti che espose al Foscarari erano quelli di altredue opere delle quali confessò il possesso e la lettura, il Pasquino in estasi ela Tragedia del libero arbitrio di Francesco Negri. Si disse convinto che ilcristiano non è tenuto ad alcuna osservanza e cerimonia («nullam esseobligationem ad observantias et ceremonias»); sono abominazioni idola-triche la messa e il culto delle immagini, e superstizione la venerazionedei santi; nella chiesa invisibile degli eletti il battesimo «est protestatiotantum fidei»; nella chiesa visibile, della quale Satana ha fatto la sua sede,domina l’Anticristo nella persona del papa; le sue scomuniche non hannoalcun valore; il cristiano ha come sola norma di verità il Vangelo («nilcredendum nisi evangelio»).

Non esiste, ch’io sappia, una sola testimonianza d’un commercio dilibri e di idee che il Tabita abbia avuto con esponenti del movimentoeterodosso durante gli anni del suo lungo soggiorno a Modena. Ma secomunicò ad altri le sue idee, certo non gli mancarono interlocutori.Dalla stessa documentazione sugli anni della blanda sorveglianza del Fo-scarari emerge la figura d’un popolano la cui attività e la cui radicazionenel movimento eterodosso ne fanno molto più d’un caso individuale. Sitratta del tessitore di velluto Paolo Antonio da Campogalliano, le cui vi-cende religiose si conclusero anch’esse alla fine degli anni Sessanta non aModena, ma a Venezia, dove s’era già recato spesso e dove si trasferì de-

308 Ibid.: «Item quod legit libros, videlicet il Stancharo, pasquini in extase, la tragedia dellibero arbitrio, Bernardino Ochino e Iulio Milanese, fra Pietro Martire sopra i dodici artico-li, il beneficio di Cristo».

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finitivamente nel 1559.309 Non c’è circolo sospetto in cui i documentinon segnalino la sua presenza. Il numero delle persone con le quali ebbecomunanza d’attività e di idee va molto al di là dei venti nomi che eglielencò in uno dei costituti del processo veneziano: e già, tra questi, i no-mi di esponenti tra i più prestigiosi del movimento eterodosso modene-se, come Giovanni Rangoni, Francesco Camurana, Pietro Curioni, Ni-colò Machella, Giacomo Graziani, Pietro Giovanni Biancolini.310

Fra questi uomini che vantavano prestigio cittadino per casato, perprofessione o per censo, la presenza di Paolo da Campogalliano rappre-senta l’altra componente, quella popolare, d’un movimento che a Mode-na fu caratterizzato da una forte promiscuità sociale. Nel 1550 – cioè findalla sua prima apparizione nelle carte dell’inquisizione – è già noto peril vigore con cui traduceva in protesta motivi correnti: ad esempio, tra-duceva la critica corrente del culto delle immagini nella conclusione chei cristiani erano tutti idolatri.311 Condivideva le idee di quanti conveniva-

309 Ibid., busta 3, Processi 1550-1565, processo Paolo da Campogalliano e Giovanni Ter-razzano, da ora in poi citato come «Processo modenese» per la sola parte che riguarda ilCampogalliano. Prima di essere sottoposto a regolare processo, era stato interrogato dal Fo-scarari, che annotò (Excerpta cit., c. 3r): «Paulo Antonio da Campo Gaiano, in la Pomposa,admonui et docui, pollicitus est, iussi ut confiteretur patri Dominico [da Imola]. Inquitquod Bagnacavallus docuit quod pium erat credere purgatorium non tamen necessarium.Abiuravit primo octobris 1555». In realtà, probabilmente per la gravità degli indizi emersidal colloquio, fra Domenico da Imola lo aveva poi deferito all’inquisitore fra Angelo Valen-tini. Nel costituto del 2 ottobre 1555 dichiarò che alcune delle sue opinioni «de rebus reli-gionis et fidei» risalivano a sette anni prima «secundum quod audivit Venetiis a multis»; mol-te altre cose aveva appreso dai suoi confessori. Il processo veneziano ebbe inizio il 29 otto-bre 1569 e si chiuse il 6 luglio 1570 (Venezia, Archivio di Stato, Sant’Ufficio dell’Inquisizione,busta 20, Contra Paulum Mutinensem, da ora in poi citato come «Processo veneziano»). Erastato preceduto da lunghe indagini che, dopo una denuncia del 16 aprile 1565, compreserola richiesta di copia delle carte processuali modenesi, il cui invio fu sollecitato dal cardinaleScipione Rebiba con lettera del 15 dicembre 1568 (Modena, Archivio di Stato, Fondo Inqui-sizione, busta 122, ad annum). Nel primo costituto del processo veneziano, l’inquisito si pre-sentò così: «Io ho nome Paulo Antonio, ma mi chiamano Paulo, et son di un castello lonta-no da Modena chiamato Gaian, fiol del q. Giacomo Barbier, et el mio essercitio è testor davaluti, ma adesso, perché la vista non mi serve, son cimolin da lana». La copia delle carteprocessuali modenesi include due testimonianze del 15 febbraio 1559, evidentemente partedi un’istruttoria che dovette spingere il Campogalliano a trasferirsi a Venezia, dove nel costi-tuto del 5 marzo 1570 dichiarò di trovarsi «da 12 anni in circa».

310 Processo veneziano, costituto del 6 marzo 1570. 1 successivi costituti veneziani ebuona parte dei processi modenesi più tardi smentiscono l’affermazione del Campogallianodi non aver «mai parlato con alcuno di loro».

311 Processo Terrazzano cit. (cfr. nota 305), testimonianza di Nicolò Morano del 12giugno 1552.

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no nelle botteghe che anch’egli frequentava; ma non di rado le esprime-va in pubblico in forma di protesta o di irrisione.312 Uno dei suoi primiinterlocutori, Giovanni Terrazzano, sottoposto dal Foscarari alla stessainchiesta e al conseguente processo riguardanti Paolo da Campogalliano,non riconosceva alla Chiesa romana oggettiva validità istituzionale: «Estsancta, si est sancta», diceva; 313 e contestava la validità del provvedimentocon cui si era impedito «cuidam quaestuario predicanti in foro ne predi-caret», convinto che quel predicatore, anche se irregolare, era «missus aDeo».314 Nel dicembre del 1569, all’inquisitore veneziano che gli chiedevache cosa intendesse dire quando affermava che Cristo era presente nel-l’eucaristia «spiritualmente», il Campogalliano prima volle riflettere («chevoleu che vi digo»), poi rispose: «Perché Dio è spirito».315 Ed era la pre-messa della sua totale svalutazione d’ogni forma di esteriorità religiosa.Conversazioni (non risulta quanto frequenti) con membri della comunitàebraica locale dovettero facilitare al Campogalliano e ai suoi amici i ri-scontri veterotestamentari della loro critica di consuetudini rituali e d’o-gni sorta di pratiche devozionali. Il Campogalliano trovava comprensibi-le che un ebreo modenese si rifiutasse di convertirsi «perché tutti li cri-stiani sono idolatri»; e aggiungeva: «et mi pare ch’el dica il vero».316 Pro-babilmente proveniva da quelle stesse conversazioni la destrezza del suoamico Giovanni Terrazzano nell’addurre riferimenti testamentari a soste-gno di critiche analoghe: «Assimilabat – testimoniò il notaio Nicolò Mo-rano – oblationes votorum, cereorum et eiusmodi iis quae in Daniele le-guntur de ritibus Ethnicorum».317 L’impulso a formulare critiche e rifiuticosì netti era in ragione della profondità con cui s’era radicata in loro lacertezza dell’unicità della fede giustificante. È questa la sola convinzionesulla quale, nel settembre del 1555, il Campogalliano non tergiversò da-vanti all’inquisitore: disse di non credere nell’esistenza del purgatorio«perché ha questa fede dei meriti di Cristo e nella passione sua, che non

312 Il 28 dicembre 1550, il frate minore Ludovico da Trento dichiarò che, avendolo vi-sto acquistare delle immagini, il Terrazzano e il Campogalliano gli avevano detto che le im-magini sono proibite; e avendo il frate risposto che esse «sunt libri idiotarum», il Campogal-liano era esploso con espressioni molto crude, divenute poi oggetto di lunghi interrogatorisia a Modena che a Venezia.

313 Processo Terrazzano cit., deposizione di Nicolò Morano del 7 maggio 1553.314 Ibid. Cfr. SUSANNA PEYRONEL RAMBALDI, Speranze e crisi cit., p. 261.315 Processo veneziano, costituto del 1o dicembre 1569.316 Processo modenese, costituto del 22 settembre 1555.317 Processo Terrazzano cit., deposizione di Nicolò Morano del 7 maggio 1553.

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haveria briga a purgarse».318 Conversazioni nelle botteghe modenesi, di-scorsi durante saltuari soggiorni a Venezia e letture di libri acquistati aVenezia o a Modena, tutto predisponeva questo tessitore e i suoi amici alconfronto fra la certezza della salvezza per la sola fede nel beneficio diCristo, da una parte, e, dall’altra, la realtà quotidiana di pratiche devote,riti, consuetudini, culti, dottrine, che tendevano a sminuirla o a surro-garla. Anche la sua piccola biblioteca è significativa di questo confronto.All’inquisitore modenese disse che sapeva «legere vulgare così uno po-co».319 In realtà, doveva leggere molto, se nel 1565 il tessitore Giovanni daFermo, che lo denunciò all’inquisizione veneziana, dichiarò: «È poveroet sempre parla di letere et della Scrittura».320 Avrà letto, visto e sentitoesporre più libri di quanti ne possedesse, che erano prima di tutto il Be-neficio di Cristo, il Sommario della Sacra Scrittura e il Pasquino in estasi; quasiovvio il possesso d’un «testamento vechio et novo», cui aggiunse unaSperanza de’ cristiani (a me sconosciuta).321 Indicazioni che possono benservire alla costruzione delle nostre scientifiche bibliografie con relativesezioni e sottosezioni e rispettive curve di produzione e diffusione; ma inprimo luogo libri che vanno messi in rapporto con le idee, le reazioni, leriflessioni e le emozioni di chi li ebbe in mano – quando nei documentiquesto rapporto c’è. È significativo che nel 1555 il Campogalliano chie-desse perdono all’inquisitore Angelo Valentini «maxime d’haver lecto pa-squino et il beneficio et il summario»,322 cioè libri il cui possesso era ormaiun segno caratterizzante – come sapevano inquisitori e inquisiti – d’undissenso indubitabilmente militante: da una parte uno dei messaggi piùconfortanti dell’epoca sulla certezza del «perdono generale», dall’altra unarappresentazione sconcertante d’una realtà che contrastava con esso. Giàquando si presentò davanti al Foscarari, il Campogalliano in sette anni neaveva tratto un confronto tra fede e istituzione dagli esiti distruttivi. Conla sua premessa che «Dio è spirito» vedeva contrastare tutte le forme di

318 Processo modenese, costituto del 22 settembre 1555.319 Ibid.320 Processo veneziano, deposizione di Giovanni di Giacomo da Fermo del 16 aprile

1565.321 La sola, pur labile congettura è che si tratti della seconda parte della Dottrina verissima

di Urbanus Rhegius (Dialogo tra uno penitente peccatore et Satan, ove si parla de la desperatione, etdella speranza), sulla quale vedi SILVANO CAVAZZA, Libri in volgare e propaganda eterodossa: Vene-zia 1543-1547, in Libri, idee e sentimenti religiosi nel Cinquecento italiano, a cura di ADRIANO

PROSPERI e ALBANO BIONDI, Modena, Edizioni Panini, 1987, pp. 22-23.322 Processo modenese, costituto del 2 ottobre 1555.

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esteriorità della religione, ogni aspetto del culto. Non c’è mai del casualein affermazioni come quella fatta dal Campogalliano di fronte all’inquisi-tore veneziano: nel suo caso, l’affermazione era tratta da Iohan., IV, 24,Spiritus est Deus, et eos, qui adorant eum, in spiritu et veritate oportet adorare.Ed era lo stesso luogo testamentario al quale implicitamente si richiamavail Terrazzano quando, contro l’«idolatria» del culto delle immagini, dice-va che «hora li veri adoratori adorano il Padre in spirito et verità».323 Main quel versetto di Giovanni i due amici avevano trovato una chiave in-terpretativa che consentiva loro di spingersi ben al di là delle consuetecritiche del culto delle immagini: il Campogalliano non si faceva scrupo-lo di dichiarare «quod Deus nusquam iussit celebrari missas et alia offi-cia».324 Ma entrambi ancora di più alzavano il tiro della protesta, quando,con evidente reminiscenza del Pasquino in estasi, dicevano che il cultodelle immagini era «idolatria e tirannia».325 Per quanto schematici, gli attiinquisitoriali non mancano talvolta di darci una rappresentazione quasivisiva di quanto avveniva in quelle botteghe, dove s’andava a consultareil Testamento (Pietro Curioni, una singolare figura di medico e di mer-cante, addirittura ne teneva una copia a disposizione degli avventori) 326 evi si faceva una specie di volenterosa collazione col Beneficio, col Somma-rio e col Pasquino: insomma, vi si mettevano in moto quei processi che ilCurione stimolava con la narrazione della metamorfosi di Marforio. Ilpassaggio dal Beneficio di Cristo (o quanto si sapeva di quel messaggio) alPasquino in estasi (o quanto si sapeva di quella satira, e non solo satira, de-molitrice) segna una linea caratteristica dell’evoluzione del movimentoeterodosso modenese. Nel 1575, le dichiarazioni di Guido Rangoni, «fi-gliolo et procuratore del magnifico Pindaro Rangoni nobile Modenese»e gran discorritore sulle «contraditioni della Chiesa» nell’interpretazionedegli effetti della venuta di Cristo, diedero all’inquisitore (e danno a noi)il senso dell’importanza che aveva avuto, decenni prima, la lettura di«Pasquino e Marforio in estesi»: «Questo – dichiarò – è il più nefando li-bro che mai habbi letto».327 Il giudizio sulla natura «tirannica» degli obbli-

323 Processo Terrazzano cit., testimonianza di Francesco Spazzano del 20 giugno 1555.324 Ibid., deposizione di Giovanni Zanibelli del 20 giugno 1555.325 Processo modenese, costituto del 22 settembre 1555 (cfr. processo Terrazzano cit.,

deposizione di Giovanni Zanibelli del 20 giugno 1555).326 Modena, Archivio di Stato, Fondo Inquisizione, busta 5, Processi 1568-1574, «Liber

undecimus», processo Pietro Curioni, costituto del 28 marzo 1568.327 Ibid., busta 6, Processi 1575-1580, processo Guido Rangoni, costituto del 26 marzo

1575.

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ghi quotidiani che imponevano i tempi e le osservanze del culto si dilata-va nella misura in cui se ne sentiva l’estraneità e l’inutilità rispetto allaconvinzione dell’efficacia e sufficienza salvifica della sola fede. E si dilata-va fino a investire l’intera struttura ecclesiastica: l’accettazione delle ele-mosine e la vendita delle messe – diceva il Campogalliano – erano la pra-tica quotidiana del «turpe lucrum» con cui la Chiesa si è arricchita a di-smisura e «ha fatti poveri gli altri».328 Alla sommità di questa struttura di-spensatrice di surrettizi mezzi di salvezza s’è insediato l’Anticristo nellapersona del papa.329 Il sacerdozio, esercitato da pochi beneficiarî di questopeccaminoso accumulo di ricchezze, è in realtà prerogativa di tutti i cri-stiani.330 E quando i due amici e i loro interlocutori dalla bottega di Gio-vanni Terrazzano si spostavano in quella di Pietro Curioni, vi trovavano,giunto anch’esso tempestivamente a Modena, uno degli ultimi libelli delVergerio, in cui, per bocca del Petrarca, si invocava sulla Chiesa unasterminatrice «fiamma del ciel».331

328 Processo modenese, costituti del 22 e del 29 settembre e del 2 ottobre 1555. Cfr.Processo Terrazzano cit., deposizione di Francesco della Croce del 20 giugno 1555.

329 Processo modenese, costituti del 22 e del 29 settembre, del 1o e del 2 ottobre 1555.330 Ibid., costituto del 22 settembre 1555, dove l’inquisito tenta una tipica attenuazione

del suo pensiero: «Respondit che Santo Pietro scrive che sianno gente santa e sacerdotio re-gale, che tutti i fedeli cristiani, cioè la chiesa di Giesù Christo, sonno sacerdoti et che con-fesso questo, e se l’ho detto ut supra non tutti equaliter. Ma che lui è sacerdote della sua casa,et non tanto lui, ma et tutti gli altri, e che poi sonno delli altri sacerdoti che ministrano i sa-cramenti». Molti altri casi danno, del resto, l’idea di quanto fosse diffusa a Modena la dottri-na luterana del sacerdozio universale. Ad esempio, il 15 aprile 1545 il domenicano GiovanniPaolo da Lugo accusò Girolamo Grassetti d’aver sostenuto «quod omnes sacerdotes sumus ethoc assertive»; un mese dopo, il 22 maggio, il sellaio Giacomo Piva venne denunciato peraver detto: «Ego habeo tantam authoritatem quantam habet quilibet alius et ego possum teabsolvere sicut quilibet alius» (ibid., busta 2, Processi 1489-1549, ai nomi). La dottrina del sa-cerdozio universale era implicita nella concezione della chiesa come invisibile congregazionedei fedeli, sulla cui diffusione a Modena la testimonianza più precisa è, come si vedrà, nelprocesso del soldato Pietro Antonio da Cervia. Un suo commilitone, il ferrarese GiovanniLudovico Novelli, nell’agosto del 1567 confessa d’aver creduto «veram ecclesiam esse con-gregationem credentium» e che «ministrum baptismi illum esse qui a populo ordinatus est adpredicandum et baptizandum» (ibid., busta 4, Processi 1566-1568, «Liber decimus», processoGiovanni Ludovico Novelli, costituto del 16 agosto 1567). E così via.

331 Processo modenese, costituti del 22 settembre e del 1o ottobre 1555. Il libello delVergerio era uscito l’anno prima: Stanze del Berna con tre sonetti del Petrarca dove si parla dell’E-vangelio et della Corte Romana, nell’anno 1554 (l’introduzione è datata 20 agosto 1554). Cfr.FRIEDRICH HUBERT, Vergerios publizistische Thätigkeit cit., p. 291. Sul contenuto vedi DELIO

CANTIMORI, Atteggiamenti della vita culturale italiana nel secolo XVI di fronte alla Riforma, «Rivistastorica italiana», LIII, pp. 41-69, ora in IDEM, Umanesimo e religione nel Rinascimento, Torino,Einaudi, 1975, pp. 8-12.

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Nei processi della fine degli anni Sessanta, la figura del Campogallia-no riaffiora continuamente in tutte le sue relazioni e nell’efficacia dellasua propaganda. Bartolomeo Vecchi detto il Caura, pittore e fabbricantedi «mascare e rodelle», lo ricorda come «gran lutherano», e il tessitoreGeminiano Tamburino dichiara che aveva esercitato su di lui una grancapacità di persuasione.332 Altri allargano continuamente la cerchia dellesue frequentazioni fino a far coincidere l’attività del Campogalliano conl’intero quadro del movimento eterodosso modenese. Ma ciò che visibil-mente prevale in quei processi è la volontà di dissociarsi dalla sua attivitàe dalle sue idee. È caratteristica la dichiarazione di Pietro Curioni, il dif-fonditore del libello del Vergerio e anch’egli, testimone lo stesso Cam-pogalliano, convinto interprete in senso antiromano della violenta invet-tiva antiavignonese del Petrarca: nell’aprile del 1568 il Curioni è dispostoad ammettere soltanto d’aver «murmurato delle ricchezze della chiesa etdelli ecclesiastici».333 Sennonché, al di là delle reticenze con cui i singolirivelavano le loro passate complicità e tentavano di ridimensionare lagravità delle loro convinzioni, l’inquisitore veniva deducendo dall’intrec-cio dei procedimenti e dalla complementarietà delle ammissioni dei sin-goli un quadro generale della situazione che in gran parte vanificava quelgioco di reticenze e di selezioni. Quando poi giunsero a Modena gliestratti del processo bolognese di Pietro Antonio Cervia, l’inquisito chefornì la maggior quantità di dettagli sui componenti e sulle idee del mo-vimento eterodosso modenese del quale aveva fatto parte fino a pochimesi prima, l’inquisitore ebbe chiara la matrice comune dalla quale deri-vavano entrambe le versioni che i suoi inquisiti davano delle loro passateconvinzioni sull’ordinamento ecclesiastico: quella che il papa incarnassel’Anticristo e quella che egli non avesse alcuna autorità sulla Chiesa. Leg-geva in uno dei costituti bolognesi del Cervia che convinzione comuneai moltissimi che il Cervia aveva conosciuto a Modena («quandam con-gregationem plusquam triginta hominum qui legunt libros haereticorumet male sentiunt de fide catholica») era che «la chiesa fosse la congregatio-ne de’ fedeli et de’ credenti, et cioè di quelli che credono dover esseresalvi per la morte et passione di Christo». E «quest’era la vera chiesa»,dalla quale erano esclusi quanti riponevano la loro salvezza in «indulgen-

332 Modena, Archivio di Stato, Fondo Inquisizione, busta 5, Processi 1568, «Liber undeci-mus», processo Bartolomeo Caura, costituto del 14 marzo 1568; processo Geminiano Tam-burino, costituto del 24 gennaio 1568.

333 Processo Curioni cit. (cfr. nota 326), costituto del 23 aprile 1568.

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ze, perdoni, voti, peregrinaggi et altre simil opere», perché non eranoveri credenti, «et per questo non erano della chiesa». Il papa non avevaalcuna autorità di aggiungere ai comandamenti di Dio «nuove leggi etprecetti [...] et fare il giogo insopportabile dei comandamenti fatti allichristiani»; le sue «leggi, ordini et precetti» non legavano le coscienze«per essere leggi positive et fatte da un huomo»; non avevano valore néle sue scomuniche né quelle d’ogni altro prelato, perché credevano che«quelli solamente fossero scomunicati che non credono nel figliuol d’Id-dio»; il solo sacramento che ammettevano «senza differenza alcuna diquello che tiene la Santa Romana Chiesa» era il battesimo, ma «eccettoche noi tenevamo quello esser ministro del battismo solamente il qualeera ordinato dal populo per predicare et battezzare».334

Era un rifiuto dell’istituzione ecclesiastica le cui prime espressioni ri-salivano a decenni prima. La pur frammentaria documentazione inquisi-toriale relativa agli anni dell’episcopato del Foscarari basta a documentarequanto questo rifiuto fosse diffuso. Nel marzo del 1548, la moglie di Gi-rolamo Comi – ancora il pittore al quale si rivolse Giovanni Rangoni –venne accusata da tale Francesca Macagnini d’aver negato la Chiesa inquanto costruzione umana («negasse ecclesiam, quia ex hominibus est») eperché bastava una sola goccia del sangue di Cristo a renderla non neces-saria («ob sufficientiam guttae unius sanguinis Iesu Christi non esse eccle-siam necessariam»).335 Era una deduzione comune – per lettura diretta oper conoscenza mediata – dal Beneficio di Cristo. E abbiamo preferito se-guire, attraverso singoli episodi e risalendo fino al circolo che agli inizidegli anni Quaranta si riuniva alla Staggia, il processo di radicalizzazionedi questa convinzione dell’inutilità dell’ordinamento ecclesiastico in pro-testa contro la sua funzione oppressiva. L’efficacia esercitata in questoprocesso da libri come le prediche dell’Ochino o il primo scritto delVermigli o gli scritti pasquilleschi del Curione è ovvia e non di rado te-stimoniata dagli stessi inquisiti – come abbiamo visto nel caso di Guido

334 Modena, Archivio di Stato, Fondo Inquisizione, busta 4, Processi 1566-1568, processoPietro Antonio da Cervia (estratti del processo bolognese), costituto del 28 febbraio 1567(cfr. JOHN A. TEDESCHI, JOSEPHINE VON HENNEBERG, «Contra Petrum Antonium a Cervia relap-sum et Bononiae concrematum», in Italian Reformation Studies in honor of Laelius Socinus. Editedby JOHN A. TEDESCHI, Firenze, Le Monnier, 1965, p. 257, in inglese). Ch’io sappia, la primanotizia dell’interessamento dell’inquisizione modenese alla cattura del Cervia è in una letteradel duca di Ferrara al governatore di Modena Ippolito Turchi del 28 agosto 1566 (Modena,Archivio di Stato, Cancelleria ducale. Rettori dello Stato: Modena, Ippolito Turchi, cart. 70, n. 82).

335 Ibid., Fondo Inquisizione, busta 2, Processi 1489-1549, deposizione di Francesca Maca-gnini del 18 marzo 1548.

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Rangoni. È significativo che, nel 1568, Antonio Maria Ferrarese, un tes-sitore tra i più menzionati nei processi di quell’anno, ricordi, fra le perso-nalità più in vista del movimento eterodosso modenese, anche AlbertoBaranzoni, il diffonditore del Liber generationis Antichristi.336

Se non Nicolò del Finale, l’inquisitore che, direttamente o per mez-zo dei suoi vicari, condusse l’azione repressiva della fine degli anni Ses-santa, certo il più energico Paolo Costabili, succedutogli nell’autunno del1568, si rese conto, in primo luogo attraverso lo studio (e il riordino) de-gli incartamenti dei decenni precedenti, che il filone preminente delleeresie che si erano diffuse a Modena era quello che negava tutti i fonda-menti dell’istituzione ecclesiastica. Il poco che è rimasto della sua corri-spondenza con Roma dimostra la preoccupazione sua e della Congrega-zione romana di fronte a quanto era emerso dalla recente ondata di pro-cessi. Il dubbio che i condannati, che ora sciamavano per Modena cer-cando di nascondere l’abitello sotto le cappe, portassero sepolti in loro inomi di altri complici e le stesse convinzioni alle quali avevano abiurato,spiega la severità degli interventi del cardinale Scipione Rebiba: ad esem-pio, nel gennaio del 1570 ingiunse al Costabili di ordinare a Marco Cau-la e al Curioni che «teneant capam apertam et habitellum ita detectum utaperte videatur»; nel febbraio del 1572 ordinò al Costabili di sorvegliaretutti quelli che, pur essendo stati denunciati precedentemente, erano poistati assolti dal Morone in base al breve di Pio V, «per sapere come vivo-no» e procedere contro di loro «trovando che non camminino sincera-mente overo che non habbino abiurato alcuno errore di quelli de’ qualierano denontiati o che habbino tacciuto de’ suoi complici».337 Almeno uncaso dimostra che i dubbi del Rebiba non erano infondati.

Il 25 marzo 1574 il Rebiba ordinò al vescovo di Modena di arrestare«Madama Dalinda Carandini», di sequestrarle «tutti i libri, lettere et scrit-ture» e di controllare i frequentatori della sua casa.338 Il piccolo carteggiotra Roma, Modena e Ferrara, che almeno fino al 19 giugno ebbe come

336 Ibid., busta 5, Processi 1568-1573, «Liber duodecimus», processo Antonio Maria Fer-rarese, costituto del 26 marzo 1568.

337 Varie lettere del Rebiba di raccomandazione alla sorveglianza sono incluse nel fasci-colo del cit. processo di Pietro Curioni (cfr. nota 326). La lettera su quanti avevano abiuratoin base al privilegio concesso al Morone è ibid., busta 122, alla data).

338 Ibid., busta 6, Processi 1569-1574, «Liber tertius decimus», fascicolo Dalida Carandini,che comprende una lunga relazione del gesuita Bonfio Bonfi su una conversazione avuta conla Carandini ai primi di febbraio del 1574, e quattro lettere del cardinale Scipione Rebiba alvescovo di Modena e all’inquisitore Eliseo Capis, scritte tra il 25 marzo e il 19 giugno. Se hovisto bene, la vicenda della Carandini non ritorna in alcun altro atto dell’inquisizione modenese.

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oggetto questa vicenda, parla della Carandini come di «persona di moltaimportanza», «molto favorita». In effetti, il rango sociale della gentildonnaera dei più considerevoli: nata Bandedei, era già vedova di Giulio Castel-vetro quando nel 1549 sposò in seconde nozze Claudio Carandini.339 Ilprocedimento inquisitoriale prese avvio dal resoconto d’una conversazio-ne che il rettore del collegio modenese dei gesuiti, Bonfio Bonfi, avevaavuto con la Carandini, sottoscritto sotto giuramento l’11 marzo 1574davanti al vescovo e all’inquisitore Eliseo Capis. La Carandini aveva ri-cordato con nostalgia gli anni in cui, «mentre ella era giovanetta», era sta-ta ammaestrata da Ludovico Castelvetro. Le lodi di Erasmo e il biasimodella proibizione delle sue opere si confondevano col ricordo del tempoin cui Castelvetro «li leggeva una lettione delli Evangeli».340 Disse che nonsi curava della proibizione d’un autore le cui opere «erano buone et pie-ne di buoni documenti»; e non se ne curava in quanto era convinta cheil «pontefice non havea la suprema potestà»: perché – soggiungeva – «co-me volete che crediamo che habbi tal potestà, essendo che egli è peggiordell’altri insieme colli cardinali et altri ecclesiastici, come si vede nella vi-ta che loro tengono et haver date le entrate ecclesiastiche a’ suoi paren-ti?». Il Bonfi contrappose agli argomenti della gentildonna il versetto diMatteo, XXIII, 2, Super cathedram Moysi, con un rovesciamento di signi-ficato rispetto a quello che gli avevano dato a Bologna Giovanni BattistaScotti e a Modena Bartolomeo della Pergola (o l’interpretazione che neavevano dedotta i suoi ascoltatori): disse che proprio da quel versetto diMatteo doveva dedursi che «quantunque il pontefice fosse malo, essendoche insegna la dottrina di Christo vera, si deve obedire». Tornavano gliargomenti con cui, trentaquattro anni prima, il Sigibaldi aveva valutatol’assieme dei fermenti di protesta che si venivano manifestando a Mode-na. Ma la Carandini non lasciò dubbi su questo punto: dall’osservazionedella realtà ecclesiastica aveva tratto la conseguenza che la vera chiesa nonera quella visibile, «ma solo la congregatione delli eletti»; perciò negava lavalidità del divieto di leggere il Testamento in volgare, perché, «essendoChristo venuto per salvar tutti, doveano tutti esser partecipi della dottri-na di Christo». Le considerazioni conclusive della conversazione sonouna testimonianza notevole sul comportamento bifronte al quale, in anni

339 LANCILLOTTI, Cronaca cit., XI, p. 22 (Cfr. JOHN A. TEDESCHI, Contra Petrum Antoniuma Cervia cit., p. 250). Nel 1564 era vedova del Carandini, il cui testamento, redatto l’annoprima, è in Modena, Archivio di Stato, Particolari, busta 296, sub Carandini Claudio.

340 La data della prima vedovanza della Carandini (1549) indica che gli «ammaestramen-ti» ricevuti dal Castelvetro «mentre ella era giovanetta» risalgono agli anni Trenta.

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di sconfitta, era costretto chi, come la Carandini, per quarant’anni eravissuta nell’atmosfera di due delle famiglie modenesi maggiormente ca-ratterizzate in senso eterodosso, i Castelvetro e i Carandini. Il documen-to non lascia dubbi sul fatto che vi fosse fra il gesuita e la gentildonna unaconsuetudine di conversazioni confidenti. E ciò spiega che la Carandinipresupponesse nel gesuita una possibile concordia sulla distinzione tra ilsentire «interiormente» e il comportamento esteriore: un coinvolgimentoche il gesuita respinse senza indugi. Alle sue argomentazioni in contrariola Carandini recisamente «rispose che pensava essere vero quello che leiintendeva, et non altro». Tuttavia, incitò il gesuita a non scandalizzarsiperché, dopo tutto – diceva – «si confessava et comunicava et che porta-va la corona et le medaglie benedette». C’è una forte, ma anche amara eironica presunzione della propria superiorità interiore nelle parole concui la gentildonna, mostrando corona e medaglie, chiuse la conversazio-ne: «Vedete se credo al papa, ché porto la corona; se non li credessi, nonla portarei». In calce alla sua relazione il Bonfi volle aggiungere, forse perprudenza, che dal colloquio di «quel giorno» aveva dedotto che la Ca-randini era «heretica marcia».

7. Variazioni sul tema: Curione e Biandrata

Nelle ricerche sulla propaganda religiosa del Cinquecento niente de-ve sorprendere. Non sorprende, perciò, che l’approfondimento delle ri-cerche su una copia manoscritta del Liber generationis Antichristi, rinvenutaquasi casualmente – com’è accaduto a chi scrive – in un fondo archivisti-co marginale, porti alla scoperta che si trattava d’un libello ritenuto de-gno d’essere ripreso e divulgato, ottant’anni dopo, come un messaggioesplicativo delle origini della Riforma nella ricorrenza del suo primocentenario. Fu precisamente con questo intento che nel 1618 lo fece ri-stampare tale «Theophilus de Seelandia Antiquarius» (visibilmente unopseudonimo), corredandolo per l’occasione anche d’una piccola appendi-ce di tre distici, che compongono un violento pasquillo sull’origine deigesuiti («Partus jesuitarum verus»).341 Con l’aggiunta finale d’una sola pro-

341 Fu stampato, come foglio volante, in almeno due forme diverse: Genealogia vera An-tichristi quam pro appendice Iubilaei Evangelici Christiano-Lutherani in gratiam Lojolitarum, quos Je-suitas vocant, ex mss. veteri restituit Theophilus de Seelandia Antiquarius, excusa MDCXIIX. Sene conserva un esemplare alla Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel, segnatura: 38. 25,Aug. 2o, c. 291 indicatomi da Paolo Baldi. Lo stesso Theophilus ne promosse la stampa in

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posizione, Theophilus esplicitò ciò che originariamente il libellista, comeabbiamo visto, aveva solo insinuato: un diffuso stato di ansietà, generatodalla corruzione dell’istituzione e dalla confusione nella dottrina, avevaposto il problema urgente di riscoprire la verità; e si scoprì che all’originedella corruzione dei costumi e della dottrina c’era stata l’opera dell’Anti-cristo nella persona del papa. Il libellista s’era arrestato qui. «Et conse-quenter – aggiungeva ora Theophilus de Seelandia – introitus IubilaeiEvangelici»: dall’insinuazione dell’indifferibilità della Riforma si passavaora alla celebrazione d’una prospettiva già realizzata. Si tratta, come si sa,di storia comune a questo e ad altri generi simili di letteratura (pronosti-ci, profezie).

La dichiarata intenzione di Theophilus di riportare il testo del libelloalla sua forma originaria («ex manuscriptis veteri restituit») indica che eglisi trovava di fronte a una varietà di redazioni discordanti, in sostanza difronte alle testimonianze dei mutamenti e adattamenti che il libello avevasubito nel corso d’una circolazione di molti decenni. Qui di seguito cisoffermeremo su due di questi adattamenti. Quanto all’ampiezza della suacircolazione, essa è dimostrata dalle molte traduzioni nelle principali lin-gue: il Liber generationis Antichristi è tra i libelli cinquecenteschi più tra-dotti. L’essenzialità del suo schema genealogico lo rendeva adatto all’ag-giunta di eventi d’ogni portata. Così, quasi a ridosso della stampa com-memorativa di Theophilus de Seelandia, nel 1609 ne era apparsa a Lon-dra una traduzione in inglese, inclusa in un violentissimo pamphlet antiro-mano: nel perdurante clima di reazione anticattolica seguita alla «congiu-ra delle polveri», il Liber generationis Antichristi sembrava adatto a fornire,al di là della più diretta polemica antigesuitica, la ragione ultima, o piut-tosto a ribadire il già diffuso presupposto che la responsabilità del diaboli-co complotto risaliva al papa in quanto creatura di Satana».342 A evento

un formato diverso, con l’aggiunta del testo in tedesco (Carlos Gilly me ne ha indicato unesemplare posseduto dalla Staatsbibliothek di Berlino, con segnatura: Preussischer Kulturbesitz,Ya. 4963, m). Il pasquillo antigesuitico porta la sottoscrizione: «M. D. R.», che non sonoriuscito a sciogliere. JOHN ROGER PAAS, Einblattdrucke zum Reformationsjubiläum, «Luther Jahr-buch», L, 1983, p. 47, menziona la sola stampa in latino e in tedesco.

342 No Parliament Powder, but Shot and Powder for the Pope and for all his Cardinalles, Bi-shops, Abbots, Fryers, Monkes, the Maisters and great Doctours of Sorbonne, London, printed byThomas Purfoot, 1609, pp. 71-72. La lettera di dedica è sottoscritta «Philogathus». Su pub-blicazioni degli stessi anni incentrate sull’identificazione del papa con l’Anticristo vedi LEONA

ROSTENBERG, The Minority Press and the English Crown. A Study in Repression, 1588-1625,Nieuwkoop, De Graaf, 1971, p. 71.

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diverso, privo delle forti tensioni suscitate in Inghilterra dall’attentatocontro il Parlamento, ma atto anch’esso a provocare la risposta di cui illibello era un potenziale portatore, si riferisce una stampa in francese dif-fusa in occasione del giubileo del 1600 e inclusa in una piccola silloge dilibelli analoghi, volti alla rappresentazione della ricorrenza giubilare comemanifestazione d’un trionfalismo in cui si perpetuava l’antitesi tra Cristoe Anticristo.343 In questa tarda stampa in francese, il Liber generationis Anti-christi appariva insieme con l’Imagine di Antechristo dell’Ochino, così comesessant’anni prima i due libelli erano stati associati dai lettori italiani e co-me poi erano stati associati in altre stampe dei decenni successivi. Allapiù nota, in lingua spagnola, di queste stampe unitarie dei due libelli è le-gata, come si sa, la sorte tragica cui nel 1560 andò incontro, a Siviglia,Julián Hernández, che da Ginevra ne aveva trasferito esemplari in Spagna.344

Tutte queste traduzioni e stampe del Liber generationis Antichristi, dellacui diffusione nell’arco d’un ottantennio abbiamo indicato soltanto alcu-ne tracce, rientrano negli intenti d’una propaganda che si richiamava di-rettamente, semplificandole, a elaborazioni teologiche la cui intransigen-za nell’identificare l’Anticristo con la Chiesa romana poteva spingersi si-no al limite del discrimine d’ortodossia.345 Julián Hernández e i suoi dotticonnazionali rifugiatisi a Ginevra (Juan Pérez, Cipriano de Valera) sape-vano che, trasferendo in Spagna quel libello, vi diffondevano la dottrinasulla Chiesa romana come incarnazione dell’Anticristo esposta da Calvi-

343 È descritta in EDUARD BOEHMER, Spanish Reformers cit., II, pp. 108-110. Alle altre tra-duzioni in francese del libello ivi descritte va aggiunta quella che correda una figurazione diGiulio III in sembianze diaboliche. Il testo del libello, posto in alto, è commentato dal restodelle scritte che contornano la figura. L’esemplare posseduto dalla Herzog August Bibliothekdi Wolfenbüttel è riprodotto in Die Sammlung der Herzog August Bibliothek in Wolfenbüttel.Kommentierte Ausgabe, Bd. 2, Historica, hg. von WOLFGANG HARMS, MICHAEL SCHILLING undANDREAS WANG, München, Kraus, 1980. Un cenno sulle traduzioni francesi del libello è inC. LENIENT, La satire en France, ou la littérature militante au XVe siècle. Nouvelle édition revue,corrigée et augmentée, Paris, Hachette, 1877, I, pp. 214-215.

344 Vedi JOHN E. LONGHURST, Julián Hernández Protestant Martyr, «Bibliothèque d’Huma-nisme et Renaissance», XXII, 1960, pp. 90-118; EUGÉNIE DROZ, Note sur les impressions gene-voises transportées par Hernández, ibid., pp. 119-132; A. GORDON KINDER, EDWARD M. WIL-SON, The Cambridge Copy of the «Imagen del Antechristo», «Transactions of Cambridge Biblio-graphical Society», VI, 1975, pp. 188-194.

345 A questo limite si spinse, nel 1603, il sinodo di Gap delle Chiese riformate di Fran-cia, inserendo nella confessione di fede un apposito articolo sull’equivalenza tra il papa el’Anticristo, escluso poi per intervento di Enrico IV ( JEAN AYMON, Tous les synodes nationauxdes Eglises Réformées de France, La Haye, Ch. Delo, 1710, I, pp. 303, 314, 319; cfr. PONTIEN

POLMAN, L’élément historique cit., pp. 175-176).

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no nell’Institutio.346 E i propagandisti francesi che in tutta la seconda metàdel secolo iterarono più volte la stampa della piccola silloge di libelli cheabbiamo ricordata, sapevano d’essere in linea con l’intransigenza con cui,ad esempio, nel loro sinodo nazionale di Lione dell’agosto 1563, le Chieseriformate di Francia condannarono il troppo moderato autore di Le miroirde l’Antéchrist.347 Insomma, un genere di scritti di propaganda che, stimo-lando riflessione rapida e reazioni emotive, mirava a radicare in larghi stratidell’opinione pubblica un’accezione dell’antitesi Cristo-Anticristo comesignificativa della contrapposizione tra Chiesa romana e mondo teologicoed ecclesiastico emerso dalla Riforma. Sennonché l’interesse storico diquesta sterminata letteratura non è dato soltanto dal suo riferimento tauto-logico a quella sorta di logica generale dell’antitesi Cristo-Anticristo: ciòche in essa è rilevante sono anche le realtà che di volta in volta si intendevainvestire del nome di Anticristo e denunciare come effetti della sua operadi corruzione. Da questo punto di vista, ci sembrano particolarmente si-gnificative due variazioni che il testo del Liber generationis Antichristi pre-senta nella storia della sua utilizzazione a scopo di propaganda.

Il Liber generationis Antichristi comparve, nel 1544, nel secondo deiPasquillorum tomi duo.348 Ma si tratta d’una redazione profondamente rima-neggiata: del testo che circolò in Italia nel 1541 e giunse, a data impreci-sata, alla mensa di Lutero, essa conserva poco più del titolo e lo schemagenealogico. La relazione fra i due testi è, comunque, evidente: la reda-zione accolta dal Curione è certamente un adattamento del libello a unobiettivo propagandistico più delimitato. Ma ciò che la contraddistingueè che in essa la sequenza genealogica è, pur senza perdere di efficacia,completamente spogliata dell’intreccio delle parallele decadenza dell’isti-tuzione e corruzione della dottrina, caratteristico della redazione che quisupponiamo originaria. Eccone il testo:

Liber generationis Antichristi filii Diaboli

Diabolus genuit papam.Papa vero genuit bullam.

346 CALVINO, Institutio, IV, II, 12, dove rimane sostanzialmente immutato il testo dell’e-dizione del 1541.

347 JEAN AYMON, Tous les synodes cit., I, pp. 36, 258-259.348 Pasquillorum tomi duo cit., II, pp. 407-408 (nel testo 307-308, per un errore nella nu-

merazione a decorrere da p. 200). Dall’antologia del Curione lo trascrisse il Cantù (Gli ereticid’Italia. Discorsi storici, Torino, Unione tipografico-editrice, II, 1866, pp. 214-215).

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Bulla vero genuit ceram.Cera vero genuit plumbum.Plumbum vero indulgentiam.Ea vero carenam.Carena vero genuit quadragenam, ex qua tandem orta fuit simonia,

ex eaque 349 fuit superstitio.Simonia vero genuit cardinalem et fratres eius in captivitate Babylo-

nica.Et post captivitatem Babylonicam cardinalis genuit curtisanum.Curtisanus episcopum papisticum.Episcopus vero genuit suffraganeum offitialem cum pedello, e quibus

prodita est pensio.Ex pensione orta sunt locare, conficere, permutare, vendere.Quae genuit oppressionem rustici.Oppressio vero rustici genuit invidiam.Invidia vero genuit tumultum rusticorum, in quo revelatus est filius

iniquitatis, qui vocatur Antichristus.

Come per la maggior parte dei materiali raccolti nei Pasquillorum tomiduo, anche in questo caso il Curione è editore, non autore: in una copiamanoscritta (probabilmente di mano di Girolamo Massari) che se neconserva in un informe zibaldone basileese di pasquinate edite e inedite,il libello presenta una quantità tale di varianti da farne una redazione de-rivata certamente da fonte diversa da quella del Curione.350 Insomma, illibello approdava nell’antologia del Curione come lontana testimonianzadelle emozioni che due decenni prima aveva suscitato la sollevazione deicontadini in Germania. Tuttavia non sappiamo se, diversamente che nel-la redazione data dal Curione e in quella finita nello zibaldone basileese,il testo originario fosse quello d’un libello in cui si esprimeva solidarietào avversione alla causa dei contadini: un semplice ritocco alle proposizio-ni finali avrebbe dato al libello il senso o d’un messaggio favorevole aicontadini (l’Anticristo si rivelò nella repressione della rivolta) o di con-danna della loro sollevazione (l’Anticristo si rivelò nella rivolta). In que-sto genere di scritti, metamorfosi e addirittura inversioni di significatonon sono eccezioni. Nelle due redazioni che se ne conoscono (o piutto-

349 La stampa ha «ex ea quae».350 Si conserva nel già cit. codice dell’Universitätsbibliothek di Basilea, O. lI. 49, c. 1r,

col titolo Cacologion Papae secundum Pasquillum Romanum. Liber generationis papae filii Diaboli,novi et veteris Testamenti.

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II - ANTICRISTO E CHIESA ROMANA

sto nelle due sole redazioni che io ne conosco) lo schema propagandisti-co è, comunque, ben chiaro: la rivolta dei contadini fu l’esplosione deirancori d’un mondo di oppressi, sul quale gravavano tutti i congegni dia-bolici d’una struttura ecclesiastica in cui l’intreccio di superstizione e diavidità aveva portato a un maneggio oppressivo della proprietà e dellericchezze. Il libellista non giustifica la sollevazione dei contadini, maneppure esprime una reazione di parte contro di essa. La ritiene la conse-guenza ultima d’un processo in cui Satana ha operato come progenitoredell’Anticristo; la rivolta dei contadini ne ha rivelato l’identità nel papa enell’oppressiva struttura ecclesiastica cui egli ha dato vita.

È possibile stabilire un rapporto tra la scelta di questa redazione dellibello da parte del Curione e altri aspetti del suo pensiero?

Sul problema del rapporto tra ribellione e repressione il Curione do-vette pronunciarsi nel 1546, nell’opera con cui si congedò da Losanna.Vi era stato indotto da una delle accuse che il segretario del Sadoleto,Antonio Fiordibello, aveva mosso alla predicazione dei riformatori nelsuo De auctoritate Ecclesiae, uscito dalle stampe di Lione nell’aprile dellostesso anno: la nascita e poi la repressione del movimento anabattista. Aparte la questione delle origini del movimento, sulla quale il Fiordibelloriprendeva accuse di Johannes Cochläus contro Lutero, sul problemadella repressione la risposta del Curione fu che, se principi e città eranointervenuti con le armi contro gli anabattisti, ciò era avvenuto perché es-si «contra omnes magistratus ubique seditiones suscitarant»; era stata,dunque, una repressione «non propter religionem», ma «propter seditio-nem», alla quale, del resto, cattolici ed evangelici avevano cooperato«magna cum laude et virtute».351 E fu risposta che valse al Curione le lodidi Bullinger.352 Ma concordia sulla condanna della sedizione non significa-

351 COELI SECUNDI CURIONIS Pro vera et antiqua Ecclesiae Christi autoritate in Antonium Flo-rebellum Mutinensem Oratio. In qua, lector, praeter insignes et reconditos Theologiae locos, compara-tionem reperies omnium fere veterum Haereticorum cum Papatu, ut iam nihil dubites eum multiplicemillam esse belluam quae in Apocalypsi descripta est, Basileae (Oporino, 1546), pp. 186-187. Fac-cio uso dell’esemplare della Raccolta Guicciardini 19-3-41.

352 COELI SECUNDI CURIONIS Epistolarum selectarum libri duo cit., p. 36, lettera di Bullingerdel 30 agosto 1547: «Utinam et alia quoque huiusmodi plura scribere tibi libeat». La rispostadi Bullinger aveva tardato circa otto mesi da quando Curione aveva chiesto un giudizio sul-l’Oratio contro il Fiordibello con lettera del 18 gennaio 1547 (Zurigo, Staatsarchiv, E. II.366, c. 83). Tra le successive lettere di insistenza del Curione è particolarmente interessantel’ultima, del 27 agosto, dalla quale risulta che il libro aveva suscitato perplessità di Butzer, diCalvino e di Viret (ibid., E. II. 346, c. 211). Sul problema degli anabattisti il Curione si alli-nea col pensiero di Bullinger: sulle origini del movimento ha presente Ad Ioannis Cochlei de

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va necessariamente concordia sulla condanna delle ragioni da cui la ribel-lione aveva tratto origine.

Nei Pasquillorum tomi duo, insieme con la redazione del Liber genera-tionis Antichristi che riconduceva alla natura satanica della struttura eccle-siastica l’origine dell’oppressione dei contadini e la tragedia della loro ri-volta, il Curione riprodusse anche tre lunghi ritmi, non sappiamo se equanto rimaneggiati da lui stesso.353 Forme e cadenze sono quelle tipichedel genere dei ritmi e cantari medioevali «de corrupto statu ecclesiae»,che, pochi anni dopo la pubblicazione dei Pasquillorum tomi duo, ebberouna fortunata ripresa per le stampe (comprese quelle basileesi) anche perl’immancabile impulso di Matthäus Flacius Illyricus.354 La loro presenza

canonicae Scripturae et catholicae ecclesiae authoritate libellum Heinrychi Bullingeri orthodoxa responsio,Tiguri, apud Froschoverum, 1544, p. 55; sulla repressione segue Adversus omnia Catabaptista-rum prava dogmata Heinrychi Bullingeri libri IV, Tiguri, apud Christophorum Froschoverum,1535, in part. pp. 151v-152v. Concordava con Bullinger anche sul rapporto tra eresia e sedi-zione (ibid., p. 24v: «Haereticum quum dico, non eum intelligo, quem vulgus indoctumconcipit, sed sectarum authorem, qui ecclesiam scindit, qui falsa et erronea doctrina pertina-citer pergit unitatem ecclesiae infringere et turbare»), così come il punto di vista del Curioneche la chiesa «non excludit simulatores aut impuros qui soli Deo noti sunt, modo sanae doc-trinae non contradicant quieteque vitam degant» (Pro vera et antiqua Ecclesiae Christi autoritatecit., p. 16) trovava rispondenza nelle affermazioni di Bullinger «... quod solus Deus cor in-tuetur et quod nos externa confessione contenti esse debemus» (Adversus ... Catabaptistarumdogmata cit., p. 56r e il relativo contesto, dove a negare la liceità del simulare è l’anabattistaSimone, uno dei due interlocutori del dialogo).

353 Pasquillorum tomi duo cit., I, pp. 99-123. Si tratta di tre ritmi, il primo dei quali (Que-rela de fide) è dato come recentemente scoperto in Germania («nuper in Germania repertus»),gli altri due (Ecclesiae et symoniae colloquium e De corruptione omnium statuum et imminente mundiinteritu) come «nuper in Helvetiis ex vetustissimo codice descripti». Visibilmente, Curioneattribuisce ai tre ritmi un significato generale unitario. La copia della Querela de fide che tro-vo in un codice di Rotterdam, Bibliotheek der Gemeente, Remonstrantisch-Gereformeerde Ge-meente, ms. 532, cc. non num., ma 12r-16r, è una tarda e perciò significativa trascrizionedalla stampa del Curione.

354 La prima delle tre raccolte del Flacius a me note è del 1548: Carmina vetusta ante tre-centos annos scripta, quae deplorant inscitiam evangelii, Vitebergae. Seguirono: Pia quaedam et ve-tustissima poemata, partim Antichristum eiusque spirituales filiolos insectantia partim etiam Christumeiusque beneficium mira spiritus alacritate celebrantia. Cum praelatione Matth. F. Illyrici, Magdebur-gae, per Michaelem Lottherum, 1552; Varia doctorum piorumque virorum de corrupto ecclesiae sta-tu poemata, Basileae, per L. Lucium, 1557. I presupposti e gli intenti del Curione e del Fla-cius (e di altri come il Flacius: Wyssenburg, Kirchmeyer ecc.) erano diversi. Anche al Cu-rione non fu estranea l’intenzione di documentare una tradizione non recente di denunciadel costume romano: ma soltanto questo e non di più, cioè non il ben diverso intento delFlacius di attingere anche da quella letteratura probanti «testes veritatis». Il Flacius scrivevanella dedica al cancelliere di Amburgo Johannes Ritzenberg dei Pia quaedam et vetustissimapoemata cit., pp. A2v-A3r: «Nec enim unum, hoc solummodo scriptum ante haec, vel degratuita iusticia vel de Antichristi tyrannide compositum extat, sed multa quae partim non-

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nella raccolta del Curione appare tanto più interessante in quanto due al-meno (i più ampi) dei tre ritmi risultano, per tono e per collocazione,anomali rispetto al resto dell’opera. Sono collocati a conclusione del pri-mo tomo, cioè a conclusione della parte in versi dell’opera, nella qualesono adunati componimenti dal tono derisorio proprio del pasquillo ro-mano. Ma con tutto quel fantasioso arsenale del dileggio antiromano cheli precede quei ritmi hanno poco o niente in comune. Insolitamente, inuna breve avvertenza al lettore, il Curione ne esplicita l’attualità del mes-saggio: lamento «pii et spiritualis cuiuspiam parochi» d’altra età, la Quere-la de fide testimonia che in ogni tempo («etiam ante nos»), ogni volta cheSatana, la bestia dell’Apocalisse, ha spinto la chiesa nella solitudine deldeserto, vi furono uomini santi e pii che, nell’impossibilità di renderepubblici i loro sentimenti e il loro pensiero, dai loro nascondigli espres-sero il loro turbamento e attesero con impazienza «visitationis diem».355

Nei tre ritmi, il tema della decadenza («Omnia ruunt ad occasum»),dell’attesa della venuta dell’Anticristo («Antichristum iam invitat / homi-num malicia») e dell’imminenza della fine dei tempi («Breve tempus ha-bet mundus, / instat dies Domini») si articola in una rappresentazionegrandiosa di tutti i mali della società cristiana. La Querela de fide è lamen-to che dappertutto la fede è stata sostituita dall’inganno («Vel in plebe velin clero, / vel in claustro vel in foro / ubi fides sit ignoro. / [...] pro eadolus / triumphat per orbem solus»).356 Il Curione sa che qui il terminefede non è quello della controversia sul rapporto fede-opere aperta daLutero. Ma, pur professandosi – particolarmente negli scritti di queglianni: lo abbiamo già visto a proposito del Pasquino in estasi – tra i sosteni-tori più convinti dell’assoluto primato della giustificazione per fede, il

dum impressa, quorum ego ipse non pauca vidi, partim etiam impressa inveniuntur. Falsissi-mum igitur est quod adversarii verae religionis queruntur nostros doctores novam quandamdoctrinam attulisse eosque primos de tyrannide Antichristi et corrupta religione queri ausosesse». Già negli anni del soggiorno a Losanna il Curione cercava, invece, altrove i «testes ve-ritatis» della sua visione d’un cristianesimo profondamente rinnovato. Non era tra gli intentivolutamente riduttivi della destinazione dei Pasquillorum tomi duo la dichiarazione del Curio-ne di assegnare alla sua raccolta una specie di funzione pedagogica, che si esplica mediante itoni ora leggeri ora feroci della satira («Facilius multo invenias qui se a scurra aut circulatorealiquo petulanter proscindi patiatur quam qui a viro prudenti ac gravi de rebus suis serio ad-moneri sustineat»: ibid., p. *4r). Volutamente riduttivo era, invece, quanto il Curione scri-veva a conclusione della prefazione: «... neque praedicationi nostra hac opera nostroque la-bore subservire propositum fuit. Id quod hoc prologo contestatum esse volumus» (ibid.,p. *5v).

355 Pasquillorum tomi duo cit., I, pp. 99-100.356 Ibid., p. 100.

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Curione certamente non operò ritocchi tali da aggiornare l’impiantoconcettuale del ritmo medioevale. In esso il Curione trovava un concet-to di fede molto vicino a quello di «sincero honor di Dio», vicino aquella norma morale pervasiva di tutta la pratica di vita del cristiano che,già in trattatelli pedagogici anteriori all’esilio, aveva esteso all’osservanzadei «precetti et officii alla vita comune utili et necessarii et honesti».357 In-somma, una nozione di fede equivalente a quella di rettitudine cristiana.La Querela de fide era la rappresentazione dell’universale smarrimento diquesta rettitudine.

Com’è caratteristico del genere di ritmi «de corrupto statu ecclesiae»,questa rappresentazione si apre con una descrizione delle forme di ingan-no proprie del mondo ecclesiastico. Ma già nella Querela de fide la descri-zione ne estende il predominio a tutti gli aspetti della società. L’altro rit-mo, De corruptione omnium statuum et imminente mundi interitu, compone,poi, un quadro complessivo di tutte le manifestazioni della vita associatache denotano assenza di rettitudine ispirata dalla fede. Il lamento del«pius et spiritualis parochus» (e il Curione che lo fa proprio) non fa di-stinzioni di responsabilità tra mondo ecclesiastico e mondo secolare.L’assenza di fede e di rettitudine ha alterato entrambi questi stati: «Iamnec populus nec clerus / est in suo statu verus».358 Leggi, provvedimenti ecomportamenti di papi e re, principi e prelati, nobili e cittadini, monacie mercanti sono ispirati da ipocrisia, caratterizzati dalla pratica dell’ingan-

357 Della honesta et christiana creanza de figliuoli, in Una familiare et fraterna institutione dellaChristiana religione, di M. Celio Secondo Curione, più copiosa et più chiara che la latina del medesi-mo, con certe altre cose pie, in Basilea (Oporino?, 1550), pp. G6r-H2r-v. Si tratta, com’è noto,di una lettera-trattato diretta a Fulvio Pellegrino Morato, datata Lucca, 10 giugno 1542. Il1550 come data di pubblicazione è certo, come risulta dalla dedica di Della honesta et christia-na creanza a Giulio Tiene. Faccio uso dell’esemplare della Raccolta Guicciatdini, 2-4-10. Siveda con quanto acume Delio Cantimori (Eretici italiani cit., pp. 104-106) ha identificato ciòche in questo scritto v’è di insolito rispetto ai moduli correnti della pedagogia umanistica (aparte l’accostamento all’anabattismo, un concetto che il Cantimori usava, allora, in senso la-tissimo, com’è noto). Tuttavia, per la plausibilità dell’uso che dello stesso scritto si farà qui,occorre avvertire che il Cantimori (ibid., p. 105, nota 1) indicò, forse per un errore negli ap-punti, un’inesistente edizione in volgare dello scritto uscita a Basilea nel 1545. In realtà, nel-le almeno due edizioni di esso in latino, a cominciare da quella del 1544 nel rifacimento del-l’Araneus, manca proprio la parte più vigorosamente critica analizzata dal Cantimori. Impos-sibile dire – per quante ricerche io abbia fatte nei carteggi del tempo – se quella parte fossegià nell’originale inviato al Morato o fosse un’aggiunta del 1550. Propendo per la prima ipo-tesi.

358 Pasquillorum tomi duo cit., I, pp. 108-109.

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no. Preoccupati soltanto di possedere («Nihil curant quam habere»),359 iprelati con l’inganno accumulano ricchezze e potenza («Nam per dolumpraebendantur / et potenter dominantur») 360 e trafficano i beni dellaChiesa («Sic Christi bona vendunt») 361 in base alla norma mercenaria «damihi nunc, dabo tibi».362 Insomma, il «locare, conficere, permutare, ven-dere» della redazione del Liber generationis Antichristi preferita dal Curione.Il ritmo in dialogo tra chiesa e simonia aggiunge: «Si gratis praestas, quidte iuvat ista potestas?».363 Questa collusione di interessi mercenari («Sic adinvicem colludunt») 364 fa degli ecclesiastici gli attori di un groviglio dicontrattazioni e di azioni legali, dei canonici fa i frequentatori più del tri-bunale che del coro.365 La stessa collusione induce gli ordini mendicanti amodellare l’apparecchiatura dei loro discorsi allo scopo di compiacere iricchi («Per verborum apparatum / aures penetrant magnatum»).366 Il pre-dominio dell’inganno non è da meno nel mondo secolare. Qui l’ingannoè divenuto il vero interprete delle leggi («Dolus glossat iura, leges»).367 Intutto il «genus nobilium» non c’è chi anteponga la giustizia agli interessidi chi offre compensi («Ad mensuram nummi fiunt / omnia iudicia»).368 Ese i nobili usano la violenza, altri opprimono con l’usura; e la pratica del-la mercatura è divenuta pratica della truffa e dello spergiuro. L’avidità e laviolenza spingono ad appropriarsi di ciò che è d’altri; una cupidigia rapa-ce stravolge l’ordine del mondo, «mores turbat, scindit fratres / sacras le-ges temerat».369 Quelli che rappresentano la feccia della società («versipel-lis, fraudolentus, / adulator callidus») riescono ad appropriarsi della partemigliore dei beni altrui,370 e ottengono col danaro tutto ciò per cui nonpossono riporre speranza in Dio («Quod in Deo non disponunt / pernummum hoc faciunt»).371 E così via.

359 Ibid., p. 102.360 Ibid., p. 101.361 Ibid., p. 102.362 Ibid., p. 101.363 Ibid., p. 113.364 Ibid., p. 101.365 Ibid., p. 103.366 Ibid., p. 105.367 Ibid., p. 101.368 Ibid., p. 117.369 Ibid., p. 116.370 Ibid.371 Ibid., p. 118.

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Presupposto (per il Curione non meno che per l’ignoto autore deiritmi) di un’attesa di rigenerazione, questa rappresentazione insiste sullageneralità, sull’universalità della decadenza (un’attesa di rigenerazione ètanto più plausibile quanto più la decadenza e la corruzione sono descrit-te e percepite come pervasive dell’intero corpo sociale). Eppure, in que-sta rappresentazione d’una società universalmente corrotta non ci sonosoltanto ingannatori: c’è anche l’individuazione d’uno strato sociale cheporta il peso di questa generale assenza di rettitudine e di fede. Almenocosì è nella redazione dei ritmi pubblicata dal Curione. È tutto l’ampiostrato sociale degli «idiotae», dei «simplices» e dei «pauperes», che diecianni dopo Castellione identificherà con l’«ecclesia spiritualis» contrappo-sta all’«ecclesia carnalis».372 È un mondo che, estraneo alle collusioni mer-cenarie di prelati e monaci, di nobili e giudici, di usurai e mercanti, «estabiectus et vilescit / et vocatur idiota, / non est dignus una iota».373 I rit-mi insistono di preferenza sulla debolezza dei «simplices», degli «idiotae»,dei «pauperees» di fronte ai soprusi nell’amministrazione della giustizia esull’assenza di carità nei ricchi: e su questi due punti le connessioni colpensiero del Curione vanno molto al di là di motivazioni generiche chepotrebbero averlo spinto a riprodurli nei Pasquillorum tomi duo. In una so-cietà in cui «dolus glossat iura, leges», i disonesti con successo reclamanosempre per sé le ragioni del diritto.374 La scomparsa di giudici giusti(«Nullus nostra tempestate / iustus iudex cernitur») 375 e le sentenze ema-nate «ad mensuram nummi» rendono vano il ricorso dei poveri ai tribu-nali: «Frustra stat ante tribunal / pauperum simplicitas».376 Il ritmo prose-gue in un’invettiva feroce contro tutte le distorsioni della funzione socia-le della giustizia: i giudici chiedono «in occulto» compensi ai semplici,alternando blandizie e minacce; se privo di danaro, il povero «facti reusdicitur»; l’innocente è sempre condannato, il reo sempre assolto; sempreassolto «plena cui crumena pendet»; 377 e così via. Sono aspetti d’un mon-

372 SÉBASTIEN CASTELLION, De l’impunité des hérétiques. De haereticis non puniendis. Texte la-tin inédit publié par BRUNO BECKER. Texte français inédit publié par MARIUS VALKHOFF, Ge-nève, Droz, 1971, pp. 164-165 («Duarum ecclesiarum pugna»). Ma vedi soprattutto DELIO

CANTIMORI, Note su alcuni aspetti del misticismo del Castellione e della sua fortuna, in Autour deMichel Servet et de Sébastien Castellion. Recueil publié sous la direction de BRUNO BECKER,Haarlem, H. D. Tjeenk Willink en Zoon, 1953, pp. 239-243, in part. pp. 240-241.

373 Pasquillorum tomi duo cit., I, p. 101.374 Ibid., p. 117.375 Ibid.376 Ibid.377 Ibid., p. 118.

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do in cui la ricchezza domina su tutto e deride i miseri («Sic est nummusimperator / sic deridet miseros»).378

Non c’era accordo, su questa rappresentazione della giustizia e sulletensioni sociali che essa presupponeva, tra il Curione e gli ambienti teo-logici con i quali egli era in relazione. Non c’era accordo neppure con laChiesa di Zurigo, ai cui teologi pure il Curione si rivolse sempre, fin da-gli anni del suo soggiorno a Losanna, con la certezza di trovarvi consen-si.379 Era un disaccordo tanto più rischioso – e perciò, come vedremo,tanto più dissimulato dal Curione – in quanto poteva implicare dissensosulla polemica contro gli anabattisti e le loro rivendicazioni sociali. Nel1535, l’anno della caduta di Münster, Leo Jud aveva curato una messa apunto definitiva in latino di un’opera contro gli anabattisti che Bullingeraveva pubblicato, in tedesco, quattro anni prima.380 In questa specie disumma antianabattistica della Chiesa di Zurigo, su imposte, censi, servitù,decime, tributi, tutto veniva ricondotto sotto l’egida della legge, con unaforte riprovazione, non solo d’ogni moto di rivolta, ma con la negazionedi principio delle ragioni d’ogni rivolta: quanti deducono dalle Scritturel’abolizione delle decime – scriveva Bullinger – sono uomini amanti del-la loquacità e del vaniloquio («loquaculos illos et vaniloquos»), che spac-

378 Ibid.379 Una testimonianza, rara sulle tensioni che caratterizzarono i rapporti del Curione

con l’ortodossia calvinista durante il soggiorno a Losanna e insieme significativa della fiduciacon cui poteva aprirsi con i teologi zurighesi, è la sua lettera a Bullinger del 27 agosto 1547portata a Zurigo da Pietro Perna: «De oratione mea contra Florebellum, si totam vacabit le-gere, oro ut ecquid te offenderit in ea significare velis. Nam locus de Christi corpore Buce-rum offendit nonnihil, ut ex literis Petri Martyris Florentini accepi, quas literas Petrus hicnoster, qui ad vos venit, vidit et legit. Sed ego quid Bucerus de meis scriptis sentiat, modosanioribus vere probentur, non valde moror. Neque enim me cum Calvino et Vireto voloconiungere in ea quaestione, quos audio Argentorati Bucero subscripsisse, etiamsi domi ali-ter sapere videantur» (Zurigo, Staatsarchiv, E. II. 346, c. 211).

380 Von dem unverschämten Frevel der Wiedertäufer ... Durch Heinrychen Bullinger geschriben,getruckt zü Zürich by Christoffel Froschover, 1531 (cfr. Heinrich Bullinger, Bibliographie cit.,I, n. 28, pp. 18-19). Fu più letto nel rimaneggiamento che ne fece Leo Jud nella sua tradu-zione in latino del 1535, dalla quale qui si cita: Adversus omnia Catabaptistarum prava dogmataHeinryci Bullingeri libri IIII, per Leonem Iudam aucti adeo ut priorem aeditionem vix agnoscas, Tigu-ri, apud Christophorum Froschoverum, 1535 (cfr. Heinrich Bullinger, Bibliographie cit., I, n.29, p. 19). Sul rapporto fra le due edizioni vedi HEINOLD FAST, Bullinger und die Täufer. EinBeitrag zur Historiographie und Theologie im 16. Jahrhundert, Weirhof (Pfalz), MennonitischerGeschichtsverein, 1959, pp. 77-79. È in forma di dialogo, con ampia utilizzazione della li-bellistica anabattista, esposta da Simone, l’interlocutore anabattista. Per le implicazioni socialidelle dottrine anabattiste sono importanti i due trattatelli in appendice: Tractatulus de reditibuscontra perplexos et tumultuosos Catabaptistas (pp. 163r-191r) e Libellus de discrimine decimarum(pp. 191r-197r).

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ciano ai semplici i principi d’una falsa scienza; questi irresponsabili aman-ti delle parole più che delle cose «seipsos seducunt et simul furari plebemdocent»; non s’avvedono che, se le Scritture tacciono su tributi, decime ecensi, essi rientrano «sub titulo debitorum», la cui estinzione è di dirittodivino.381 A questa stretta connessione tra legge umana e divina faceva ri-ferimento anche la confutazione della ben più radicale dottrina degli ana-battisti sulla comunanza dei beni. Non se ne negava l’implicito principiodi carità; si negava, invece, che vi potesse essere pratica della carità senzaosservanza della legge, perché la carità è sempre il fine della legge e vice-versa, come sillogizzava il Bullinger: «Nihil ergo in se habere potest cha-ritas quod legi adversetur. Communicatio bonorum legi adversatur; ergoin charitate non est comprehensa».382 Uno dei corollari generali di questosillogismo era che l’aspirazione a un mondo tutto carità avrebbe portatoall’estinzione dei ricchi, i soli in grado di esercitare la carità: «Nihil ergomoror quid hic blaterent hypocritae, quum divites plurimum prodesse etbeneficare possint pauperibus, quae occasio deest his qui divites nonsunt».383 Ma tra la dottrina degli anabattisti sulla comunanza dei beni e ilsillogismo di Bullinger continuava ad esserci la realtà. Ad essa, a dieci an-ni dalla pubblicazione del libro di Bullinger, invitavano a guardare i ritmiriprodotti dal Curione nei Pasquillorum tomi duo.

Critica e rifiuto di questa automatica deduzione della pratica dellacarità dall’osservanza della legge, cioè da adesione alla struttura sociale vi-gente, sono forse meno rari di quanto sembra negli scritti di osservatoridella realtà del tempo, critici delle ridefinizioni dei principi etico-socialielaborate dai teologi delle nuove chiese. Nel 1555, Sebastiano Castellio-ne, nel difendere, da una dichiarata posizione di estraneità al loro movi-mento, gli anabattisti da quelle che egli chiamava vere e proprie calunniedi Bèze, non tenne alcun conto del vincolo tra carità e legge, e annotòche non c’era da meravigliarsi che uomini privi di carità aborrissero eperseguitassero quanti intendevano attuare la comunanza dei beni prati-cata dai primi cristiani.384 Che era quanto dire: voi vincolate la carità al-

381 Adversos omnia Catabaptistarum prava dogmata cit., pp. 191v-192r.382 Ibid., p. 77v.383 Ibid., p. 22r-v.384 SÉBASTIEN CASTELLION, De l’impunité des hérétiques cit., pp. 134-135: «Quod si forte

volunt [Anabaptistae] imitari Christianos, qui (ut habetur in Actis) habebant omnia commu-nia, non est mirum si vobis displicent, qui ab illa charitate et abhorreatis et absitis longissi-me». Uno studio sul pensiero di Castellione sugli anabattisti sarebbe di notevole interesse.Nella stessa opera, la severa condanna di Bèze per aver calunniato gli anabattisti (ibid., p. 33;

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l’ossequio alla legge che sancisce il diritto di possedere, ma poi non avetela carità («... ab illa charitate et abhorreatis et absitis longissime»). Nonsappiamo se il Curione aderisse anche a questa presa di posizione criticadel Castellione sui presupposti della persecuzione degli anabattisti.385 Ma,alla data in cui Castellione muoveva una simile obiezione a Bèze, già daanni Curione aveva elaborato, sulla collocazione sociale dei «simplices»,degli «idiotae», dei «pauperes», principi ben più radicalmente alternativitanto rispetto alla tragica rappresentazione dei ritmi medioevali riprodottinei Pasquillorum tomi duo, quanto rispetto ai presupposti giuridici e socialidella summa antianabattistica della Chiesa di Zurigo. Aveva scritto che iprincipi correnti dell’etica sociale dettati da Cicerone nel De officiis nonerano fondati su «la natura delle cose et la ragione»: Cicerone aveva «se-guito l’openione et persuasione de nobili et ricchi» nel giudicare «sordideet poco honeste» tutte le occupazioni manuali, tutte le «arti mechaniche»così «utili et honorevoli alla vita comune», quali sono quelle «de’ fabri diogni maniera, de’ calzolai, de’ tessitori, de’ sarti, de’ agricoltori et altri si-mili».386 Natura e ragione invocate dal Curione come alternative all’opi-nione di Cicerone erano principi fondati sull’autorità del Testamento. Ilcomandamento di Dio ad Adamo di guadagnarsi il pane col sudore dellafronte non è «abrogato o diminuito»; anzi, in conseguenza del peccato,esso è «stabilito et accresciuto».387 S. Paolo, amante del lavoro manualecome Aquila e Priscilla, insegna che soltanto chi lavora ha diritto al so-stentamento, può «vivere giustamente».388 L’obbligo della carità imponeche mediante «l’artificio et industria» del lavoro manuale si giunga a di-

cfr. più avanti, pp. 505-506) risulta argomentata in base alla dichiarata conoscenza dei loroscritti (ibid., p. 32). Degli anabattisti di Münster («Monasterienses Anabaptistae») come deicontadini in rivolta («rustici illi Germani») il Castellione respinge la presunzione di compiereuna missione divina (ibid., p. 23). Nel Contra libellum Calvini include gli anabattisti fra i papi-sti, i valdesi, i luterani, gli zwingliani e gli schwenckfeldiani, e aggiunge: «Harum sectarumdico nullam esse quae debeat per se impia vocari» (Contra libellum Calvini, in quo ostendere co-natur haereticos iure gladii coercendos esse, Anno Domini MDLCXII (sic), s.l. [in realtà Gouda,1612], p. Kijr). Il 25 novembre del 1562 suggerì a Nikolaus Blesdijk, il vecchio seguace diDavid Joris ora divenuto pastore nel Palatinato, di dedicarsi a correggere gli errori e i peccatidei principi piuttosto che a confutare, per loro conto, gli errori degli anabattisti (ibid., p.Oiir-v).

385 Non è un quesito ozioso: lo stesso Castellione (De l’impunité des hérétiques cit., p. 19)informa d’essersi consultato con gli amici sull’opportunità e sul tenore della risposta da dareal De haereticis puniendis di Bèze.

386 Della honesta et christiana creanza de figliuoli cit., p. H 18v.387 Ibid., p. Ir-v.388 Ibid., p. I2r-v.

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sporre di che sovvenire i poveri e gli infermi.389 In queste severe deduzio-ni dalla natura e dalla ragione il Curione escludeva o quanto meno igno-rava una provenienza del superfluo (l’evangelico «quod superest datepauperibus») da fonte diversa dall’osservanza del comandamento impostoad Adamo. Ciò che va rilevato è che del carattere radicale di questi prin-cipi, o del carattere radicale che una loro riproposta assumeva in situazio-ne mutata, il Curione fu consapevole. Lo dimostrano le autocensure e leaccorte variazioni del testo nelle tre edizioni che dello scritto diede allestampe a Basilea tra il 1544 e il 1555. Se l’edizione intermedia, in volga-re, del 1550 – la sola, come si è già avvertito,390 in cui compare l’esposi-zione di quei principi – dà (come io congetturo) il contenuto integraledello scritto originario anteriore all’esilio (Lucca, 10 giugno 1542), in es-so, e nell’atmosfera intellettuale in cui lo scritto era stato composto, queiprincipi potevano essere intesi soltanto come un approfondimento deltema umanistico della dignità dell’uomo e come una sia pure audaceestensione di essa al mondo e all’esercizio delle arti. Un diverso effetto,reazioni diverse avrebbe avuto una trasposizione di quei principi in unmondo nel quale era tutt’altro che scomparso il ricordo della guerra deicontadini e tutt’altro che sopita la polemica contro le rivendicazioni so-ciali degli anabattisti. Così, nelle due edizioni in latino (cioè nella linguadella sempre problematica comunicazione con teologi e dotti) il Curionelasciò cadere tutta la parte più vigorosamente critica della lettera-trattatoall’amico ferrarese: cadde la critica al giudizio di Cicerone come riflessodell’ideologia dei nobili e dei ricchi; cadde l’alternativo riferimento allanatura e alla ragione; e scomparve persino ogni accenno ad arti e artieri.Rimasero – anch’essi in contesti notevolmente attenuati – il riferimentoal comandamento imposto ad Adamo e il connesso richiamo a s. Paolo.391

Ma in un testo così radicalmente rimaneggiato quei richiami assumevano

389 Ibid., p. I1v.390 Vedi sopra, nota 357.391 La critica di Cicerone e il seguito del paragrafo sono omessi nel paragrafo corrispon-

dente della redazione in latino data in COELII SECUNDI CURIONIS Araneus, seu de ProvidentiaDei, libellus vere aureus, cum aliis nonnullis eiusdem opusculis, lectu dignissimis, nuncque primum inlucem editis, Basileae, ex officina Ioannis Oporini, 1544, pp. 149-150, e in COELII SECUNDI

CURIONIS Schola, sive de perfecto grammatico libri tres. Eiusdem de liberis honeste et pie educandis li-bellus, Basileae, per Ioannem Oporinum, 1555, pp. 239-240. Per il resto, oltre ai ritocchivolti a eliminare ogni riferimento alle «arti mechaniche», è significativa soprattutto l’omissio-ne del periodo: «Pertanto non vi sia alcuno che si presuma senza lavorar puoter vivere giu-stamente: se alcuno fra voi (dice Paulo) non lavora, che esso non mangi» (Della honesta etchristiana creanza cit., p. I2v).

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II - ANTICRISTO E CHIESA ROMANA

il significato di esortazioni genericamente morali: ciò che era scomparsoera il problema stesso della fascia sociale per la quale il Curione avevaelaborato i principi essenziali di una sua funzione civile e religiosa. Nel1544 era stato, dunque, meno rischioso riprodurre nei Pasquillorum tomiduo una redazione del Liber generationis Antichristi che, lasciando ambigua-mente sospeso il giudizio sulla guerra dei contadini, dislocava tutta la re-sponsabilità della tragedia della loro sollevazione sui meccanismi satanicidella struttura ecclesiastica e sui modi in cui essi avevano finito col con-formare l’uso e il maneggio della proprietà e della ricchezza. Ed era statomeno rischioso anche dare una rappresentazione della realtà del tempomediante l’allusiva riproduzione di tipici ritmi medioevali sull’autunno ela vecchiezza del mondo, carichi di elementi sulla tragica situazione degli«idiotae» (o in questo senso interpolati dal Curione). Ciò che caratterizzala presenza dei ritmi e del libello in tutto quell’armamentario della deri-sione pasquillesca che è il primo dei Pasquillorum tomi duo è che essi testi-moniano la tendenza del Curione a guardare ora, al di là del dileggiatoidolo della sua polemica antiromana, a un orizzonte più vasto. E l’avver-tenza al lettore sulla predicazione clandestina e sulle attese di rigenerazio-ne del «pius et spiritualis parochus» autore della Querela de fide lascia tra-sparire le preoccupazioni escatologiche e le attese di rigenerazione chehanno tanta importanza nella parte più coperta della meditazione religio-sa del Curione negli anni del soggiorno a Losanna.392

392 Evidentemente, il riferimento è al De amplitudine beati regni Dei e alla parte notevoleche hanno in esso escogitazioni escatologiche sulla venuta dell’Anticristo e sulla fine deitempi e le attese di rigenerazione (COELII SECUNDI CURIONIS De amplitudine beati regni Dei dia-logi sive libri duo, s.l. né stampatore, 1554, pp. 36 sgg.; cfr. DELIO CANTIMORI, Eretici italianicit., pp. 187-188). L’opera, com’è noto, era già compiuta il 6 dicembre del 1545, quando ilCurione ne annunciò a Martin Borrhaus l’invio d’una copia «ut, dum adhuc in integro suntomnia, ea cogites et pro tua singulari sapientia statuas, deinde etiam quod de editione qualeputes doctorum et vulgi iudicium fore, ad me libere pleneque rescribas» (COELII SECUNDI

CURIONIS Selectarum epistolarum libri cit., p. 42). Sulla fisionomia di questa stesura dell’operaannunciata e poi realmente inviata al Borrhaus, rispetto al testo messo a stampa nel 1554, sipuò dire, a tutt’oggi, ancora meno che sulle circostanze e sulle ragioni precise che spinsero ilCurione a scriverla. Per le questioni che interessano qui, è impossibile dire quanto postoavessero, già nella stesura losannese, le escogitazioni escatologiche. Ma mi sembra evidenteche l’attualità che il Curione attribuiva ai ritmi riprodotti nei Pasquillorum tomi duo è in rela-zione con quanto si leggerà, dieci anni dopo, nella stampa del De amplitudine, p. 36: «Quodautem vir divinus aliquis et magnus a Deo mittendus sit, qui religionem iam extinctam Ec-clesiamque prope collapsam excitet et instauret, non a Dei more alienum esse videtur. Soletenim Pater ille maximus, cum omnia desperata fere videntur, Eliam aliquem excitare ...».Per possibili dipendenze dal pensiero di Borrhaus, cioè dal suo De operibus Dei, vedi da ulti-mo ARNO SEIFERT, Reformation und Chiliasmus. Die Rolle des Martin Cellarius-Borrhaus, «Ar-

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Com’è noto, in un breve scritto del 1550 il Curione abbandonò, an-zi criticò la designazione della Chiesa romana come unica realtà in cuiidentificare l’Anticristo: il papato non è solo in Italia; dovunque vi sonouomini che, in quanto fatti tutti d’argilla e di fango, sono mossi sempredalle stesse cupidigie, «ibi Satanam, ibi Antichristum, ibi papatum essedubitari non debet».393 Il punto di vista non era nuovo. Già da decenni,nel mondo settario europeo l’antitesi Cristo-Anticristo veniva usata perdesignare un genere diverso di contrapposizione. Meno genericamentedel Curione, ma nello stesso senso s’erano espressi vent’anni prima Seba-stian Franck e venticinque anni prima Otto Brunfels.394 Le affermazionidel Curione non suscitarono allora reazioni, anche se si trattava di unascoperta contestazione della perentorietà con cui Calvino designava laChiesa romana come unica possibile personificazione dell’Anticristo.Reazioni suscitò, invece, una ripresa del punto di vista del Curione daparte del genero di quest’ultimo, Girolamo Zanchi. Anche su questopunto l’insegnamento dello Zanchi a Strasburgo impressionò profonda-mente: sostenne senza remore che vaneggiavano quanti asserivano chel’Anticristo fosse da identificare soltanto col regno e la persona del papa eche degli «Antichristi multi» di cui si parla nella prima lettera di Giovan-ni (II, 18) non ve ne fossero o potessero esservene «in veris etiam eccle-siis».395 Nella celebre disputa che più tardi (a partire dal febbraio 1561) vi-

chiv für Reformationsgeschichte», LXXVII, 1986, pp. 226-263, in part. pp. 251 sgg. Ma sututte queste questioni rimando alle ampie parti illustrative della mia edizione del De amplitu-dine, nelle quali tenterò di riportare l’opera alle origini e agli sviluppi del pensiero religiosoitaliano degli anni Quaranta e seguirò la fortuna e l’influenza che essa esercitò nel pensieroreligioso europeo (in particolare in Olanda, prima e dopo l’edizione di Gouda del 1614).

393 DELIO CANTIMORI, Spigolature per la storia del nicodemismo italiano, in Ginevra e l’Italia.Raccolta di studi promossa dalla Facoltà Valdese di Teologia di Roma, a cura di DELIO CAN-TIMORI, LUIGI FIRPO, GIORGIO SPINI, FRANCO VENTURI, VALDO VINAY, Firenze, Sansoni, 1959,p. 187; IDEM, Prospettive di storia ereticale italiana del Cinquecento, Bari, Laterza, 1960, pp. 41-42.

394 CARLO GINZBURG, Il nicodemismo cit., pp. 98-99, 129.395 «Dico illos hallucinari, qui ita restringunt nomen Antichristi ad regnum et personam

Papae, ut extra illius regnum non sit regnum Antichristi, et extra eius personam non sint etesse possint, idque in veris etiam Ecclesiis, Antichristi», come si legge in una delle tarde testi-monianze dello stesso Zanchi sulla sua controversia con i teologi di Strasburgo (HIERONYMI

ZANCHII Opera theologica, Genève, Crispinus VII/I, 1619, col. 250). Sulla stessa controversiavedi JAMES M. KITTELSON, Marbach versus Zanchi. The Resolution of Controversy in Late Reforma-tion Strasbourg, «The Sixteenth Century Journal», VIII, 1977, pp. 31-44, il solo che confron-ta la documentazione conservata a Strasburgo con quella pubblicata dallo Zanchi (Operatheologica cit., VII/I, pp. 207-434). Sull’esordio dell’insegnamento dello Zanchi a Strasburgoe sulla sua concezione dell’Anticristo vedi GIULIO ORAZIO BRAVI, Girolamo Zanchi da Lucca aStrasburgo, «Archivio storico bergamasco», I, 1981, pp. 35-64, in part. pp. 54 sgg.

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de il capo della Chiesa di Strasburgo, il luterano intransigente IohannesMarbach, contrapporsi violentemente allo Zanchi, la gravità di queste af-fermazioni passò in second’ordine.396 Ma non passò inosservata neppurenegli ambienti teologici più favorevoli allo Zanchi. È significativo chedalle testimonianze di consenso che cinquant’anni dopo pubblicò in unaricostruzione alquanto personale della disputa, lo Zanchi omettesse, adesempio, una delle tante lettere giuntegli da Zurigo, attribuibile con cer-tezza a Johannes Wolf.397 Vi si esprimeva consenso su tutte le tesi contro-verse che lo Zanchi era andato a presentare personalmente in molti cen-tri teologici della Germania e della Svizzera («De fine saeculi, de Anti-christo, de signis finis saeculi, de praedestinatione, de vinculis quibus col-ligantur Christus et Ecclesia, de fide, de promissionibus»). Il disaccordoriguardava soltanto la concezione dell’Anticristo: non vi potevano esseredubbi, secondo il Wolf, su «quis sit, quo loco sedeat, quid agat, quapraeditus sit dignitate et potentia»; la tradizione, dagli apostoli ai Padri fi-no a Gioacchino da Fiore e Savonarola, converge su un’unica indicazio-ne; e senza equivoci è stato indicato da molti dotti «literata quadam ethistorica antiquitatis et rerum Romanarum commemoratione». Tra la li-bellistica del tempo, il Wolf, traduttore – come qui apprendiamo – del-l’Imagine di Antechristo, proponeva allo Zanchi il libello dell’Ochino co-me scritto che «Antichristum ipsum quasi digito commonstravit».398 Tra leindicazioni del Wolf mancava il Liber generationis Antichristi. Ma sappiamoche esso aveva gran voga anche a Zurigo: negli ambienti teologici se neaveva una tale stima da farlo addirittura oggetto di esegesi.399

Una destinazione diversa il Liber generationis Antichristi ebbe, invece,sul finire degli anni Sessanta, in un angolo dell’ormai frastagliatissimageografia religiosa del Cinquecento, nel quale la nozione di Anticristocorrente nella pubblicistica riformata andava maggiormente perdendo la

396 Cfr. JAMES M. KITTELSON, Marbach versus Zanchi cit., pp. 31 nota 2 e 38 nota 23.397 Zurigo, Zentralbibliothek, F. 41, c. 165. La lettera non è datata, ma è certamente

del 1561, perché vi si fa riferimento alle Theses dello Zanchi (cfr. Opera theologica cit., VIII,pp. 257 sgg.). Una nota tarda al margine del foglio indica il Wolf come autore della lettera(«De Antichristo sententia Wolfi»). La nota è confermata dal fatto che il Wolf era il solo teo-logo zurighese che conosceva l’italiano (cfr. nota successiva).

398 «Sed et brevi sermone, quem ego ante aliquot annos, cum Thuscanae linguae ope-ram darem, Latinum feci, D. Bernardinus Ochinus Antichristum ipsum quasi digito com-monstravit».

399 Una copia conforme a quella che circolò a Bologna e a Modena è conservata a Zuri-go, Staatsarchiv, E. II. 445, c. 451r, seguita dallo scritto: Generatio Antichristi sic habetur correctaad veritatem Hebraicam et collata cum interpretatione septuaginta scholia.

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sua funzione di designare univocamente la Chiesa romana. Con vari ritoc-chi, ma soprattutto con una vistosa aggiunta di cui tra breve vedremo il si-gnificato, il libello fu riprodotto nel 1569 nel secondo dei due libri diun’opera sulla contrapposizione tra Cristo e Anticristo pubblicata anoni-mamente ad Alba Iulia probabilmente da Giorgio Biandrata e Ferenc Dá-vid.400 L’opera è uno dei molti prodotti dell’intensa attività di propagandasvolta, durante e dopo il breve regno del sovrano ungherese Giovanni IISigismondo Szápolyai, dal noto drappello di antitrinitari che da varie par-ti d’Europa le persecuzioni avevano spinto a rifugiarsi in Transilvania.Era un’attività che traeva impulso principalmente da due presupposti. Inprimo luogo, dalla convinzione che dappertutto vi fossero buoni Gama-lieli, uomini giusti e pii costretti a dissimulare, ma che avrebbero profes-sato più che apertamente («longe apertius») le loro idee, solo che avesseroavuto chi li difendesse dalla persecuzione («Quid tot Gamalieles et Nico-demitae qui nunc vivunt innumeri?»).401 La dimensione veramente euro-pea di questa propaganda dipese da questa convinzione. Svolta soprattut-to in collegamento e in collaborazione con correligionari polacchi, essa siavvalse anche di una rete consistente di relazioni personali con quanti vi-vevano nelle nuove chiese dissimulando. E a Wittenberg, a Zurigo, aGinevra, la sua aggressività e la sua efficacia furono giudicate un pericoloreale nelle cerchie teologiche che ne ricevevano informazioni.402 Il secon-

400 De regno Christi liber primus. De regno Antichristi liber secundus. Accessit tractatus de Pae-dobaptismo et Circumcisione, Albae Iuliae, Anno Domini 1569, II, pp. EEiir-EE3v: GenealogiaAntichristi filii Diaboli, inventa in Bibliotheca Romana ad partem sinistram ingredienti anno Domini1513. Il libello è riprodotto, significativamente, prima dei trattati sul battesimo degli infantie sulla circoncisione, cioè a conclusione dell’opera vera e propria. Fingere la provenienza dilibelli e pasquilli da monumenti sacri romani era accorgimento propagandistico frequente.Come ha dimostrato a suo tempo Stanis!aw Kot (L’influence de Servet sur le mouvement antitri-nitarien en Pologne et en Transylvanie, in Autour de Michel Servet cit., pp. 99-103), gran partedell’opera è una ricucitura di ampie parti della Christianismi restitutio di Serveto. Faccio usodell’esemplare della Herzog August Bibliothek di Wolfenbüttel.

401 De falsa et vera unius Dei patris, filii et spiritus sancti cognitione libri duo. Authoribus minis-tris Ecclesiarum consentientium in Sarmatia et Transylvania, Albae Iuliae [Raphael Hoffhalter,1568], p. Eiiv. L’ampia introduzione di Antal Pirnát alla recente ristampa anastatica(Utrecht, Bibliotheca Antitrinitariorum 1988) è un utilissimo compendio di tutte le questio-ni che gli studiosi hanno posto su quest’opera (il sommario a pp. LXXIV-LXXVI riflette lo statodelle ricerche sugli anonimi autori delle singole parti).

402 La fonte più importante sui riflessi dell’attività, molto spesso clandestina, di quel ma-nipolo di eretici nelle preoccupazioni delle nuove chiese oggi è costituita dai volumi VI-Xdella Correspondance de Théodore de Bèze (Genève, Droz, 1970-1980), i cui curatori (HenriMeylan, Alain Dufour, Alexandre de Henséler, Claire Chimelli, Mario Turchetti, BéatriceNicollier) non hanno risparmiato fatiche per chiarire particolari, sia pure minimi, anche del-

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do presupposto era l’idea che le riforme attuate da Lutero, da Zwingli eda Calvino erano state un primo passo, non un’azione decisiva nel rinno-vamento della religione e della società cristiane. L’ambito della realtà chevenne designata col nome di Anticristo nei libri, nelle compilazioni e neilibelli prodotti da questa propaganda si dilatò nel corso dei vivacissimidibattiti dottrinali e delle lotte per la sopravvivenza (come singoli e comegruppo) generati da questa convinzione che la Riforma non si fosse an-cora compiuta.

L’anno prima della pubblicazione dell’opera in cui comparve il Libergenerationis Antichristi, un altro libello, che la tradizione sociniana e i rela-tivi repertori bibliografici hanno attribuito al Biandrata, aveva propagan-dato la contrapposizione tra Cristo e Anticristo in una forma particolar-mente efficace. Vi si utilizzava il modulo ormai classico dell’«antitesi»(Antithesis Pseudochristi cum vero illo ex Maria nato), evidenziata – come eraconsuetudine, a partire da quello che può essere considerato l’archetipodi questo genere di libelli, cioè il Passional Christi und Antichristi – dallastessa disposizione tipografica.403 Una delle sue singolarità è che esso è l’u-nico scritto – tra quanti allora ne furono messi in circolazione in Transil-vania – nel quale la critica del domma trinitario viene fondata sulla con-trapposizione tra «Christus dives» e «Christus pauper». È una singolaritàche – per quanto strano a prima vista possa sembrare – conferma ed evi-denzia l’estraneità della problematica sociale alle elaborazioni e alle dispu-te teologiche di quegli anni in Transilvania.404 L’anonimo autore del libel-

la storia, spesso complicatissima, di questa minoranza di oppositori radicali. Sui rapporti congli antitrinitari polacchi vedi LECH SZCZUCKI, Polish and Transylvanian Unitarianism in theSecond Half of the 16th Century, in Antitrinitarianism in the Second Half of the 16th Century, ed.by ROBERT DÀN AND ANTAL PIRNÁT, Budapest, Akadémiai Kiadó, Leiden, E. J. Brill, 1982,pp. 231-251.

403 Il libello è pubblicato in Per la storia degli eretici italiani del secolo XVI in Europa. Testiraccolti da DELIO CANTIMORI e ELISABETH FEIST, Roma, Reale Accademia d’Italia, 1937, pp.95-103. Cfr. DELIO CANTIMORI, Eretici cit., pp. 327-328. È comunemente attribuito al Bian-drata sulla base di CHRISTOPH SAND, Bibliotheca Antitrinitariorum, Freistadii, apud IohannemAconium (ristampa anastatica, con prefazione di Lech Szczucki, Varsavia, 1967), p. 33; ma,in generale, le attribuzioni del Sand al Biandrata sono maggiormente indiscriminate. Su altrequestioni, non tutte ancora risolte (compresa l’attribuzione), vedi DOMENICO CACCAMO, Ere-tici italiani in Moravia, Polonia, Transilvania (1558-1611). Studi e documenti, Firenze, Sansoni,New York, The Newberry Library, 1970, pp. 24-25; ANTONIO ROTONDÒ, Calvino e gli anti-trinitari italiani, qui a p. 317, nota 55; ANTAL PIRNÁT, Per una nuova interpretazione dell’attivitàdi Giorgio Biandrata, in Rapporti veneto-ungheresi all’epoca del Rinascimento, Budapest, Akadé-miai Kiadó, 1975, pp. 36-71.

404 Alla data in cui il libello proponeva contenuti sociali della nuova cristologia, inTransilvania era già stato pienamente attuato il suggerimento che Biandrata aveva fatto giun-

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lo attribuito al Biandrata riprendeva, invece, un aspetto della concezionedell’Anticristo caratteristica di tutti gli scritti della stessa provenienza: i ri-formatori, Lutero, Zwingli, Calvino, avevano abolito tanti «meretriciicultus» tributati a un Cristo concepito come un simbolo di potenza e delquale «omnes huius mundi Satrapae» avevano fatto sempre il loro idolo;ma il domma col quale l’Anticristo aveva corrotto il cristianesimo rima-neva intatto; quanti recentemente avevano tentato e attuato riforme –«sive Saxones a Luthero, sive Helvetii, Anglii, Galli etc. a Zwinglio, etBohemi ab Husso etc.» – rimanevano ancora «omnes isti uni fundamentoAntichristi innixi».405 Non si escludeva che la profondità con cui la dottri-na dell’Anticristo aveva messo radici richiedesse gradualità nelle riforme,né che l’azione dei riformatori avesse scosso la tradizione. Ma poi l’Anti-cristo aveva ristabilito il suo predominio. Suo strumento erano le nuoveaccademie teologiche, nelle quali con i suoi stratagemmi Satana escogita-va sofismi che si sovrapponevano alla semplicità e chiarezza delle Scrittu-re. I «vari Antichristi» che regnano ancora «in reformatis ecclesiis» 406 han-no le loro sedi in queste accademie. L’assunzione della critica e rifiutod’un domma come unico criterio del giudizio sull’intero corso storico,compreso il presente, vanificava l’identificazione dell’Anticristo con laChiesa romana come contrapposta alla realtà delle chiese sorte dalla Ri-forma: una vera chiesa non c’era nel presente come non c’era mai statanel passato; in tutti i secoli del predominio dell’Anticristo poteva essere

gere a suoi correligionari polacchi fin dal settembre del 1565, cioè di recedere dall’anabat-tismo per dedicarsi allo studio dei fondamenti scritturistici e patristici del significato dellafigura di Cristo (Akta synodów róznowierczych w Polsce, II (1560-1570), a cura di MARIA SI-PAY""O, Warszawa, Widawnictwa Uniwersytetu Warszawskiego, 1972, pp. 352-359; cfr. LECH

SZCZUCKI, Marcin Czechowic. Studium z dziejów antytrynitaryzmu polskiego XVI w., Warszawa,Panstwowe Wydawnictwo Naukowe, 1964, pp. 62-63, e più ampiamente IDEM, Polish andTransylvanian Unitarianism cit., pp. 232-236). In conseguenza di ciò, elaborazioni e disputeteologiche vi avevano assunto un andamento prevalentemente esegetico. Nell’opera in cuiquel gruppo di antitrinitari espresse più compiutamente il proprio pensiero, cioè la De falsaet vera unius Dei ... cognitione, c’è, se ho visto bene, un solo accenno – a parte il commento diLelio Sozzini al Vangelo di Giovanni – a un «humilem Christum» il cui trionfo è promessocome esito delle lotte degli antitrinitari (ibid., p. Ciir). Quanto al commento del Sozzini, diun Cristo «vilis, pauper, miser, maledictum, vermis et non homo» si parla ripetutamente; maio credo che non vi si configura, come nell’Antithesis Pseudochristi, una contrapposizione tra«Christus dives» e «Christus pauper» come un intenzionale paradigma sociale.

405 Per la storia degli eretici cit., p. 98. Per lo sviluppo di questo argomento vedi soprattut-to l’esposizione della De falsa et vera unius Dei ... cognitione in DELIO CANTIMORI, Eretici cit.,pp. 322-326.

406 De falsa et vera unius Dei ... cognitione cit., p. BBiir.

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identificato, per il passato come per il presente, soltanto un filo, tenuema ininterrotto, di oppositori inascoltati e perseguitati.

Al fondo dell’immenso lavoro esegetico svolto in quegli anni inTransilvania da quel manipolo di eretici e al fondo dell’attività di propa-ganda con cui essi si rivolsero a tutti gli strati sociali, c’era anche la cer-tezza che il regno dell’Anticristo sarebbe durato ancora per poco tempo(«adhuc modicum»).407 Inteso come predominio fondato sull’errore ri-guardante un punto dottrinale («de Deo et Messia filio eius») ritenuto ilfondamento del cristianesimo ed esaltato come il cardine della vita eterna(«vitae aeternae cardo»), esso, quel predominio, sarebbe crollato non soloquando l’errore fosse stato definitivamente confutato, ma soprattuttoquando la sua natura erronea fosse divenuta convinzione comune. Lalotta non era senza pericoli: l’esperienza recente insegnava che tutti glioppositori erano stati vinti dall’Anticristo, atterriti dai suoi bastioni turriti(«eius munitis urbibus»), cioè col consenso e l’autorità di re, Padri, con-cili e chiese.408 In questa situazione, Biandrata dettava norme di compor-tamento: bisognava «altera manu defendere sese, altera aedificare».409 L’ac-cettazione dell’ineluttabilità storica della persecuzione non escludeva l’a-deguamento a questa norma e agli accorgimenti che essa presupponeva.Ne risultarono in notevole misura improntati tutti gli aspetti dell’attivitàdi quel drappello di eretici. In dispute pubbliche clamorose, alcune dellequali attirarono la preoccupata attenzione di tutte le cerchie teologicheeuropee, a professioni di fede assertive si preferiva una sorta di maieuticafondata sulla deduzione esegetica che ammetteva la sola perizia filologica;e, com’è noto, gli stessi atti di quelle dispute furono talvolta ritoccati econformati al fine d’una diffusione più persuasiva. Un’apposita scuola de-stinata a combattere i sofismi delle nuove accademie teologiche significa-tivamente esordì con lo studio degli Stratagemata Satanae dell’Aconcio ecol proposito di divulgarne un compendio destinato anche agli incolti(«rudes»).410 Una propaganda a più vasto raggio combinava l’aperta profes-sione di fede (come nel caso dello stampatore degli stessi libri e libelli)con gli accorgimenti dell’anonimato, dell’argomentazione insinuante,delle figurazioni allusive, dell’adattamento, manipolazione e anonimia di

407 Ibid.408 Ibid., pp. AAiiiv-AAiiiiv.409 Ibid., p. BBiir.410 Vedi Appendice VI, p. 735 (a pp. 359-361 esempi di adattamenti del testo dell’Acon-

cio alla situazione transilvana).

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ANTONIO ROTONDÒ

testi risaputamente pericolosi.411 L’opera in cui compare il Liber generationisAntichristi è un esempio di questo genere di costruzioni.

La collocazione a conclusione dell’opera conferisce al libello la digni-tà di compendiare l’opera stessa, o per meglio dire il secondo libro, DeAntichristo. Ma ciò poteva avvenire solo a condizione che il testo origina-rio del libello venisse massicciamente interpolato. In particolare, è evi-dente l’intenzione del compilatore di assegnare al libello la funzione difacile e quasi mnemonico compendio dello scritto che lo precedeva im-mediatamente, cioè i Signa sexaginta regni Antichristi et revelatio eius iamnunc praesens di Serveto, riprodotti quasi integralmente e, com’è ovvio,anonimamente.412 Non sappiamo se il libello, già interpolato, circolasseautonomamente – com’è possibile congetturare – prima che fosse inclusonell’opera in cui lo leggiamo: di molti altri libelli diffusi in Transilvaniain quegli anni sappiamo che furono utilizzati in forma autonoma primad’essere riprodotti in compilazioni analoghe. In ogni caso, un adegua-mento dello scritto alle finalità della propaganda degli antitrinitari nonpoteva che incidere sulla sequenza cronologica secondo cui la nascitadella «theologia sophistica» aveva avuto come conseguenza la corruzionedelle Scritture («theologia autem sophistica genuit sacrae Scripturaeabiectionem»). Nella nuova redazione, questo passaggio veniva, perciò,ampliato come segue:

Abiectio autem sacrae Scripturae genuit falsam veri Dei et Christidoctrinam.

Falsa autem ista doctrina genuit essentiam.Essentia autem (quae nihil in Deo est) genuit tres personas.

411 Sullo stampatore Raphael Hoffhalter-Skrzetuski vedi ora l’introduzione di Antal Pir-nát alla cit. ristampa anastatica della De falsa et vera unius Dei ... cognitione, pp. IX-XIV. La suamorte improvvisa alla fine di febbraio del 1568 fu accolta con soddisfazione negli ambientiteologici europei: a Zurigo, Josias Simler scrisse che aveva pagato il fio dell’avere sparso «incontemptu sacrae Trinitatis quasdam imagines abominandas» (De aeterno Dei filio ... libri qua-tuor, Tiguri, apud Christophorum Froschoverum, 1568, p. 28v). Le immagini alle quali si ri-ferisce il Simler sono le caricature della Trinità incluse nella De falsa et vera unius Dei ... cogni-tione e che – come sembra certo – vennero diffuse anche in fogli autonomi (vedi più avanti,p. 339, nota 59 e Appendice V, pp. 730-731). Sulle intenzioni propagandistiche delle carica-ture vedi DELIO CANTIMORI, Eretici cit., p. 328, sviluppato in ID., Note su alcuni aspetti dellapropaganda religiosa nell’Europa del Cinquecento, in Aspects de la propagande religieuse, a cura diHENRI MEYLAN, Genève, Librairie Droz, 1957, pp. 340-351, in part. 348 sgg.

412 MICHELE SERVETO, Christianismi restitutio, [Vienne], 1553, pp. 564-670; De regnoChristi. De regno Antichristi cit., pp. CC4r-EEv, dove è omessa soltanto la breve «Conclusio»,trasferita alla fine dell’opera, p. SS1r.

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II - ANTICRISTO E CHIESA ROMANA

Tres personae autem genuerunt tres Deos.Tres Dii autem genuerunt incarnationem.Incarnatio autem genuit unionem hypostaticam.Unio autem hypostatica genuit idiomatum communicationem.Idiomatum autem communicatio duos Christos.Duo autem Christi genuerunt homousion, coaequalitatem, coaeter-

nitatem et alias infinitas profanas voces.Profanae autem istae voces genuerunt contentionem.Contentio autem genuit iracundiam.Iracundia vero genuit rabiem.Rabies autem genuit tyrannidem.Tyrannis autem genuit homicidium.

Nella proposizione finale, il termine «homicidium» è allusione alla con-danna di Serveto e di Valentino Gentile, che in quegli anni libri e libellidella stessa provenienza ponevano apertamente nel martirologio dei re-clamatori contemporanei di riforme. Il termine sostituiva quello di «mac-tatio sanctorum», che almeno trent’anni prima la redazione originaria dellibello aveva indicato come conseguenza della «tirannide» fondata su unagenerica manomissione delle Scritture. Nel testo interpolato l’obbiettivopolemico si precisava: la «tirannide» che aveva generato «omicidio» eraconseguenza della «rabies» e dell’«iracundia» scaturite dalle dispute su «in-finitas profanas voces» escogitate a sostegno di una «falsam veri Dei etChristi doctrinam». L’intera compilazione in cui il Liber generationis Anti-christi così interpolato compariva, dava sufficienti elementi perché il let-tore individuasse la realtà designata come Anticristo: l’anonimo compila-tore parlava a nome dei ministri «ecclesiarum de uno Deo Patre consen-tientium», cioè a nome di quanti allora combattevano contro l’ortodossiacalvinista; e nella dedica a Giovanni Sigismondo erano indicate precisa-mente le chiese riformate come la realtà storica in cui la difesa violentadell’«idolatria trinitaria» cancellava la pietà e provocava passioni feroci espargimento di sangue. Nella compilazione e nel libello, formalmentel’Anticristo designava ancora il papa: in realtà il binomio papa-Anticristovi equivaleva a ogni forma di violenza istituzionale che si opponeva allacorrezione degli errori.

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DOCUMENTI

1

INTERROGATORI MODENESIDI DON ORIO BASTARDI E DI ALBERTO BARANZONI

(Modena, 11 e 13 giugno 1541)

In Christi nomine amen. Anno a nativitate eiusdem millesimo quincentesimoquadragesimo primo, indictione quarta decima, diebus vero mensibus, locis et horisinfrascriptis, pontificatu autem sanctissimi in Christo patris et domini nostri, dominiPauli [III] divina providentia papae, pontificatus anno illius VII etc.

1 I due interrogatori si leggono in due separati documenti conservati nell’Archivio diStato di Modena, rispettivamente nei fondi Cancelleria ducale: Carteggi dei rettori: Modena, cart.57, Francesco Villa, e Particolari, busta 77, fasc. Alberto Baranzone. II primo interrogatorio èaccompagnato, insieme con la copia qui utilizzata del Liber generatioris, da una lettera del go-vernatore di Modena Francesco Villa al duca di Ferrara, in data 14 giugno 1541, della qualetrascriviamo la parte riguardante l’inchiesta, svolta dal vicario del vescovo Giovanni Dome-nico Sigibaldi e dallo stesso Villa, sulla diffusione del libello a Modena: «Il sopradetto vicariomi disse anchora che una scritta li era stata data, che ad imitacione del evangelio de genera-cionis (sic) diceva de molte cose degne de castigo, et che, volendo intendere dove era venutade poi essere passata per mano de doi preti, dal primo intese che un Alberto Baranzone gel’haveva data. Et havendo io mandato per detto Baranzone, per intendere da chi l’havevahauta, sotto sagramento mi ha detto haverla hauta da un messer Pelegrino alias nominatoMastino, scolaro mantuano che studia in Bologna, sogiongendo che gelo dette pochi dì fache passava di qui per Mantua, et poiché detto Baranzone non ha littere, si può facilmentecredere che così sia, con esser certi che chi l’ha fatta sia un pelegrino ingegno, ma poco ami-co della corte romana. Et per saperne la verità, loderei il tutto si avisasse al Reverendissimodi Mantua, a fine, fattosi chiamare detto Mastino, se intendesse se così è, il che non essendo,io poi da questo Baranzone vorò intendere la verità. Et perché l’Eccellentia Vostra ogni cosaveda, de ogni cosa li mando copia, et a quella baciandoli ben humilmente le mani, in suabuona gracia mi raccomando, pregando Dio guardi Sua Eccellentissima persona come da mesi desidera. Di Modena, 14 giugno 1541. Di vostra Eccellentissima Signoria. Li era anchoraun Te Deum laudamus in compagnia di questa cosa, ma non l’ho potuto havere. Vero è chenon li è cosa che tochi de Scritura Sacra, ma sì il papa con sua generacione et per pasquine-ria è molto lodata. Humilissimo et obligatissimo servitore Francesco Villa».

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II - ANTICRISTO E CHIESA ROMANA

Die XI Iunii

Reverendus pater dominus Iohannes Dominicus Sigibaldus 1 Dorthonensis,iuris utriusque doctor, protonotarius apostolicus ac in spiritualibus et temporalibusvicarius et officialis generalis reverendissimi in Christo patris et domini, dominiIohannis Moroni, nobilis Mediolanensis, Dei et apostolicae sedis gratia episcopiMutinensis, existens in eius camera in palatio episcopali iuridico Mutinensi, et visoquodam libello famoso intitulato Liber generationis desolatoris Antichristi filii Diaboli,dum esset in chatedrali Mutinensi et intellecto ac ad eiusdem domini vicarii aureset notitiam pervento reverendum dominum Theophilum a Furno,2 canonicumMutinensem, eundem libellum habuisse in eius manibus et desiderans scire origi-nem et authorem dicti libelli, eundem dominum Theophilum ibidem praesenteminterrogavit si habuerit dictum libellum et a quo.

Qui reverendus dominus Theophilus iuramento suo eidem per dictum vica-rium delato, respondit dictum libellum habuisse a venerabili viro domino Orio deBastardis 3 et extrassisse copiam ex eo et demum dictum libellum restituisse dictodomino Orio. Quam copiam idem dictus Theophilus dedit et tradidit ipsi dominovicario tenoris infrascripti etc.

Qui dominus vicarius, visa et lecta copia et cognito esse et cantare in omnibuset per omnia pro ut dictus libellus erat et cantabat, praedictum dominum OriumBastardum, presbyterum Mutinensem, ibidem praesentem, monuit quatenus iuretde veritate dicenda et respondenda.

1 Nato a Tortona nel 1475, fu vicario della diocesi di Modena dal 1519 fino alla morte(1550). Sulla sua attività come vicario del Morone vedi SUSANNA PEYRONEL RAMBALDI, Spe-ranze e crisi nel Cinquecento modenese. Tensioni religiose e vita cittadina ai tempi di Giovanni Moro-ne, Milano, Franco Angeli Editore, 1979, pp. 135-137, 213-215, 219-222 e passim. Ma siveda ora soprattutto MASSIMO FIRPO, DARIO MARCATTO, Il processo inquisitoriale del cardinalGiovanni Morone cit., vol. II, Il processo d’accusa, 1984, in part. alle pp. 875-1038, le lettere delSigibaldi al Morone degli anni 1540-1541.

2 Teofilo Forni, membro del capitolo della cattedrale tra i più vicini al Sigibaldi e alMorone, col quale corrispose durante la missione del prelato a Ratisbona (ibid., pp. 1000,1002, 1016) e del cui seguito avrebbe voluto far parte durante la ventilata legazione del Mo-rone in Spagna (ibid., pp. 532, 1017). Il 1o settembre 1542, fu tra i sottoscrittori degli Articuliorthodoxae professionis del Contarini, imposti dal Morone alla comunità di Modena (ibid.,p. 297).

3 Originario del Frignano, le sue varie e modeste funzioni ricoperte nella chiesa mo-denese sono ricordate dal cronista Tommasino de Bianchi (cfr. ibid., pp. 919-920). Qui in-teressano le sue ambigue relazioni con i membri dell’Accademia. Due mesi prima, il 6 aprile1541, Sigibaldi scrisse al Morone che don Orio era «molto familiare del medico Machella,medico Grillinzono, medico Carandino, li quali sono consectanei», ma che, quando seppeche don Orio voleva rendere pubblica la sua estraneità alle idee degli «accademici», tanto ilcongiunto don Giovanni Bastardi quanto lo stesso Sigibaldi lo avevano convinto «ch’el nonsi demostri essere alieno da loro (se non in quanto el offenda Dio) per poter penetrar li se-creti loro, de li quali ne va intendendo» (ibid., pp. 981-982).

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ANTONIO ROTONDÒ

Qui dominus Orius iuravit in forma et item interrogatus a praedicto dominovicario iuramento suo dixit veritatem extare se dedisse dictum supradicti tenoris li-bellum praedicto domino Theophilo et se eundem libellum habuisse a domino Al-berto Baranzono,4 layco Mutinensi, et cum fuit sibi domino Orio per dictum do-minum Theophilum restitutus, eum restituisse praedicto domino Alberto Baranzo-no et se aliter nescire quis fuerit author.

Qui dominus vicarius praedicta admisit si et in quantum et mandavit mihi no-tario infrascripto ut de praedictis sim rogaturus.

1541 die 13 Iunii

Dominus Albertus de Baranzonis examinatus super infrascriptis medio eius iu-ramento.

Interrogatus an veritas sit quod ipse constitutus dederit reverendo dominoOrio Bastardo scripturam incipientem Liber generationis etc., respondit quod beneipse constitutus dedit dicto domino Orio quamdam scripturam incipientem TeDeum laudamus 5 ab ipso domino Alberto respondendo vulgariter che, essendo il dì

4 Membro della ricchissima famiglia modenese dei Baranzoni, mercanti e banchieri.Un Pietro Baranzoni compare, in qualità di conservatore del Comune, tra i sottoscrittori del«formulario di fede» imposto dal Morone (MASSIMO FIRPO, DARIO MARCATTO, Il processo in-quisitoriale del cardinal Giovanni Morone cit., III, p. 229). Alberto non doveva essere più giova-ne all’epoca dell’episodio della diffusione del Liber generationis, se fa un primo testamento il22 dicembre 1560. In esso, si può forse cogliere ancora qualche accento dei suoi sentimentireligiosi di vent’anni prima: affida l’anima sua «Deo patri suo aeterno [...], rogans eum hu-militer ut propter infinitam suam misericordiam et per merita unigeniti filii sui Yhesu Chri-sti eam conducat ad bona vitae aeternae, non attentis nec inspectis infinitis erroribus et of-fensionibus suis commissis»; nel disporre la costruzione del suo sepolcro nella chiesa di s.Barnaba raccomanda ai suoi eredi «ne faciant magnam pompam in adornando dictam sepul-turam et pariter etiam in faciendo sepelire dictum suum cadaver, sed in loco dictae pompaevoluit quod potius subveniant pauperibus Yhesu Christi in indigentiis eorum, quos pauperesvalde recomandavit» (Modena, Archivio di Stato, Notarile: notaio Antonio Paganelli, filza1626, n. 359; cfr. SUSANNA PEYRONEL RAMBALDI, Speranze e crisi cit., p. 166, che erroneamen-te lo dice non datato). Nel quadro degli schieramenti politici modenesi, la famiglia Baranzo-ni parteggiava per gli Estensi: il 9 marzo 1545, Alessandro, fratello di Alberto, scrive al duca:«... hora, perché s’intende ch’io sia fatto servitor dell’E. V., mi hanno senza occasione alcunaescluso dal detto consiglio [dei Conservatori] con solo questo nome et con dire che l’E. V.mi dà provigione» (Modena, Archivio di Stato, Particolari, filza 77, fasc. Alessandro Baranzo-ni). Questa collocazione politica della famiglia spiega forse il mancato seguito dell’inchiesta acarico di Alberto (vedi sotto, nota 6).

5 Il titolo completo di questo pasquillo è: Pasquilli et Marphorii hymnus in Paulum Ter-tium Pontificem Maximum, quem alternatim Romae cecinerunt, factus ad numerum «Te Deum lauda-mus». È più noto nella traduzione in tedesco di Erasmus Alberus («verdeutscht durch FreundErasmum Alberum»), che lo data al 1541 (vedi OSKAR SCHADE, Satiren und Pasquille aus derReformationszeit, Hannover, 1857, I, pp. 44-47). Un esemplare della redazione in latino è se-gnalato nello Staatsarchiv di Königsberg da JOHANNES VOIGT, Über Pasquille, Spottlieder und

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II - ANTICRISTO E CHIESA ROMANA

della Penthecosta esso messer Alberto in casa d’esso don Orio a suonare, gli disseche gli erano state date cose nuove latine et ch’egli gliele voleva monstrare, et cosìsi cavò della sacca molte scritture et lettere et gli diede due fogli piegati insieme, ilprimo di quali cominciava Te Deum laudamus, poi dentro a quello era quest’altroche cominciava Liber generationis.

Dicto domino Alberto presente interrogato quid ad hoc responderet, ipse re-spondit che può essere che in quello foglio del Te Deum laudamus fosse quest’altrascrittura del Liber generationis, che lui non se ne fosse accorto perché, quando gli fudata, esso constituto, vedendo che l’era latina et non intendendo latino, non la lessealtrimente, ma la piegò et se la messe nella sacca, et così piegata la diede poi ad essodon Orio.

Interrogatus a quo habuerit ipse constitutus dictam scripturam, respondit seeam habuisse a quodam domino Peregrino de Mantua, scholare studente Bononiae,eius amico, qui diebus elapsis transivit per hanc civitatem et eam sibi reliquit utostendere posset aliquibus eius amicis.6

Qui magnificus dominus dimisit ipsum constitutum monendo eum quod seinformet quis sit dictus dominus Peregrinus et deinde ipsi domino gubernatori referat.

2

STEFAN MICANUS A KONRAD PELLIKAN

(Bologna, 28 gennaio 1545)

Salus et pax Christi Jhesu tecum. Amen.Tantus est meus in te amor, reverendissime pater, ut nuncio certo reperto non

possim non semper ad te scribere,1 etiamsi nil epistola aut humanitate tua dignum

Schmährschriften aus der ersten Hälfte des 16. Jahrhunderts, «Historisches Taschenbuch», IX,1938, pp. 321-524, in part. 375.

6 Probabilmente l’estensione dell’inchiesta a Mantova, suggerita da Francesco Villa peraccertare l’identità di Pellegrino, non ebbe seguito o non ebbe alcun esito. Non se ne trovatraccia nei carteggi tra Mantova e Ferrara.

2 Zurigo, Zentralbibliothek, F. 47, c. 107r (originale); S. 55, n. 145 (copia). La letteraè elencata in CHRISTOPH ZÜRCHER, Konrad Pellikans Wirken in Zürich, 1526-1556 (ZürcherBeiträge zur Reformationsgeschichte, 4), Zürich, Theologischer Verlag, 1975, «Verzeichnisder Briefe», n. 212, p. 269.

1 Come lo stesso Micanus afferma alla fine della lettera («scripsi ad te in principio Ia-nuarii»), la sua lettera precedente a Pellikan era stata del 6 gennaio (Zurigo, Zentralbiblio-thek, F. 41, c. 223r-v, originale; S. 74, n. 142, copia). Era stata anche la prima da Bologna, eanzi la prima da quando il Micanus aveva lasciato Zurigo, dove, da studente, era stato ospitedi Pellikan: «Sestus annus iam labitur, Cunrade Pellicane amantissime, postquam Cracoviae,urbis Minoris Poloniae, in patriam recesseram ac nullas ad te dederam literas neque etiam re-scripseram illis per Vitelmum civem ad me scriptis Cracoviam. Ego tamen tot annis memo-

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ANTONIO ROTONDÒ

sit quod scribam. Si crebritas mearum te literarum offendit, quod facile crederepossum, nutu saltem significabis et me abstinebo. Sed profecto quod facio ex verocordis amore, quem animo meo concepi cum domi tuae summa pietate, bonitate,humilitate et mansuetudine regi et amministrari omnia vidi, proficiscitur. Huncmeum in te amorem iam antea animo meo insitum non parum auxit hominum Ita-lorum de te opinio (de piis loquor). Iam vero cum Thomas Anglus, frater nostercharissimus, Bononiam gratia distrahendorum librorum suorum se contulerit, cuiusfamiliaritate et utor et usus sum semper, et idem gratia emendorum aliorum profec-turus sit ad vos, non potui committere quin per eum meri ad te literas darem.

Zuinglii opera quanti venderentur scire cupio. Iste enim author prae omnibus(non paucos tamen legi) lucem sublimem ingenii et eruditionis nec non pietatisostendit. O divinum ingenium, o excellentiam ingenii et eruditionis! Laudem me-retur ultra quam dici potest. Ab omnibus fere, ab omnibus Italis fratribus probanturipsius scripta et libenter omnes ipsi assentiuntur. In e u’ c a r i s t ia multi sunt Luthera-ni, multo autem plures, imo fere omnes, cum Zuinglio et nobiscum sentiunt.Opera tua habentur apud nos et in maximo (ecce, coram Deo loquor, non men-tior) sunt pretio. Sed si fas est verum fateri, omnibus recentioribus praeferunt divi-nissime et syncerissime scribentem Huldricum Zuinglium. Domini Bullingeri etBrentii opera nec non Lutheri in pretio sunt. His accedit Calvinus. Prae omnibustamen exoptatur (sunt qui magis quaerant Lutherum, quod magis nominatus et ce-lebrior est et quod Zuinglii opera necdum legerunt) Zuinglius. Hanc igitur ob cau-sam cuperem scire quanti Froschoverus omnia simul impressa venderet. Nam etego, Deo annuente, aliquando forte statim emam, si ulla dabitur facultas. ThomasAnglus, harum literarum lator, in redeundo transibit Tigurum, per quem, si potue-ris prae occupationibus scribere ad me, facultas tibi dabitur omnium optima. Afferetet ipse multa Zuinglii, sed carius multo propter vecturam etiam vendit. Tamen be-ne vendit.

riam tui suavissimam constanter in animo meo retinui, licet, ut a me volebas, per bibliopo-lam vestrum nullas literas scribebam. Fuit enim difficillimum illud in patria praestare hominidomesticis negotiis districto, ac rari etiam fuerunt qui perferre potuissent tuto literas measFrancofordiam vestro bibliopolae postea tibi reddendas, quanquam multi sunt mercatoresPosnaniae (quae patria mea est in urbe Maioris Poloniae celebriore), qui varias cum suismercibus regiones lustrare consueverunt et ego illis dare literas Francofordiam potueram.Sed tamen ita accidit vel ex illa leviore causa quod non potueram ad te scribere». Sul signifi-cato della decisione del Micanus di riprendere da Bologna la corrispondenza col suo vecchiomaestro zurighese vedi sopra, pp. 104-105. Le notizie che nel seguito Micanus dà di sé fan-no di questa lettera il documento fondamentale per la sua biografia. Il rientro a Posen, dopogli studi a Zurigo, era stato rattristato dalla morte dei genitori. Per consiglio di Melantone,aveva preferito lo studio della medicina a quello delle leggi. Prima che a Bologna, per dueanni aveva studiato a Padova, seguendo le lezioni di Battista Montano, il cui ricordo («unusfere in Italia et scit medicinam et docet artificiosissime») gli era acuito dal confronto con lelezioni bolognesi di Benedetto Vittori da Faenza. «Plurimum tamen – asseriva infine il Mi-canus – iudicavi mea interesse ut hanc quoque summi Pontificis urbem conspiciam, religio-nis scilicet causa et exemplorum». Si faceva, perciò, attento osservatore e informatore delPellikan sugli eventi della vita religiosa bolognese. Agli inizi del 1545 si diceva non ancoratrentenne («scito me nondum trigesimum annum esse egressum»).

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II - ANTICRISTO E CHIESA ROMANA

Rerum novarum nihil habemus iam. Scripsi ad te in principio Ianuarii per Ti-gurinum virum egregium et nobilem, qui veniebat Roma.2 Salutat te Andreas Co-lettus.3 Iusserunt mihi quidam fratres ut te una cum domino Bullingero salutarem.Omnino vos sua salute carere noluerunt. Vale foelicissime cum omnibus tuis et totatua familia.

Bononiae, XXVIII Ianuarii 1545.Stephanus Micanus

Doctissimo simul atque piissimo viro domino, domino Cunrado Pellicano,Hebraicarum literarum apud Tigurinos professori excellentissimo. Tiguri, apudsummum templum.

3

GIACOMO SUSIO A RUDOLF GWALTHER

(Cremona, 25 febbraio 1550)

Iacobus Susius 1 Rodulpho Gwalthero S. D.Verteram biennio ante Antichristum istum tuum, quem nunc tandem ad te mit-

to, ex bono Latino haud bonum forsitan Italum factum.2 Liber est profecto ab om-

2 Il mercante Markus Roïst.3 Un giovane imolese il cui profilo e la cui cerchia di amici e correligionari vengono

delineandosi sempre più chiaramente. Risulta immatricolato all’Università. di Basilea il 31dicembre 1542 come «Bononiensis» (cfr. Die Matrikel der Universität Basel, hg. von HANS

GEORG WACKERNAGEL, Basel, Verlag der Universitätsbibliothek, II, 1956, p. 31). Da Basileastabilì relazioni con Celio Secondo Curione, che gli affidò una lunga e interessantissima let-tera a Forzio Coletto, fratello o comunque un congiunto e, come risulta dalla stessa lettera,non più che coetaneo di Andrea (vedi sopra, pp. 104-105). A Basilea, Andrea aveva avutocome compagno di studi Thomas Erastus, col quale, durante il viaggio di ritorno in Italia, sifermò a Zurigo, desideroso di incontrare esponenti della Chiesa zurighese. La già citata let-tera dell’11 febbraio 1545 è sottoscritta: «Vester omnium minimus frater Andreas ColettusItalus, qui fuit Tiguri circa principium Maii anno 1545 cum Thoma Lüberio Germano». DaImola continuò a mantenere rapporti con Erastus durante il lungo soggiorno di studi diquest’ultimo a Bologna. Una lettera di Erastus a Oswald Myconius del 31 dicembre 1544narra avvenimenti della repressione inquisitoriale a Imola, su informazioni di una pubblicaabiura date dal Coletto: «Andreas Italus audivit» (Zurigo, Zentralbibliothek, F. 80,c. 124r).

3 Zurigo, Staatsarchiv, E. II, 365a, c. 503r.1 Dopo essermi imbattuto in questa lettera, mie ulteriori ricerche, nello stesso archivio

zurighese e in altri fondi documentari svizzeri, sui contatti del Susio con il mondo riformatosono risultate infruttuose. Né credo si conosca altro del Susio.

2 Contrariamente a quanto annotai in LELIO SOZZINI, Opere. Edizione critica a cura diANTONIO ROTONDÒ (Studi e testi per la storia religiosa del Cinquecento, 1), Firenze, Olschki,

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ANTONIO ROTONDÒ

nibus tum legi, tum laudari, tum etiam amplecti dignissimus, nec ita facile credasquam avide (ne dicam ardenter) Italus expectetur Gwaltheri Antichristus, qui, cumtuus sit filius, etiam si minus fortasse eum dignoscere queas aliena loquentem lin-gua, cum tamen ita natura comparatum sit qua patres diligant filios, non dubitoquin eundem nunc quoque charum habiturus sis.

Caetera cognosces e Hieronymo nostro,3 pio sane tuique amantissimo homine,qui hasce ad te literas perferet. Te ego illud unum oro obsecroque, ut una cumHieronymo nostro conficias cum typographis desque operam ut Italus Italiam pro-tinus revisat. Quicquid ad hanc rem attinet eidem iniungere poteris; brevi namquein Italiam est reversurus. Reliquum est ut me in amicorum tuorum numerum ad-

1986, pp. 47, 199, il testo latino del libro di Gwalther (Antichristus. Id est homiliae quinque,quibus Romanum Pontificem verum et magnum illum Antichristum esse probatur, quem prophetarum,Christi et apostolorum oracula venturum et cavendum praedixerunt, Tiguri, Froscoverus, 1546) èdello stesso anno dell’edizione in tedesco. Immancabilmente, il Vergerio era già al correntedella traduzione del Susio, come risulta da quanto egli stesso scrive in Il catalogo de’ libri liquali nuovamente nell’anno 1549 sono stati condannati da Giovanni della Casa et d’alcuni frati, [Po-schiavo, Dolfin Landolfi], 1549, p. D6r-v: «Dicono così: di Rodolfo Gualtero Antichristus,et un pezzo dopo dicono: di Ridolpho Gualtero Homiliae quinque, et sono tutto uno, il ti-tolo dell’opera dice Rodolphi Gualtherij Anitchristus Homiliae quinque. Debbo creder, cheessi non l’habbino veduto, et che condannino a occhi serrati, overo diciamo, che essi lohanno molto ben letto, et havendo veduto, che egli è uno dei più terribili libri, che sia statoscritto contra il Papato lo hanno voluto nominare, condannare et scommunicare due volte inuna sola. Ma il peggio per loro è, che egli è stato tradotto in volgare, et tosto sarà veduto inpubblico, et sentirete un’artigliaria, che importa» (indicazione di Silvano Cavazza, che rin-grazio). Per la proibizione del libro di Gwalther secondo il Catalogo veneziano del Della Ca-sa vedi FRANZ HEINRICH REUSCH, Die Indices librorum prohibitorum des sechzehnten Jahrhunderts,Tübingen, H. Laupp, 1886, pp. 139-140.

3 Non può essere il noto esule vicentino Girolamo Massari, fuggito dal convento cre-monese di San Pietro non prima della fine d’agosto del 1550 (cfr. FEDERICO CHABOD, Per lastoria religiosa dello Stato di Milano durante il dominio di Carlo V. Note e documenti. Seconda edi-zione a cura di ERNESTO SESTAN, Roma, Istituto storico italiano per l’età moderna e contem-poranea, 1962, p. 168). Sappiamo, invece, che già da tempo era in relazione con Pietro Per-na il medico e libraio Girolamo Donzellini (negli atti del processo: «Donzellino degli orci»).In una lettera indirizzatagli dal Perna da Basilea, il 13 novembre 1550, si legge l’oscuraespressione: «... e brevemente, non è in essere altro che quello che da me hebbe il Susio»,con probabile riferimento a pendenze per la fornitura di opere mediche (cfr. LEANDRO PERI-NI, Note e documenti su Pietro Perna libraio-tipografo a Basilea, «Nuova rivista storica», L, 1966,p. 58). Il Susio che compare come medico nel processo veneziano del Donzellini è statoidentificato dal Perini con Giovanni Battista Susio, medico del patriarca di Venezia Giovan-ni Grimani, inquisito e assolto a Roma nell’agosto del 1550 (Cfr. PIO PASCHINI, Tre ricerchesulla storia della Chiesa nel Cinquecento, Roma, Edizioni liturgiche, 1945, p. 137). Poiché nonc’è ragione di modificare questa identificazione, almeno fino a quando non risulterà che me-dico era anche il corrispondente del Gwalther e traduttore dell’Antichristus, restano conget-turali tanto l’interessamento del Donzellini alla stampa della traduzione quanto la stampa daparte del Perna.

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II - ANTICRISTO E CHIESA ROMANA

scribere pro tua humanitate velis; te enim iamdiu non solum diligo, sed etiam mul-tum colo observoque.

Hic fideles omnes te plurimum salutant in Domino precesque istarum ecclesia-rum magnopere pro se desiderant. Vale.

Cremonae, quinto calendas Martias, MDL.

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