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GESÙ NELLA TEOLOGIA NICENO-CALCEDONIESE E NELL’ISLAM
CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL RADD AL-JAMÎL ATTRIBUITO AD AL-GHAZÂLÎ
E AI FUṢÛṢ AL-ḤIKAM DI IBN ‘ARABÎ
Daniele Capuano
Il est tout à fait digne d’attention que dans ce fonds commun aux uns et aux
autres, ce qui est doctrine vulgaire chez les Gentils [i.e. la pluralità in Dio], est
ésotérique pour les Juifs, tandis que ce qui pour ceux-ci est exotérique [i.e. l’unità-
unicità di Dio], demeure enseignement secret chez les païens.
E. BENAMOZEGH, Israël et l’humanité
2
Ascensione di ‛Isā, miniatura ottomana, XVI sec.
Andrej Rublëv, Il Salvatore, 1420 ca.
3
INTRODUZIONE
“Voi, chi dite che io sia?” (Mt 16,14). La domanda, che Gesù di Nazareth rivolse ai suoi discepoli
“nella regione di Cesarea di Filippo”, e alla quale Simone figlio di Giona diede una risposta
decisiva per la nascente comunità di fedeli, è risuonata poi lungo i secoli e in quasi tutti i luoghi,
sfidando l’intelligenza e l’immaginazione, la volontà e le convinzioni di innumerevoli uomini.
Quando parlava di sé, lo sconvolgente rabbi galileo talora offriva cenni enigmatici ed elusivi, talora
formulava, con un’immediatezza più accecante di ogni enigma, dichiarazioni piene di quell’autorità
che i redattori dei Vangeli chiamano exousia, e che sembrava provocare nel modo più radicale una
“civiltà del commento”, salda e molteplice insieme, come il giudaismo. Spesso si appoggiava alle
Scritture ebraiche, ma applicando loro un’esegesi brusca, folgorante, talvolta inaudita. Ora si faceva
sottile e scaltro col suo uditorio, mostrando astuzia di serpente; ora, di fronte a detrattori ed
accusatori, taceva, oppure ripeteva il proprio annuncio nella sua forma più urtante e pericolosa,
offrendosi ai lacci con semplicità di colomba.
La domanda di Gesù ha avuto, ed ha, molte risposte, dopo quella quasi rapita di Simon Pietro.
Quando parliamo di “religioni abramiche”, delle fedi scaturite da quell’antico strappo, da
quell’esodo archetipico, in cui un caldeo si mise in viaggio obbedendo ad una parola misteriosa
senza nulla sapere e prevedere, parliamo di tre religioni che credono nel Dio Unico: parliamo di un
paradosso, di una uni-trinità dolorosa e lacerata di fronte alla quale l’Unitrinità professata dai soli
cristiani sembra un’immagine ironica, pacificata, capovolta. Quando pensiamo alle tre religioni
abramiche, ai tre monoteismi, pensiamo anche a tre o più risposte su Gesù: perché non c’è e non c’è
mai stato un solo Gesù, come non c’è un solo Abramo, un solo Giacobbe, un solo Mosè... E un solo
Dio? Noi chiamiamo volentieri fratelli, figli di un unico Padre, secondo la parabola medievale
ripresa da Boccaccio e da Lessing, i tre monoteismi abramici: ma le Scritture e la comune vita degli
uomini non ci insegnano qualcosa di terribile sull’essenza della fraternità, che è certo chiamata alla
concordia, ma proprio per questo si impregna di tutte le ombre di un così difficile cammino?
“Dov’è il pericolo, cresce/anche ciò che salva”, cantava Hölderlin in Patmos. L’esodo nel buio di
Abramo ci ha segnati tutti irrevocabilmente: il nesso tragico fra male e salvezza è stato consegnato,
insieme alla vita, da una generazione all’altra, e più infallibilmente del peccato originale secondo la
dottrina cristiana. Se il dialogo fra le religioni non vuol essere solo (sarà sempre comunque anche
questo) il côté debole, di lusso, della diplomazia e della geopolitica, non può non partire, nel caso
specifico delle “religioni abramiche”, dalla consapevolezza impietosa di cosa significhi essere
fratelli.
Oggi dovremmo aver compreso a fondo l’impotenza della teologia a condurre questo dialogo. La
teologia è istmo, esercizio della ragione che parte dall’esperienza profetica, o della Rivelazione, per
confermarla e darle più salde fondamenta. È vero, si guarda spesso con favore ad una possibilità di
condivisione sul piano dell’esoterismo o, ancor meglio, della pratica spirituale: ci si volge allo
spirito come portatore di un logos più libero e comune, mentre il logos della teologia è sempre,
irremediabilmente, apologia. Eppure, anche da questa prospettiva, le cose non sembrano affatto
facili. Ogni religione, quasi come ogni individuo, è in certo modo un “assoluto”, una totalità: ma
una totalità che è chiamata alla relazione; al paradosso, cioè, di ogni relazione autentica e davvero
felice. L’interiorità è ardua da mettere in comune quasi quanto il rito. L’esoterismo non è meno
faticosamente plurale dell’essoterismo.
Le pagine che seguono cercano di essere un’offerta indiretta al dialogo. Indiretta, perché vi si
parla piuttosto di differenze fra le tre religioni, anche se con un’intuizione unificante, generata dal
pensiero del cuore di quel gigante del ‘900 che è stato Avraham Yehoshua Heschel. Si esporranno i
lineamenti essenziali della teologia cristiana intorno a Gesù Cristo e a Dio come Trinità; si
proseguirà leggendo un piccolo e prezioso trattato attribuito ad al-Ghazālī, ar-Radd al-Jamīl, in cui
è condotta una serrata discussione filosofico-teologica contro la “divinizzazione” cristiana del
profeta Gesù e contro il dogma “irrazionale” della Trinità: ci si accosterà al Gesù di Ibn ‛Arabī,
4
esaminando in particolare il capitolo dei Fuṣūṣ al-ḥikam a lui dedicato, e si cercherà di mostrare
come il salto vertiginoso dalla polemica filosofica alla penetrazione teosofica possa aprire un più
lucido e acuto sguardo sulle importanti differenze e su una prospettiva sottilmente unitaria. Nella
discussione finale si proporrà una chiave di lettura che giustifichi gli accostamenti precedenti.
Ciascuno dei tre fratelli della storia medievale custodirà gelosamente il proprio anello, per
sempre: del Padre, che anche in natura però è sempre incerto, non possiamo dire se non ciò che Egli
stesso ha voluto comunicare nelle Scritture. Finché dura il tempo, ogni relazione con l’altro è
governata da una legge terribile ed esaltante, di cui il grande rabbino chassidico Mendel di Kotzk ha
rivelato un articolo fondamentale con un detto enigmatico e chiarissimo:
“Se io sono io perché tu sei tu, e tu sei tu perché io sono io, allora io non sono io, e tu non sei tu.
Ma se io sono io perché io sono io, e tu sei tu perché tu sei tu, allora io sono io, e tu sei tu”.
5
GESÙ, IL DOGMA TRINITARIO E IL DOGMA CRISTOLOGICO. BREVE STORIA DEI PRIMI
SECOLI DELLA TEOLOGIA CRISTIANA1
Il kerygma evangelico, data la sua crescente ricezione nell’oikoumene, culla del pensiero
filosofico ellenistico, si è dovuto confrontare assai precocemente con le istanze culturali
extrasemitiche, che, non di rado, dal punto di vista ebraico-giudaico erano antisemitiche. Prototipo
celebre, ed intenso, di questo confronto-affrontamento è Atti 17,22-34, in cui Paolo brevemente
presenta nell’Areopago ateniese il messaggio cristiano come disvelamento dell’enigmatico “Dio
Ignoto” (agnostos theos) propiziato da uno dei tanti altari del politeismo tardoellenico. La filosofica
risata di tutto l’uditorio (salvo le famosissime eccezioni) è, per la sensibilità ebraica, lo scherno dei
lesìm (derisori), degli afiqorsìm (negatori di Dio).2 In effetti solo il milieu giudaico-cristiano, che
rifiutava assolutamente l’antinomismo della predicazione di Paolo “Apostolo delle genti” (cioè dei
goyim, dei “pagani”), vide in Gesù un profeta messianico, un uomo “adottato” dall’unico Dio quale
suo figlio in un’accezione non troppo difforme dal monoteismo ebraico, secondo un’interpretazione
della famosa scena del battesimo di Gesù (Lc 3,22) in virtù della quale le parole che si odono dal
cielo3 (“Tu sei mio figlio: oggi ti ho generato”) andrebbero intese come nella loro fonte scritturale
(Sal 2,7): cioè come mera metafora. I primi giudeo-cristiani, detti ebioniti (dall’ebraico evyonìm,
“poveri”), hanno in effetti una cristologia “povera” che è una profetologia messianica, in cui l’uomo
Gesù di Nazareth riceve un’investitura divina paragonabile ad una affiliazione: e il suo pendant
esoterico è proprio lo gnosticismo delle prime generazioni, che Elia Benamozegh ha dimostrato
essere impregnato di acroamatismo ebraico, talora eterodosso,4 e che, nella forma del docetismo
(Gesù non aveva un corpo umano vero e proprio, ma apparente, e non è stato realmente crocifisso),
propone un rovescio complementare dell’ebionismo: un Cristo-avatar, energia divina che si
manifesta in forma umana.
La cristologia, cioè la riflessione su Cristo, misterioso messaggero del Divino, non poteva che
iniziare così: meravigliosamente, e minacciosamente, fluttuante. Gesù è talora chiamato angelo
(anghelos) per la sua natura di inviato e in virtù della allora molteplice significazione di questo
termine: oltre all’angelologia gnostica, che ha probabili legami con l’angelologia esoterica del
giudaismo, nel Pastore di Erma Gesù viene identificato col primo degli angeli e con lo Spirito, che
in effetti, come Haghion Pneuma (Spirito Santo), ha un rapporto peculiare con il Cristo evangelico.
In ambito giudeo-cristiano, è noto il passo del cosiddetto Vangelo degli Ebrei (più volte citato poi
dai Padri cristiani) in cui Gesù dice: “Mi afferrò per uno dei miei capelli mia madre, lo Spirito
Santo (he meter mou, to haghion pneuma), e mi trasportò sul grande monte Tabor”, quello della
Trasfigurazione (cfr Origene, In Io. II 12,87). Spirito in ebraico è ruah, che è di genere femminile:
l’atmosfera sembra ancora quella dell’ebraismo esoterico.5
Con scritti come quelli di Giustino Martire (II sec.), si affaccia decisamente un’intuizione
fondamentale, di chiara origine già evangelica e poi paolina: quella della lettura “tipologica” della
1 Il testo più lucido e appassionato che io conosca sulla Trinità è Dio che è amore. Trinità e vita in Cristo, Città Nuova,
di Giuseppe Maria Zanghì. Rimando alla lettura delle sue pagine chiunque resti giustamente inappagato di questa mia
sommaria presentazione, senza dubbio non scevra di errori di diversa entità. 2 Interessante la metonimia-generalizzazione nella definizione islamica ed ebraica dell’eretico: per l’Islam l’eretico è
ipso facto uno zindīq, un “dualista”, uno che “scinde” l’Unità divina; per l’ebraismo è un afiqors, un “epicureo”, uno
che nega la Provvidenza divina a favore di un deus otiosus (la bestemmia ebraica archetipica è: Let din we-let dayàn,
“Non c’è Giudizio né Giudice”). “Epicureismo” e “dualismo” si congiungono nel più famoso apostata ebreo, il tannà
Elisha‛ ben Avuyà. 3 In termini rabbinici, una bath qol, lett. “figlia della voce”. Si tratta dell’ultima forma di comunicazione profetica
rimasta ad Israele dopo la chiusura del tempo della Profezia in senso stretto: ma un famoso passo talmudico (Baba
Mesia 59 b) insegna che una bath qol non va presa in considerazione da un consesso di dotti riuniti per prendere una
decisione giuridica, perché “la Torah non è nei cieli”. 4 Cfr L’origine des dogmes chrétiens, tr. it. L’origine dei dogmi cristiani, Marietti.
5 Nella Qabbalah, la Madre è la Ruah ha-Qodesh (Spirito Santo), congiunta al Padre-Sapienza (Hokhmah) per generare
un Figlio ed una Figlia, la Shekhinah o Immanenza-Presenza divina nel mondo.
6
Scrittura ebraica. Eventi e personaggi di quello che viene chiamato Antico Testamento (la berith
anteriore, superata dalla Nuova) – in particolare i sacrifici, come quello di Isacco, le teofanie, come
quella del roveto ardente, e personificazioni gnomiche, come la Hokhmah (Sapienza) del Libro dei
Proverbi e dell’omonimo libro in lingua greca – vengono considerati typoi (in latino figurae),
annunci velati dell’evento-Cristo, che è venuto a “compiere” (plerosai, Mt 5,17) le promesse
lasciate in sospeso nella Rivelazione fatta agli ebrei:6 “...Ho letto che ci sarebbe stata una Legge
definitiva ed un’Alleanza/Patto migliore delle altre... La Legge consegnata sul Sinai è solo per voi
(ebrei), questa (quella del Cristo) vale per tutti gli uomini senza distinzioni” (Giustino, Dialogo con
Trifone). Soprattutto le riflessioni dei pensatori cristiani di matrice culturale non ebraica sulla Torah
(nomos nell’ebraismo ellenistico e in Paolo), sulla Hokhmah dei Proverbi e sulla Sophia del libro
omonimo (ovviamente non accolto nel canone ebraico), corroboreranno l’idea di Gesù come Logos,
secondo il difficile prologo giovanneo.
Negli scritti di Filone d’Alessandria, il grande pensatore ebreo contemporaneo di Gesù in cui le
dottrine acroamatiche ebraiche e i termini e i concetti di certa filosofia ellenistica si integrano in
modo singolare, il Logos, al pari della Sapienza dei Proverbi che stava “presso Dio” (come il Verbo
giovanneo, pros ton theòn) durante la creazione, è il mediatore tra l’Unico Creatore e il creato,
modello della molteplicità come il mundus intelligibilis platonico e Parola che enuncia ed opera
simultaneamente come nella Genesi. Un’idea simile sembra ispirare ancora Ireneo di Lione, quando
scrive che il Padre-Creatore è assistito nelle sue opere dalle Sue Mani, il Figlio-Verbo e lo Spirito-
Sapienza, cui il mondo angelico è subordinato. Ad ogni modo la riflessione sul Logos, pronunciato
da Dio eppure da Lui distinto, fornisce uno strumento per pensare il kerygma: “Gesù è
Signore/Gesù è Dio”. Gesù è Dio-e-uomo perché, dice Ireneo, il mediatore fra Dio e l’uomo doveva
avere affinità/parentela con entrambi per condurli “alla concordia”. Ma come pensare questa
mediazione in modo radicalmente diverso dalla filosofia pagana, con i suoi daimones che fanno da
metaxy (tramite) fra gli immortali e i mortali?
La fede dà la certezza che Gesù è Dio: ma è anche uomo, come è evidente da ogni passo dei
Vangeli. Se ora la sua divinità, il suo essere-Dio, è identificato col Logos-Verbo, in che senso il
Logos è Dio, dal momento che Gesù è al tempo stesso tutt’uno col Dio che chiama Padre e da Lui
distinto? Nel dialogo con l’ebreo Trifone, Giustino parla di un’alterità fra Dio-Padre, che è l’unico
Dio, e il suo Verbo: ma allora il Verbo sarà una sorta di etton theòs, di “dio inferiore” gnostico? No,
risponde Giustino: il Verbo è “un altro Dio... per numero, non per distinzione di pensiero”.
L’alterità è, misteriosamente, compresente con un’unità di volontà e di conoscenza, come non
accade mai fra gli uomini, dove la differenza tra individui comporta sempre una differenza di intenti
e di pensiero. Ma non si tratta forse di un sottile paradosso filosofico che allontana il cuore del
credente dalla viva parola di Gesù, che tra l’altro si è sempre dichiarato Figlio di Dio Padre, non suo
Logos? La questione sembra farsi vieppiù grave ed intricata quando si deve spiegare come il Logos
sia eterno al pari del Padre, pur derivando da Lui: allora Giustino ed altri recuperano la distinzione,
di origine stoica, tra Logos endiathetos (immanente nel Padre o inerente a Lui) e Logos prophorikòs
(proferito), come la parola creata che è prima pensata nel cuore e poi enunciata, attraverso il respiro,
con la bocca. In effetti il Figlio-Logos viene generato, e la generazione sembra implicare qualcosa
di affine alla vecchia idea filosofico-mistica di emanazione. Sembra non si possa uscire dall’ambito
filoniano di un Logos-strumento, e quindi creatura: e infatti saranno tacciati di “puro ebraismo”
coloro che, per preservare la rivelazione monoteistica di cui Gesù si fa garanzia vivente,
esprimeranno una posizione nota come monarchianismo. Come dirà più tardi Sabellio (imitato molti
secoli dopo da Abelardo), Padre, Figlio e Spirito sono i nomi che la Scrittura adopera per indicare
tre modi di manifestazione ed azione dell’Unico Dio Creatore e Salvatore. L’unità fra Dio e Gesù si
riduce così all’unità divina in quanto tale: ma questo può condurre alcuni a ritenere che sia stato il
Padre stesso, Dio di Gesù e tutt’uno con lui, ad incarnarsi, soffrire sulla croce, morire ed essere
sepolto. Questa idea, che forse modula in maniera estremistica le intuizioni rabbiniche sulle
6 La apokaradokia (ansiosa attesa) delle Cose Ultime che Paolo attribuisce all’intera creazione (Rm 8,19) è così
trasferita alla Rivelazione stessa.
7
sofferenze della Shekhinah (Presenza) di Dio, è entrata nell’eresiologia col nome di
patripassianismo.7
La parola di Gesù Cristo non si può cancellare: Egò kai ho patèr hen esmen, “Io e il Padre siamo
una cosa sola” (Gv 10, 30). Anche se i “tre nomi”, Padre, Figlio e Spirito Santo compaiono insieme
in un solo testo evangelico (Mt 28,19) e in un passo paolino (2Cor 13,13), e nel primo caso “solo”
in riferimento alla formula battesimale, il pensiero cristiano inizia a cogliere nella Trinità il centro
della Rivelazione dell’uomo-Dio di Nazareth. In effetti, la cristologia è inconcepibile senza la
riflessione trinitaria, la quale a sua volta è il fondamento della cristologia. Si tratta di pensare
simultaneamente Dio e uomo in Cristo, così come bisogna concepire simultaneamente in Dio l’unità
e l’alterità, l’Unicità rivelata nell’Antica Alleanza (mai rifiutata, se non da alcuni gnostici) e la
pluralità rivelata dal Messia, e nel Messia.
Uomini dalla notevole e variegata preparazione filosofica (ed esoterica), come Origene,
propongono parole greche maneggevoli ma anche sfuggenti, dotate forse di troppo vaste risonanze:
ad esempio hypostasis, che nel neoplatonismo indica i singoli gradi dell’emanazione dell’Uno. Ma
in questi autori l’uso della parola si appoggia all’etimo (“ciò che sta sotto”, “ciò che è sussistente”)8
per confutare il modalismo sabelliano-monarchiano: il Figlio (che è il perno della prima
speculazione trinitaria) non è una qualità di Dio, ma un essere sussistente, e Padre e Figlio sono
“due quanto all’ipostasi, ma una cosa sola” per la conformità di volontà. Tertulliano, provando
disagio per questa parola troppo “greca”, va a cercare, da buon latino, nel lessico giuridico romano
e, nell’Adversus Praxean, inaugura un termine ad un tempo arcaico e modernissimo, persona. Il
primo significato è quello di maschera teatrale, ed è anche connesso all’antico costume romano
delle imagines, i calchi funebri degli antenati conservati dalla famiglia ed indossati dai discendenti,
nello spazio del rito, per mostrare che l’individuo accede alla comunità e alla responsabilità
giuridica solo assumendo di nuovo la parte dei propri maiores. Inoltre, nella traduzione greca della
Bibbia (quella dei Settanta), abbiamo l’equivalente di persona, prosopon (altra parola che avrà un
grande futuro), per rendere l’ebraico panìm, “volto”, soprattutto “volto di Dio”, la presenza
personale di Dio. Ma l’uso latino di persona era anche sommamente utile per “tradurre” una delle
espressioni bibliche più frequenti, be-shem, “in nome di”: il profeta che parla e agisce “in nome del
Signore” (be-shem YHWH) parla e agisce in persona Domini, “impersonando” il Signore per gli
uomini destinatari del Suo messaggio. Secondo un midrash (commento rabbinico alla Scrittura),
YHWH ha detto a Giacobbe: “Io sono Dio per quelli in alto, tu sei dio per quelli in basso”.
Comunque, le parole ipostasi e persona vengono utilizzate per esprimere la distinzione del Padre,
del Figlio e dello Spirito Santo, che sono l’Unico Dio. Ma molti insorgono.
Il più carismatico degli oppositori è un presbitero alessandrino, Ario, che dà una formulazione
coerente alle resistenze monarchiane. Innanzitutto, Gesù ha pregato il Padre, che per lui è il solo
Dio, e ha manifestato chiaramente la propria sottomissione: “Il Padre è più grande (meizon) di me”
(Gv 14,28). Dire Figlio equivale a dire creatura: certamente la prima creatura, come la Sapienza dei
Proverbi (Pr 8,22); ma è stata pur sempre la volontà dell’unico creatore a trarla dal nulla originario.
Ario insiste molto sulla preposizione “da” (ek): se Gesù è stato generato dal Padre, cioè deriva dal
Padre, o si tratta appunto di creazione, oppure, se il Figlio è Dio come il Padre, avremo due principi,
insomma due dèi. Ricaduta nel paganesimo! Gesù ha sofferto, ha subito mutamenti, il che non è
proprio di Dio: i numerosi passi neotestamentari in cui si legge, ad esempio, che Dio ha generato
Gesù “oggi”, cioè nel giorno del suo battesimo, oppure che l’ha esaltato etc., indicano che Gesù è
stato reso simile al Padre nel tempo e per grazia, sebbene in modo specialissimo.
Le ragionevoli osservazioni del prete d’Alessandria, che a differenza di alcuni suoi seguaci era
invero abbastanza moderato, sollecitarono una difesa appassionata, ma tutt’altro che concorde, della
“follia del messaggio”, della “stoltezza di Dio” rivelata nel Nuovo Testamento. Il contenuto della
fede cristiana è indubbiamente paradossale: non bisogna rinunciare a nessuno dei termini che sono
7 Il suo ultimo estimatore, probabilmente, è stato il giudaizzante Sergio Quinzio.
8 In Eb 11,1 leggiamo che la fede (pistis) è “fondamento delle cose sperate”, elpizomènon hypostasis. I latini
tradurranno con substantia.
8
in apparente contraddizione, e nemmeno alla stessa apparenza di contraddizione; il pensiero, il
logos in quanto manifestazione creata del Logos che è Dio, deve cercare mediazioni rigorose, e a tal
fine gli strumenti della filosofia greco-latina, background di quasi tutti i convertiti colti
dell’ecumene, andavano usati con la semplicità della colomba e l’astuzia del serpente. Secondo la
celebre esegesi allegorica dell’Esodo, i cristiani dovevano servirsi di quegli strumenti come gli ebrei
degli arredi e delle suppellettili portate via dall’Egitto, oggetti idolatrici piegati al culto del Signore.
Il concilio di Nicea (325), voluto da Costantino, e quello di Costantinopoli (381), voluto da
Teodosio, cercheranno di tenersi su questo necessario ed esaltante filo di rasoio.
Il symbolon di Nicea, leggermente modificato a Costantinopoli ed ancora vigente nella liturgia
occidentale ed orientale (con la famosa differenza cui accenneremo), impone una formulazione
universale della fede trinitaria, un dogma (termine che indicava prima anche gli editti e i decreti
imperiali). A proposito del Figlio, vi si dice: “Credo in un solo Signore Gesù Cristo, il Figlio di
Dio...Dio da Dio (theòn ek theoû), Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato
(ghennethenta ou poiethenta), consustanziale al Padre (homoousion tô patrì)”. Dettagliata risposta
agli ariani: la derivazione dal Padre non implica creazione; l’analogia con la luce (il Padre è la fonte
luminosa, il Figlio la luce illuminante, e le due cose sono una) aiuta a comprenderlo per mezzo
dell’immaginazione e dell’esperienza: Padre e Figlio (e Spirito) sono distinti, ma hanno la
medesima ousia. Che vuol dire? E perché scomodare un altro termine greco, ancor più ampio e
scivoloso, che non sembra avere una netta ed immediata differenza di significato rispetto a
hypostasis?
Forse maggiore chiarezza può venirci da alcuni pensatori cristiani assai distanti fra di loro (non
solo cronologicamente). L’occidentale Agostino preferisce parlare di sostanza (substantia), che
corrisponde all’ousia nicena, e di personae, come Tertulliano. Nel De Trinitate dice che niente di
ciò che è in Dio è accidentale: come si formulerà poi, “tutto ciò che è in Dio, è Dio”; ma non tutto
ciò che è in Dio “si dice secondo la sostanza”, che è l’alternativa aristotelica all’accidente.
“Sebbene l’essere Padre e l’essere Figlio siano cosa diversa (diversum), non è una diversa sostanza,
perche ciò non si dice secondo la sostanza, ma secondo la relazione (secundum relativum)”; quando
si chiede cosa siano il Padre, il Figlio e lo Spirito, il linguaggio umano si trova in grandi ristrettezze,
sicché “è stato detto ‘Tre Persone’, non per esprimere la cosa, ma per non tacere al riguardo”.
Tommaso d’Aquino andrà ancor più a fondo, sottolineando la differenza tra la sfida del pensiero
cristiano e omnes antiqui doctores, tutti i sapienti antichi che hanno ripreso l’ontologia platonico-
aristotelica, categoria che comprende, come il Limbo dantesco, non solo i filosofi pagani, ma anche
i pensatori ebrei e mauri (musulmani) medievali. “Tutto ciò che è in Dio, è Dio”: la relazione
espressa da ogni Persona (relatio in divinis) non è un accidente inerente ad un soggetto, ma è la
stessa essenza divina; “la Persona divina significa una relazione in quanto sussistente (relationem ut
subsistentem)”, una relazione reale. La molteplicità, in Dio, non è una divisione dell’Uno che è al di
fuori (praeter) dell’Uno e quindi al di sotto di Esso: il “tre” delle Persone non appartiene al numero
come principio quantitativo, ma esprime una molteplicità interna a Dio, trascendente (sumuntur a
multitudine secundum quod est trascendens).9 Abbiamo quindi tre relazioni reali, ma non tre dèi:
abbiamo un’unica Divinità, ma non un’unica Persona. Dopo diversi secoli, il grande filosofo russo
ortodosso (e platonizzante) Pavel Florenskij dirà che lo homoousion niceno è la rivelazione
definitiva della unimolteplicità presentita dai misteri pagani (lo “hen kai pollà”, Uno-e-molti): ogni
Persona è relazione, ma “relazione-sostanza”, cioè Dio; la ousia del dogma non è la sostanza dei
filosofi, ma è l’amore (agape), vero centro della Rivelazione cristiana (“Dio è Amore”, 1Gv 4,16).
Il Dio Ignoto e nascosto dei platonici e degli altri antichi, Uno e Assoluto e anteriore ad ogni
molteplicità e manifestazione, si rivela ai cristiani come il “Dio Noto”, Amore che fonda in Se
stesso un’identità plurale ed indivisa.10
“Senza divisione e senza confusione (adiairètos kai
9 Tutti i passi citati sono nella Summa Theologica.
10 Cfr La colonna e il fondamento della verità. Secondo una formulazione classica, Padre, Figlio e Spirito sono,
rispettivamente, l’Amante, l’Amato e l’Amore. Il Padre è la Fonte (peghè) o l’Origine (archè) della vita trinitaria: il
Figlio è l’eterno oggetto dell’Amore, ed è la Conoscenza (in quanto Verbo e Sapienza) del Padre. Ma poiché, come
9
asynchytos, indivise et inconfuse)”, dice il dogma: a questa comunione è chiamato, per
partecipazione, attraverso Cristo, l’uomo, ogni uomo. Ecco il nocciolo mistico-soteriologico della
apparentemente sottile teologia.
Il dogma niceno suscitò, com’è ovvio, l’opposizione monarchiana e sabelliana e,
paradossalmente, anche quella di molti che accusarono lo homoousion di monarchianesimo, in
quanto sembrava sacrificare le articolazioni interne all’enfasi sull’unità. In effetti, la quasi
equivocità fra termini come ousia ed hypostasis, nonché le incomprensioni tra i greci e i latini,
richiedeva maggiore specificazione nel nascente lessico teologico, nonché un’attenzione più
rigorosa alle peculiarità dello Spirito, la persona più “impersonale” della Trinità, e quindi la più
trascurata fino ad allora. A Costantinopoli gli sforzi più o meno congiunti (almeno della Chiesa
orientale) portarono alla redazione pressoché definitiva del simbolo: il cristiano deve credere alla
dottrina di Nicea, nel senso che c’è un’“unica divinità, potenza e sostanza (ousia) del Padre, del
Figlio e dello Spirito Santo...in tre ipostasi perfette o anche tre persone (la parola è prosopa)
perfette”. Il linguaggio dogmatico sembra mirare alla concordia tra le posizioni occidentali e
orientali: ma resterà per sempre la controversia sullo Spirito, che per gli orientali procede
(ekporeuetai) solo dal Padre, mentre per gli occidentali procede congiuntamente dal Padre e dal
Figlio; la questione del filioque, che qui ci è impossibile trattare diffusamente. Resta solo da
ricordare lo strenuo lavoro teologico e politico di Atanasio, il grande niceno, e dei Cappadoci,
Basilio di Cesarea e Gregorio di Nazianzo, di origine patrizia e di ottima formazione intellettuale,
ispiratori del Concilio costantinopolitano.
Ma, una volta messe a tacere (non certo annientate) le pur sensate obiezioni degli ariani, il quinto
secolo, fatale anche sul piano politico per la poco compatta cristianità, doveva infiammarsi intorno
alla definizione di un dogma cristologico condiviso. Le grandi questioni sollecitate dal pensiero di
Apollinare di Laodicea portarono ad applicare le intuizioni della teologia trinitaria alla persona
Christi: il dogma niceno, scendendo alla concretezza dell’evento evangelico, l’incarnazione, la
passione, la morte e la resurrezione del Verbo-uomo, mostrò le sue ardue nuances e la sua tenuta
concettuale ad un tempo. Apollinare era amico e seguace di Atanasio, il campione di Nicea: ne
riprese e sviluppò alcune idee, arrivando a conclusioni abbastanza razionali, ma molto inquietanti. Il
Verbo diventò carne, dice la Scrittura (kai ho logos sarx egheneto, Gv 1,14): ciò significa che ha
“assunto” (verbi lambanein e analambanein) la corporeità umana, ma non l’anima (psychè) e
l’intelletto (noûs) umani, il cui posto è stato preso dal Verbo stesso come Persona divina. Il Logos
non si è incarnato totalmente, non si è unito alla natura umana nella sua interezza, altrimenti non
sarebbe stato impeccabile (anamartetos): per salvare l’uomo, intimamente segnato dal peccato, Dio-
Verbo ha dovuto in un certo senso afferrare e guidare il passivo ricettacolo della carne creaturale,
prescindendo dalla presenza e dalla mediazione di ciò che è specificamente umano, l’anima
razionale e pensante (psychè loghikè); quindi: “Il Figlio non è due nature [divina ed umana], ma una
sola natura, quella del Verbo di Dio, incarnata” (Confessione a Gioviano 1). Era iniziata la stagione
della controversia monofisita (da monos, “uno solo” e physis, “natura”, l’affermazione di una sola
natura in Cristo).
Cerchiamo di accostarci al nodo cristologico, senza pretendere di esplorarne tutte le pieghe. Dopo
l’emarginazione della grande effervescenza gnostica, con le sue visioni e le sue proliferanti
narrazioni simboliche, la sfida che Gesù Cristo lancia al pensiero dei suoi fedeli “ortodossi”, che
seguono cioè la orthè doxa, la “retta opinione” sulle verità di fede (definita dal dogma), è
molteplice: concepire insieme, non solo l’umano e il divino in lui, ma anche la convergenza fra due
movimenti opposti; da Dio-Verbo all’uomo (l’incarnazione, liberamente voluta da tutta la Trinità), e
dall’uomo a Dio, da Gesù di Nazareth, che lentamente ed enigmaticamente si rivela Figlio nel
ricorda S. Weil, l’oggetto, in Dio, non può essere meramente passivo, ma è al tempo stesso soggetto (e quindi Dio),
l’Amore è infinitamente e realmente corrisposto, ed è così totalmente donato da essere una terza Persona, lo Spirito
(quindi detto anche Dono). Questa koinonia (comunione) può essere sperimentata nell’amore fra uomini, che non è “a
due”, perché, come fra il Padre e il Figlio media e distingue lo Spirito, così “dove due o tre sono riuniti” nel nome di
Gesù, Egli è in mezzo a loro (en meso autôn).
10
battesimo, nella predicazione, nella Trasfigurazione e, in modo sommamente misterioso, nella
Passione, Morte e Resurrezione (l’esaltazione o divinizzazione dell’uomo). Il Verbo, che è Dio ma
nella sua specificità relazionale di Persona, assume, prende su di sé liberamente non un individuo
umano, né la sola corporeità (come per Apollinare), ma l’umanità “secondo natura”, come è stata
creata, cioè senza peccato. Questa è l’opera della salvezza: poiché la caduta dell’uomo, in Adamo, è
stata radicale e totale (qui è evidente il tratto pessimistico ed apocalittico soprattutto della prima
predicazione cristiana), la riconciliazione fra creatura e Creatore può avvenire solo per la amorosa
iniziativa del Creatore stesso, che ‘deve’ intimamente entrare nella natura di ciò che è “suo” eppure
alienato per “salvarlo”; cioè, come suggerisce il ventaglio semantico del greco sozein, per
ricondurre l’uomo a se stesso, al proprio modello autentico, traendolo da ciò che crede di essere. La
cristologia è dunque il fondamento dell’antropologia cristiana: Cristo è il Nuovo Adamo, quindi è
l’uomo perfetto proprio mentre è vero e perfetto Dio; il Verbo, Sapienza di Dio Padre, si è incarnato
in tutto ciò che è veramente e propriamente umano, perché “ciò che non viene assunto, non viene
neanche risanato (to gar aproslepton atherapeuton), invece ciò che è unito a Dio, questo si salva
(hò de henotai tô theô toûto kai sozetai)” (Gregorio di Nazianzo, Lettera a Cledonio 1). La
theandria, la divino-umanità del Logos fatto carne o fatto uomo (si parla sia di ensarkosis che di
enanthropesis per sottolineare le due diverse sfumature e prospettive), è il fondamento di una
dottrina importante, nota come “comunicazione delle proprietà” (idiomaton koinonia, communicatio
idiomatum): in Gesù Cristo, l’umano e il divino sono così intimamente ed amorosamente congiunti,
al pari di una sposa con il suo sposo (la simbologia nuziale biblica viene usata ampiamente, a partire
da Paolo), che le loro rispettive proprietà, pur restando in sé distinte, sono messe in comune e quindi
continuamente scambiate, in una circolazione d’essere che manifesta la comunione (koinonia) della
Trinità stessa. Si può e si deve quindi dire che Dio è nato, ha patito ed è morto (in Gesù), così come
l’uomo è Dio (in Gesù) e resuscita i morti e risorge lui stesso. In realtà è proprio questa la “prova
sperimentale” del dogma, e il telos della Rivelazione: Dio è divenuto uomo affinché l’uomo diventi
Dio; l’umanazione (enanthropesis) del Verbo rende possibile la deificazione (theosis) dell’uomo. Il
Verbo, che è Figlio di Dio per natura, diventa Figlio dell’Uomo affinché tutti i figli d’uomo
diventino Dio “per grazia”, cioè per partecipazione a Lui e in Lui.11
Dopo molti secoli, Meister
Eckhart e i suoi seguaci (soprattutto Angelus Silesius) diranno, con urgenza biblica e mistica
insieme: Che mi serve se Dio si è incarnato in Gesù una volta, ma non nasce qui ed ora dentro di
me? Resta però quella differenza essenziale: Gesù è Figlio e Dio per natura, gli altri uomini per
grazia e attraverso di lui. Non è immediatamente comprensibile, e del resto non può che essere,
prima di tutto, oggetto di fede.12
Ma per ora basti.
L’insegnamento di Apollinare rendeva urgente una reazione che sottolineasse la piena e perfetta
umanità di Gesù congiunta alla divinità: ma a Costantinopoli le opinioni del nuovo arcivescovo,
Nestorio, rivolsero l’attenzione di molti ad altri aspetti del dogma, ancora più riposti. Nestorio
rifiutava la dottrina della comunicazione delle proprietà: poiché il Verbo è Persona divina e davvero
si unisce all’umanità, per non cadere nel monofisismo bisogna ammettere che anche l’umanità,
nell’incarnazione, sia una persona, un prosopon; quindi abbiamo un prosopon umano e un prosopon
divino, che però si congiungono (synapheia) in un solo prosopon, detto “prosopon di unione” e
chiamato Cristo. Questa congiunzione o unione rende impossibile la comunicazione delle proprietà
in senso forte: non si può dire che Dio è nato, ma che Cristo è nato; è meglio chiamare Maria
“madre di Cristo” (Christotokos), piuttosto che, come si iniziava a fare allora, “madre di Dio”
11
Come membra del Corpo Mistico di cui Cristo è il Capo, e che è il Christus Totalis di Agostino e Isaac de Stella,
Capo-e-membra, Gesù-e-i-credenti. Mentre, come abbiamo visto, Gesù dice di essere “una cosa sola” (hen, unum) con il
Padre, Paolo dichiara che gli uomini sono “una sola persona (heis, unus) in Gesù Cristo (en Christô Iesoû)” (Gal 3,28). 12
I Padri greci si accostarono a questa differenza con grande sottigliezza. Non basta dire che Gesù fu preservato dal
peccato, perché anche sua madre Maria lo fu: inoltre, la professione di fede chiede all’intelletto una più vasta
articolazione. Massimo il Confessore, il campione dell’ortodossia nel VII secolo, dirà che Gesù ha avuto volontà
umana, ma non la volontà gnomica che caratterizza tutte le persone umane altre da lui: si tratta della volontà di ogni
persona in quanto separata, che sa alcune cose ed altre ne ignora, e quindi si pone di fronte alla possibilità con la propria
facoltà di scelta (proairesis).
11
(Theotokos). La asperrima controversia fra lui e l’alessandrino Cirillo portò, lentamente e con
pesanti colpi di mano, ad uno dei concili più importanti dopo quello niceno, il Concilio di
Calcedonia (451).
Cirillo si appoggia ai Padri niceni come a suo tempo Apollinare, ma con maggiore equilibrio fra il
dato della fede e il movimento del raziocinio. Il Verbo ha assunto l’umanità nella sua interezza, ma
proprio per questo non ha assunto una persona umana, perché la persona umana è separata dalla
totalità del genere, non ha l’unità della Persona divina: è appunto la Persona divina a “personizzare”
l’umanità assunta; l’unità di Gesù Cristo è nel Verbo, che è il Soggetto e il punto di partenza
dell’incarnazione. Anche la posizione di Cirillo non è immune dal razionalismo monofisita, ma la
sua tempra di lottatore aprirà rudemente la strada alla laboriosa definizione del dogma calcedoniese.
Nella “formula di unione” del 433 si cerca un equilibrio tra le diverse fazioni: Gesù Cristo è
“consustanziale (homoousios) al Padre secondo la divinità, e consustanziale a noi secondo
l’umanità: infatti è avvenuta l’unione di due nature (dyo gar physeon henosis ghegone)... senza
confusione (o mescolanza, aggettivo asynchytos)”. Quanto alle espressioni riferite a Gesù dagli
evangelisti e dagli apostoli, “alcune le hanno rese comuni [alle due nature] (koinopoioûntas),
riferendole all’unica persona (os ef’henòs prosòpou), altre le hanno divise (diairoûntas), riferendole
[di volta in volta] alle due nature, e ci hanno tramandato quelle divine (theoprepeîs) riferendole alla
divinità del Cristo, quelle invece che indicano abbassamento (tapeinàs) riferendole alla sua
umanità”. È già la fede calcedoniese: come in Dio c’è una sola natura in tre persone, così in Cristo
(nell’incarnazione) ci sono due nature in una sola persona; quasi un riflesso speculare della Trinità
sulla terra, che la conferma e realizza. Di nuovo, si è trattato di pensare insieme unità-e-
molteplicità, identità-e-alterità: forse al prezzo di trascinare la robusta fede evangelica, la semplicità
del kerygma, in dispute taglienti e interminabili, ma con indubbia coerenza di cuore ed intelletto. Il
Messaggio è stato accolto dalle genti, e le genti erano impregnate di metafisica ellenica e di
pensiero giuridico romano. Il dogma-decreto parla di sostanza, ipostasi, mescolanza e via
filosofeggiando, ma il fine è la novità, il novum cristiano: “aprire” la metafisica della sostanza alla
Rivelazione di Gesù come Figlio di Dio e Dio; “ferire” l’ontologia, il Dio Essere Assoluto o “Dio
dei filosofi” (Pascal), per dischiuderlo alla mistica escatologica della palingenesi, quando Cristo
sarà “tutte le cose e in tutte le cose” (panta kai en pâsin Christòs, Col 3,11), e quindi ricondurrà il
creato “nel seno del Padre” (Gv 1,18). Con efficace sintesi, scriveva il vescovo di Roma Leone
Magno al vescovo di Costantinopoli Flaviano: “Restando dunque integre (salva) le proprietà di
entrambe le nature e sostanze confluenti (coeunte) in un’unica persona, la Maestà assunse la
bassezza, la Forza la debolezza, l’Eternità la mortalità”; “per pagare il debito della nostra
condizione [=per riscattarci dall’umanità caduta]”, bisognava che l’Unico Mediatore Gesù Cristo
“potesse da una parte morire, e dall’altra essere immortale”. La communicatio idiomatum è una
realtà irrefutabile: il Figlio dell’Uomo è sceso dal cielo, il Figlio di Dio è nato e morto. La
coincidenza degli opposti, che in ogni tradizione spirituale è il livello più alto e mistico del discorso
sul Divino, trova qui un’articolazione razionale difficile, ma in qualche modo richiesta dal concreto
formarsi della Chiesa di Cristo nella storia.
I sudditi cristianizzati dell’Impero Romano non potevano pensare la loro fede, di lontana origine
semitica, se non applicando avventurosamente gli strumenti del loro logos, di meno lontana origine
greca. Se poi questo logos abbia finito con imporsi al Logos che è Cristo, non è dato dire: l’oleastro
pagano innestato sul nobile ulivo semitico (cfr Rm 11,16-24), Paolo ne era già consapevole, avrebbe
avuto un destino complesso e tortuoso. E non poteva impedire che altri pensieri sul suo Capo,
Cristo, sorgessero nelle contrade dell’impero sempre più vasto ed anche fuori del limes: soprattutto
non poteva prevedere che il sogno di unità imperiale andasse ad urtare, proprio nel secolo di grandi
difensori della fede come Massimo il Confessore e, più tardi, Giovanni Damasceno, contro
l’espansione politica di un piccolo popolo semitico, e soprattutto contro la comparsa di una
Rivelazione che sembrava riaprire i conti con una visione non “romana”, e non “universale”, di
Gesù il Messia, figlio di Maria di Nazareth.
12
LETTURA DEL RADD AL-JAMIL
Non intendiamo qui esaminare la questione dell’attribuzione del Radd al-Jamīl, se l’opera sia di
al-Ghazālī, la “prova dell’Islam” (come ancora pensava, ad esempio, Massignon), o se sia di un
cristiano copto convertito, secondo la ben argomentata ipotesi di G. S. Reynolds.13
Non mancano
elementi a sostegno dell’una come dell’altra posizione: diremo qui molto brevemente che l’operetta
non sarebbe indegna del grande mujaddid di Ṭūs per l’equilibrio del pensiero e l’acribia scientifica,
nonché per la diffidenza più volte sottolineata nei confronti della filosofia, congiunta però alla pia
calliditas di utilizzarne gli strumenti logico-euristici a fini apologetici e polemici;14
del resto, la non
comune conoscenza delle Scritture, delle dottrine e delle confessioni cristiane, nonché un ricorso
alla lingua copta in uno dei passi cruciali, potrebbero giustificare il sospetto di un passato cristiano
dell’Autore, dando così alle frequenti stoccate di devota indignazione comm’il faut le drammatiche
risonanze della psicologia del convertito. Proveremo a leggerla semplicemente seguendo il filo delle
sue argomentazioni, in attesa di riprendere il nostro nell’ultima parte di questo lavoro.
I cristiani si dividono in coloro che, non avendo pratica delle scienze (filosofico-teologiche),
contraggono l’abitudine dell’ignoranza e restano attaccati a ṣuwar, immagini; e in coloro che,
avendo un po’ di intelletto e di pratica delle scienze, si attengono all’imitazione pedissequa (taqlīd)
del Filosofo (per antonomasia: cioè, come in tutto il medioevo ebraico, cristiano e musulmano,
Aristotele) sulla questione dell’unione dell’umanità e della divinità in Gesù (ittiḥād), che essi
riconducono al nesso esistente tra l’anima (nafs) e il corpo di carne (jasad).15
Ma si tratta di un
ragionamento analogico (qiyās) assurdo: infatti non c’è alcun elemento comune tra l’ittiḥād e
l’unione anima-corpo; se essi tuttavia obiettano che è una forma di paragone ed esempio (tashbīh
wa-tamthīl), bisogna rispondere che in Aristotele non c’è nulla di chiaro sull’anima e sul suo nesso
col corpo:16
è dunque un qiyās da rifiutare, ambiguo (qiyās at-ta‛qīd), perché cerca di spiegare
qualcosa di ignoto ricorrendo a ciò che è ancor più ignoto (ignotum per ignotius). Inoltre, secondo
Aristotele il rapporto che l’anima ha col corpo è quello della forma che lo organizza (tadbīr), e ciò
accade in virtù di una corrispondenza e di una convenienza reciproche, che non possono darsi
affatto tra l’umano e il Divino.
Al di là dei puntelli filosofici, i cristiani si appoggiano direttamente alle loro Scritture, e fanno
dei miracoli di Gesù (in particolare la revivificazione dei morti, iḥyā’ ’l-mayyīt) la prova della sua
divinità. Se è vero che il miracolo profetico (mu‛jiz)17
comporta un’interruzione delle leggi
ordinarie (o delle consuetudini, kharq al-‛awā’id), ciò sarà valido per tutti i miracoli di tutti i
Profeti, a cominciare dal legislatore degli Ebrei, Mosè-Mūsā, che trasformò la verga in serpente ed
13 Gabriel Said Reynolds, The ends of Al-Radd Al-Jamil and its portrayal of Christian Sects [Islamochristiana], 1999,
n° 25 , pagg. 45 – 65. 14
In realtà, nonostante il suo rifiuto della “filosofia ellenizzante” (falsafa: celebre il suo Taḥāfuṭ al-falāsifa,
“L’incoerenza dei filosofi [ellenizzanti]”, noto nel medioevo latino come Destructio philosophorum) in quanto
potenzialmente ed attualmente “innovatrice” rispetto alle verità rivelate, al-Ghazālī considerava la logica (manṭiq) uno
degli strumenti dell’ijtihād, lo “sforzo” ermeneutico che è uno dei compiti sacri della comunità musulmana nel suo
insieme. Devo questa rettifica al prof. Adnane Mokrani. 15
In effetti la teologia cristiana si è servita spesso della psicologia aristotelica ed ha evocato, a proposito
dell’incarnazione, l’unione tra l’anima ed il corpo umani per analogiam: è questa infatti un’unio personalis simplex, in
cui i due componenti, ciascuno dei quali è in sé incompleto, si congiungono per divina creazione a formare una persona
integra; quella tra la natura umana e la natura divina in Gesù è invece unio personalis hypostatica, sostanziale,
soprannaturale e indissolubile, perché qui non abbiamo due componenti incompleti che si completano a vicenda, e
perché laddove il soggetto della prima unione è il prodotto di questa stessa unione, nel caso di Cristo è il soggetto (il
Verbo) a produrre l’unione (assunzione – è Dio-Verbo il soggetto che unisce a sé l’umanità sua creatura, e la salva
anche nel senso che la conserva nella distinzione). 16
Più avanti l’Autore proporrà l’obiezione definitiva: Aristotele ha insegnato dottrine contrarie alla Rivelazione (una
per tutte, l’eternità del mondo contro la creazione), è quindi inaffidabile sul piano dei contenuti, sebbene non del
metodo. 17
Il miracolo del santo (walī) si chiama invece karāma.
13
ebbe la mano bianca come per la lebbra senza esser malato. Anzi, il miracolo della verga – un
essere inanimato che diventa animato – è superiore a quello della revivificazione dei morti – un
essere che è già stato animato e che viene ricondotto al suo stato primo – miracolo che, tra l’altro,
era stato precedentemente compiuto anche da Elia ed Eliseo. Inoltre, anche i Profeti (anbiyā) che
non furono Inviati (rusul) possono aver avuto questa relazione (nisba) con Dio, ma senza
manifestarla.
A questo punto, l’Autore inizia l’esame del Vangelo di Giovanni, il quarto dei vangeli canonici,
che per i cristiani è “il più chiaro” (awḍaḥ).18
Mentre la maggior parte dei polemisti musulmani
accusa i cristiani di taḥrīf an-naṣṣ o bi-l-lafẓ (alterazione del testo scritturale nella sua letteralità,
nella fattispecie il testo dei Vangeli), l’Autore imputa loro un taḥrīf bi-t-ta’wīl, o taḥrif al-ma‛anī
(alterazione sul piano dell’interpretazione del testo, quindi sul piano dei significati e non dei
significanti),19
salvo poi recuperare, almeno come sospetto, la posizione maggioritaria nell’esame di
un unico, ma fondamentale, versetto giovanneo. Le armi vengono subito snudate: nel Vangelo di
Giovanni ci sono 1) passi “manifesti” (ẓawāhir, plurale di ẓāhir) che indicano l’umanità di Gesù e
2) passi di cui i cristiani rifiutano il ta’wīl. Infatti, se i testi concordano con l’intelligenza (al-
ma‛qūl) vanno lasciati nel loro senso “manifesto”, ma se contraddicono l’evidenza razionale è
necessario interpretarli: il loro senso proprio (ḥaqīqa, cioè “verità”) non è il senso voluto, bisogna
quindi “rinviarli” (radduha)20
al senso metaforico-traslato (majāz).
I primi passi esaminati sono proprio quelli che hanno bisogno del ta’wīl, i testi cioè sull’ittiḥād
di Gesù con Dio. Il locus classicus è Gv 10,30-36, in cui Gesù dice: “Io e il Padre siamo uno” (anā
wa-l-ābu wāḥidun).21
Gesù stesso ha detto chiaramente agli Ebrei, interlocutori del discorso, che
queste parole non andavano intese nel senso “manifesto” ma nell’accezione “traslata-metaforica”, e
lo ha fatto proponendo loro un esempio (mathal) tratto dalla Torah, il versetto 6 del salmo 82: “Io
ho detto: voi siete dèi (āliha, in ebr. elohim)”; Gesù è associato (verbo shāraka) ai suoi interlocutori
in virtù di questo significato non proprio. Qui l’Autore tenta un accostamento con il ḥadīth at-
taqarrub,22
un importante testo della tradizione islamica (“Il Mio servo non si avvicina a me con
qualcosa che Io ami di più delle opere da Me prescrittegli. Ed egli si avvicina a Me con le opere
supererogatorie finché io non lo amo. E quando Io lo amo, Io sono l’udito con cui egli ode, la vista
con cui vede, la mano con cui afferra, il piede con cui cammina etc.”): Dio non può essere presente
(ḥāllan) nelle membra dell’uomo, né essere quelle membra tout-court (‛ibāratan ‛anha); il senso è:
se il servo si sforza di obbedire a Dio, riceve da Lui potere ed aiuto (qadra wa-ma‛awana), e così
può usare le proprie membra con l’unico fine di avvicinarsi a Dio, non di identificarsi con Lui. In
questo modo, i servi non sono più separati da Dio nel senso che non sono più in contrasto con la
Sua volontà: vogliono ciò che Egli vuole. L’Autore ha poi buon gioco nel sottolineare che la
traduzione araba del verbo apostello (da cui “apostolo”), usato per indicare la missione di Gesù, è
arsala, “inviare”, da cui rasūl: Gesù sta dicendo di condividere con tutti gli uomini il significato
generale della metafora dell’ittiḥād, e di esser loro superiore per i gradi della profezia e dell’essere-
inviato (faḍaltukum bimarātibi ’n-nubūwwa wa-r-risāla). Ha mostrato (bayyana) agli uomini il Dio
da adorare: come può essere egli stesso Dio? Torniamo dunque all’argomento principe della
polemica ariana.
18
Senz’altro è il vangelo teologico per eccellenza, quello che meglio accosta alla conoscenza di Dio come Trinità e di
Gesù come Verbo del Padre incarnato (l’animale simbolico di Giovanni è l’aquila, che nei bestiari antichi era detta
l’unico essere vivente capace di fissare il sole). 19
Posizione del resto implicita nel titolo completo dell’opera: Ar-radd al-jamīl l-ilahyati-‛Isā biṣarīḥ al-Injīl (“La bella
refutazione della divinità di Gesù com’è chiaramente espresso dal Vangelo”). 20
Si comprende dunque che il Radd è una “refutazione” nel senso specifico di un’argomentazione che “rinvia” i testi
evangelici alla loro corretta interpretazione. 21
Da notare che il testo greco usa il verbo essere (esmen) e dice “uno” al neutro (hen=una cosa sola: Egò kài ho patèr
hèn esmen). Su queste differenze tra la lingua greca (lingua della redazione neotestamentaria, ma non lingua parlata da
Gesù) e le lingue semitiche si tornerà più tardi. 22
Si tratta di un ḥadīth qudsī, un testo cioè in cui Dio parla in prima persona.
14
Il passo seguente è Gv 17,11, tratto dal “discorso sacerdotale” dell’Ultima Cena: “Padre Santo,
conservali nel Tuo Nome che mi hai dato, affinché siano uno con Te come noi”. È qui ancor più
chiaro che si tratta di un paragone (mathal), perché Gesù usa una particella comparativa (ḥarf at-
tashbīh), “come”: egli prega Dio che conservi i discepoli nel Suo Nome come conserva lui, affinché
conseguano in virtù di ciò l’unità con/in Dio (waḥda bi-Llāh). Se la sua unità con Dio gli avesse
dato il diritto alla divinità, egli avrebbe chiesto, per i suoi discepoli, che diventassero dèi:23
ma,
come si tratta di un’unione metaforica se riferita agli altri uomini, così anche se riferita a Gesù. È
paragonabile alla conformità di volontà che si ha con un amico, e che ci spinge a dire: Io e lui siamo
uno.
Il testo seguente appartiene ancora al “discorso” o “preghiera sacerdotale”: è il famoso ut unum
sint: “E io ho dato loro la gloria che Tu mi hai dato, affinché siano uno come noi siamo uno” (Gv
17,22). Gesù chiede la gloria (majd) anche per gli uomini affinché essa dia ordine alla loro
dispersione, e possano così allearsi per obbedire a Dio (o: gareggino nell’obbedirgli). Infatti,
obbedire a Gesù è obbedire a Dio, e viceversa: questa è la proprietà dei Profeti e degl’Inviati. In
quanto profeta ed inviato, egli dichiara che, se ciò avvenisse (se gli uomini obbedissero a Dio per
mezzo di lui), saremmo tutti come una sola essenza (ka-dhātin wāḥidatin). La qualità di inviato è
particolarmente evidente in Gv 12,44: “Chi crede in me, crede anche a Chi mi ha inviato”: cioè: Io
do notizia di Lui secondo verità (ukhbiru ‛an-hu ḥaqīqatan). La prima parte di 17,22 indica la gloria
in generale (‛ala al-‛umūm), poi Gesù la intende in senso specifico (waṣafahu), cioè nel senso della
gloria propria dei Profeti e degli Inviati: ma egli non ha chiesto per i discepoli che diventassero
profeti ed inviati, quindi ha donato loro la conoscenza di ciò che conviene alla Maestà di Dio
(i‛lāmihim bimā yaliq bijalāli-Llāh), cioè la conformità a Lui attraverso gli ordini, le proibizioni e le
decisioni che ha rivelato, ed ha richiesto l’assistenza (tawfīq) di Dio perché agissero secondo questa
conoscenza. L’espressione: “E santificali nella Tua Verità (Ḥaqq)” allude al fatto che è Dio,
secondo il Suo Nome al-Ḥaqq, il creatore degli atti umani, come vuole l’ortodossia musulmana.
Obiezione cristiana: perché nella gloria donata non può esser compresa l’unione che ha dato a
Gesù il diritto di essere un dio (ilahan)? Ma si tratta di una tipica petizione di principio: forse che
l’essere-dio (ilahya) può essere donato?24
Ci sono poi i passi in cui l’umanità di Gesù è manifesta, e coincidono proprio con i testi della
controversia ariana. L’Autore richiama sin dall’inizio l’attenzione su quella che, “secondo la loro
[dei cristiani] opinione” (‛alā ra’yihim),25
è la sofferenza di Gesù sulla croce, espressa (in Mt 27,46)
con il grido del salmista, che qui viene tradotto in arabo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai
abbandonato?” (ilahī ilahī lima taraktanī?). Ciò contraddice la divinità (munāfiya li-l-ilahya), come
pure l’episodio del fico (Mc 11,12-14), in cui Gesù maledice la pianta perché, contro le sue
aspettative, priva di frutti, episodio che dimostra insieme la sua fame e la sua ignoranza, qualità
eminentemente creaturali. Egli tuttavia, in quanto profeta, ha compiuto il prodigio (la pianta sarà
sterile in eterno) per consolidare i discepoli nella loro fede (ciò è suggerito dal passo seguente,
11,20-25, secondo il quale chi crede può ottenere, con le sue sole parole, che un monte si getti nel
mare) e per insegnar loro a sostenere le prove ascetiche che conducono in Paradiso.26
A proposito
poi del testo sulla montagna che si precipita nel mare, va rilevato che Gesù ha conferito ai suoi
discepoli, in virtù della walāya (santità-amicizia con Dio, in questo caso sinonimo di fede), il potere
di compiere prodigi ben più grandi del fico disseccato, il che si collega immediatamente ad un
23
Abbiamo visto, e vedremo ancora, come per il cristianesimo, specialmente orientale, sia proprio questo il fine
dell’Incarnazione. 24
Secondo il dogma trinitario è proprio così: anzi lo Spirito Santo, nesso del Padre e del Figlio, ha fra i suoi appellativi
quello di Dono. 25
È noto che l’Islam tende a negare la morte ignominiosa di Gesù sulla croce, recuperando l’antico docetismo per
ribadire, almeno nella prospettiva sunnita, la visione più “biblica” (ma non del tutto biblica) del profeta divinamente
assistito anche negli aspetti mondani della sua missione, in quanto manifestazione della potenza di Dio fra gli uomini.
Cfr soprattutto Cor 4, 157-158. 26
Gesù è per l’Islam, ed in particolare per i sufi, soprattutto maestro di pratica spirituale. I detti e fatti, per lo più
apocrifi, riportati da al-Ghazālī nell’Iḥyā ‛ulūmi d-dīn sono tutti degli apophtegmata di carattere ascetico.
15
versetto molto importante,27
Gv 14,12: “Chi osserva i miei comandamenti farà opere anche
superiori (afḍal) alle mie”.
Altro versetto lungamente discusso anche nella cristianità: “Quanto a quel giorno e a quell’ora
[il giorno e l’ora dell’eschaton], nessuno li conosce, né gli angeli del cielo, né il Figlio, ma il solo
Padre (illā al-āb waḥdahu)” (Mc 13,32). Qui Gesù fa una dichiarazione di pura umanità (al-
insāniyya al-maḥḍa), negando di avere la conoscenza (‛ilm) propria della Divinità: ne consegue che,
quando Gesù dice Figlio, intende se stesso (nafsahu), e quando dice Padre, intende la Divinità (al-
ilah).
Intorno al passo seguente (Gv 17,1-3), l’esegesi si fa più sottile: “E questa è la vita eterna, che
conoscano Te come il solo Dio vero (al-ilah al-ḥaqq waḥdaka) e colui che hai inviato, Gesù Cristo
(Yasū‛ al-Masīḥ)”. Abbiamo ora, secondo l’Autore, la prova che il linguaggio neotestamentario non
è “rigoroso”: per i cristiani, infatti, la parola Masīḥ, Cristo, indica la totalità di una sostanza
composta di divinità e di umanità (majmu‛ ḥaqīqa murakkaba min lāhūt wa-nāsūt);28
ma qui si
parla dell’invio di Gesù, cioè del suo essere, islamicamente, rasūl e quindi mero uomo. Si tratta
insomma di una sorta di metonimia totum pro parte, come se dicessimo di aver visto dell’inchiostro
(composto), intendendo il solfato di ferro (uno dei suoi componenti).
Vengono poi allegati diversi passi neotestamentari per corroborare le idee già esposte: “(Quando
ci sarà la Resurrezione), il Figlio si sottometterà a Colui che gli ha sottomesso tutte le cose” (1Cor
15,28): sottomettersi (khaḍā‛) alla Sublimità di Dio è proprio dei servi (sha’n al-‛abīd), mentre
sottomettere è proprio di Dio il Possente (ilah al-Qādir). In Ef 1,16-17 si parla del “Dio di Nostro
Signore Gesù Cristo”; in 1Tm 2,5 il fatto che Gesù Cristo sia “l’unico mediatore (wasīṭ, in gr.
mesites) fra Dio e gli uomini” viene esplicitamente connesso alla sua umanità (l’arabo dice insān, il
greco anthropos). Mt 23,9, “un solo maestro (mu‛allim), il Cristo; un solo Padre, Colui che è in
cielo”, indica chiaramente una distinzione (taghāyur), perché Gesù assegna a sé l’unicità
dell’insegnamento (waḥdati-t-ta‛līm) sulla terra, e alla Divinità l’unicità della Paternità. La
sottomissione di Gesù esclude la sua divinità: egli ha spesso pregato (per la resurrezione di Lazzaro,
cfr Gv 11,41-42, nel Getsemani, cfr Mt 26,39 e, come si è già ricordato, sulla croce), ed in
particolare la preghiera nell’Orto esprime prima dubbio (shakk) (“Padre mio, se è possibile, passi da
me questo calice”) e poi distinzione (ghāyara) tra la propria volontà e quella del suo Dio (“però non
come voglio io, ma come vuoi Tu”).29
L’Autore formula a questo punto una sentenza efficacemente
lapidaria: “Chi invia non è chi è inviato” (al-mursil ghayr al-mursal).
Dopo altre citazioni giovannee dello stesso tenore (Gv 8,39-40, in cui Gesù chiama se stesso “un
uomo che vi ha detto la Verità che ho sentito da Dio”, Gv 8,26, “Colui che mi invia è Verità [al-
Ḥaqq]” e Gv 12,49-50, “Perché io non ho parlato da me stesso [min nafsī] etc.”), un passo
particolarmente mistico della Epistola agli Ebrei di S. Paolo (3,1-2) consente paradossalmente di
introdurre nell’argomentazione due spunti interessanti, che potremmo definire, come tutti gli altri,
“ebioniti”, in riferimento alla piccola setta giudeo-cristiana delle origini: “Guardate questo Inviato,
il sommo sacerdote della nostra fede, Gesù Cristo, che ha la fiducia di colui che lo ha inviato (al-
mu’attaman ‛inda mursilihi, in gr. pistòn onta tô poiesanti autòn), come Mosè in tutta la sua casa”.
Da una parte, si sottolinea che, nella lingua originale in cui fu redatta l’Epistola, la parola
mu’attaman è sinonimo di colui che serve-adora Chi l’ha creato; dall’altra, la “casa” (bayt) di Mosè
non è se non la sua umma di credenti, il popolo ebraico, e Chi l’ha costruita è Dio, che costruisce
ogni cosa (cfr Eb 3,4); quindi entrambi questi rusul, Mosè e Gesù, sono un dono per il loro popolo,
e il Donatore non è che Dio. Notiamo che il testo originale (sebbene tradotto in arabo) è accettato,
come sempre (tranne l’unica eccezione che vedremo), ma è, più evidentemente che altrove,
sottoposto ad una ri-lettura pesantemente islamizzante: nel primo caso, la parola mu’attaman, si fa
27
E pregiatissimo da tutti coloro che hanno interpretato la profezia del Paraclito, di cui si parlerà dopo, come
un’apertura a rivelazioni ulteriori: fra questi ci sono appunto i musulmani. 28
Cioè l’unione ipostatica, ma espressa qui con parole che fanno trasparire (imperfettamente) la cristologia nestoriana,
probabilmente la meglio conosciuta dall’Autore. 29
Si ricordi la controversia sul monotelismo e il ditelismo nell’epoca di San Massimo il Confessore.
16
un riferimento, difficile da giustificare, all’Urtext; nel secondo caso, si omette ‘strategicamente’ il
versetto 3 (“Infatti Gesù è stato reso degno di una gloria tanto maggiore di quella di Mosè, quanto
l’onore di chi costruisce la casa è maggiore di quello della casa”), in cui è già in nuce tutto il
pensiero cristiano sulla pienezza della rivelazione di Gesù rispetto a quella mosaica in virtù del suo
irripetibile rapporto con Dio.30
Dopo questo primo studio di passi neotestamentari, l’Autore trae una conclusione chiara ed
originale: le espressioni di Gesù riferibili al ḥulūl (l’“inabitazione” di Dio nell’uomo) e
l’affermazione “Io e il Padre siamo uno” (nonché, come verrà sviluppato in seguito, la terminologia
della relazione Padre-Figlio) non sono state permesse (lam yu’adhan) al fondatore (o latore) della
“nostra” Legge (ṣāḥib sharī‛atinā), Muḥammad, e a nessuno della sua comunità; ma anche Gesù è
fondatore di una Legge, ed ogni Legge ha ricevuto dei privilegi particolari (ikhtaṣṣat bi-ḥkām). Ora,
poiché egli si è discolpato dal sospetto di intendere le suddette espressioni nel loro senso
“manifesto” proponendo un paragone (cfr supra su Gv 10,30-36), è dimostrato che aveva il
permesso di pronunciarle (udhina lahu b-iṭlāqiha) e di utilizzare quel tipo di accezione metaforica.
Ma in ciò il cristiano non ha affatto seguito il Maestro: la sua pseudoesegesi consiste, in breve, nel
ricondurre alla natura umana (nāsūt) di Gesù i testi che ne indicano l’umanità, l’essere-uomo
(insāniyya), e di riferire alla sua natura divina (lāhūt) ogni passo “manifesto” (ẓāhir) che non è in
grado di interpretare (‛ajiza ‛an ta’wīlihi); sicché egli fa del suo Dio ora un uomo, ora una divinità
(yaj‛alu ilahahu tāratan insānan wa-tāratan ilahan).
In quest’ultima proposizione è implicito tutto il giudizio dell’Autore sui dibattiti cristologici: ma
una cospicua parte dell’operetta è dedicata alla confutazione per extensum delle “fazioni” cristiane,
rappresentate dai giacobiti (ya‛qūbīyya, la chiesa monofisita siriana), dai melchiti (malkīyya, sensu
latiore i cristiani ortodossi di lingua araba)31
e dai nestoriani (nusṭūrīyya).32
La discussione è tutta
condotta sul filo di una logica filosofica piuttosto razionalistica, che con i suoi acidi va ad attaccare
i nodi dottrinali in cui il dogma media tra la Rivelazione e l’intelletto umano.
La confutazione della cristologia “giacobita” si giova dell’equivocità del concetto di mescolanza
e delle sue implicazioni nel linguaggio monofisita.33
Secondo questa chiesa, la Divinità avrebbe
creato la natura umana di Gesù, e si sarebbe manifestata in essa con un legame che è come quello
dell’anima col corpo: con questo legame, si sarebbe prodotta (ḥadatha) una terza realtà (ḥaqīqa),
distinta da ciascuna delle due nature ma composta da entrambe, lāhūt e nāsūt, dotata di tutti gli
attributi (mawṣūfa) propri di entrambe e quindi insieme Dio e uomo: il Cristo. Si obietta che
l’esistenza di ogni composto dipende dall’esistenza delle sue parti componenti e dal loro modo
specifico di composizione, così come ciascuna parte, entrando in composizione, ha bisogno degli
altri componenti: ma, in questo caso, ne seguirebbe che la natura divina ha bisogno dell’uomo.34
Inoltre, se la Divinità, creata la natura umana, si fosse manifestata in essa unendosi ad essa, si
sarebbe prodotto un attributo divino (l’unione=ittiḥād) dopo la creazione di qualcosa: ma gli
attributi divini sono necessariamente esistenti (wājiba al-wujūd), mentre la relazione di una creatura
con la potenza divina che la fa esistere fa parte della categoria dei rapporti relativi (nisab wa-
iḍafāt), che non sono una realtà di per sé esistente, ad es. l’esser sopra e l’esser sotto e... essere
padre e figlio!35
30
Va detto, però, che non sarebbe difficile “islamizzare” anche il terzo versetto: vedere l’ultima parte sulla relazione
Mosè-Gesù nella prospettiva musulmana. 31
La riunione dei Melchiti con la Chiesa Cattolica Romana risale a Serafino Tanas (Cirillo VI, 1724-1759). Devo
questa precisazione al prof. Adnane Mokrani. 32
Non è qui il caso di sottolineare la specificità di ciascuna delle Chiese nominate (spesso le differenze dottrinali sono
state, nel corso della storia, piuttosto limitate), soprattutto perché l’Autore fa un’esposizione sui generis della
cristologia, completamente funzionale ad una refutatio che investe la tradizione cristiana nel suo complesso. 33
La presentazione di questa dottrina fa pensare piuttosto al nestorianesimo storico vero e proprio. 34
Si mostrerà poi come questa idea, apparentemente eretica ed irrazionale, sia (esotericamente) alla base delle
rivelazioni monoteistiche. 35
È già implicito in questa asserzione il modalismo estremo della successiva confutazione della Trinità.
17
La cristologia “melchita” somiglia di più a quella cattolica: la natura umana di Gesù e l’essenza
divina (dhāt al-ilah) sono due nature distinte (mutamayyazatāni), fra le quali non c’è mescolanza
(ikhtilāṭ) né fusione (imtizāj), ma ciascuna conserva le sue attribuzioni specifiche. Ora, il Cristo è la
persona (uqnūm) della natura divina soltanto, ed è una natura senza composizione, estratta (ukhidat)
dalle due nature, unita all’uomo universale (al-insān al-kullīyy, la natura umana come genere).36
Le
due obiezioni sono particolarmente interessanti: se ciò fosse vero, allora il Crocifisso stesso (al-
maṣlūb huwa) sarebbe Dio (superfluo dire che questo è il retto insegnamento cristiano, se bene
inteso);37
inoltre, o l’“uomo universale” esiste solo concettualmente (fi ’dh-dhihn), oppure, se anche
esistesse ad extra (fi l-khārij), avremmo, come assurda conseguenza, l’unione di Dio con tutti gli
uomini.38
La confutazione dei “nestoriani” è meno articolata e meno interessante, anche perché il
bersaglio sembra poco individuato.39
È invece assai notevole la parte iniziale della sezione
successiva (dedicata allo studio delle principali designazioni di Gesù Cristo), perché, con brusco e
sapido passaggio, la geometria della controversia scolastica cede ad un accostamento tra la persona
di Gesù ed uno dei gangli più vivi e dolorosi della mistica musulmana. Infatti, prendendo ad esame
il significato del nome “Dio” (ilah) in quanto riferito a Gesù, l’Autore si chiede se i cristiani lo
usino per magnificarlo (ta‛ẓīmihi), cioè in senso traslato, oppure per intendere la sua divinità
(ilahya), cioè in senso proprio. A questo punto osserva che la situazione è paragonabile a quella di
alcuni “grandi personaggi” dell’Islam, ad esempio di Abū Yazīd al-Bistāmī, che ha pronunciato le
espressioni subḥānī (“Sia gloria a me!”) e mā a‛ẓama sha’nī (“Quanto è sublime la mia
condizione!”) – ma l’Autore attribuisce la seconda ad un altro – e soprattutto di Ḥusayn ibn Mansūr
al-Ḥallāj, che disse anā Allāh (“Io sono Dio”, più nota la versione anā al-Ḥaqq, “Io sono il Vero”
i.e. Dio) e mā fi l-jubba illā Allāh (“In questa veste non c’è che Dio”). Si tratta delle famose
shaṭaḥāt, le “locuzioni teopatiche” che sembrano esprimere un livello estremo di unione uomo-Dio
(ittiḥād) e di inabitazione della Divinità nell’umanità (ḥulūl).40
Queste frasi, spesso brevi ed
interiettive, vengono imputate agli stati spirituali dei santi (aḥwāl al-awliyā’), potremmo dire alla
loro estasi, che impedisce il controllo del linguaggio (taḥaffuṭ fi l-maqāl). Si dice che i santi (i
mistici) siano ebbri (sukāra); i consigli dell’ebbrezza (majālis as-sukr) devono essere nascosti, e
36
L’Autore espone, in modo piuttosto avventuroso, la dottrina calcedoniese ortodossa: in Gesù Cristo le due nature,
perfettamente distinte, sono anche perfettamente unite nell’unica persona del Verbo che è Dio, il quale ha assunto la
natura umana in quanto tale, non una persona umana individuata. Da notare che la parola uqnūm, dal greco gnome
(conoscenza-volontà), è ancor più di hypostasis e persona esposta all’accusa di triteismo, laddove nel dogma trinitario è
chiaramente espresso che le tre ipostasi-persone hanno in comune una sola natura e quindi una sola conoscenza-volontà. 37
Infatti l’Autore dice “la divinità”, il che non è vero se si intende la Natura una della Trinità in quanto tale: è vero però
del Verbo, che “coinvolge” la Trinità nell’incarnazione, ma è l’unica persona ad incarnarsi in senso proprio. È chiaro
che questi “fraintendimenti” sono altrettanti corollari di una visione di Dio incompatibile con la Rivelazione trinitaria. 38
In altri termini: o l’ittiḥād, concepito in questo modo, è impossibile; oppure è possibile e reale per tutti gli uomini.
Questo argomento apparentemente banale è, a giudizio di chi scrive, suscettibile di un’amplificazione esoterica, come si
vedrà nell’ultima parte. 39
Si parla di un’ittiḥād che ha avuto luogo nella volontà (fi l-mashī’a), con probabile riferimento al monotelismo, già
confutato. Gesù, oltre a pregare per la propria salvezza, ha anche desiderato una cosa non avvenuta, la salvezza degli
Ebrei. Notiamo che l’Autore conclude per una separazione tra la Volontà divina quia talis e la volontà creaturale di
Gesù, sebbene egli, come tutti i Profeti e i Santi, abbia mantenuto il proprio volere sempre conforme alle prescrizioni
(aḥkām) di Dio 40
Le locuzioni di Ḥallāj citate dall’Autore esprimono soprattutto quella che potremmo chiamare una percezione del
fanā’, cioè, nel linguaggio sufico, dell’estinzione dell’individualità creata nell’Unità/Unicità divina. Il ḥulūl, invece,
l’immanenza di Dio in un individuo umano e nel suo corpo, suppone (come del resto l’unione, ittiḥād) una certa
permanenza della creatura come ricettacolo del Divino: di qui il possibile accostamento alla dottrina cristiana. Il testo
classico hallagiano sulla questione del ḥulūl è una sua poesia: “Io son Colui che amo e Colui che amo è me,/ siamo due
spiriti che dimorano in un corpo./ Da quando siamo in stretta intimità,/ la gente ci cita come esempio./ Se dunque vedi
me, vedi Lui,/ e se vedi Lui, vedi noi” (Diwan, tr. it. di A. Ventura, Marietti, 1987). L’accostamento tra il linguaggio di
Gesù e quello di Ḥallāj è anche in ‛Alaoddawleh Semnani, citato a questo proposito da Massignon e da Corbin (cfr. R.
Arnaldez, Gesù nel pensiero musulmano, tr. it. di F. Caponi, Ed. Paoline 1988, pagg. 168 ss.).
18
non riportati.41
In altri termini, le suddette locuzioni non implicano estremismo speculativo, o
consapevole, e quindi blasfemo, antinomismo (tanto l’eresia quanto il peccato presuppongono un
pieno uso delle proprie facoltà), ma sono la traccia dell’excessus mentis, o per meglio dire
dell’eccesso divino, nel fragile contenitore del linguaggio umano. L’Autore termina la breve
digressione sui toni dell’eloquenza religiosa: i mistici “ebbri” (ma forse sta anche parlando, di
nuovo, dei cristiani) attirano su di sé la derisione come gli ebbri tout court, ed anzi non trovano
negli altri alcuna empatia e compassione: la via d’uscita, l’alternativa, per loro, sarebbe quella di
non opporsi frontalmente alla ragione, prendendo i testi nel modo opportuno (diciamo,
“sobriamente”).
Continuando a passare in rivista le designazioni di Gesù, l’Autore nota che Rabb (“Signore”) è
un appellativo comune a Dio e al proprietario (al-mālik) di un bene; così come Ilah, “Dio”, può
essere applicato a tutto ciò che è grande (‛aẓīm), a tutto ciò che viene adorato, rettamente o a torto, e
all’uomo investito da Dio di autorità sugli altri uomini (Es 7,1: “Ti [i.e. Mosè] ho posto come dio
per Faraone”). Singolarmente, commentando 1Cor 8,5-6 (“Non c’è altra divinità che Dio solo,
anche se ci sono cose in terra e in cielo che vengono chiamate dèi: e sebbene ci siano molti dèi e
molti signori [arbāb], noi abbiamo un unico Dio, che è Dio Padre... e un unico Signore, che è Gesù
Cristo, che ha tutte le cose nella sua mano, ed anche noi siamo in suo potere [fi qabḍatihi]”),
osserva che, dopo la chiara testimonianza dell’Unico Dio, viene attribuita a Gesù solo la “mano del
possesso” (yad al-mulk): il che rimanda, forse, al ruolo non più solo profetico, assunto da Gesù
nella sua vita mortale, ma anche messianico, alla fine dei tempi (si ritornerà più tardi
sull’argomento).
Vengono lasciati alla fine gli appellativi neotestamentari più importanti: quello di Figlio per
Gesù Cristo, e di Padre per Dio. Dopo aver ricordato che, nella tradizione ebraica, la parola “figlio”
indica sempre il popolo di Israele (cita l’espressione “Israele mio figlio primogenito”, e Es 4,22-23,
Sal 103,13), è esplicitamente introdotta, per la prima volta, quella che forse è l’intuizione,
l’esperienza semitica fondamentale: la Misericordia. Lc 6,35-35 connette limpidamente filialità e
misericordia: “Sarete i figli dell’Altissimo, perché è misericordioso (raḥīm) con chi non è benevolo
e con i malvagi: siate misericordiosi come il Padre vostro”.42
Le proprietà del padre (del Padre)
sono: un’inclinazione ad essere ricco di tenerezza (ḥanan),43
dolcezza (ra’fa), misericordia (raḥma),
compassione (shafaqa) verso suo figlio: e in questo Dio è superiore ad ogni padre.44
Le proprietà
del figlio sono: rispettare (muwaqqiran) suo padre, glorificarlo (mu‛aẓẓiman), essere ricco di
venerazione (ḥayā’) per lui, ubbidiente (mumtathilan) ai suoi ordini: e in questo i profeti sono
superiori a qualunque figlio. Insomma, quando Gesù promette ai suoi discepoli la partecipazione
alla filialità, sta semplicemente dicendo: se obbedite a Dio, egli farà con voi ciò che un padre fa con
i suoi figli. I termini “padre” e “figlio” sono dunque accettabili, se ricondotti al loro statuto di
metafore della Misericordia: tutti i passi coranici in cui si nega che Dio abbia un figlio (ad es. Cor
6, 101; 4,171 e, ovviamente, la sura al-Ikhlās, 112) negano quindi la filiazione stricto sensu (la
dottrina cristiana della filiazione naturale), non il libero gioco dei traslati che non possono mai
definire Dio, ciò che Dio è.45
41
Cfr ‛Abd el-Kader, Il libro delle soste, Mawqif 322 (a cura di M. Chodkiewicz, Bompiani, 2001, pag. 100 ss.).
L’esoterico va celato: chi lo mette in luce pur essendo nel pieno possesso della ragione (come Ḥallāj stesso,
secondo‛Abd el-Kader), viene sanzionato sia dai dottori della Legge che dai mistici. Interessante la prospettiva
escatologica (o di escatologia esoterica): “Colui che, in questo mondo, dichiara di essere Allah, è dunque biasimato.
Benché ciò sia vero, di fatto lo è solo nella vita futura, allorché il servo diventa egli stesso creatore e se dice a una cosa:
‘Sii!’, la cosa è”. 42
C’è nella seconda parte del versetto un suggerimento che l’Autore non sviluppa, e che invece è centrale in Ibn ‘Arabī,
come vedremo. 43
Corrisponde alla hanna ebraica, da cui hannùn. 44
Cosa che ovviamente è sottolineata anche dal Cristianesimo, ma qui serve per suggerire lo scarto, il salto ontologico
che c’è fra l’Essenza divina, Dio in se stesso, e i suoi attributi e nomi come ciò che di Dio è in qualche modo
comunicabile agli uomini. 45
Particolarmente efficace il commento successivo a Gv 1,12-13 (“A coloro che credono nel suo nome e che non sono
nati né dal sangue, né dalla carne, né dalla volontà di un uomo, ma da Dio [Allah]”): la filiazione non va intesa
19
È il momento giusto per affrontare il testo giovanneo più importante, il Prologo del quarto
vangelo, e attraverso di esso la dottrina della Trinità. L’ampia discussione segna il ritorno in forze
dell’argomentazione filosofica, come del resto sembra richiedere il dogma cristiano, formulato in un
linguaggio in cui i dati della Rivelazione e il lume della ragione cercano un difficile equilibrio.
L’essenza (dhāt) del Creatore è una nel suo sostrato (mawḍū‛: in greco si direbbe che è una l’ousia),
ed ha degli aspetti (i‛tibarāt): abbiamo dunque la tipica tesi del modalismo monarchiano. Infatti, si
dice, usando la stessa radice verbale, che se l’essenza è considerata (u‛tubirat) come determinata
(muqayyada) da un attributo (ṣifa) la cui esistenza non dipende dall’esistenza anteriore di un altro
attributo – cioè se la consideriamo come Esistenza (al-wujūd) – abbiamo la persona del Padre. Se è
considerata come specificata da un attributo la cui esistenza dipende dall’esistenza anteriore di un
attributo – cioè se la consideriamo come Scienza (al-‛ilm), perché se un’essenza conosce, deve
prima esistere – abbiamo la persona del Figlio. Se è considerata come conosciuta (ma‛qūla),
abbiamo la persona dello Spirito Santo (Rūḥ al-Quds). In realtà, l’Autore qui compone una triade in
cui si confondono due livelli che il dogma cristiano distingue: quello dell’essenza, che corrisponde
alla natura divina unica, e quello delle relazioni o articolazioni interne (livello delle persone); ma è,
la sua, una tipica posizione del monarchianesimo estremo.46
Anche l’interpretazione successiva è
monarchiana: il Padre è l’Intelletto Puro (al-‛aql al-mujarrad), cioè l’essenza in se stessa, il Figlio è
il Conoscente (al-‛āqil), l’essenza in quanto conosce se stessa, lo Spirito è il Conosciuto (al-
ma‛qūl), l’essenza in quanto è conosciuta da se stessa. La triade cristiana sarebbe piuttosto, come
abbiamo visto, il Padre-Conoscente, il Figlio-Conosciuto e lo Spirito-Conoscenza: ma anche questa,
se non è compresa nell’accezione “nicena”, può essere di nuovo una triade di “modi” o nomi
dell’Unico Dio.
La lettura del prologo giovanneo non fa che estendere questa prima esegesi. “La Parola era
presso Dio” (wa l-kalima kāna ‛inda Llāh, gr. pros ton theòn) vuol dire che il Conoscente (al-‛ālim)
non ha mai cessato (lam yazal) di essere un attributo della Divinità, che Gli appartiene stabilmente
(thābitan). Così la “luce del Vero” (nūr al-Ḥaqq, gr. to phôs to alethinòn=la Luce Vera) è appunto
la luce di Dio-al Ḥaqq, di Dio in quanto Dio. A questo punto l’Autore ricorre, per la prima ed unica
volta, all’imputazione di taḥrīf bi-l-lafẓ (alterazione della lettera del testo), seppure come sospetto
ed ipotesi di lavoro, e non a caso riguardo al versetto più “indigesto” per la sensibilità monoteistica,
il 14: “E la Parola divenne carne (kai ho logos sarx egheneto)”, in arabo ṣāra jasadan (=divenne un
corpo di carne). Il “sostrato” di questo testo, l’Urtext insomma, sarebbe quello copto, dove, in luogo
del verbo “diventare” (ṣāra), abbiamo af’ara o af’er, che significa “fare” (ṣana‛a). La Parola, che è
Dio in quanto Conoscente, ha fatto un corpo,47
e questo corpo è Gesù, ed è Gesù che si è
manifestato (ẓahara): come preciserà più tardi, nelle cose dello spirito il “venire” (majī’) indica il
“mostrarsi” (ẓuhūr); non c’è discesa né inabitazione, ma la manifestazione della luce divina in una
creatura fatta essere dal nulla. L’Autore è qui esplicito e definitivo: come si può usare il verbo
“diventare” nel suo senso letterale, quando è possibile una lectio facilior ortodossa, che evita la
conclusione assurda di un Dio divenuto carne e seppellito dopo una morte di croce! Bisogna quindi
concludere che “Parola”, essendo un appellativo ambiguo (mushkil), non è esclusivo della Divinità;
può essere applicato ad un attributo divino, ma anche ad una creatura corporea in quanto dotata di
conoscenza e linguaggio. Se si vuol sottolineare che appartiene esclusivamente alla Divinità, si deve
letteralmente, ma come l’eccesso nella vicinanza di Dio (ifrāṭ fi l-qurbi) e nella dolcezza (raf’a) che ha verso gli
uomini. Cfr Cor 50,16: “E Noi siamo più vicini a lui della sua vena giugulare (wa-naḥnu aqrab ilayhi min ḥabli ’l-
warīd)” 46
Ciò è evidentissimo nella definitiva confutazione logica della Trinità che l’Autore propone a suggello della
discussione: il ta’wīl che i cristiani fanno della dottrina delle Persone li porta o al triteismo (esistenza di tre dèi sia nella
mente, come concetto, che ad extra), oppure alla negazione dell’Essenza divina. Quest’ultima non fa parte delle realtà
relative (mutaḍā’ifa), quindi non può essere considerata padre sotto una condizione e figlio sotto un’altra. Se si obietta
che l’Essenza è una/unica, ma può essere qualificata da quegli attributi, si deve rispondere che l’essenza e l’attributo
non sono sullo stesso piano di realtà, perché altrimenti avremmo cause necessarie con effetti altrettanto necessari:
togliendo l’effetto (attributo), avremmo così tolto anche la causa (essenza divina)! 47
Cfr Eb 10,5: “…un corpo invece mi hai preparato”.
20
ritornare al principio esegetico più importante dell’operetta: cioè diremo che Gesù è “Parola” per
via di metafora, in quanto c’è un’associazione di significato (mushārikatan fi mafhūmiha) tra i due
usi dell’appellativo. Il verbo usato è shāraka: quasi a dire che non c’è shirk (“associazione”, il
massimo peccato secondo l’Islam) ontologico tra Dio e altri da Lui, ma solo una certa
partecipazione della creatura agli attributi di Colui che l’ha creata, il che è in fin dei conti implicito
nell’idea di creazione e, più intimamente, in quella di Misericordia.
Questa traccia è seguita anche nell’esame degli ultimi passi neotestamentari, in particolare Gv
14,8-12.48
È un discorso di Gesù all’apostolo Filippo: “Chi vede me, vede il Padre... Non credi tu
che io sono nel Padre e il Padre è in me? Questa parola che dico non viene da me (laysa huwa min
‛indī), ma mio Padre che è presente in me (ḥāllun fiyya) compie queste opere... In verità, in verità vi
dico, chi crede in me farà le azioni che io faccio, e ne farà di ancor più grandi”. Da una parte, quelle
che sembrano senz’altro dichiarazioni di ḥulūl; dall’altra l’affermazione altrettanto netta, e assai più
compatibile con le idee del commentatore musulmano, che è Dio solo ad operare. Il nodo è sciolto
ancora una volta con il riferimento ad una profetologia immutabile: poiché Dio non può essere visto
dai suoi servi-adoratori, Egli ha designato i profeti affinché comunichino i Suoi decreti in Sua vece
(maqāma nafsihi), come i re che si velano al cospetto degli uomini. In altri termini, l’uomo è
khalīfatu-Llah, “vicario di Dio” sulla terra, e l’attribuzione di questo vicariato (istikhlāf) risplende
massimamente nei Profeti e negli Inviati, che sono il tramite dell’unica conoscenza di Dio possibile
all’uomo, quella dei Suoi ordini o decreti (aḥkām). Lettura squisitamente semitica: si deve
richiedere la conoscenza di Dio solo per avere la certezza che i comandamenti provengano da Lui, e
quindi per essere responsabile (mukallaf) di fronte alla Legge divina.
La parte finale del Radd prende in esame invece pochi e fondamentali versetti coranici,
iniziando da 4,171: “Gente del Libro, non siate eccessivi nella vostra religione (lā taghlū fī dīnikum)
e non dite di Dio se non la verità: il Cristo (al-Masīḥ), Gesù figlio di Maria, è inviato di Dio e la
Sua Parola gettata in Maria (wa-kalimatuhu alqāha ilā Maryam) e uno Spirito da Lui (rūḥun
minhu). Credete dunque in Dio e nei Suoi Inviati e non dite: ‘Tre!’...”. Ogni cosa ha una causa
prossima ed una causa remota: la causa prossima è dell’ordine delle causae secundae o cause
create, la causa remota è sempre Dio, “Colui che veramente opera” (aṣ-ṣāni‛ al-ḥaqīqīyy) in ogni
cosa. È un principio coranico che ha ricevuto una formulazione filosofica nell’“occasionalismo
atomistico” (A. Bausani) di buona parte del kalām musulmano: Dio è Causa Prima, e le cause
seconde o create non hanno consistenza ontologica; il mondo stesso non ha quindi continuità
d’essere, ma è creato da Dio ad ogni istante. Se vediamo prati verdeggianti, la causa prossima ed
evidente (ma che non ha solidità ontologica) è l’opera della pioggia, sebbene il vero Agente sia Dio;
se vediamo piante robuste in una terra arida in piena estate, la nostra attenzione si rivolge
immediatamente a Dio, Causa remota e vera, perché è venuta meno la causa ordinaria e apparente.
Ora, per quando riguarda la generazione (takwīn=esistenziazione) di Gesù, la Rivelazione coranica
ci indica chiaramente l’assenza di una causa prossima, ed è quindi un evento che viene messo in
relazione con la sua causa remota, cioè la kalima, la Parola di Dio: ogni creatura è infatti creata
dalla Parola di Dio, che dice a ciascuna “Sii!”, ed essa è (kun fayakūnu, Cor 36,82 et alia). La
Parola di Dio “gettata in Maria” è insomma l’ordine di esistenziazione (al-amr bi-t-takwīn) rivolto
alla creatura Gesù: è un’altra espressione da intendere nell’accezione metaforica, non in senso
proprio, come fanno i cristiani. Il Radd, prima di chiudersi su una questione filologica che non
fornisce spunti per il presente studio, ricorda il passo coranico in cui la generazione di Gesù, con
48
Meno interessante il commento di Gv 8,56-58, in cui Gesù dice: “Abramo ha desiderato di vedere il mio giorno... In
verità, in verità vi dico: io (sono) prima che Abramo fosse”. Abramo, come tutti i profeti, desiderava che durasse
l’obbedienza a Dio nel mondo e che continuasse la rivelazione delle Leggi (sharā’i‛), per questo gioì nel vedere in
ispirito la missione dell’inviato Gesù. Quanto all’anteriorità di Gesù rispetto ad Abramo, è semplicemente la
Conoscenza che Dio ha ab aeterno di tutti gli inviati che vuole manifestare agli uomini nel tempo. L’Autore allega a
questo punto il famoso ḥadīth in cui Muḥammad dice: “Ero profeta quando Adamo era tra l’acqua e l’argilla”.
21
madre e senza padre, è accostata a quella di Adamo, senza padre né madre, creatura uscita
direttamente dalle mani e dal soffio di Dio.49
Quest’opera, che è senz’altro un adversus Christianos, fa riecheggiare nel lettore cristiano la
profetologia dimenticata dei giudeo-cristiani o “ebioniti” (il Cristo semplice uomo), che dopo la sua
breve stagione storica è ricomparsa, in forma meno radicale, nel monarchianesimo di Ario: cioè
nella risposta razionale del monoteismo puro alla sfida che Gesù rappresenta per il pensiero di chi
crede in lui, o semplicemente di chi gli si accosta. Pur nella sua esemplarità, il Radd è altresì ricco
di prospettive originali, spesso implicite, che solo un occhio del cuore più acuto ed appassionato
può articolare e sintetizzare in una visione unitaria.
GESÙ IN IBN ‛ARABĪ, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL 15° CAPITOLO DEI FUṢŪṢ
AL-ḤIKAM
Muḥyīddīn ibn ‛Arabī, uno dei massimi maestri spirituali di ogni tempo, luogo e tradizione, ha
avuto un’esperienza travolgente di Gesù: ha incontrato ed accolto lo ‛Isā ibn Maryam del Corano,
della Sunna e dell’Islam in genere, ma ad un livello ben diverso dalla polemica teologica del Radd.
Se il tagliente e ordinato filosofo che ha composto la “Refutazione della divinità di Gesù” incalzava
i versetti evangelici, le affermazioni dogmatiche e le possibili obiezioni del masiḥīyy dimostrando
una buona preparazione scientifica, e scoprendo solo di rado, ma con intensa sobrietà, i propri
interessi spirituali; il Sommo Maestro (ash-shaykh al-akbar), Ibn ‛Arabī, prescinde quasi del tutto
dai testi e dai dogmi cristiani, e quando riprende le allocuzioni coraniche contro i loro errori, si pone
spontaneamente non sul piano del kalām (la teologia), ma dello ‛irfān (la gnosi, la conoscenza
esoterica). Seguiremo le sue intuizioni su Gesù come Sigillo dei Santi, e soprattutto, commentando
più da vicino il capitolo dei Fuṣūṣ al-ḥikam a lui dedicato, sulla sua stessa natura di “simbolo”
metafisico.
La profezia (nubūwwa), sia nella sua forma assoluta o tout-court (muṭlaqa), sia nella forma di
profezia legislatrice o invio di un “messaggio” normativo (risāla), è una relazione Dio-uomo volta
agli uomini e al loro essere-agire nel mondo (si parla non a caso di “discesa”, tanzīl). La santità
(walāya) è intimità e amicizia: come ogni cosa, appartiene principalmente e principialmente a Dio
(al-walāyatu ‘Llāhi ‘l-Haqqi, 18,44), ma in un senso particolarmente forte e pregnante. Se riferita a
Dio, è protezione, tutela misericordiosa del debole, dell’uomo, ma esercitata, a differenza della
Misericordia quia talis, su uno sfondo di affinità e prossimità: Dio è “il walī dei credenti” (3,68),
cioè li perdona ed è misericordioso con loro (anta walīyyuna fa’ghfir lanā warḥamnā, 7,155), ma lo
è in special modo dei ṣaliḥūn, gli uomini conformi alla Sua volontà, che Egli liberamente sceglie
(“Sì, il mio walī è Dio che ha fatto scendere il Libro e fa Suoi amici i ṣaliḥūn”, wa-huwa yatawallā
aṣ-ṣaliḥīn, 17,196). Riferita agli uomini, la designazione di walī/plur. awliyā indica la
partecipazione di/a questo compiacimento divino: i santi/amici di Dio sono coloro che Lo temono,
nel senso forte, religioso-mistico (al-muttaqūn, 9,34), ma che quindi, al tempo stesso, secondo la
vecchia idea biblica e in genere monoteistica, non hanno paura di altri da Lui (lā khaufun ‛alayihim,
10,62). Nella profetologia musulmana, i santi sono i seguaci/continuatori (at-tābi‛ūn) di un
particolare profeta e, al pari dei sapienti (‛ulamā), i suoi eredi (waratha), coloro che trasmettono il
suo messaggio, il suo deposito, custodendone il significato interiore e spirituale.50
Come dice però
Ibn ‛Arabī nelle Futūḥāt (vol. II p.252), la walāya in quanto tale è superiore alla profezia
legislatrice (risāla), ma nel senso che la santità di un profeta è superiore alla sua missione
normativa, non nel senso che un santo in quanto tale sia superiore ad un profeta in quanto tale,
49
“In verità Gesù è presso di Dio come Adamo, che Dio creò dalla polvere e poi gli disse: ‘Sii!’, ed egli fu”. 50
In un passo delle Futūḥāt si dice che i santi comunicano con Dio attraverso incontri notturni (asmār) e rivelazioni di
ḥadīth qudsī, parole divine enunciate alla prima persona. Si suggerisce insomma che la santità è il lato “notturno” e
quindi esoterico del “chiaro” e “diurno” annuncio profetico.
22
perché, come si è appena visto, non c’è santità senza profezia: non c’è custodia interiore senza la
manifestazione del decreto divino alla comunità. Quello che appare un paradosso, o una subtilitas
teologica estranea alla semplicità della Rivelazione, è in realtà uno dei fondamenti della
profetologia, non solo islamica. Con bella sintesi, Aḥmad Sirhindi, il “Rinnovatore del Secondo
Millennio” (Mujaddid-i Alf-i Thānī), parlerà di quattro “viaggi” spirituali: un “viaggio verso Dio” e
un “viaggio in Dio”, che corrispondono alle stazioni del fanā’ (estinzione dell’individualità creata
nell’Unicità Divina) e del baqā’ (la permanenza disindividuata in Dio), e che possiamo riferire
all’intimità, alla prossimità spirituale della walāya; e infine un “viaggio da Dio attraverso Dio” e un
“viaggio nelle cose”, cioè un ritorno alla molteplicità, al creato e all’umano che appare una
“discesa” ma è la pienezza del rapporto tra Dio e uomo, perché porta la Vicinanza tutta interiore dei
primi gradi nel cuore stesso dell’alterità e della ferialità; questo “ritorno” può essere riferito
senz’altro alla nubūwwa.51
Come c’è una profezia assoluta, una nubūwwa muṭlaqa (quella comune a tutti i profeti della
storia, a coloro che hanno portato un messaggio divino agli uomini), e una profezia legislatrice
(nubūwwatu-t-tashrī‛ o risāla, quella degli inviati, rusul, latori di un messaggio in senso forte, di un
Libro e quindi di una rivelazione giuridicamente-religiosamente vincolante); così c’è una walāya
muṭlaqa, la santità comune a tutti i santi in quanto seguaci dei diversi profeti, e la santità
muḥammadica (muḥammadiyya), quella cioè vissuta nella sequela del Profeta che ha portato agli
uomini la legge (sharī‛a) definitiva, abrogatrice delle anteriori, e che è quindi giustamente
designato come khatm an-nubūwwa, Sigillo della Profezia: dopo di lui, dopo il Corano, non c’è più
spazio per un’altra missione divina agli uomini prima delle cose ultime. In questa prospettiva
escatologica, la profezia muḥammadica, come stabilisce sul piano giuridico, shara‛itico, la tutela
dietro tributo (dhimma) delle comunità che hanno ricevuto un’autentica Parola profetica segnata in
un Libro (ahl al-Kitāb), così, su un piano più generale, di “storia sacra”, ricapitola tutte queste
Parole riconducendole all’unità e all’universalità, le sigilla e quindi, superandole, ne garantisce
anche la parziale validità agli occhi di Dio. A questo punto sorge una domanda, in cui l’escatologia
coranica e il suo approfondimento esoterico si connettono inestricabilmente: poiché esiste un Sigillo
della Profezia, esisterà anche un Sigillo della Santità, che custodisce spiritualmente la Profezia? E
se sì, in che senso? E chi è khatm al-walāya, come Muḥammad è, indubitabilmente, khatm an-
nubūwwa?
La domanda compare per la prima volta, senza esplicita risposta (il che ci pone già sul livello del
bāṭin, il “ventre” o interiorità, l’esoterico insomma dello ẓāhir, ciò che della Rivelazione è
“manifesto” ed esterno), nel Kitāb Khatm al-Awliyā’ (“Libro del Sigillo dei Santi”) di al-Ḥakīm al-
Tirmidhī (m. 898 ca.), il grande sufi khorasaniano in odore di ghulūww: ma è stato Ibn ‛Arabī, ash-
shaykh al-akbar, a riprenderla e a darle una risposta, complessa ma limpida, che si integra
mirabilmente nel suo vasto disegno metafisico-profetologico.
Muḥammad ha sigillato la profezia, non la santità: anzi, come abbiamo visto, il sigillo apposto
sulla profezia custodisce la santità e la specifica come santità muḥammadica, che a sua volta
custodisce spiritualmente la missione del Profeta. Ma se, al di fuori di questo significato, la santità
non è stata sigillata storicamente, lo sarà però nell’eschaton, nel punto di fuga delle cose ultime che
il Libro dell’Islam è disceso a rivelare e a collegare ad una figura messianica, ad una persona (più
esplicitamente della Bibbia ebraica, e meno del Nuovo Testamento), il Mahdi. Mentre
nell’interpretazione sciita, in cui il piano esoterico “innova” (dal punto di vista sunnita) la
profetologia, il Mahdi è il Dodicesimo Imam, che è anche il Sigillo della Santità; nella lettura
akbariana, che è esoterismo puro, il Sigillo della Santità è ‛Isā ibn Maryam, Gesù, il penultimo
profeta, il profeta della santità. Cercheremo ora di capire, leggendo alcuni testi akbariani ed in
particolare le pagine dei Fuṣūṣ, perché sia proprio Gesù il Sigillo dei Santi e in che senso lo sia:
cioè che senso abbia questa sua “ultimità” che, se non è certo quella riconosciutagli dai cristiani, ne
è per così dire una traccia più povera e più esoterica al tempo stesso.
51
Vedi Shāh Aḥmad Sirhindī, L’inizio e il ritorno, a cura di D. Giordani, Introduzione pp. 23-26.
23
Gesù chiude ed apre. Come nabī e rasūl, egli sigilla il ciclo storico adamico, cioè il tempo
intercorso tra la creazione del primo uomo (che per l’Islam è anche il primo profeta) e il proprio
stesso invio al popolo ebraico. Secondo la rivelazione coranica, egli è venuto a confermare
(muṣaddaqan) la Torah consegnata attraverso Mosè, ma anche per dichiarare lecite (li-uḥilla) agli
ebrei alcune delle cose che in essa erano state proibite, dichiarate ḥarām – e qui abbiamo una
ripetizione, già relativizzata ma abbastanza fedele, dei principi enunciati nel Discorso della
Montagna –; ma soprattutto Gesù ha recato la buona notizia, l’euanghelion (mubashsharan),
dell’invio dopo di lui di un Profeta già annunciato velatamente nella Torah,52
e che egli chiama col
nome di Aḥmad (61,6). Questo rasūl nabī, che è altrove chiamato ummī (probabilmente
“illetterato”, cfr 7,157), è Muḥammad stesso, identificato con l’oggetto dell’enigmatica profezia di
Gv 15,26: “[Gesù disse:] Quando verrà il Paraklētos, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della
Verità (to pneuma tes aletheias) che procede (ekporeuetai) dal Padre, egli testimonierà di me”.
Secondo un’ipotesi largamente accettata dai commentatori musulmani, avremmo qui un caso di
taḥrīf an-naṣṣ: non bisogna leggere Paraklētos, l’“Avvocato-Consolatore” (probabile traduzione
dell’ebraico Menahem, “Consolatore”, appellativo di Dio in quanto redentore e, per partecipazione,
del Messia), ma Paraklytos, l’Inclito, il Lodato, che è il significato immediato dei nomi arabi
Muḥammad e Aḥmad. Si tratta quindi di un’umile apertura al futuro Sigillo dei Profeti e, in lui,
all’eschaton: Gesù è veramente Annuncio dell’Ora escatologica (‛ilmun li-ssā‛ati, 43,61), e molti
aḥādīth estendono questi cenni, precisano le allusioni. Se il Corano (4,159) rivela che “non c’è fra
la Gente del Libro nessuno che non creda in lui [in Gesù] prima della sua morte,53
ed egli sarà un
testimone contro di loro nel Giorno della Resurrezione”, un ḥadīth del Profeta recita: “Per mezzo di
Colui che tiene la mia anima tra le Sue mani, è in verità con estrema prontezza che il figlio di Maria
discenderà tra voi come arbitro inviato per espandere con equità la giustizia tra voi”. In altri termini,
Gesù è sovrapponibile al Mahdi, e quindi confermerà messianicamente la parabola della
Rivelazione muḥammadica, che coincide con il secondo ciclo o ciclo muḥammadico, il tempo cioè
della storia sacra-profetica in cui il Nome divino “l’Occulto” (al-Bāṭin) cede al Nome “il
Manifesto” (aẓ-Ẓāhir): il tempo insomma in cui non ci sono più residui di non-manifestazione nella
comunicazione Dio-uomo, perché la Legge data attraverso Muḥammad è, in quanto Legge,
definitiva, abrogazione delle rivelazione normative anteriori ma, appunto, ricapitolazione e sigillo
del loro intimo significato. In un altro ḥadīth, il Profeta enuncia con grande semplicità questa
scansione della storia sacra, e distingue fra l’“ultimità” di Gesù e la propria mettendole in relazione:
“Tra gli uomini, io sono il più vicino al figlio di Maria; tra lui e me non c’è nessun profeta”, in virtù
appunto della promessa del Paraclito-Aḥmad. Più specificamente escatologico è il testo seguente:
“Gesù figlio di Maria discenderà sulla terra; si sposerà, avrà dei figli e vivrà quarantacinque anni.54
Poi morirà e sarà sepolto con me nella mia tomba. Allora Gesù figlio di Maria ed io ci alzeremo da
una sola tomba alla resurrezione, tra Abū Bakr e ‛Umar”, cioè tra i primi e i più importanti dei
khulafā’ ar-rashidūn, i “califfi (successori del Profeta) ben guidati”. Qui Gesù è perfettamente ed
icasticamente integrato nella storia profetica musulmana, ed è anzi strettamente congiunto alla
persona stessa dell’Inviato dell’Islam. Secondo Ibn ‛Arabī, che parte da questi dati per dare un
52
In particolare in Dt 18,15.18-19. 53
Qabla mawtihi: prima della morte del credente abramico, o prima della morte di Gesù? Nel secondo caso, avremmo
un rinvio esplicito, confermato dal resto del versetto, alle Cose Ultime: Gesù non è davvero morto, secondo il docetismo
coranico, ma Dio lo ha “elevato” a Sé in una ascensione simile a quella di Elia e di Idris-Enoch, e l’intera Gente del
Libro crederà al suo messaggio prima del suo ritorno definitivo suggellato dalla morte (è una prospettiva messianica
con cui Paolo stesso, in un senso evidentemente molto diverso, aveva letto la drammatica questione dell’“incredulità”
giudaica). 54
Notiamo, en passant, che questa parusia ancor più “umana” (dopo la prima venuta che, per i cristiani, è la discesa del
Verbo nell’umiltà della carne, in similitudine carnis peccati, e per i musulmani è la missione di un profeta specialmente
designato ad insegnare agli uomini il cammino ascetico) rappresenta, ad occhi semitici, un “riempimento”, quasi una
“compensazione” di quei “vuoti” (soprattutto il celibato e ciò che ne consegue) in virtù dei quali la pretesa e
difficilmente imitabile sublimità della vita del Gesù storico si configura piuttosto come una deminutio rispetto
all’esempio “totale” del profeta (e, in particolare, del Profeta in senso stretto).
24
esoterico colpo di sonda, Gesù tornerà nell’Ora conosciuta da Dio solo (egli è ‛ilmun dell’Ora, e
non ‛ālim, come ben rilevava nella sua esegesi l’Autore del Radd) per assimilarsi, con evidenza
messianica, alla umma muḥammadica e, in questa prospettiva, egli sarà il Sigillo della Santità
muḥammadica (della walāya come specifica sequela di Muḥammad), così come storicamente è
stato Sigillo della santità dei profeti venuti prima di lui e di cui ha chiuso il ciclo: in tal modo,
“Gesù, benché sia egli stesso un Sigillo, sarà lui stesso sigillato da questo Sigillo muḥammadico”
(Futūḥāt III p. 514). Egli non è il Mahdi, che, come il Messia ebraico è discendente carnale del re
profeta David, sarà del lignaggio umano del Profeta, Muḥammad: egli è Sigillo della santità
assoluta (muṭlaqa) proprio in quanto erede spirituale di Muḥammad, perché la walāya, lo abbiamo
già visto, è questa eredità spirituale, questo lignaggio interiore; e quando ci sarà il suo Secondo
Avvento, sarà pienamente vero che “non ci saranno dopo di lui dei santi per una profezia assoluta”
(Futūḥāt II p.50). Per accostarsi alla luce di questo mistero, bisognerà esaminare più da vicino la
lettura akbariana di Gesù alla luce della profetologia e della metafisica del Maestro di Murcia.
In diversi passi delle Futūḥāt, Ibn ‛Arabī ha messo in rilievo due peculiarità della rivelazione
coranica a proposito di Gesù. Nella sua totalità, il Corano è dhikr (menzione-ricordo) in un senso
unitario ma complesso: è ricordo-menzione di Dio consegnata “ai mondi” (li-l-‛ālamīn), tanto da
configurarsi, al pari della Torah nella tradizione ebraica, come un unico Nome Divino il cui dhikr
rende in parte presente l’Assente per eccellenza;55
ed è anche ricordo-menzione degli uomini di
Dio, dei profeti-inviati, la missione di ciascuno dei quali è custodita nel Corano come ‛ibra
(insegnamento) e mithāl (modello, paradigma) per tutti gli uomini. Ogni profeta ha portato nel
mondo il dhikru-Llāh in una forma imperfetta ma reale, e il Libro che porta questo dhikr alla sua
pienezza li ricorda-menziona a sua volta, spesso con la formula udhkur (“Ricorda” il tal profeta),
adempiendo così, in chiave profetologica, una delle maggiori promesse divine: “Ricordatevi di Me.
Io Mi ricorderò di voi” (2,152). Ma il profeta Gesù non viene menzionato-ricordato in questo modo
nel Corano: riprendendo in parte la visione neotestamentaria, secondo la quale in lui si compiono
quelle che nella Scrittura ebraica erano anticipazioni e promesse, egli è soprattutto oggetto di
annuncio: “Dio insegnerà a Gesù il Libro, la Sapienza, la Torah e il Vangelo” (2,48); “O Gesù, in
verità Io ti chiamerò a me (innī mutawaffīka) e ti farò ascendere a Me”; e Gesù stesso parla dei suoi
miracoli al futuro (cfr 3,49), in una prospettiva che non è già più quella evangelica, ma è lo sguardo
a volo d’aquila, metastorico, con cui il Libro riconduce a sé i profeti del passato e ne fa, appunto,
insegnamento e modello per gli uomini e i mondi. Qui entra la seconda peculiarità del discorso
coranico su Gesù: Ibn ‛Arabī affianca più volte i due “saluti”, uno rivolto a Giovanni Battista
( ) e l’altro a Gesù, nella Sura di Maria, che ripercorre la storia sacra ebraica menzionando-
ricordando tutti i suoi profeti (secondo l’Islam). Giovanni, la cui nascita appena annunciata è sotto il
segno del miracoloso veterotestamentario (la gravidanza della sterile), viene salutato in questo
modo:
“Pace su di lui (salāmun ‛alayhi) nel giorno in cui nacque, nel giorno in cui morrà e nel giorno in
cui sarà resuscitato” (19,15).
Gesù invece, che è da poco nato attraverso un miracolo nuovissimo ed inaudito, parla agli ebrei
increduli dalla culla come il puer prodigioso degli Apocrifi, e dopo aver enunciato brevemente la
propria futura missione, rivolge a se stesso un saluto quasi identico a quello di Yaḥyā:
“La pace sia su di me (as-salāmu ‛alayya) nel giorno in cui nacqui, nel giorno in cui morirò e nel
giorno in cui sarò resuscitato” (19,33).
Come i primi testi sembrano suggerire lo statuto messianico di Gesù, il suo essere “segno” (āya)
in modo unico ed irripetibile, così queste parole di saluto alludono, per Ibn ‛Arabī, ad un tratto
55
È questo uno dei fondamenti della pratica spirituale del dhikr.
25
ancor più essenziale della sua natura di uomo ed Inviato. La somiglianza fra i due versetti non
nasconde due vistose differenze: Gesù non riceve la “pace” da una parola divina a lui esterna, ma la
invoca su se stesso in prima persona; inoltre non chiede “una pace”, salāmun, ma “la pace”, as-
salāmu. La prima osservazione rimanda ad una delle principali intuizioni di Ibn ‛Arabī su Gesù: il
suo uso frequente e pregnante (che invero è molto più significativo e pervasivo, come ovvio, nei
Vangeli) della prima persona, la persona del mutakallim, di colui che parla. Nella fede e nel
pensiero cristiani questo “io”di Gesù, confrontato con il “noi” (“Io e il Padre”) specialmente
giovanneo, è il nous di Cristo, la sua persona in senso cristologico-trinitario. Ad Ibn ‛Arabī le
implicazioni appaiono del tutto diverse, ma rimane questa singolarità (khuṣūṣiyya, direbbe l’Autore
del Radd) di Gesù: il saluto non gli viene indirizzato nella terza persona, la persona dell’assente (al-
ghā’ib), ma è lui stesso, Parola di Dio (kalimatu-Llāh), la parola che Dio gli rivolge, e quindi egli,
pur essendo nient’altro che un uomo, se la assume.56
Mentre il ricordo-menzione degli altri profeti
postula immediatamente un’alterità tra il profeta e la parola che lo nomina, la parola-Gesù sembra
identificarsi (o rischia di identificarsi) con la parola di Gesù su Gesù. La seconda osservazione,
quella sul saluto “pace” in forma indeterminata per Giovanni e determinata per Gesù, entra ancor
più in profondità: “la Pace” (as-salām) è uno dei Nomi di Dio e quindi uno dei Suoi attributi; nel
caso di Giovanni, la Pace divina si manifesta su di lui come su tutte le altre creature, in modo
generale: nel caso di Gesù, egli stesso è la manifestazione del Nome e dell’Attributo “la Pace”.
Secondo il commento di ‛Abd ar-Razzāq Qashani: “Dio dà a Se stesso il saluto di pace, a causa
della Sua auto-determinazione nella sostanza cristica (‛isawī)”: Dio saluta Se stesso attraverso
Gesù; ma questo è, come vedremo, ciò che secondo il pensiero akbariano accade in ogni creatura, e
in modo speciale, ma non essenzialmente diverso, in quelle creature spirituali che ne sono
consapevoli: i mistici, ovvero gli awliyā’.
Invece di esporre i lineamenti della profetologia di Ibn ‛Arabī e di inserire Gesù nel suo
complesso disegno (impresa per la quale ci difettano e lo spazio e le conoscenze), tenteremo di
accostarci al Gesù akbariano leggendo il Faṣṣ ḥikma nabawīyya fi kalima ‛isawīyya (“Castone della
sapienza profetica nella parola di Gesù”) alla luce di una designazione di Gesù che troviamo nel
breve poema di apertura del capitolo: mathal bi-takwīn, “un simbolo dell’esistenziazione”.
Il nesso tra la persona, l’essenza di Gesù e il miracolo del suo concepimento e della sua nascita è
ben chiaro tanto ai cristiani quanto ai musulmani. Se però la coscienza del credente ingenuo tende a
vedere nel miracolo la lacerazione divina ed improvvisa di un tessuto di leggi stabili perché create,
Ibn ‛Arabī sottolinea spesso, come anche l’ultima sezione del Radd, che la creazione stessa è un
miracolo continuo e che qualunque fenomeno in qualunque mondo risale immediatamente, come
effetto, alla Causa Prima ed Unica. Non c’è rottura di un saldo intreccio, perché non si dà alcun
saldo intreccio “fuori” dall’azione divina. Secondo il Maestro andaluso, esistono quattro modi della
generazione umana, che si sono tutti manifestati nella storia sacra: Adamo è stato generato dal
soffio di Dio per mezzo dell’argilla, come l’opera di un vasaio; Eva è stata generata dal solo
maschio, cioè dal corpo di Adamo, come un’immagine scolpita nel legno (“per via di levare”). Con
un’intuizione perfettamente gnostica, che ricorda anche passi upanishadici, Ibn ‛Arabī sostiene che
il vuoto così apertosi in Adamo è diventato desiderio, eros, per la creatura vivente uscita dal suo
fianco. Dall’unione dell’“acqua” o seme maschile e dell’“acqua” femminile sono nati tutti gli altri
uomini: l’embrione-golem si costituisce come un “grumo di sangue” (‛alaq, cfr sūratu l-‛alaq 96),
cui Dio poi dà la forma umana e sul quale infine soffia il Suo spirito. In questi tre casi, abbiamo
sempre una materia prima (beninteso già creata e plasmata da Dio) e, successivamente, l’effusione
del Soffio che la vivifica: “Dopo che l’avrò [i.e. Adamo, ed ogni uomo] formato in modo armonioso
56
In un passo dei Fuṣūṣ è evidente che Ibn Arabī non considera questa differenza un segno della superiorità di Gesù su
Giovanni: se infatti le parole di Gesù sono “più perfette sul piano dell’unificazione” (akmal fi l-ittiḥād), quelle di
Giovanni sono più perfette “sul piano dell’unificazione e della credenza insieme” (fi l-ittiḥād wa-l-i‛tiqād) (I pp.175-
176). Infatti la prima persona è più ingannevole della terza (sembra quasi una rilettura esoterica dei passi del Radd sulla
scarsa prudenza espositiva di certi santi a proposito di unione e ḥulūl), che invece rimanda chiaramente a Huwa, il “Lui”
per eccellenza, il Divino come Assente.
26
(sawwaytuhu) e che avrò soffiato il lui il Mio Spirito (fanakhaftu fi-hi rūḥī), prosternatevi a lui
[sono parole che Dio rivolge agli angeli]” (15,29). La generazione di Gesù, pur essendo in tutto e
per tutto la generazione di un uomo, cioè di un discendente di Adamo, è invece singolare già
secondo il testo coranico, che la accosta alla prima, cioè a quella di Adamo stesso: “In verità Gesù è
presso di Dio come Adamo, che Dio creò dalla polvere e poi gli disse: ‘Sii!’, ed egli fu” (3,59): egli
è stato creato da Dio attraverso il grembo di una donna, che in qualche modo è per Gesù ciò che la
terra vergine è stata per il Progenitore; è nato da una donna come ogni altro uomo, ma senza padre,
e direttamente da Dio in senso proprio e forte (non nel senso reale, ma limitato, comune a tutti)
come Adamo. Tuttavia per Ibn ‛Arabī c’è una differenza notevole, che cercheremo di studiare più
tardi: nella creazione di Gesù, l’effusione dello Spirito non è successiva alla formazione del corpo,
ma inerente ad essa; il corpo di Gesù è stato formato nell’istante stesso in cui lo Spirito è stato
insufflato.
Leggiamo brevemente il poema sopra menzionato. Lo Spirito [che qui indica Gesù stesso, come si
vedrà] fu posto in esistenza (takawwana) a partire dall’acqua (seme) di Maria e dal soffio (nafkh) di
Gabriele nella forma (ṣūra) dell’uomo fatto d’argilla (Adamo e, in lui, tutti gli altri uomini), in
un’essenza purificata dalla natura (ṭabī‛a)... Uno spirito da Dio, non da altri (cfr Cor 4,171, rūḥun
minhu), e per questo fece rivivere i morti e formò l’uccello d’argilla: egli ha una relazione
(nasabun) tale da parte del suo Signore, che mediante essa agisce (yu’aththiru) in alto e in basso.
Dio lo purificò nel corpo (jisman) e lo mantenne intatto nello spirito (rūḥan), e lo rese simbolo di
esistenziazione (mathalan bitakwīn). Notiamo anzitutto che qui, come in tutti i passi seguenti, lo
Spirito, lungi dall’essere l’ipostasi divina dei cristiani, è piuttosto l’energheia creatrice e
trasmutatrice di Dio nel mondo considerata nei suoi molteplici aspetti: talora ricorda il pneuma
stoico diffuso in ogni cosa, o il pneuma phantastikòn del platonismo tardo, in cui si profilano le
immagini anteriori ai fenomeni materiali, o lo spiritus ermetico come agente della trasformazione e
mediatore tra materiale ed immateriale. Infatti le righe successive ci trasportano in un’atmosfera
indubbiamente ermetica: vi si legge che è proprietà degli spiriti di non mettere i piedi su alcuna cosa
senza che essa viva e la vita si diffonda (sara’a) in essa. È poi citato il passo su as-Samīrī che anima
il vitello d’oro con una manciata di polvere raccolta dall’impronta di Gabriele, essere spirituale
(20,96): l’episodio dell’idolo aureo venerato dagli ebrei nel deserto è stato assunto, negli esoterismi
di tutte e tre le tradizioni abramiche, come metafora massima dell’opus alchemico.57
Qui è da
segnalare che le parole lāhūt (natura divina) e nāsūt (natura umana), già incontrate nel Radd per
“tradurre” i concetti della cristologia, vengono utilizzate in modo liberissimo: lāhūt è il potere della
vita diffusa in tutte le cose, mentre nāsūt è il ricettacolo (maḥall, “luogo epifanico” secondo Corbin)
che prende vita attraverso lo spirito-lahut, e a causa sua viene anch’esso chiamato Spirito. Iniziamo
ad intuire perché Ibn ‛Arabī, all’inizio della poesia, abbia usato il nome Rūḥ con chiaro riferimento
a Gesù.
Nel passo seguente, di estremo interesse e di vertiginosa densità, il Maestro riprende un’idea
comune all’esoterismo ebraico (ad esempio la Yiggereth ha-qodesh attribuita a Nachmanide) e al
pensiero ermetico di matrice cristiana (valga per tutti Paracelso): quella del ruolo della fantasia nel
concepimento, che è evidentemente un corollario della dottrina dell’“immaginazione creatrice”. Ne
isoleremo gli spunti più importanti. Con una serrata esegesi dei famosi versetti della sura di Maria,
Ibn ‛Arabī ricorda che Gabriele si manifestò a Maria assumendo l’aspetto (tamaththala) di un uomo
ben fatto, ed ella immaginò (takhayyalat) che si trattasse di un uomo che voleva avere rapporti con
lei: sapendo che ciò non era lecito, prese rifugio in Dio con tutta se stessa, ed ottenne uno stato di
Presenza perfetta (ḥuḍūr tāmm), che è lo spirito intellettuale (ar-rūḥ al-ma‛nawīyy).58
Qui
57
Quella polvere non può non ricordare la polvere di proiezione, che è la pietra filosofale specificata per agire sul
mondo metallico, per mutare cioè i metalli vili in oro. 58
Potremmo dire, in altri termini: Maria, rifugiandosi in Dio, sperimentò un’intensa concentrazione (un indiano direbbe
un forte stato di tapas), che coincide con il piano interiore del rūḥ; ciò le rese possibile, sia pure all’inizio sotto le
specie di una prova, accogliere lo Spirito fuori di lei.
27
l’osservazione è notevole: se Gabriele avesse soffiato in lei in quel momento (waqt)59
mentre era in
quello stato spirituale (ḥāla),60
Gesù sarebbe stato un profeta scontroso ed insostenibile per gli
uomini. Ma poichè Gabriele le spiegò il significato della sua missione, Maria si distese da quella
contrazione (inbasaṭat ‛an dhālik al-qabḍ),61
il suo petto si dilatò (ansharaḥ), e in quel momento
Gabriele soffiò in lei Gesù. Importante la similitudine seguente: Gabriele era il trasmettitore (nāqil)
della parola di Dio a Maria, come l’Inviato trasmette la parola di Dio alla propria umma; Maria è
immagine del popolo intero, come nella tradizione cristiana, sebbene ovviamente in un senso ben
diverso. Ma ecco ora il passo forse più esoterico e provocante: in Maria, ormai fiduciosa e pronta, si
diffonde il desiderio d’amore (shahwa), l’eros; e il corpo di Gesù fu creato a partire dall’acqua-
seme reale (muḥaqqaq) di Maria e dall’acqua-seme illusoria (mutawahham) di Gabriele. Quindi
Gesù fu partorito in forma umana a causa della madre – che davvero apparteneva alla specie umana
– e a causa del “padre” Gabriele – che si era manifestato a lei come “uomo ben fatto” –: la legge
ordinaria della generazione umana è stata, anche in questo caso miracoloso, rispettata.
Il modo del concepimento di Gesù mette per sempre la sua natura sotto il segno di quella che
potremmo chiamare una dualità apparente, o una dualità non-duale: la madre ha veramente offerto il
proprio seme e il proprio ventre, ma spinta dal wahm, cioè dall’illusionistica suggestione indotta in
lei dalla parvenza umana di un angelo, che prima l’aveva sollecitata a rifugiarsi in Dio (e in se
stessa) e poi l’ha mossa fuori di sé in un empito di desiderio amoroso; ma questo wahm è veicolo di
una realtà, perché l’angelo è uno spirito, e nello spirito c’è la vita al suo stato principiale e sottile.
Quindi, Gesù è nato davvero, ma con un corpo di natura ambigua, oserei dire enigmatica.
Le righe successive sono particolarmente difficili. Come è di Dio la parola che ha creato Gesù (e
che crea tutti: il Kun!, ‘Sii!’, di Dio), ma è di Gabriele il soffio che l’ha generato; così, nei miracoli
più grandi di Gesù (la revificazione dei morti e la coranica animazione di un uccello d’argilla), la
vivificazione in sé (iḥyā’), l’atto, era di Dio, e il soffio (nafkh), l’energia che ha fatto da ricettacolo
all’atto, di Gesù. La sua azione di revivificare i morti era illusoria (mutawahham) in quanto
proveniente da lui, ma anche reale (muḥaqqaq) in quanto proveniente da Dio e dal suo soffio di
uomo, così come era reale il seme di sua madre che l’ha concepito. Poiché Gesù riuniva nella sua
natura (bi-ḥaqīqatihi) illusione e realtà, si è prodotta quella che i cristiani chiamano communicatio
idiomatum, cioè la possibilità di scambiare gli attributi della divinità e dell’umanità di Gesù in virtù
dell’unione ipostatica (per cui si può dire che “Dio è nato” e che l’uomo Gesù era “Signore”); ma
che, per il Maestro andaluso, è in realtà effetto della “perplessità” (ḥayra)62
di coloro che furono
testimoni degli atti di Gesù, ed oscillarono così tra i due poli della sua persona. Infatti Gesù, mentre
ridava vita ai morti, era così identificato col potere del suo “padre” immaginale, Gabriele, che gli
uomini dicevano che era lui e non era lui (huwa lā huwa), perché vedevano la sua forma umana
accompagnata dall’influsso (athar) divino. Per questo molti arrivarono a parlare di ḥulūl (=la
Divinità era presente in lui), e dissero che Gesù era Dio, cadendo così nella miscredenza (kufr). Ma
Ibn ‛Arabī dà un’etimologia esoterica del termine scritturale-teologico: la radice k-f-r vuol dire
“nascondere”, perché quegli uomini, i primi cristiani, velarono (verbo satara) Dio che realmente
ridava vita ai morti attraverso (bi) la forma umana di Gesù.63
La critica alla visione cristiana è
59
Il waqt è il concreto istante spirituale. 60
Il ḥāl è uno stato spirituale in genere impermanente, a differenza del maqām (stazione), che invece è durevole. 61
Si tratta, come in tutto il passo, di termini tecnici del sufismo: il qabḍ (contrazione) è lo stato di chi, “afferrato” da
Dio, viene sottratto o rapito alla molteplicità e a se stesso; il basṭ (distensione), spesso successivo al qabḍ, è invece la
fiduciosa apertura dell’anima sotto il tocco della Misericordia divina. È quindi un’idea legata a quella (espressa poco
dopo) di inshirāḥ, la dilatazione del petto quando può “respirare” il Soffio della Misericordia. 62
Secondo un ḥadīth spesso citato da Ibn Arabī, il Profeta chiese a Dio di accrescere la sua perplessità nei Suoi
confronti. La si può considerare una sorta di corrispettivo mistico del thaumazein o della docta ignorantia filosofici. 63
Bi (particella che vuol dire “in”, “attraverso”) è correttamente usato nell’espressione coranica bi’idhni-Llāh, “col
permesso di Dio” (cfr 3,49): Gesù riconosce di agire attraverso Dio, o meglio, riconosce che l’agente è Dio e che
l’uomo ne è lo strumento. Ma l’uso della preposizione en nei Vangeli (soprattutto in Giovanni), che ha significato non
dissimile dal be-bi ebraico ed arabo, viene piegato, dal punto di vista del commentatore musulmano, ad esprimere lo
ḥulūl (“in” locativo), e poi, nella teologia cristiana, l’ipostatizzazione trinitaria (“in” come “spazio giovanneo”, cioè lo
spazio dell’unità-distinzione delle Persone).
28
radicale e complessa: essi non sono solo incorsi nella miscredenza, ma hanno anche errato nel senso
del ghulūww, della mancanza di equilibrio (cfr 4,171); infatti non hanno semplicemente detto che
Gesù è Dio (il che, come vedremo, nella prospettiva akbariana avrebbe un significato preciso), né
che era il figlio di Maria e basta, ma lo resero uguale a Dio (‛adlū) attraverso il taḍmīn, cioè
“rinchiudendo” il divino in Gesù. Insomma, non fecero della divinità l’essenza (‛ayin) della forma
umana di Gesù (altra espressione non incompatibile con l’esoterismo akbariano), ma anzi fecero
dell’Ipseità Divina, di Dio in quanto è l’Assente (al-huwiyya al-ilahiya), il principio (ibtidā’, archè)
della forma umana che è il figlio di Maria (=il Verbo si incarna in un uomo), e poi distinsero tra
questa forma e il suo principio divino (=distinzione tra natura umana e divina in Gesù). L’Autore
poi fa una originale presentazione delle più antiche “divisioni” teologiche cristiane: 1) Gesù, a
causa della sua forma umana apparente, è messo in relazione con l’apparizione di Gabriele
(cristologia ebionita e cristologia di Gesù-angelo); 2) a causa della sua natura spirituale (rūḥiyya), in
virtù della quale risuscitava i morti, è chiamato Spirito di Dio, rūḥu-Llāh (cristologia di Gesù-
spirito). Ma il punto è che non hanno mai centrato la questione della natura di Gesù, la conoscenza
della quale, a causa della compresenza di un principio immaginario e di un principio reale e
positivo, non può che manifestarsi sotto forma di congetture; quindi egli era, per chiunque lo
guardasse (‛inda kulli nāẓirin), conforme a ciò che si imponeva a lui in quel momento (bi-ḥasbi mā
yaghlabu ‛alayhi):64
Parola di Dio, Spirito di Dio e Servo di Dio. Ciò non è accaduto con
nessun’altra creatura, a causa del modo singolare della generazione di Gesù, su cui l’Autore trova
qui una parola defintiva: mentre nella generazione di tutti gli altri uomini, come si è visto, lo Spirito
viene soffiato sul corpo già “formato in modo armonioso” (15,29) – e quello, chiosa Ibn ‛Arabī,
risale a Dio sia nella propria essenza che nella propria esistenza – nel concepimento di Gesù la
formazione del corpo era compresa, o inclusa (indarajat), nell’atto stesso del soffio di Gabriele.
L’essenza di Gesù è spirito: per questo, nelle Futūḥāt, Ibn ‛Arabī lo chiama direttamente “Spirito e
Figlio dello Spirito”; ma, come ha detto all’inizio, anche il ricettacolo materiale vivificato dallo
spirito è spirito. Il corpo di Gesù, insomma, è alchemico: come la pietra filosofale, è caro
spiritualis, materia spirituale, mediazione tra materia e spirito. Per questo tutto ciò che egli toccava,
prendeva vita. Per questo “il suo passaggio all’esistenza somiglia alla resurrezione” (Futūḥāt III
p.514), ed egli è un segno, e una primizia, della resurrezione.
Da quest’ultima considerazione è dato vedere chiaramente che, se il discorso si fosse limitato alla
constatazione sulla “perplessità” dei testimoni dei miracoli, lo si sarebbe potuto ridurre ad una
riedizione, dal timbro esoterizzante, di certe affermazioni del Radd: i santi spesso non sono prudenti
nel linguaggio, e chi li vede e li segue può incorrere nella stessa, pericolosa, mancanza di adab, di
convenienza spirituale. Ma la perplessità davanti all’irripetibile fenomeno Cristo, in cui convivono
wahm e ḥaqīqa, suggestione e verità, può aprirsi, secondo Ibn ‛Arabī, alla comprensione di ciò che
è valido per tutti gli uomini e le creature, perché inerente alla struttura metafisica del mondo,
all’ontologia e non solo alla percezione e al linguaggio. L’illusione può e deve aprirsi
all’immaginazione, al khayāl, in virtù del quale, come ha commentato magistralmente Corbin,
perveniamo all’appercezione mistica, perché il mondo immaginale (‛ālam al-mithāl) ha uno statuto
ontologico specifico, ha esistenza. Ovviamente non è qui possibile presentare in modo esauriente il
grande edificio metafisico akbariano: cercheremo solo di mostrare come esso si fondi su quella che
è, a nostro giudizio (o meglio, a giudizio di grandi maestri come A. Y. Heschel e, in parte, Corbin
stesso), l’intuizione semitica ed anzi abramica originaria; quella della Misericordia.
Partiamo da una densissima poesia che è il centro di questo Faṣṣ. – Senza di Lui, Dio (lawlāhu), e
senza di noi, creature (lawlānā), nulla esisterebbe di ciò che è.65
Io adoro (a‛budu) secondo verità, e
64
Da notare ciò che Dio dice di Se stesso in un ḥadīth qudsī: “Io sono conforme all’opinione che il Mio servo si fa di
Me”. 65
Non si possono non ricordare, sin da ora, alcune parole del grandioso sermone Beati pauperes spiritu di Meister
Eckhart: “Se io non fossi, neanche Dio sarebbe; che Dio sia Dio, io ne sono causa prima; se io non fossi, Dio non
sarebbe Dio” (tr. di M. Vannini). Qui però lo sfondo è la presenza del Verbo, che è Dio-Figlio di Dio, nell’anima
dell’uomo.
29
Dio è nostro Signore (mawlānā). E io sono lui stesso (‛ayinuhu), sappilo; anche se consideri in me
un uomo, non lasciarti velare dall’uomo, e ciò sarà per te una prova evidente (burhānan). Sii Verità
[Dio] e sii creatura (fakun ḥaqqan wa-kun ḥalqan), e sarai misericordioso per mezzo di Dio/in Dio
(bi-Llāh raḥmānan): nutri di Lui la Sua creazione... Noi diamo a Lui ciò con cui Egli appare
attraverso di noi (ma yabdū bihi fīnā), e Lui dà a noi noi stessi (a‛ṭānā). – Fermiamoci su queste
affermazioni fiammeggianti, ricche di pathos mistico. Nel pensiero akbariano, l’Essenza (dhāt)
divina si manifesta in primo luogo nei Suoi Nomi ed Attributi (asmā’ wa-sifāt). Questa prima
autodeterminazione dell’Essenza è il “tesoro nascosto” di un famoso ḥadīth qudsī: “[Dio dice:] Ero
un tesoro nascosto (kanzan makhfīyyan) e ho desiderato essere conosciuto (fa’aḥbabtu an u‛rafa)”.
La seconda parte del ḥadīth chiarisce il modo di questa conoscenza: “E ho creato le creature e la
creazione per essere conosciuto”. I Nomi divini sono in uno stato principiale di nascondimento, che
è paragonabile, sul piano dell’esperienza mistica, alla “contrazione” di cui si parlava prima; a
“distenderli” da questa concentrazione sopravviene, come nel caso del mistico, la Misericordia,
Raḥmaniyya, il “Respiro (o Sospiro) del Misericordioso” (nafas ar-Raḥmān), che consente ai Nomi
di manifestarsi negli “archetipi eterni” o “essenze immutabili” (a‛yān thābita) delle creature. Questi
a‛yān, sussistenti nella stessa Essenza divina, al di fuori della quale non si dà alterità, sono così le
“forme epifaniche” (Corbin), i ricettacoli della manifestazione (maẓāhir) dei Nomi che, nel loro
nascondimento, erano già manifestazione del Divino ineffabile ed incondizionato. Nella relazione
fra ogni Nome e il suo ricettacolo creato, il Nome diventa Signore (rabb) di un essere che è il suo
specifico marbūb: come ricordavano i versi di Ibn ‛Arabī, non può darsi la manifestazione del
primo senza il secondo; è questo ciò che viene chiamato, con formula pregnante, sirr ar-rubūbīyya,
“segreto del rapporto Signore-servo”, potremmo dire. Questo sirr, questo segreto, sono io, sei tu
(parafrasiamo ancora i versi precedenti): ogni esistente (mawjūd) è “teoforo”, portatore di un Nome
divino (è quindi marbūb), proprio in quanto è marḥūm, oggetto della Misericordia divina, che si
manifesta anzitutto come Misericordia di Dio per i propri Nomi (per Se stesso); come l’Amore (il
verbo del ḥadīth è aḥbabtu) di cui Dio è l’Amante è l’Amato. Dunque è proprio questa “estasi” di
Dio che pone Sé al di fuori di Sé a custodire l’Unicità, e a rendere tutto uno in Dio. È questo il vero
tawḥīd, il tawḥīd esoterico: l’Unicità dell’Esistenza (waḥdat al-wujūd), che però Ibn ‛Arabī ha
avuto la cura di esporre in modo da schivare ogni taccia superficiale di panteismo o di monismo
ingenuo. Infatti l’uomo è Dio-e-creatura: o meglio, il suo essere servo, la sua ‛ubūdīyya, è proprio il
nulla su cui si manifesta la Divinità; è il “segreto” della Sua manifestazione. Qui è evidente come
l’idea di creazione, enunciata dal ḥadīth, sia una sorta di espressione duale di una struttura
metafisica che è in realtà non-duale, basata com’è sull’idea di “teofania” (tajalli); ed è altrettanto
evidente che l’annientamento dell’individualità umana (il fanā’ dei sufi) è la ‛ubūdīyya perfetta, che
apre alla permanenza non individuale della creatura nell’Essenza divina (il baqā’): tanto è vero che,
secondo Ibn ‛Arabī, l’uomo è chiamato ad essere “misericordioso in Dio”, a partecipare cioè del
Nome più alto, ar-Raḥmān, attraverso un nulla-di-sé che riflette, e compie, l’estasi della
Misericordia divina. Certo, Dio, creando, è stato benefico verso Se stesso (imtanna ‛ala nafsihi),
cioè verso il Suo nafs, ponendo l’esistenza in Se stesso (bimā awjadahu binafsihi), ed ha dato
sollievo, o liberazione (naffasa), ai Suoi propri Nomi immanifesti: ma il nafas ar-Raḥmān ha
accolto (qabila) in Sé le forme del mondo, ed è per esse come la materia prima (ka’l-jawhar al-
hayūlānī); cioè si manifesta come il principio passivo e femminile dell’esistenza, conformemente al
significato primo di Misericordia (Raḥmaniyya da raḥim, utero, come in ebraico, Rahamim da
rehem),66
e tutto è nel grembo della Misericordia perché e in quanto la Misericordia gli ha fatto
spazio.
Nell’ultima parte del capitolo, l’intuizione si dispiega in diverse direzioni: ne accenneremo
alcune. Anzitutto, si legge che Dio si rivelò (tajallā) a Mosè come fuoco perché egli era in cerca di
un tizzone: se avesse cercato altro, avrebbe visto Dio sotto un’altra forma, e non viceversa. Il
66
Nel greco dei Settanta e del NT, abbiamo una traccia di questo significato originario in termini come splanche,
“visceri”, e splanchizomai, “fremere nelle viscere”, nonché, e più notevolmente, nell’espressione di Gv 1,18 eis ton
kolpon tou Patròs (“nel grembo del Padre”, detto del Verbo-Cristo)
30
rapporto tra Rabb e marbūb custodisce l’Unicità/Unità divina proprio attraverso la molteplicità delle
teofanie, che sono determinate dal soffio di Misericordia spirante tra il Nome divino e il suo
ricettacolo creato. In questo senso, il nafas ar-Raḥmān è il Dio Creato (Ḥaqq makhlūq), l’istmo
(barzakh) in virtù del quale l’immaginazione è vera e il Vero immaginale: un livello intermedio e
mediatore dell’essere, attraverso il quale l’Immanifesto si manifesta come creatura, e la creatura
accede all’esperienza dell’Immanifesto. Il testo poi si chiude con una mirabile esplorazione, mistica
e teosofica, del significato della preghiera alla luce della metafisica sopra tratteggiata. Nella
preghiera, quando Dio ne ordina l’esecuzione, Egli è l’ordinante (al-āmir) e l’uomo, che è investito
dell’obbligazione giuridico-religiosa (mukallaf), è il destinatario dell’ordine (al-ma’mūr); ma
quando il servo/adoratore (‛abd) chiede al suo Signore di perdonarlo, è lui lo āmir, e Dio è il
ma’mūr. Poiché, secondo la metafisica akbariana, Dio agisce secondo gli “archetipi immutabili”
presenti nella Sua Scienza, ogni cosa che si manifesta in tutti i livelli dell’esistenza “si colora”
(yansabighu) di ciò che è proprio della realtà di quel livello, cioè del suo archetipo: quindi, in virtù
di questa corrispondenza, ogni invocazione (du‛ā’) è senza dubbio esaudita; se Dio sembra ritardare
la risposta, non è perché si sia allontanato dall’orante, ma solo affinché questi ripeta la preghiera per
amore (ḥubban).
È bene ora esaminare alcune delle riflessioni finali del capitolo a proposito di Gesù. La sua
peculiarità di uomo e profeta è essenziale, come si è visto, ma solo in quanto egli è la vivente chiave
per accedere alla conoscenza metafisica di tutti gli esseri attraversando la prova del wahm e della
“perplessità” sulla sua natura. Analizzando finemente una conversazione coranica tra Dio e Gesù
(5,116-118), il Maestro osserva che la risposta di quest’ultimo alla domanda divina (“Hai detto tu
agli uomini: ‘Prendete me e mia madre come dèi al di fuori di Dio’?”) è conforme alla convenienza
spirituale (adab), cioè alla teofania di Dio inerente a quella conversazione stessa. La sapienza
(ḥikma) esigeva da Gesù la massima operazione mistica: che egli distinguesse all’interno
dell’unificazione (tafriqa bi-‛ayini ’l-jam‛), cioè, secondo quanto prima detto, che riconoscesse al
tempo stesso la propria identità di essenza con Dio e la propria condizione creaturale. Per questo
egli inziò affermando la trascendenza (tanzīh) divina con la formula: “Sia gloria a Te (subḥānaka)”;
l’uso della seconda persona (il suffisso ka) indica chiaramente il faccia-a-faccia (muwājaha) tra
l’uomo e un Altro, lo scambiare parole (khiṭāb). La gloria “non appartiene a me” (prima persona) in
quanto me, individuo (anā li-nafsī), cioè in quanto sono al di fuori di Te (dūnaka); ma al tempo
stesso è Dio Colui che parla in ogni parlante, ed è la lingua stessa con cui l’uomo parla, secondo il
ḥadīth at-taqarrub, perché Egli identifica la propra Ipseità, il proprio Sé (huwiyya), con la lingua di
colui che parla in prima persona (mutakallim). Come l’uomo è Dio in Dio, ma in se stesso nulla
creaturale: così il Parlante è Dio, e la parola è del servo. Il mirabile anello si chiude. L’esegesi va
ancora più a fondo: Gesù si dichiara “testimone” (shahīd) per la propria comunità, come tutti i
profeti finché sono in vita. Ma la testimonianza (shuhūd) non va intesa solo in senso profetico-
essoterico, bensì anche come la conoscenza/contemplazione mistica: ora, la conoscenza-shuhūd che
l’uomo ha di se stesso, è la stessa conoscenza-shuhūd che Dio ha di lui.67
Dopo che Gesù è “morto”,
o meglio dopo che, coranicamente, è stato “richiamato” ed “elevato” a Dio, è stato Dio stesso il
Testimone per gli uomini a cui Gesù parlava, nel senso che Dio non ha più esercitato la propria
conoscenza di Sé attraverso il ricettacolo-Gesù (il testo dice sostanza, mādda), ma attraverso di
loro; anzi, per parlare in termini metafisicamente più esatti, essi hanno avuto, dopo la dipartita di
Gesù, la possibilità di aprire gli occhi a ciò che era sempre stato, a ciò che è sempre. Questa
interpretazione sembra quasi un’eco esoterica delle parole di commiato di Gesù ai suoi discepoli in
Gv 16,7: “È opportuno per voi che io me ne vada. Se infatti non me ne andrò, il Paraclito [lo
Spirito] non verrà a voi...”.
Un Gesù perturbante, quello di Ibn ‛Arabī: Sigillo dei Santi e della Santità; concepito e generato
in modo miracoloso, ma quasi come la pietra filosofale, che è l’anticipazione tangibile sulla terra
67
In modo diverso e simile, Meister Eckhart: “L’occhio con cui io Lo conosco è lo stesso occhio con cui Egli mi
conosce”. Cfr uno degli aḥādīth più amati dai mistici: “Chi conosce se stesso, conosce il suo Signore (man ‛arafa
nafsahu ‛arafa rabbahu)”.
31
del corpo di resurrezione futuro: quasi una cristologia gnostica, o addirittura ermetica, con un corpo
in parte apparente e in parte reale, e le conseguenti congetture di coloro che lo hanno guardato,
toccato o solo amato e pensato, abbagliati dalla suggestione; ma soprattutto Gesù come accesso
privilegiato alla imaginatio vera che è il principio della conoscenza metafisica, e mathal bitakwīn,
simbolo del modo in cui Dio fa essere le cose, di quella Misericordia che è il segreto esultante
dell’Unità. Così, non è difficile comprendere perché il Sommo Maestro di Murcia abbia confidato
di essersi “convertito” per l’intermediazione di Gesù,68
suo primo maestro fra i profeti e i santi:
probabilmente non alludeva soltanto al pentimento (tawba) ascetico, che certo ci fu, e sotto il segno
del Gesù islamico, esempio di austerità e rinuncia; ma anche e soprattutto all’irreversibile ingresso
nel bāṭin, nell’esoterico, nella gnosi.
DISCUSSIONE
Nulla è tanto dissomigliante quanto il Creatore e qualsivoglia creatura. Inoltre, in secondo luogo,
niente è tanto somigliante quanto il Creatore e qualsivoglia creatura. Ma ancora, in terzo luogo, niente
è tanto dissomigliante e insieme somigliante a qualcos’altro, quanto Dio e qualsivoglia creatura sono,
insieme, somiglianti e dissomiglianti.
MEISTER ECKHART, Commento all’Esodo, 113
Iniziamo con un paradosso: il “paradosso del monoteismo”, secondo la parola di Henri Corbin. Il
monoteismo è potenzialmente più incline all’idolatria del politeismo. L’adoratore di una pluralità di
dèi non fa troppa fatica a riconoscervi la pluralità degli archetipi del mondo, non ha grandi difficoltà
a vedere in trasparenza la molteplicità degli eidola-immagini per quello che sono, manifestazioni
limitate ma essenziali del Divino, che non esauriscono il Divino. Il Dio Uno-Unico, invece, persona
infinita, pone il pensiero e la sensibilità umani, e la coscienza religiosa in generale, in una
drammatica aporia, in un’inquietudine radicale che investe ed incrina l’apparente semplicità
dell’Essere.
Nel suo Israël et l’humanité, il rabbino Elia Benamozegh (di antico lignaggio cabalistico
marocchino) individua limpidamente la dialettica monoteismo-politeismo: il monoteismo rivela ciò
che nel politeismo è esoterico, anzi è l’esoterico, cioè l’Unità-Unicità (come Mosè ha in fondo
trascinato nella nudità del deserto l’essenza del messaggio dell’egizio Ekhnaton);69
il politeismo
mette in piena luce ciò che il monoteismo nasconde nel riserbo come il suo segreto più geloso,
l’intima fecondità e pluralità del Dio Unico. È un gioco di specchi dalla chiarezza forse sospetta, ma
può aiutarci a vedere dov’è, se c’è, la remota affinità tra i politeismi dei popoli (i goyim) e i
monoteismi abramici, e quindi, il che è di maggior importanza, comprendere qualcosa di più sottile
sulla loro fin troppo vistosa e sottolineata differenza.
Si può parlare di essenza del monoteismo? Sicuramente i testi sacri dei monoteismi sono molto
consapevoli (ma in modo profetico, non filosofico o scientifico) dell’abisso che la rivelazione
dell’Uno scava fra chi la accoglie e tutti-gli-altri (i “popoli”, le “genti”, quasi aggregati confusi e
indistinti): anzi, la rivelazione fondata sulla “paternità” di Abramo si manifesta innanzitutto in una
migrazione, un esodo da una cultura religiosa fortemente sentita come laceratrice dell’Uno; da un
politeismo pensato (o immaginato) come idolatria. Ma qui cercheremo di seguire, per intravedere
l’identità abramica, un sentiero spesso interrotto e senz’altro tortuoso, la cui mappa è stata disegnata
da un grande pensatore ebreo del ‘900, Avraham Yehoshua Heschel.
L’intuizione radicale, fondamentale della profezia abramica, è la Misericordia. Ma la
Misericordia, cos’è? Uno degli aspetti più immediati dei tre monoteismi è senza dubbio l’essenziale
incommensurabilità fra il Dio Unico e gli enti, implicita nell’idea stessa di creazione: da un lato la
pienezza del Creatore, di fronte alla quale sta dell’irriducibile povertà della creatura; noi, qui in
basso, contingenti, impermanenti: Lui, più in alto di ogni altezza, assoluto e necessario,
68
Cfr Futūḥāt XII p.122; III p.341 69
J. Assmann, Mosè l’egizio, Adelphi, 2000.
32
indipendente da ogni cosa proprio perché ogni cosa dipende da Lui. Se questa fosse tutta la verità, il
monoteismo sarebbe ipso facto un criptodualismo, il che in parte è, come hanno ben visto
(polemicamente) diversi maestri di sapienze e tradizioni extra-abramiche. Ma la rivelazione della
Misericordia complica questa prima intuizione, che potremmo definire quella della Giustizia e
Verità divine: un commento ebraico al primo capitolo della Genesi arriva a dire che, se Dio avesse
seguito i consigli del Suo Sigillo, la Verità, l’uomo, menzognero e criminale, non sarebbe mai stato
creato; quindi, che fece il Santo, sia benedetto? Prese la Verità e la buttò per terra (o: la seppellì in
terra)!70
Già si vede come sia difficile esprimere positivamente la Misericordia, proprio a causa
della sua massima positività: potremmo definirla, però, l’interdipendenza radicale fra il Creatore e
la Sua creatura; la percezione, profonda e quasi segreta, ma incancellabile, che noi abbiamo da Dio
l’essere e l’esistenza, ma precisamente per questo Dio non può manifestarSi, e quindi essere Se
stesso, senza il creato. L’idea appare eretica: in effetti, ogni volta che compare nel Talmud e nelle
raccolte di midrashim (commenti ebraici alla Scrittura) un’espressione che sembra in contrasto con
il principio dell’indipendenza assoluta di Dio, la si trova sempre accompagnata dalla formula
kevyakol. Kevyakol (o kevayakol)!: “come se ciò fosse possibile!” – “facciamo conto che sia
possibile!”; siamo, cioè, sul terreno della metafora, che però è, appunto, un terreno, non la mera
irrealtà. I testi da allegare sarebbero numerosissimi:71
“Se non vi è gloria per Me sulla terra, il Mio
Nome non è sulla terra né nell’alto dei cieli. Se il Mio popolo non Mi fa regnare sulla terra, non vi è
Regno per Me – se ciò fosse possibile – nell’alto dei cieli” (Shir Hashirim Zuta); “Se voi siete miei
testimoni, Io sono Dio; se voi non siete miei testimoni, Io non sono Dio – se ciò fosse possibile”
(Pesiqta de-Rav Kahana 102b); per bocca di Rabbi Yochanan, si ripete che l’uomo ha bisogno di
Dio, per bocca di Rabbi Resh Laqish si dichiara che Dio ha bisogno dell’uomo (Bereshith Rabbah):
Dio salva l’uomo, l’uomo salva Dio, Dio salva Se stesso nell’uomo: “La Mia redenzione è la vostra
redenzione. Se ciò fosse possibile, Io Mi sono riscattato insieme a voi” (Esodo Rabbah).72
Queste
affermazioni fiammeggianti e dialettiche (tutte appartenenti alla tradizione ebraica non esoterica)
riposano sull’intuizione fondamentale della Shekhinah di Dio, la “Dimora” di Dio (cioè la Sua
Presenza-Immanenza) che discende nel mondo (metaforicamente, ma realmente) quando viene
consegnata la Rivelazione, ma anche quando il popolo soffre ed è in esilio: si tratta di una delicata e
umbratile immagine femminile, che cerca di esprimere il mistero della “visceralità” divina, quella
Misericordia che nelle lingue semitiche ha evidentissima parentela con la fecondità e l’accoglienza
dell’utero (rehem in ebraico, da cui rahamim: raḥim in arabo, da cui Raḥmaniyya). L’essenza del
Divino, cui si deve alludere con una cauta segnalazione di traslato, sottile come un velo, sembra
essere la misteriosa, ed umile, Misericordia che intreccia l’alto e il basso, il necessario e il
contingente. Secondo la Qabbalah di Yitzhaq Luria, Dio ha creato ritirandoSi, limitandoSi (simsum)
per fare spazio all’altro da Sé. È come se esistesse, dal principio, un punto virtualmente privo di
Divino, che è lo spazio del timore della creatura-servo nei confronti del Creatore-Signore: nel
trattato talmudico Berakhoth (33b) leggiamo che “tutto è nelle mani di Dio, fuorché il timore di
Dio”;73
il dubbio, il tremore della creatura spirituale di fronte all’Unico consente all’Unico di uscire
da Sé. Il Dio del monoteismo è un “Salvatore che dev’essere salvato”: un Dio cioè che il rapporto
con l’altro-da-Sé deve riscattare dal rischio, sempre imminente, di essere (come dice Corbin) un Ens
Supremum, un Io Divino, una Persona chiusa in Se stessa e, in definitiva, un assurdo vivente.
Sarebbe lungo, ma non troppo difficile, mostrare le ramificazioni di questa radice nei tre
monoteismi abramici, dalla intima solidarietà fra Dio e il Suo popolo (che è appunto la Shekhinah)
nell’ebraismo, alla Prossimità fra Allah e il Suo servo nell’Islam (“Noi siamo più vicini a lui della
70
Il che può ricordare l’idea indiana di Māyā, ma con un tratto di “follia personalistica” che è tutto abramico (e
soprattutto ebraico). 71
Rimando a A. Y. Heschel, Torah min ha-shamayim (Soncino, 1965; in Italia ne è stata tradotta una sezione, col titolo
La discesa della Shekinah, Qiqajon 2003). 72
La dottrina gnostica del Salvator salvandus è come una lettura più razionale di questa Unicità divina straziata in se
stessa. 73
Vedi A. Neher, Il pozzo dell’esilio, Marietti.
33
sua vena giugulare”, Cor 50,16), al mistero centrale del cristianesimo, l’incarnazione di Dio:
tuttavia in questa discussione si cercherà principalmente di rilevare le cospicue differenze tra i
monoteismi semitici e il monoteismo “gentile” dei cristiani, e soprattutto fra la nemesi semitica del
Patto abramico, che l’Islam ha voluto rappresentare sulla scena della storia sacra, e l’uni-trinità
affermata nell’elaborazione del dogma cristiano, nel cui cuore è ovviamente l’“annuncio propizio”
(euanghelion) di Gesù di Nazareth Salvatore del mondo.
Il cristianesimo, pur sottolineando che l’incarnazione e la salvezza sono opera della Misericordia,
si centra su un’idea che il greco neotestamentario esprime con una strana parola, agape. Agape,
infatti, fuori delle Scritture cristiane indica insieme un amore di preferenza e un amore di
benevolenza: raccoglie i significati di sollecitudine, stima, devozione umana, tutti connessi alla
volontà e, in qualche modo, al dominio dell’etica. Sebbene i redattori ebrei del Nuovo Testamento
mirassero, per suo mezzo, a tradurre nella lingua dell’ecumene la parola biblica ahavàh (che ha con
quella una lontana assonanza, ma indica l’amore in tutte o quasi le possibili accezioni), il risultato
fu sentito come nuovo e peculiare, e i latini ne rilevarono la curvatura semantica rendendola, a loro
volta, con termini come dilectio e caritas. Ad ogni modo, l’agape è l’essenza di Dio: “Dio è amore”
(ho theos agape estin, 1Gv 4,15). Ma cos’è l’agape e, soprattutto, cos’è di nuovo rispetto al
misericordioso amore semitico?
Possiamo tentare di rispondere a due livelli, uno psicologico ed uno ontologico. Per il primo ci
soccorre il grande teologo Massimo il Confessore: nelle sue Centurie sull’amore, dopo aver parlato
a lungo, come uno scrittore ascetico stoico, della negatività dei pathe (le passioni o condizionamenti
dell’anima), parla dell’amore stesso come di un makarion pathos: una “passione beata”, un “vincolo
divino” (il pathos è anche la passività dell’anima nei confronti di qualcosa)! Ossimori, per la mente
filosofica: paradossi, che rimandano tutti al paradosso fondamentale, l’Incarnazione di Dio,
culminata appunto nella Sua Passione (pathos), nelle Sue mortali sofferenze. L’amore è dunque la
redenzione dalla schiavitù proprio perché è una redenzione della schiavitù, che diventa libertà di
servire, principio di glorificazione del patimento così com’è. Sul piano ontologico, ricordiamo le
parole di Agostino a proposito delle Persone divine: ogni Persona è relatio subsistens, una relazione
che è tutt’uno con la sostanza; poiché l’essenza di Dio, cioè della Trinità, è l’amore, questo
movimento di vita nelle Persone e fra di Loro è proprio l’agape-caritas, la relazione essenziale.
Tutto ciò che ha, Dio anche lo è, dice ancora Agostino. In altri termini, l’amore rivelato da Gesù e
in Gesù è mediazione essenziale ed intradivina: l’estasi del Divino è un uscire da Sé in Se stesso, un
porre ed amare l’Alterità nel cuore stesso dell’Unicità ed identità divina. Ma la Misericordia
“semitica” è mediazione proprio in quanto extradivina o, per meglio dire, proprio in quanto
l’identità divina fa spazio all’alterità in una relazione con ciò che è fuori-di-Sé (il creato). Questo
non vuol dire che, per ebrei e musulmani, il creato sia necessario (in senso logico-filosofico) alla
manifestazione di Dio: anzi, la posizione mediana della Misericordia preserva proprio
quell’inquietudine radicale del profetismo abramico, per cui Dio, pur manifestandosi (come vuole
appunto la Misericordia), non può manifestarSi essenzialmente; Essenza e Manifestazione non
possono essere, nella Rivelazione, una cosa sola.
La differenza fra Amore e Misericordia, che in questa prima formulazione appare piuttosto un
innocuo dissenso filosofico, è più nitidamente illuminata dalla diversità fra l’idea “semitica” e l’idea
cristiana di Rivelazione, che qui non si pretende certo di trattare in modo adeguato. “Semitico”
viene da Sem, il figlio di Noè cui la Bibbia fa risalire quella famiglia di popoli e lingue: e Sem in
ebraico è Shem, “Nome”. La Rivelazione abramica è anzitutto rivelazione del Nome, in cui Dio
stesso Si rende presente. Heschel ci consegna, al riguardo, un’intuizione semplice ma preziosa:
nella Scrittura non si dice ciò che Dio è in Sé (=il Testo non ci porge la Sua Essenza), ma Chi Egli è
in relazione al mondo e agli uomini; la Rivelazione, dunque, esprime ed attua la “sollecitudine”
divina, che egli chiama col nome di pathos, intendendo il fremito della Misericordia, in cui è
compreso anche il disgusto della Giustizia violata ed offesa. Sia la Torah che il Corano iniziano,
non con la prima consonante dell’alfabeto semitico, la alef-ālif, simbolo dell’Unicità divina, ma con
la seconda, la beth-bā’, che vocalizzata è una preposizione: “in”, “per mezzo di”; simbolo del
34
limite, della relazione, dello scambio che si apre e si realizza a metà strada fra cielo e terra, fra lì e
qui. Lo spazio di mezzo è uno spazio di mutue e reciproche benedizioni fra Dio e l’uomo (e,
nell’uomo, il mondo intero): la radice b-r-k indica proprio questa inclinazione nelle due direzioni,
una reale e viva comunicazione di potenza veicolata dalla preghiera, dal culto, dalla profezia. La
profezia abramica (sulla cui chiusura storica c’è sostanziale accordo tra ebraismo e cristianesimo,
ma non, ovviamente, fra l’Islam e gli altri due monoteismi) è estasi della Parola divina, del Nome
divino, cui però la Rivelazione non può essere adeguata, perché ciò fermerebbe il movimento stesso
della profezia. C’è dunque una tensione dialettica, e messianica, fra Rivelazione e Mistero (ciò che
resta nascosto), la cui oscillazione è arrestata solo nella prospettiva delle Cose Ultime: ma è una
prospettiva che la Scrittura in quanto tale lascia in perpetua sospensione, mentre la sensibilità
apocalittica (come dice la parola greca apokalypsis, “scoprimento”, “disvelamento”) la rende, pur
enigmaticamente, l’evento-limite della storia sacra in quanto tale. In questo senso si comprende
perché l’Apocalisse di Giovanni parli della rivelazione di un “nome nuovo” di Dio nell’eschaton
(3,12 e 19,12): coinciderà con la rivelazione definitiva di Dio, quando non ci sarà più mistero,
quando nulla resterà più nascosto.
Ma la profezia, che per il semitico è la massima relazione fra Dio e uomo, culmina nel dono di
una Legge, in un Patto cioè (berith, mithāq) custodito da una fede che è fedeltà (emunah, imān), e
che ha un’immediata dimensione attiva, di atti: una fede-fedeltà che è senz’altro “pegno” (secondo
la parola paolina) per il Mistero, per il Nascosto, ma non ha per oggetto un evento ultimo, bensì un
evento cruciale e dinamico proprio per la sua incompiutezza metafisica, per il suo rimandare ad
Altro; proprio perché, insomma, custodisce e preserva, con il Patto, la distanza (il chorismos,
direbbe un platonico) fra Nascosto e Manifesto, fra Essenza e Relazione (di Misericordia). La fede
cristiana (pistis), invece, si rivolge a quell’evento in certo modo ultimo che è il Cristo-Messia Gesù,
in cui le cose nascoste diventano manifeste (non totalmente, ma in modo realmente definitivo ed
irrevocabile), ed è fede-fedeltà all’uomo-Dio come separato (santo) da tutti e da tutto, ma anche e
per questo come mediazione sostanziale della teandria (divino-umanità) di tutto e tutti in Lui. In
altri termini, la Rivelazione cristiana è mistico-apocalittica:74
una rivelazione di salvezza e
iniziazione, che ritiene insufficiente la grazia effusa dalla Misericordia divina nelle comunicazioni
profetiche, perché postula una lacerazione cosmica originaria causata dal peccato, e quindi offre
(come un dono che è anche, in certo modo, una necessità) il superamento dell’umano in quanto solo
umano o, per meglio dire, una conciliazione sovrabbondante (secondo la parola paolina) fra uomo e
Dio. Questa sovrabbondanza si manifesta, come accennato, in una convergenza fra l’istanza mistica
e quella escatologica: Gesù rivela pienamente in se stesso ciò che nel profeta era segnato
dall’inquietudine; porge in piena luce ciò che nel Patto ebraico restava esoterico: come dice
Florenskij, il “Dio Ignoto” diventa “il Dio Noto”. La pistis sarà dunque “sussistenza (hypostasis)
delle cose sperate”: non a caso il termine paolino sarà fortunato nella teologia nicena; la fede è
fondamento e presenza già in atto di ciò che, per l’abramico, resta sempre imminente. Se Mosè è
morto sulla frontiera di Moab, il cristiano è invitato ad entrare, in un certo senso già qui ed ora,
nella Terra Deliziosa.
Da questo principio, sorgono molte ed importanti conseguenze, che cercheremo di esprimere con
una metafora. Riprendendo il linguaggio di E. Lévinas, la religione ebraica (e, a giudizio di chi
scrive, in buona parte anche quella islamica) è una religione della “carezza”:75
lo Spirito di Elohim
di Gen 1,2 “aleggia” sulla superficie delle acque, le “cova” (merahefet), non le tocca; c’è come un
asintoto perpetuo fra Dio e uomo, fra Creatore e creatura, in cui è la distanza stessa a fondare la
relazione. Troviamo, nell’ebraismo e nell’Islam, discussioni apparentemente letteralistiche, che in
realtà porgono un tratto semitico incancellabile: nel Talmud si discute spesso della distanza fra
acque superiori e acque inferiori (tra mondo celeste e terrestre), e sappiamo che Muḥammad vide
Gabriele, Spirito di Dio (o Dio stesso?), “alla distanza di due archi o meno” (fakāna qāba qawsayini
aw adnā, 53,9). Tutti i “forse”, i “magari”, i “se fosse possibile!” del discorso semitico alludono a
74
Non a caso Giovanni è ritenuto l’autore sia del Quarto Vangelo, quello “teologico”, sia dell’Apocalisse. 75
Cfr soprattutto Totalité et Infini, La Haye, Nijhoff, 1961.
35
questa oscillazione fra Nascosto e Manifesto, con un forte pathos del Non-manifesto che è come un
eros inestinguibile, anche se un eros-di-Misericordia: e credo che nessun testo lo dica meglio
dell’Oracolo del Silenzio in Isaia: “‘Sentinella, a che punto è la notte? Sentinella, a che punto è la
notte?’ ‘È venuto il mattino ed anche la notte: se volete interrogare, interrogate; domandate,
venite’” (Is 21,11-12). Nel cristianesimo diventa fondamentale una metafora biblica ormai riempita
di significati nuovi: quella nuziale; il divino e l’umano si sposano in Gesù. Il contatto vietato è
avvenuto, ma non è, secondo la fede cristiana, una riedizione dell’idolatria, la divinizzazione di un
uomo: è anzi il farsi uomo di Dio, un moto di Misericordia che si compie come Amore. Se Gesù è
figlio di Dio per natura, e non nel metaforico (“carezzevole”) senso ebraico, allora il Nascosto si fa
evento, l’esoterico diventa storia: la Parola diventa carne. La Verità Ultima è detta, ma non in una
parola umana, bensì in un’esistenza umana, in un evento che è, nel linguaggio cristiano, mysterion:
sacramento (simbolo reale ed efficace) ed iniziazione non solo nascosta nel cuore, ma esplosa nella
storia, identificata in una persona.
Uno dei verbi cristiani più pregnanti è compiere: Gesù lo usò nel Discorso della Montagna (“Non
crediate che io sia venuto ad abrogare – katalysai – la Legge e i Profeti; non sono venuto ad
abrogare, ma a compiere – plerosai–”, Mt 5,17). È un punto in cui si fa particolarmente evidente la
differenza tra la Rivelazione semitica e quella cristiana. Nei due monoteismi semitici, la Parola
divina (che già non è Dio nel senso cristiano dell’ipostasi-persona) si manifesta come parola umana
che impegna nell’azione: il profeta ne è veicolo, ma la Parola, in quanto donata come messaggio e
fissata nella scrittura, lo supera, e deve superarlo. Nell’ebraismo questo superamento, questa
oltranza, si esprime nella catena dell’insegnamento rabbinico, nella tradizione che “apre” le dure
consonanti dello Scritto, paragonato ad un corpo, con la vocalizzazione che ne permette la lettura e,
in un senso più ampio, con la sua interpretazione, che è ancora e sempre principalmente volta
all’azione comunitaria e quindi, agli occhi “gentili”, appare tout-court come un commento
giuridico. Questa “apertura” della tradizione è il derash (da cui midrash), la “ricerca” amorosa ed
inesauribile di “nuovi volti” (panìm hadashìm), cioè nuovi sensi ed applicazioni, nella Scrittura: è
pur sempre uno dei tantissimi midrashim a restituirci il senso e lo straniamento del derash stesso nei
confronti della Bibbia, quando ci si racconta che Mosè, vedendo ed ascoltando profeticamente uno
dei più grandi rabbini della futura storia ebraica, Aqivà, si crucciò oltremodo di non capire neanche
una parola...finché il rabbino stesso non dichiarò che tutte le sue interpretazioni si fondavano
soltanto sugli insegnamenti consegnati a Mosè da Dio! L’interpretazione rabbinica è umile e
audace: rinnovandosi senza soste, traccia un “recinto” di azioni (la halakà) che è garanzia della
consegna della Parola alla vivente pratica degli altri uomini: garanzia cioè della tradizione. Anche il
Profeta dell’Islam, sebbene “la sua natura stessa” fosse il Corano, secondo le parole di ‛Ā’isha (e
sebbene Ibn ‛Arabī lo chiami “fratello del Corano” in accezione più mistica), è latore di
un’interpretazione ispirata del Libro che è senz’altro privilegiata, e infatti fonda la Sunna: ma il
“recinto” della shari‛a, edificato dai sapienti in quanto “eredi” del Profeta stesso, non è molto
dissimile dal “recinto” halakico del giudaismo rabbinico; custodisce e porge in qualche modo il
Nascosto, che si realizza nella pratica comunitaria, ma proprio tenendosene distante. Come ogni
mediazione, protegge, avvicina e separa al tempo stesso. Torniamo all’idea di “compimento”: nel
giudaismo rabbinico si parla di compimento (verbo le-qayyem), ma in riferimento proprio al derash,
alla “ricerca-commento”; è il derash che “compie” la Scrittura, “aprendola” a quel compimento
comunitario che è la pratica delle miswoth (i “precetti” rivelati): solo attraverso questa mediazione
si arriva al compimento messianico, cioè all’inverarsi definitivo delle promesse bibliche, che
tuttavia è sempre ulteriore. Secondo la tradizione ebraica, il derash impedisce l’idolatria del Libro:
Mosè ha dovuto rompere le prime tavole prima di consegnarle, riscritte; il Talmud al proposito dice
che “l’annullamento della Torah è il suo compimento (qiyyumà, dallo stesso verbo sopra citato)”. Il
commento salva il Libro distruggendolo. Sebbene l’Islam sia in questo meno radicale, è però ancor
più netto nella sua prospettiva escatologica: il commento “apre” il Libro, che è Parola di Dio, ma
l’apertura definitiva, a cui il Corano sempre rinvia il ricordo, è il “ritorno” di tutte le cose a Dio. Se
il commento riporta il Libro al suo senso primo (ta’wīl), lo fa appunto nella direzione delle Cose
36
Ultime, che non sono tanto e soltanto il futuro escatologico, ma la realtà del mondo e di Dio nel suo
continuo farsi. Il verbo semitico, piuttosto che i nostri tempi, conosce ed esprime modi dell’unica
Azione divina, in un continuo e sottile rimbalzo tra ciò che è manifesto e ciò che non lo è ancora.
Nel cristianesimo, l’idea di compimento è molto diversa: vi risuona il Consummatum est (“Tutto è
compiuto”), le ultime parole di Gesù secondo Giovanni. C’è nella Rivelazione cristiana uno
slitttamento, per cui la Persona, il Corpo di Cristo (l’Evento-Cristo) diviene ciò che per l’Islam e
l’ebraismo è il corpo della Legge rivelata, “recinto” di azioni oltre il quale non può spingersi il
libero commento umano. Da una parte, l’angoscia, la sospensione delle promesse e delle domande
scritturali trova riposo e pienezza nella Legge-di-carne che è Gesù Cristo, e nella misteriosa
salvezza da lui operata; dall’altra abbiamo però un’unità (paradossale, come tutto il kerygma
cristiano) tra compimento e attesa, amore e fede, in virtù della quale si riapre la storia sacra (con un
altro popolo, un’altra comunità, universale), e l’evento Gesù viene custodito, non dal complesso
commento soprattutto “giuridico” dei semiti, ma dalla formulazione del dogma. Il dogma è legge
per il pensiero: il Mistero e la Manifestazione offerta a tutti vi coesistono in un equilibrio
paradossale, in un tentativo di mediazione tra il linguaggio filosofico dell’essere e la parola
profetica sul Dio Vivente. L’esoterico, portato alla luce da Gesù, che però deve ritornare di nuovo
nella sua Gloria, si fa legge, mentre l’uomo semitico preferisce che la legge religiosa lasci
l’esoterico ai margini del Testo, lì dove comunque resterà fino alla fine dei tempi. La tradizione
ebraica è stata particolarmente vigile al riguardo: la sua opposizione è mirabilmente riassunta in una
breve nota a lungo espunta (per giustificata cautela) dal trattato talmudico Shabbat: il vero
significato della parola greca euanghelion sta nell’ebraico awòn ghilayòn, “trasgressione dei
margini”. Il Logos incarnato in Gesù ha oltrepassato il testo e riempito i margini vuoti. L’Amore,
unità di Essenza e di Manifestazione, di Nascosto e Manifesto, ha chiuso lo spazio del commento
midrashico: se la Parola si è fatta carne, lo spazio che stava fra la Parola e la carne, in mezzo al
cielo e alla terra, è identificato con Gesù. La Legge, che per Paolo è stata un “pedagogo” ed è quindi
“schiavitù” e prigionia (cfr Gal 3,23-25.4,1ss.), per l’ebreo è libertà;76
l’unione uomo-Dio, che per il
cristiano è pienezza e compimento delle Scritture, per l’ebreo e il musulmano è regresso al caos
anteriore alla creazione, anteriore alla benedetta distinzione fra Dio e creatura.
Va ripetuto, tuttavia, che il cristianesimo si professa abramico, e quindi antiidolatrico, e che la sua
continuità con la Antica Alleanza non è solo nella direzione di un compimento che la uccide: la
morte di Gesù è la cristiana rottura delle Tavole; l’evento-Cristo è paragonabile (ed è stato
paragonato da molti Padri della Chiesa) al roveto ardente apparso a Mosè, che è consumato e
insieme non consumato dal fuoco. Il corpo di Gesù è la vera Scrittura cristiana: i Vangeli, scritti in
una lingua non sacra ma solo di grande diffusione nel mondo imperiale dell’epoca, sono sì testi
ispirati, ma stanno al cospetto della Parola, non sono Parola. Gesù, con le sue parole e i suoi atti, già
interpreta la Parola che egli stesso è, ma non chiude il commento, anzi apre ad una tradizione, ad
una Chiesa che, secondo la lettura mistico-messianica paolina, è il suo vero Corpo ancora nascosto,
costituito da tutti i cristiani suoi fratelli, divenuti figli di Dio nel Figlio, cioè Cristo in Cristo. Il
‘discorso sacerdotale’ di Gesù prima della cattura e della morte, che per gli ariani era l’ennesima
dichiarazione di inferiorità rispetto all’Unico Dio Padre, è in effetti un’apertura che annulla ogni
idolatria: “È opportuno per voi che io me ne vada. Se infatti non me ne andrò, il Paraclito [lo
Spirito] non verrà a voi” (Gv 16,7). Il dogma calcedoniese ripete che Gesù non è individuo (e non
va quindi adorato come individuo), ma una persona: la sua identità è tutta nel suo rapporto con Dio,
con il suo Dio, il Padre. Il “dare la vita” (psychèn thenai) evangelico è proprio alle radici dell’idea
di Uni-trinità divina: l’Amore trinitario dice l’Assoluto senza residui (“Dio è amore”) proprio
perché è il “dare la vita” di Dio nelle Persone. Ed è proprio qui che ebraismo ed Islam dissentono:
l’Essenza di Dio (Dio in Se stesso) resta il Nascosto, il ghayb; sebbene la Misericordia sia la
relazione prima e principiale fra Dio e il creato, Egli è il Misericordioso, non è Misericordia.
Sebbene Ibn ‛Arabī, ad esempio, dica che “la Misericordia è l’Essenza dei Nomi” di Dio, e chiami
76
A proposito dell’incisione della Torah sulle tavole di pietra, si commenta: “Non leggere ‘incise’ (harut), ma ‘libertà’
(herut)” (Mishna Avoth).
37
Dio l’Amore, l’Amante e l’Amato come Agostino, pur nel suo excessus mistico-esoterico questa
posizione è ben distinta da quella cristiana: qui il Divino è pur sempre Uno che ama (o l’Uno che
ama), mentre, sintetizza P. Florenskij, il Dio cristiano non è uno-che-ama, ma agape estin, nel senso
trinitario.
Se la speculazione trinitaria è del tutto estranea alla sensibilità semitica, ricordiamo però che il
dogma trinitario illumina quello cristologico e ne è illuminato: il vero punctum dolens è chi è
Cristo, la persona di Cristo. E non c’è dubbio che nei Vangeli l’umanità di Cristo, il suo essere
semiticamente servo, sia presente ed anzi radicale e fondamentale: ma questa umanità, che sfolgora
tragicamente nel tremore del Getsemani e nel grido della Croce, non raggiunge (e non salva) gli
altri uomini se non in quanto separata ab origine dal peccato; anzi, Massimo il Confessore sostiene
che Gesù, pur avendo una volontà umana distinta da quella divina, non aveva una volontà gnomica,
cioè una volontà di scelta legata al suo essere individuo.77
Gesù, modello di tutto, non può essere
però (se non in senso mistico, e non nel senso della Sunna o della Legge) modello della penitenza o
conversione, cioè dell’atto principale dell’uomo abramico (teshuvah in ebraico, tawba in arabo): il
“ritorno” a Dio dal peccato è condizionato da quella distanza perpetua fra Creatore e creatura che
Islam ed ebraismo difendono, e che nel cristianesimo si ferma a questa soglia. Forse è qui che gli
abramici semitici sentono il vero punto di rottura, la vera separazione nei confronti della tradizione
cristiana.
È ora opportuno accostarci all’oggetto principale di questa discussione: se infatti il cristianesimo
si è presentato sin dall’inizio come l’erede autentico del Patto abramico ed ebraico, e in seguito il
dogma trinitario è stato proposto, da parte di alcuni Padri, come il perfetto equilibrio tra il
monoteismo degli ebrei e il politeismo delle genti; l’Islam si è riconosciuto, non meno nitidamente,
la posizione di rinnovatore dell’antico Patto, ma nel senso di una ri-vendicazione dello spirito
semitico nei confronti di quello “romano”, o gentile che dir si voglia. Una tavola trovata da A. J.
Arberry in un manoscritto delle Mawāqif del sufi Niffārī78
può introdurci validamente alla
questione: vi leggiamo il nome divino più importante insieme ad Allāh, ar-Raḥmān, affiancato
dall’attributo divino al-Jamāl, la Bellezza, e dal nome di ‛Isā; il nome al-Jabbār, Colui che
costringe, affiancato dall’attributo al-Jalāl, la Maestà, e dal nome di Mūsā: e infine entrambi i nomi
divini precedenti a fianco dell’attributo al-Kamāl, la Perfezione, e del nome di Muḥammad.
Partendo da questa triade, cerchiamo di schizzare la mappa della storia sacra secondo la Rivelazione
coranica e l’Islam che ne è nato. L’Abramo coranico, Ibrāhīm, chiamato con l’appellativo,
perfettamente aderente alla Bibbia e alla tradizione ebraica, di “intimo amico di Dio” (khalīlu-Llāh,
cfr 4,125), che per gli ebrei è il primo ebreo nel senso del primo “attraversatore di confini”, e per i
cristiani è il “padre dei credenti”, da una parte anticipa l’avvento dell’Islam con tratti e gesti
chiaramente extrabiblici (il figlio di cui gli viene ordinato il sacrificio non è menzionato nel Libro,
cfr 37,99-110, ma sarebbe per generale consenso Ismā‛īl, capostipite degli arabi, che ricostruì con
lui la Ka‛ba, cfr 2,125-132);79
dall’altra, come la maggior parte dei profeti “ricordati” nel Corano,
ripete alcuni atti e parole di origine biblica o midrashica: ma soprattutto è considerato il primo
ḥanīf: “Ibrāhīm non era né ebreo né cristiano, ma era un ḥanīf sottomesso a Dio (ḥanīfan
musliman), e non era del numero di coloro che associano (wa-mā kāna min al-mushrikīna)” (3,67,
77
Molto efficace la seguente esposizione di Piero Coda, applicabile anche alla differenza tra Gesù Figlio per natura e gli
altri uomini figli per grazia: “Per sé, le creature e, in special modo, le persone create non possono realizzare quest’atto
[il dono di sé totale dell’amore trinitario], appunto perché sono create: e cioè ricevono l’essere da Dio e non hanno la
possibilità di privarsene ontologicamente. Al massimo è loro possibile negar-si, perder-si intenzionalmente (a livello,
cioè, dell’atto di conoscenza e d’amore), ma non fino a dimettere totalmente il proprio essere in quanto essere. Solo la
morte costituisce la dimissione nelle mani di Dio, che per sé s’impone e va accolta, di tutto il proprio essere di creatura”
(Quaestio de alteritate in divinis. Agostino, Tommaso, Hegel. Pontificia Università Lateranense. A questo testo si
rimanda per i passi di Agostino e Tommaso citati in precedenza, e in generale per la presentazione del dogma trinitario). 78
Cfr A. J. Arberry, The Mawāqif and Mukhāṭabāt of Muḥammad ibn ‛Abdil ‘l-Jabbār al-Niffārī, Cambridge
University Press, London 1935, e R. Arnaldez, Jésus dans la pensée musulmane, Desclée, Paris, 1988. 79
Cfr inoltre il velato annuncio dell’avvento di Muḥammad in 2,129: “Signore nostro, manda loro un inviato preso fra
di loro (rasūlan minhum)...”, che a sua volta rimanda all’interpretazione islamica di Dt 18,15.18 (cfr anche Cor 7,157).
38
cfr anche 2,135). Ḥanīf, che in siriaco (ḥanfā) indica il pagano tout-court e in ebraico (verbo hanàf
all’hifil) indica “colui che macchia e inquina” e “colui che seduce Israele ad assimilarsi alle genti”
(cfr Dn 11,32), anche in arabo è connesso ad una radice che esprime “deviazione dei passi” e
seduzione, ma nel lessico coranico indica il monoteista “aconfessionale”, il pagano sinceramente
animato dal desiderio di avvicinarsi al Dio Unico, come il giovane Ibrāhīm, contestatore del padre
idolatra. È importante la definizione di ḥanīf muslim riferita ad Ibrāhīm: in effetti, l’Islam si
presenta come restauratore del puro din al-ḥanīf, che è anche din al-fitra, la “religione primordiale”.
Ora torniamo alla triade dello schema di Niffārī. C’è una consapevolezza forse originaria
nell’Islam: ebraismo e cristianesimo costituiscono una diade, c’è una tensione polare fra l’antico
monoteismo semitico e il nuovo “monoteismo” gentile. Questa dualità si radica nell’opposizione
complementare fra i profeti delle due religioni: da un lato Mūsā, kalīmu-Llah, “l’interlocutore di
Dio”; dall’altra ‛Isā, kalimatu-Llah, “parola di Dio”. Attraverso Mūsā è stata trasmessa al popolo
ebraico una Legge, una sharī‛a; attraverso ‛Isā, gli ebrei e il mondo intero hanno ricevuto
soprattutto una via spirituale, una tarīqa. Mūsā, a cui Dio rivolge la parola normativa, provvisoria
ma valida in principio, è maestro degli atti cultuali, legislatore e capo politico. Il suo dominio
archetipico è quello dello ẓāhir, la manifestazione, correlativo del Nome divino aẓ-Ẓāhir, il
Manifesto, l’Apparente: tanto che il misterioso “servo” di Dio della sura al-Kahf (cfr 18,60-82),
identificato dalla tradizione con al-Khiḍr (l’“immortale” che ha più di un punto di contatto con
l’Elia dei midrashim e dell’esoterismo ebraico), non riesce ad aprire i suoi occhi interiori ai segni
incontrati nel corso di un breve viaggio iniziatico, e gli lascia, come unico (e pur prezioso)
insegnamento, quella della sua ignoranza. Ogni profeta, in quanto uomo, conserva questa ottusità,
questo fondo di tenebra e fragilità (anche Muḥammad non lo nascose mai): ‛Isā stesso, quindi, in
quanto profeta-inviato, ha ed ammette di avere l’irriducibile ignoranza dello ‛abd, del servo, nei
confronti della Scienza divina. Tuttavia il suo dominio non è quello normativo, cultuale e politico,
ma quello del bāṭin, dell’interiorità nascosta, corrispondente al Nome divino al-Bāṭin, il Nascosto. Il
Gesù evangelico annuncia di compiere le Scritture ebraiche (e in particolare la Torah, il Pentateuco
consegnato a Mosè, e le rivelazioni fatte ai profeti di Israele) prescindendo dalla “tradizione degli
uomini” (il giudaismo rabbinico), e di svelare il significato spirituale-escatologico celato nella
lettera del Testo, irreperibile ad una lettura fatta “secondo la carne”, cioè, come preciserà Paolo,
forse tagliando troppo bruscamente il nodo, una lettura normativo-giuridica come quella giudaica. Il
Gesù coranico, ‛Isā, si presenta come un rasūl che conferma la Torah e in parte ne abroga i precetti
negativi (cfr 3,50): tuttavia i suoi detti sapienziali, che hanno qualche profumo evangelico ma un
più spiccato tratto di amore per l’ascesi e l’austerità, e le sue taumaturgie, hanno fatto sì che la
tradizione islamica recepisse ‛Isā soprattutto come un maestro di pratica spirituale e quindi di
interiorità. Insomma, ‛Isā ha portato alla luce ciò che era nascosto nella sharī‛a consegnata ad
Israele, nella Torah: ha manifestato il Nome della Misericordia divina, che “apre il petto” del
credente, e l’Attributo della Bellezza, perché “Allāh è Bello e ama la Bellezza”, secondo il ḥadīth, e
la bellezza è l’oggetto del desiderio d’amore, nonché manifestazione dell’interiorità. Mūsā, invece,
come abbiamo visto, ha manifestato al mondo il Nome della Costrizione divina, perché la Legge
sacra è servitù, e l’Attributo della Maestà ed incomparabilità di Dio, la Sua trascendenza rispetto
agli uomini e agli stessi atti che la Legge prescrive.80
80
Per esprimere la dualità ebraismo-cristianesimo in termini più filosofico-teologici, possiamo dire che nell’ebraismo è
particolarmente forte il “pathos della distanza” o trascendenza divina: se di Mosè si dice che parlava con Dio “faccia a
faccia” (il che è da accostare all’appellativo coranico di “interlocutore di Dio”), altrove Dio gli comunica che non potrà
vedere il Suo volto (panìm), ma la Sua Schiena (ahòr) (il che è in parte da accostare al termine ẓāhir, connesso a ẓahr,
dorso, parte posteriore). Nel cristianesimo è più intenso il “pathos dell’immanenza” e della prossimità (il “Tu” del
dialogo Dio-Mosè diventa l’io del discorso di Gesù, che è il profeta della walāya, della santità come vicinanza di Dio
all’uomo). Non è forse inutile anche un accostamento all’esoterismo cabalistico: nell’albero sefirotico, i due aspetti
divini del Rigore (Din), connesso alla norma legale e cultuale, e della Clemenza (Hesed), connessa alla Torah
primordiale e totalmente spirituale, sono rispettivamente alla sinistra e alla destra dell’asta centrale, che come quella di
una bilancia li mette in equilibrio e in contatto. Questo aspetto centrale e mediatore è Tif’ereth, Bellezza, detto talora
anche Verità (Emeth), ed è connesso alla rivelazione del Tetragramma e della Torah.
39
Il Cristo è dunque “segno di contraddizione” (Lc 2,34) e di dualità rispetto all’ebraismo-
giudaismo: se le Tavole di Mosè, distrutte per sdegno contro l’idolatria, sono agli occhi
dell’ebraismo immagine suprema di libertà (“non leggere incise, ma libertà”), agli occhi del
cristiano paolino la libertà è rappresentata tout-court dalla distruzione delle Tavole, che però non è
antinomismo, perché la fede in Cristo conserva e porta a pienezza lo spirito (interiorità) della
Legge. Tuttavia, nella visione coranica, Gesù, che pur abroga, da rasūl, la legge precedente, apre
non solo in direzione messianica (attesa escatologica, promessa dell’invio del Paraclito etc.), ma
anche in quanto sollecita un terzo che dia a sua volta compimento a quella dualità: un testimone, un
gesto di ricostituzione-rammemorazione (dhikr) dell’esodo di Abramo e del Patto monoteistico
originario. Questa terza religione, quasi sintesi in una sorta di dialettica della storia sacra,
ricostituendo il Patto ricostituisce anche il Libro (kitāb), che il Gesù cristiano aveva annullato in sé,
nella sua carne: ma un Libro che non è mera Legge, mero ẓāhir, bensì equilibrio fra bāṭin e ẓāhir. Il
Libro che sigillerà la Profezia avrà in sé la Legge e la norma, essenziali al Patto nella visione
semitica: ma, inserito nella traiettoria messianica avviata da ‛Isā, e consapevole del richiamo di
questi all’interiorità e alla purificazione, sarà un semplice dhikr, un ricordo-menzione del passato
profetico e un ricordo-menzione di Dio. Il Libro distrutto dai cristiani ritorna, ma soprattutto come
invito ad un tawḥīd (professione dell’Unità-Unicità) assoluto, nella corrente di un ritorno mistico e
profetico di tutte le cose e di tutti i cicli storici a Dio. Muḥammad, secondo lo schema di Niffārī,
manifesta la conciliazione fra i due Nomi divini opposti e complementari (ar-Raḥmān e al-Jabbār),
e trasmette al mondo la ḥaqīqa, la Verità intesa come retta conoscenza di Dio, e come via mediana
(ricordiamo il ḥadīth: “La migliore delle cose è quella che sta nel mezzo”, khayr al-umūr
awsaṭuha): l’Attributo divino corrispondente è la Perfezione, al-Kamāl, inteso in un senso affine a
quello del compimento evangelico, ma con maggior enfasi sull’equilibrio, sulla mediazione fra due
opposti. Infatti Mūsā ed ‛Isā sono grandi e veri profeti, ed hanno rivelato aspetti del Divino che si
completano l’un l’altro, ma ciascuno dei quali è pienamente reale in se stesso: tuttavia le comunità
religiose che hanno ricevuto il loro messaggio hanno tralignato dalla “religione primordiale”, dal
patto inscritto nella creazione stessa e rinnovato nella storia. Ebrei e cristiani, pur custodendo
entrambi l’unica Parola divina in due sue rivelazioni autentiche e parziali, non ne hanno custodito la
ḥaqīqa, il significato reale e dinamico, la totalità del senso. I commentatori musulmani hanno
interpretato in questa chiave il settimo ed ultimo versetto della Fātiḥa: “[Guidaci sulla via retta], la
via di coloro sui quali hai effuso la Tua grazia, non la via di coloro che incorrono nella Tua ira, né
quella di coloro che sono smarriti (ṣirāt alladhīna an‛amta ‛alayhim, ghayri al-maghḍūbi ‛alayhim,
wa-lā aḍ-ḍāllīna)”. “Coloro sui quali hai effuso la Tua grazia” sarebbero i musulmani, “coloro che
incorrono nella Tua ira” gli ebrei, e “coloro che sono smarriti” i cristiani: ebrei e cristiani hanno
mancato il segno, si sono allontanati dalla “via retta” (mustaqīm), dalla via mediana che l’Islam è
venuto a manifestare. Ma perché i cristiani si sono smarriti?
Come abbiamo già visto in precedenza, il Corano esorta i cristiani a non “eccedere” nella loro
religione, ed usa il verbo ghalā, che poi sarà applicato dai sunniti a tutte le grandi “eresie”
islamiche, in particolare alla shī‛a estrema non solo per la centralità che assegna al ta‛līm, l’autorità
e l’insegnamento ispirato degli imām (tratto che ha in comune con lo sciismo duodecimano o
imamita), ma anche e soprattutto per la divinizzazione del maestro, comunque essa venga intesa
dalle varie sette. Dopo la “tesi” semitica (ebraismo) e l’“antitesi” gentile (cristianesimo), il tawḥīd
islamico è un ripristino-dhikr del puro monoteismo abramico come unità originaria di legge e
santità, di sharī‛a e walāya: ed è un rinnovamento semitico (fondato cioè sull’estasi del Nome e
della Parola nella parola umana), in virtù del quale Muḥammad è ricettacolo del messaggio-
sapienza divina senza cadere nei due opposti errori dell’ebraismo-giudaismo e del cristianesimo.
Rileggiamo la prima parte del singolare verso 30 della sura 9 (at-tawba): “Gli ebrei hanno detto:
‛Uzayr è figlio di Allāh, e i cristiani hanno detto: Il Cristo (al-Masih) è figlio di Allāh. Questo è ciò
che dicono con le loro bocche, ripetendo ciò che dicevano i miscredenti (alladhīna kafarū) prima di
loro”. Se lo ‛Uzayr coranico è il biblico Esdra, il sacerdote e sofèr (scriba) che dopo la cattività
babilonese ebbe il mandato di riformare la comunità gerosolimitana, gettando le basi del giudaismo
40
in senso proprio, è assurdo dire che gli ebrei lo abbiano considerato figlio di Dio: ma forse qui la
polemica coranica accomuna ebrei-giudei e cristiani per via del loro tralignamento dalla
Rivelazione originaria. Muḥammad ha portato il semplice messaggio primordiale senza la
mediazione costituita dallo spazio “troppo umano” dell’incessante derash giudaico, rappresentato
da ‛Uzayr-Esdra: il derash è stato “divinizzato” dagli ebrei, un po’ come nell’accusa rivolta loro da
Gesù (“Tralasciando i comandamenti di Dio, voi [farisei] vi attenete alle tradizioni degli uomini”,
Mc 7,8). Ma Muḥammad ha evitato anche che questo spazio vuoto tra Dio e uomo fosse riempito da
una parola non più profetica, la Parola fatta carne, Gesù Dio-uomo.
La breve analisi, condotta nei capitoli precedenti, di un testo come il Radd al-jamīl e di alcuni
passi di Ibn ‛Arabī su ‛Isā, può dare una prospettiva particolarmente interessante sulla polemica
musulmana nei confronti della teologia cristiana. Letto in questa luce, il Radd fornisce un’accurata
preparazione essoterica alle tesi akbariane su Gesù: e la metafisica visionaria del Maestro di Murcia
offre un ricchissimo sfondo esoterico agli argomenti razionali del Radd, e alla “cristologia”
musulmana in genere.
Le obiezioni del Radd, tutte riducibili alle grandi questioni della controversia ariana e, ancor più
radicalmente, all’esperienza presto rimossa (emarginata) del giudeo-cristianesimo primitivo,
riposano su un principio esegetico implicito: mentre il Corano è Parola di Dio così com’è, è Gesù
stesso ad essere (in senso coranico) parola-di-Dio, kalimatu-Llah; i Vangeli e il Nuovo Testamento,
pur essendo libro (anche i cristiani sono ahl al-kitāb, “gente del Libro”), sono parole ispirate e non
Parola, quindi, per farne l’esegesi, si può estendere l’uso del qiyās e degli altri strumenti che
“aprono” un testo non immediatamente chiaro. La maggior parte delle espressioni neotestamentarie
non vanno lette secondo la loro accezione “propria” (ḥaqīqa), ma secondo un’accezione “traslata-
metaforica” (majāz). Qui entra in gioco Ibn ‛Arabī e, in generale, la profetologia dei sufi: Gesù è il
profeta che ha manifestato il versante bāṭin (l’esoterico) della missione legislatrice di Mosè-Mūsā:
si potrebbe dire che è colui che ha reso ẓāhir la walāya, la santità/intimità con Dio. In quanto walī,
egli è quindi già erede (wārith) dei profeti: egli è già, in un certo senso, commento, come la santità è
già “commento”, approfondimento esoterico del ruolo che il profeta ha nel mondo. Nella
“cristologia” akbariana (soprattutto come è sviluppata nei Fuṣūṣ al-ḥikam) ‛Isā, in quanto rasūl
della walāya (e suo Sigillo), è il medium che fa accedere al “mondo degli archetipi” (‛ālam al-
mithāl, mundus imaginalis), piano ontologico della conoscenza profetico-esoterica e “luogo” in cui
si invera il ta’wīl, cioè l’“interpretazione” intesa come continuo, ermetico passaggio fra il Nascosto
e il Manifesto, tra il bāṭin e lo ẓāhir. Abbiamo esaminato la sorprendente trattazione di Ibn ‛‛Arabī
nei Fuṣūṣ: ‛Isā era (come profeta storico) ed è (come profeta sempre presente nel mondo sottile o
immaginale) in grado di far penetrare il suo seguace nel khayāl, in quella che il Rosarium
philosophorum, grande testo ermetico tardomedievale, chiama vera imaginatio, contrapponendola
all’illusione della fantasticheria. Ma è qui il tratto forse più esoterico di ‛Isā: questo suo ruolo
iniziatico si realizza proprio attraverso l’illusionismo del wahm; gli spettatori dei suoi miracoli
sperimentavano una perplessità (ḥayra) radicale, uno stupore vertiginoso riguardo alla sua natura: è
uomo? è Dio? è uomo-e-Dio? L’immaginazione di chiunque guardi e pensi Gesù è sottoposta ad
una prova inevitabile e decisiva: poiché è stato concepito dal rūḥ (seme di Jibrīl) e dall’acqua (seme
di Maryam) anche attraverso l’illusione sperimentata da sua madre al cospetto dell’angelo in
forma umana, egli non solo è in grado di operare miracoli “col permesso di Dio”, secondo la
precisazione coranica, ma fa sì che gli spettatori si meraviglino dicendo che “era lui e non era lui” al
tempo stesso. Si è cercato di mostrare come questa lettura di ‛Isā dia un abbrivo particolarmente
forte in direzione del centro della metafisica akbariana, il sirr ar-rubūbīyya: il segreto del legame
(misericordioso) tra rabb e marbūb, tra Signore e servo, che ha una consonanza con l’insegnamento
perfettamente cristiano (e perfettamente esoterico) di Meister Eckhart nel sermone Beati pauperes
spiritu. In effetti, il maestro domenicano medievale, partendo dalla dottrina mistica della
generazione del Verbo (Dio) nel fondo (Grund) dell’anima umana, dà un insegnamento molto
semplice, e tuttavia sconvolgente per la coscienza religiosa ordinaria: “Prima che le creature
fossero, Dio non era Dio: era invece quello che era. Quando le creature furono e ricevettero il loro
41
essere creato, Dio non era Dio in se stesso, ma era Dio nelle creature”. L’Essenza divina, superiore
ad ogni determinazione, è Dio nella sua relazione con le creature, in particolare con l’uomo: è
Signore in relazione a dei servi; ma si tratta appunto di una relazione autentica, di una vera corrente
di essere-amore che per il domenicano è senz’altro il dinamismo della vita trinitaria, con il Verbo al
suo centro: “Se io non fossi, neanche Dio sarebbe; che Dio sia Dio, io ne sono la causa prima; se io
non fossi, Dio non sarebbe Dio”. Queste affermazioni non possono non ricordare la poesia di Ibn
‛Arabī nel Faṣṣ su ‛Isā, come anche i passi rabbinici citati all’inizio di questa discussione.
L’apofatismo sublime della dottrina akbariana porta con sé un’identità di essenza Creatore-creatura
che sembra superare la dottrina ortodossa della “prossimità” Dio-uomo, del taqarrub, l’“asintoto”
della Misericordia: ma identità di essenza non è né immanenza né “inabitazione” (ḥulūl), e
nemmeno, in profondo, unione (ittiḥād), perché nella manifestazione del creato la verità è Signore-
servo, rabb-‛abd; ed è propria del servo l’assoluta povertà, l’assoluta impotenza ed inconsistenza.
Fuori da Dio, tutto è illusione e nulla, ma nell’Essenza tutto è l’Essenza stessa. Né monismo
panteista, dunque, né, del resto, il complesso edificio del dogma trinitario: una non-dualità
esoterica, che cerca di ricondurre il tawḥīd alla sua concretezza mistica di “fare-unità” (è il masdar
della seconda forma fa‛‛ala) nel cuore dell’uomo e in Dio. “Né la Mia terra né il Mio cielo hanno la
capacità di contenerMi. Ma il cuore del Mio servitore fedele, pio e puro, ha la capacità di
contenerMi” (Ḥadīth qudsī).
Ritorniamo un istante all’esegesi del Radd. Leggendo i Vangeli, i cristiani per lo più si
smarriscono a causa di un ta’wīl errato: volendo riassumere, con terminologia quasi ariana, la
Parola-Gesù non è Dio ma è da Dio come il Rūḥ è angelo di Dio; tanto il Verbo che lo Spirito non
sono ipostasi-persone, ma creature, oppure eterni attributi di Dio, che però, in quanto ṣifāt, sono su
un piano diverso rispetto a quello dell’Essenza (Dhāt) “indipendente dai mondi”. In un caso, però, è
lecito parlare anche di un testo (naṣṣ) contraffatto: è “la Parola divenne carne”, su cui si basa
l’inaudita dottrina dell’Incarnazione. La Parola non diviene carne, ma crea una carne, che è la
creatura Gesù. Ora, per volgerci di nuovo verso Ibn ‛Arabī, è vero che il Sommo Maestro parla di
“Dio creato” (Ḥaqq makhlūq) a proposito della prima determinazione del nafas ar-Raḥmān, cioè del
barzakh (istmo) tra gli opposti metafisici: ma non lo dice certo nel senso cristiano del Creatore che
si fa creatura, perché questo è un livello di lettura in cui storia ed esoterismo si intrecciano, il livello
cioè dell’Incarnazione; invece la dottrina akbariana si fonda sul tajallī, sulla teofania, non
sull’incarnazione, che viene identificata con eresie come il ḥulūl e l’ittiḥād (valido solo come
percezione soggettiva del mistico). La mediazione rappresentata dalla teofania salva la distinzione
Creatore-creatura nel tempo, e quindi nella storia: la waḥdat al-wujūd riafferma l’Unicità in senso
islamico, non l’Unione in senso cristiano. In altri termini, risuona ancora la domanda formulata
sopra: se la Parola è diventata carne, cosa resta in mezzo? Ricordiamo lo stupore e il dubbio di
Paolo sulla propria ascesa al terzo cielo: “se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio” (cfr
2Cor 12,2). Tertium non datur: eppure per Ibn ‛Arabī il tertium è fondamentale, ed è la gnosi.
Come fra ebraismo e cristianesimo media l’Islam in quanto religione, così, fra corpo e spirito, fra
ẓāhir e bāṭin, media il mondo immaginale, luogo della gnosi.81
L’Incarnazione tende a rendere
impossibile l’esoterismo, la sua oscillazione di bilancia fra Nascosto e Manifesto: l’Islam e
l’ebraismo lo tengono ai margini, pur con il rischio, ineliminabile e in parte previsto, che
l’essoterismo della Legge, votato a preservarlo, lo espunga dal libro vivente della comunità in modo
più o meno cruento.
Così, l’accostamento fra ‛Isā e l’alchimia, che sembra appartenere al repertorio illimitato e
pressoché arbitario delle amplificazioni esoteriche, acquista un sapore nuovo. Il corpus spirituale
che Ibn ‛Arabī gli assegna, da una parte conferisce uno sfondo autenticamente gnostico al vago ed
enigmatico docetismo coranico (Gesù non è morto sulla croce) e alla sua parentela, per via
dell’assunzione/elevazione, con gli altri “immortali” Ilyās-Elia ed Idrīs-Enoch, profeti
dell’esoterismo anche nella tradizione ebraica: dall’altra sembra quasi un ta’wīl genuinamente
81
Per questa idea si rinvia ovviamente a Henri Corbin, L’imagination créatrice dans le soufisme de Ibn ‛Arabi, Paris
1958.
42
ermetico di alcuni temi propri della mistica cristiana sin dalle origini paoline. Al di là dell’alchimia
nata in terre cristiane, e senz’altro profondamente legata a molte metafore ed immagini della
tradizione religiosa di quelle, già nella predicazione di Paolo è molto forte l’annuncio messianico e
mistico della palingenesi del creato, del suo passaggio, in Cristo, dalla phthorà (corruzione) alla
aphtharsia (incorruttibilità: cfr ad es. Rm 8,18-22; 1Cor 15,35 ss.): la resurrezione di Gesù Cristo è
il principio effettivo della resurrezione di tutti e della trasmutazione del mondo, come la fede è
fermento segretamente operante nella pasta, e la presenza nascosta del Cristo risorto nelle specie
eucaristiche è principio attivo della trasformazione (in spirito, anima e corpo) del fedele che le
assume. Ma anche qui è evidente la distanza fra il mondo akbariano e la sensibilità cristiana: per Ibn
‛Arabī l’alchimia è pur sempre, riprendendo il detto attribuito ad ‛Alī, “sorella della profezia”, sua
compagna esoterica, che traduce gli annunci palingenetici della parola “pubblica” del profeta
nell’opus devoto dell’Artista ermetico, necessariamente appartato ed iniziato; la mistica eucaristica,
invece, cerca l’equilibrio fra esoterico ed essoterico nel corpo di Cristo, nella sua Incarnazione.
Dopo questo riesame delle intuizioni akbariane alla luce del dibattito filosofico del Radd, è forse
possibile cogliere una particolare sfumatura in uno dei termini più pregnanti utilizzati dal Maestro
andaluso per stigmatizzare il kufr cristiano: taḍmīn, “inclusione” di Dio in Gesù. Forse, oltre che al
ḥulūl propriamente detto, la parola vuole alludere al fatto che i cristiani “identificano” Gesù e Dio
su un piano, quello del rapporto Creatore-creatura, in cui appunto ogni identificazione è
impossibile. Questo errore potrebbe essere dovuto alla già citata “perplessità” dei credenti davanti
all’uso, nel discorso di Gesù così frequente, della prima persona. La prima persona singolare è, in
effetti, fonte di illusione in chi parla e in chi ascolta: ricordiamo il “rimprovero” dell’Autore del
Radd ad al-Ḥallāj quando proclama: “Io sono il Vero”, rimprovero condiviso da buona parte degli
stessi sufi. Ma il cristiano potrebbe obiettare che l’“io” di Gesù si realizza nel “noi” del rapporto
con il Padre: “Io e il Padre siamo uno”. Abbiamo già osservato come il greco evangelico dica più
cose rispetto ad una lingua semitica correntemente parlata: il neutro hen-unum, “una cosa sola”, e il
verbo essere, esmen, “siamo”, su cui si è appoggiata la riflessione trinitaria e cristologica per
definire l’unità-distinzione fra Padre e Figlio, e quindi la comunione fra le Persone divine. Ma
questa unità-distinzione è inaccettabile per la mente semitica, che, come si è detto più volte, vuole
che il Nascosto e il Manifesto comunichino in modo sottile e “carezzevole”, non che si “tocchino”
prendendo la forma di una creatura di Dio.
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