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GESÙ NELLA TEOLOGIA NICENO-CALCEDONIESE E NELL’ISLAM CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL RADD AL-JAMÎL ATTRIBUITO AD AL-GHAZÂLÎ E AI FUÛAL-IKAM DI IBN ‘ARABÎ Daniele Capuano Il est tout à fait digne d’attention que dans ce fonds commun aux uns et aux autres, ce qui est doctrine vulgaire chez les Gentils [i.e. la pluralità in Dio], est ésotérique pour les Juifs, tandis que ce qui pour ceux-ci est exotérique [i.e. l’unità- unicità di Dio], demeure enseignement secret chez les païens. E. BENAMOZEGH, Israël et l’humanité

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GESÙ NELLA TEOLOGIA NICENO-CALCEDONIESE E NELL’ISLAM

CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL RADD AL-JAMÎL ATTRIBUITO AD AL-GHAZÂLÎ

E AI FUṢÛṢ AL-ḤIKAM DI IBN ‘ARABÎ

Daniele Capuano

Il est tout à fait digne d’attention que dans ce fonds commun aux uns et aux

autres, ce qui est doctrine vulgaire chez les Gentils [i.e. la pluralità in Dio], est

ésotérique pour les Juifs, tandis que ce qui pour ceux-ci est exotérique [i.e. l’unità-

unicità di Dio], demeure enseignement secret chez les païens.

E. BENAMOZEGH, Israël et l’humanité

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Ascensione di ‛Isā, miniatura ottomana, XVI sec.

Andrej Rublëv, Il Salvatore, 1420 ca.

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INTRODUZIONE

“Voi, chi dite che io sia?” (Mt 16,14). La domanda, che Gesù di Nazareth rivolse ai suoi discepoli

“nella regione di Cesarea di Filippo”, e alla quale Simone figlio di Giona diede una risposta

decisiva per la nascente comunità di fedeli, è risuonata poi lungo i secoli e in quasi tutti i luoghi,

sfidando l’intelligenza e l’immaginazione, la volontà e le convinzioni di innumerevoli uomini.

Quando parlava di sé, lo sconvolgente rabbi galileo talora offriva cenni enigmatici ed elusivi, talora

formulava, con un’immediatezza più accecante di ogni enigma, dichiarazioni piene di quell’autorità

che i redattori dei Vangeli chiamano exousia, e che sembrava provocare nel modo più radicale una

“civiltà del commento”, salda e molteplice insieme, come il giudaismo. Spesso si appoggiava alle

Scritture ebraiche, ma applicando loro un’esegesi brusca, folgorante, talvolta inaudita. Ora si faceva

sottile e scaltro col suo uditorio, mostrando astuzia di serpente; ora, di fronte a detrattori ed

accusatori, taceva, oppure ripeteva il proprio annuncio nella sua forma più urtante e pericolosa,

offrendosi ai lacci con semplicità di colomba.

La domanda di Gesù ha avuto, ed ha, molte risposte, dopo quella quasi rapita di Simon Pietro.

Quando parliamo di “religioni abramiche”, delle fedi scaturite da quell’antico strappo, da

quell’esodo archetipico, in cui un caldeo si mise in viaggio obbedendo ad una parola misteriosa

senza nulla sapere e prevedere, parliamo di tre religioni che credono nel Dio Unico: parliamo di un

paradosso, di una uni-trinità dolorosa e lacerata di fronte alla quale l’Unitrinità professata dai soli

cristiani sembra un’immagine ironica, pacificata, capovolta. Quando pensiamo alle tre religioni

abramiche, ai tre monoteismi, pensiamo anche a tre o più risposte su Gesù: perché non c’è e non c’è

mai stato un solo Gesù, come non c’è un solo Abramo, un solo Giacobbe, un solo Mosè... E un solo

Dio? Noi chiamiamo volentieri fratelli, figli di un unico Padre, secondo la parabola medievale

ripresa da Boccaccio e da Lessing, i tre monoteismi abramici: ma le Scritture e la comune vita degli

uomini non ci insegnano qualcosa di terribile sull’essenza della fraternità, che è certo chiamata alla

concordia, ma proprio per questo si impregna di tutte le ombre di un così difficile cammino?

“Dov’è il pericolo, cresce/anche ciò che salva”, cantava Hölderlin in Patmos. L’esodo nel buio di

Abramo ci ha segnati tutti irrevocabilmente: il nesso tragico fra male e salvezza è stato consegnato,

insieme alla vita, da una generazione all’altra, e più infallibilmente del peccato originale secondo la

dottrina cristiana. Se il dialogo fra le religioni non vuol essere solo (sarà sempre comunque anche

questo) il côté debole, di lusso, della diplomazia e della geopolitica, non può non partire, nel caso

specifico delle “religioni abramiche”, dalla consapevolezza impietosa di cosa significhi essere

fratelli.

Oggi dovremmo aver compreso a fondo l’impotenza della teologia a condurre questo dialogo. La

teologia è istmo, esercizio della ragione che parte dall’esperienza profetica, o della Rivelazione, per

confermarla e darle più salde fondamenta. È vero, si guarda spesso con favore ad una possibilità di

condivisione sul piano dell’esoterismo o, ancor meglio, della pratica spirituale: ci si volge allo

spirito come portatore di un logos più libero e comune, mentre il logos della teologia è sempre,

irremediabilmente, apologia. Eppure, anche da questa prospettiva, le cose non sembrano affatto

facili. Ogni religione, quasi come ogni individuo, è in certo modo un “assoluto”, una totalità: ma

una totalità che è chiamata alla relazione; al paradosso, cioè, di ogni relazione autentica e davvero

felice. L’interiorità è ardua da mettere in comune quasi quanto il rito. L’esoterismo non è meno

faticosamente plurale dell’essoterismo.

Le pagine che seguono cercano di essere un’offerta indiretta al dialogo. Indiretta, perché vi si

parla piuttosto di differenze fra le tre religioni, anche se con un’intuizione unificante, generata dal

pensiero del cuore di quel gigante del ‘900 che è stato Avraham Yehoshua Heschel. Si esporranno i

lineamenti essenziali della teologia cristiana intorno a Gesù Cristo e a Dio come Trinità; si

proseguirà leggendo un piccolo e prezioso trattato attribuito ad al-Ghazālī, ar-Radd al-Jamīl, in cui

è condotta una serrata discussione filosofico-teologica contro la “divinizzazione” cristiana del

profeta Gesù e contro il dogma “irrazionale” della Trinità: ci si accosterà al Gesù di Ibn ‛Arabī,

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esaminando in particolare il capitolo dei Fuṣūṣ al-ḥikam a lui dedicato, e si cercherà di mostrare

come il salto vertiginoso dalla polemica filosofica alla penetrazione teosofica possa aprire un più

lucido e acuto sguardo sulle importanti differenze e su una prospettiva sottilmente unitaria. Nella

discussione finale si proporrà una chiave di lettura che giustifichi gli accostamenti precedenti.

Ciascuno dei tre fratelli della storia medievale custodirà gelosamente il proprio anello, per

sempre: del Padre, che anche in natura però è sempre incerto, non possiamo dire se non ciò che Egli

stesso ha voluto comunicare nelle Scritture. Finché dura il tempo, ogni relazione con l’altro è

governata da una legge terribile ed esaltante, di cui il grande rabbino chassidico Mendel di Kotzk ha

rivelato un articolo fondamentale con un detto enigmatico e chiarissimo:

“Se io sono io perché tu sei tu, e tu sei tu perché io sono io, allora io non sono io, e tu non sei tu.

Ma se io sono io perché io sono io, e tu sei tu perché tu sei tu, allora io sono io, e tu sei tu”.

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GESÙ, IL DOGMA TRINITARIO E IL DOGMA CRISTOLOGICO. BREVE STORIA DEI PRIMI

SECOLI DELLA TEOLOGIA CRISTIANA1

Il kerygma evangelico, data la sua crescente ricezione nell’oikoumene, culla del pensiero

filosofico ellenistico, si è dovuto confrontare assai precocemente con le istanze culturali

extrasemitiche, che, non di rado, dal punto di vista ebraico-giudaico erano antisemitiche. Prototipo

celebre, ed intenso, di questo confronto-affrontamento è Atti 17,22-34, in cui Paolo brevemente

presenta nell’Areopago ateniese il messaggio cristiano come disvelamento dell’enigmatico “Dio

Ignoto” (agnostos theos) propiziato da uno dei tanti altari del politeismo tardoellenico. La filosofica

risata di tutto l’uditorio (salvo le famosissime eccezioni) è, per la sensibilità ebraica, lo scherno dei

lesìm (derisori), degli afiqorsìm (negatori di Dio).2 In effetti solo il milieu giudaico-cristiano, che

rifiutava assolutamente l’antinomismo della predicazione di Paolo “Apostolo delle genti” (cioè dei

goyim, dei “pagani”), vide in Gesù un profeta messianico, un uomo “adottato” dall’unico Dio quale

suo figlio in un’accezione non troppo difforme dal monoteismo ebraico, secondo un’interpretazione

della famosa scena del battesimo di Gesù (Lc 3,22) in virtù della quale le parole che si odono dal

cielo3 (“Tu sei mio figlio: oggi ti ho generato”) andrebbero intese come nella loro fonte scritturale

(Sal 2,7): cioè come mera metafora. I primi giudeo-cristiani, detti ebioniti (dall’ebraico evyonìm,

“poveri”), hanno in effetti una cristologia “povera” che è una profetologia messianica, in cui l’uomo

Gesù di Nazareth riceve un’investitura divina paragonabile ad una affiliazione: e il suo pendant

esoterico è proprio lo gnosticismo delle prime generazioni, che Elia Benamozegh ha dimostrato

essere impregnato di acroamatismo ebraico, talora eterodosso,4 e che, nella forma del docetismo

(Gesù non aveva un corpo umano vero e proprio, ma apparente, e non è stato realmente crocifisso),

propone un rovescio complementare dell’ebionismo: un Cristo-avatar, energia divina che si

manifesta in forma umana.

La cristologia, cioè la riflessione su Cristo, misterioso messaggero del Divino, non poteva che

iniziare così: meravigliosamente, e minacciosamente, fluttuante. Gesù è talora chiamato angelo

(anghelos) per la sua natura di inviato e in virtù della allora molteplice significazione di questo

termine: oltre all’angelologia gnostica, che ha probabili legami con l’angelologia esoterica del

giudaismo, nel Pastore di Erma Gesù viene identificato col primo degli angeli e con lo Spirito, che

in effetti, come Haghion Pneuma (Spirito Santo), ha un rapporto peculiare con il Cristo evangelico.

In ambito giudeo-cristiano, è noto il passo del cosiddetto Vangelo degli Ebrei (più volte citato poi

dai Padri cristiani) in cui Gesù dice: “Mi afferrò per uno dei miei capelli mia madre, lo Spirito

Santo (he meter mou, to haghion pneuma), e mi trasportò sul grande monte Tabor”, quello della

Trasfigurazione (cfr Origene, In Io. II 12,87). Spirito in ebraico è ruah, che è di genere femminile:

l’atmosfera sembra ancora quella dell’ebraismo esoterico.5

Con scritti come quelli di Giustino Martire (II sec.), si affaccia decisamente un’intuizione

fondamentale, di chiara origine già evangelica e poi paolina: quella della lettura “tipologica” della

1 Il testo più lucido e appassionato che io conosca sulla Trinità è Dio che è amore. Trinità e vita in Cristo, Città Nuova,

di Giuseppe Maria Zanghì. Rimando alla lettura delle sue pagine chiunque resti giustamente inappagato di questa mia

sommaria presentazione, senza dubbio non scevra di errori di diversa entità. 2 Interessante la metonimia-generalizzazione nella definizione islamica ed ebraica dell’eretico: per l’Islam l’eretico è

ipso facto uno zindīq, un “dualista”, uno che “scinde” l’Unità divina; per l’ebraismo è un afiqors, un “epicureo”, uno

che nega la Provvidenza divina a favore di un deus otiosus (la bestemmia ebraica archetipica è: Let din we-let dayàn,

“Non c’è Giudizio né Giudice”). “Epicureismo” e “dualismo” si congiungono nel più famoso apostata ebreo, il tannà

Elisha‛ ben Avuyà. 3 In termini rabbinici, una bath qol, lett. “figlia della voce”. Si tratta dell’ultima forma di comunicazione profetica

rimasta ad Israele dopo la chiusura del tempo della Profezia in senso stretto: ma un famoso passo talmudico (Baba

Mesia 59 b) insegna che una bath qol non va presa in considerazione da un consesso di dotti riuniti per prendere una

decisione giuridica, perché “la Torah non è nei cieli”. 4 Cfr L’origine des dogmes chrétiens, tr. it. L’origine dei dogmi cristiani, Marietti.

5 Nella Qabbalah, la Madre è la Ruah ha-Qodesh (Spirito Santo), congiunta al Padre-Sapienza (Hokhmah) per generare

un Figlio ed una Figlia, la Shekhinah o Immanenza-Presenza divina nel mondo.

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Scrittura ebraica. Eventi e personaggi di quello che viene chiamato Antico Testamento (la berith

anteriore, superata dalla Nuova) – in particolare i sacrifici, come quello di Isacco, le teofanie, come

quella del roveto ardente, e personificazioni gnomiche, come la Hokhmah (Sapienza) del Libro dei

Proverbi e dell’omonimo libro in lingua greca – vengono considerati typoi (in latino figurae),

annunci velati dell’evento-Cristo, che è venuto a “compiere” (plerosai, Mt 5,17) le promesse

lasciate in sospeso nella Rivelazione fatta agli ebrei:6 “...Ho letto che ci sarebbe stata una Legge

definitiva ed un’Alleanza/Patto migliore delle altre... La Legge consegnata sul Sinai è solo per voi

(ebrei), questa (quella del Cristo) vale per tutti gli uomini senza distinzioni” (Giustino, Dialogo con

Trifone). Soprattutto le riflessioni dei pensatori cristiani di matrice culturale non ebraica sulla Torah

(nomos nell’ebraismo ellenistico e in Paolo), sulla Hokhmah dei Proverbi e sulla Sophia del libro

omonimo (ovviamente non accolto nel canone ebraico), corroboreranno l’idea di Gesù come Logos,

secondo il difficile prologo giovanneo.

Negli scritti di Filone d’Alessandria, il grande pensatore ebreo contemporaneo di Gesù in cui le

dottrine acroamatiche ebraiche e i termini e i concetti di certa filosofia ellenistica si integrano in

modo singolare, il Logos, al pari della Sapienza dei Proverbi che stava “presso Dio” (come il Verbo

giovanneo, pros ton theòn) durante la creazione, è il mediatore tra l’Unico Creatore e il creato,

modello della molteplicità come il mundus intelligibilis platonico e Parola che enuncia ed opera

simultaneamente come nella Genesi. Un’idea simile sembra ispirare ancora Ireneo di Lione, quando

scrive che il Padre-Creatore è assistito nelle sue opere dalle Sue Mani, il Figlio-Verbo e lo Spirito-

Sapienza, cui il mondo angelico è subordinato. Ad ogni modo la riflessione sul Logos, pronunciato

da Dio eppure da Lui distinto, fornisce uno strumento per pensare il kerygma: “Gesù è

Signore/Gesù è Dio”. Gesù è Dio-e-uomo perché, dice Ireneo, il mediatore fra Dio e l’uomo doveva

avere affinità/parentela con entrambi per condurli “alla concordia”. Ma come pensare questa

mediazione in modo radicalmente diverso dalla filosofia pagana, con i suoi daimones che fanno da

metaxy (tramite) fra gli immortali e i mortali?

La fede dà la certezza che Gesù è Dio: ma è anche uomo, come è evidente da ogni passo dei

Vangeli. Se ora la sua divinità, il suo essere-Dio, è identificato col Logos-Verbo, in che senso il

Logos è Dio, dal momento che Gesù è al tempo stesso tutt’uno col Dio che chiama Padre e da Lui

distinto? Nel dialogo con l’ebreo Trifone, Giustino parla di un’alterità fra Dio-Padre, che è l’unico

Dio, e il suo Verbo: ma allora il Verbo sarà una sorta di etton theòs, di “dio inferiore” gnostico? No,

risponde Giustino: il Verbo è “un altro Dio... per numero, non per distinzione di pensiero”.

L’alterità è, misteriosamente, compresente con un’unità di volontà e di conoscenza, come non

accade mai fra gli uomini, dove la differenza tra individui comporta sempre una differenza di intenti

e di pensiero. Ma non si tratta forse di un sottile paradosso filosofico che allontana il cuore del

credente dalla viva parola di Gesù, che tra l’altro si è sempre dichiarato Figlio di Dio Padre, non suo

Logos? La questione sembra farsi vieppiù grave ed intricata quando si deve spiegare come il Logos

sia eterno al pari del Padre, pur derivando da Lui: allora Giustino ed altri recuperano la distinzione,

di origine stoica, tra Logos endiathetos (immanente nel Padre o inerente a Lui) e Logos prophorikòs

(proferito), come la parola creata che è prima pensata nel cuore e poi enunciata, attraverso il respiro,

con la bocca. In effetti il Figlio-Logos viene generato, e la generazione sembra implicare qualcosa

di affine alla vecchia idea filosofico-mistica di emanazione. Sembra non si possa uscire dall’ambito

filoniano di un Logos-strumento, e quindi creatura: e infatti saranno tacciati di “puro ebraismo”

coloro che, per preservare la rivelazione monoteistica di cui Gesù si fa garanzia vivente,

esprimeranno una posizione nota come monarchianismo. Come dirà più tardi Sabellio (imitato molti

secoli dopo da Abelardo), Padre, Figlio e Spirito sono i nomi che la Scrittura adopera per indicare

tre modi di manifestazione ed azione dell’Unico Dio Creatore e Salvatore. L’unità fra Dio e Gesù si

riduce così all’unità divina in quanto tale: ma questo può condurre alcuni a ritenere che sia stato il

Padre stesso, Dio di Gesù e tutt’uno con lui, ad incarnarsi, soffrire sulla croce, morire ed essere

sepolto. Questa idea, che forse modula in maniera estremistica le intuizioni rabbiniche sulle

6 La apokaradokia (ansiosa attesa) delle Cose Ultime che Paolo attribuisce all’intera creazione (Rm 8,19) è così

trasferita alla Rivelazione stessa.

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sofferenze della Shekhinah (Presenza) di Dio, è entrata nell’eresiologia col nome di

patripassianismo.7

La parola di Gesù Cristo non si può cancellare: Egò kai ho patèr hen esmen, “Io e il Padre siamo

una cosa sola” (Gv 10, 30). Anche se i “tre nomi”, Padre, Figlio e Spirito Santo compaiono insieme

in un solo testo evangelico (Mt 28,19) e in un passo paolino (2Cor 13,13), e nel primo caso “solo”

in riferimento alla formula battesimale, il pensiero cristiano inizia a cogliere nella Trinità il centro

della Rivelazione dell’uomo-Dio di Nazareth. In effetti, la cristologia è inconcepibile senza la

riflessione trinitaria, la quale a sua volta è il fondamento della cristologia. Si tratta di pensare

simultaneamente Dio e uomo in Cristo, così come bisogna concepire simultaneamente in Dio l’unità

e l’alterità, l’Unicità rivelata nell’Antica Alleanza (mai rifiutata, se non da alcuni gnostici) e la

pluralità rivelata dal Messia, e nel Messia.

Uomini dalla notevole e variegata preparazione filosofica (ed esoterica), come Origene,

propongono parole greche maneggevoli ma anche sfuggenti, dotate forse di troppo vaste risonanze:

ad esempio hypostasis, che nel neoplatonismo indica i singoli gradi dell’emanazione dell’Uno. Ma

in questi autori l’uso della parola si appoggia all’etimo (“ciò che sta sotto”, “ciò che è sussistente”)8

per confutare il modalismo sabelliano-monarchiano: il Figlio (che è il perno della prima

speculazione trinitaria) non è una qualità di Dio, ma un essere sussistente, e Padre e Figlio sono

“due quanto all’ipostasi, ma una cosa sola” per la conformità di volontà. Tertulliano, provando

disagio per questa parola troppo “greca”, va a cercare, da buon latino, nel lessico giuridico romano

e, nell’Adversus Praxean, inaugura un termine ad un tempo arcaico e modernissimo, persona. Il

primo significato è quello di maschera teatrale, ed è anche connesso all’antico costume romano

delle imagines, i calchi funebri degli antenati conservati dalla famiglia ed indossati dai discendenti,

nello spazio del rito, per mostrare che l’individuo accede alla comunità e alla responsabilità

giuridica solo assumendo di nuovo la parte dei propri maiores. Inoltre, nella traduzione greca della

Bibbia (quella dei Settanta), abbiamo l’equivalente di persona, prosopon (altra parola che avrà un

grande futuro), per rendere l’ebraico panìm, “volto”, soprattutto “volto di Dio”, la presenza

personale di Dio. Ma l’uso latino di persona era anche sommamente utile per “tradurre” una delle

espressioni bibliche più frequenti, be-shem, “in nome di”: il profeta che parla e agisce “in nome del

Signore” (be-shem YHWH) parla e agisce in persona Domini, “impersonando” il Signore per gli

uomini destinatari del Suo messaggio. Secondo un midrash (commento rabbinico alla Scrittura),

YHWH ha detto a Giacobbe: “Io sono Dio per quelli in alto, tu sei dio per quelli in basso”.

Comunque, le parole ipostasi e persona vengono utilizzate per esprimere la distinzione del Padre,

del Figlio e dello Spirito Santo, che sono l’Unico Dio. Ma molti insorgono.

Il più carismatico degli oppositori è un presbitero alessandrino, Ario, che dà una formulazione

coerente alle resistenze monarchiane. Innanzitutto, Gesù ha pregato il Padre, che per lui è il solo

Dio, e ha manifestato chiaramente la propria sottomissione: “Il Padre è più grande (meizon) di me”

(Gv 14,28). Dire Figlio equivale a dire creatura: certamente la prima creatura, come la Sapienza dei

Proverbi (Pr 8,22); ma è stata pur sempre la volontà dell’unico creatore a trarla dal nulla originario.

Ario insiste molto sulla preposizione “da” (ek): se Gesù è stato generato dal Padre, cioè deriva dal

Padre, o si tratta appunto di creazione, oppure, se il Figlio è Dio come il Padre, avremo due principi,

insomma due dèi. Ricaduta nel paganesimo! Gesù ha sofferto, ha subito mutamenti, il che non è

proprio di Dio: i numerosi passi neotestamentari in cui si legge, ad esempio, che Dio ha generato

Gesù “oggi”, cioè nel giorno del suo battesimo, oppure che l’ha esaltato etc., indicano che Gesù è

stato reso simile al Padre nel tempo e per grazia, sebbene in modo specialissimo.

Le ragionevoli osservazioni del prete d’Alessandria, che a differenza di alcuni suoi seguaci era

invero abbastanza moderato, sollecitarono una difesa appassionata, ma tutt’altro che concorde, della

“follia del messaggio”, della “stoltezza di Dio” rivelata nel Nuovo Testamento. Il contenuto della

fede cristiana è indubbiamente paradossale: non bisogna rinunciare a nessuno dei termini che sono

7 Il suo ultimo estimatore, probabilmente, è stato il giudaizzante Sergio Quinzio.

8 In Eb 11,1 leggiamo che la fede (pistis) è “fondamento delle cose sperate”, elpizomènon hypostasis. I latini

tradurranno con substantia.

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in apparente contraddizione, e nemmeno alla stessa apparenza di contraddizione; il pensiero, il

logos in quanto manifestazione creata del Logos che è Dio, deve cercare mediazioni rigorose, e a tal

fine gli strumenti della filosofia greco-latina, background di quasi tutti i convertiti colti

dell’ecumene, andavano usati con la semplicità della colomba e l’astuzia del serpente. Secondo la

celebre esegesi allegorica dell’Esodo, i cristiani dovevano servirsi di quegli strumenti come gli ebrei

degli arredi e delle suppellettili portate via dall’Egitto, oggetti idolatrici piegati al culto del Signore.

Il concilio di Nicea (325), voluto da Costantino, e quello di Costantinopoli (381), voluto da

Teodosio, cercheranno di tenersi su questo necessario ed esaltante filo di rasoio.

Il symbolon di Nicea, leggermente modificato a Costantinopoli ed ancora vigente nella liturgia

occidentale ed orientale (con la famosa differenza cui accenneremo), impone una formulazione

universale della fede trinitaria, un dogma (termine che indicava prima anche gli editti e i decreti

imperiali). A proposito del Figlio, vi si dice: “Credo in un solo Signore Gesù Cristo, il Figlio di

Dio...Dio da Dio (theòn ek theoû), Luce da Luce, Dio vero da Dio vero, generato, non creato

(ghennethenta ou poiethenta), consustanziale al Padre (homoousion tô patrì)”. Dettagliata risposta

agli ariani: la derivazione dal Padre non implica creazione; l’analogia con la luce (il Padre è la fonte

luminosa, il Figlio la luce illuminante, e le due cose sono una) aiuta a comprenderlo per mezzo

dell’immaginazione e dell’esperienza: Padre e Figlio (e Spirito) sono distinti, ma hanno la

medesima ousia. Che vuol dire? E perché scomodare un altro termine greco, ancor più ampio e

scivoloso, che non sembra avere una netta ed immediata differenza di significato rispetto a

hypostasis?

Forse maggiore chiarezza può venirci da alcuni pensatori cristiani assai distanti fra di loro (non

solo cronologicamente). L’occidentale Agostino preferisce parlare di sostanza (substantia), che

corrisponde all’ousia nicena, e di personae, come Tertulliano. Nel De Trinitate dice che niente di

ciò che è in Dio è accidentale: come si formulerà poi, “tutto ciò che è in Dio, è Dio”; ma non tutto

ciò che è in Dio “si dice secondo la sostanza”, che è l’alternativa aristotelica all’accidente.

“Sebbene l’essere Padre e l’essere Figlio siano cosa diversa (diversum), non è una diversa sostanza,

perche ciò non si dice secondo la sostanza, ma secondo la relazione (secundum relativum)”; quando

si chiede cosa siano il Padre, il Figlio e lo Spirito, il linguaggio umano si trova in grandi ristrettezze,

sicché “è stato detto ‘Tre Persone’, non per esprimere la cosa, ma per non tacere al riguardo”.

Tommaso d’Aquino andrà ancor più a fondo, sottolineando la differenza tra la sfida del pensiero

cristiano e omnes antiqui doctores, tutti i sapienti antichi che hanno ripreso l’ontologia platonico-

aristotelica, categoria che comprende, come il Limbo dantesco, non solo i filosofi pagani, ma anche

i pensatori ebrei e mauri (musulmani) medievali. “Tutto ciò che è in Dio, è Dio”: la relazione

espressa da ogni Persona (relatio in divinis) non è un accidente inerente ad un soggetto, ma è la

stessa essenza divina; “la Persona divina significa una relazione in quanto sussistente (relationem ut

subsistentem)”, una relazione reale. La molteplicità, in Dio, non è una divisione dell’Uno che è al di

fuori (praeter) dell’Uno e quindi al di sotto di Esso: il “tre” delle Persone non appartiene al numero

come principio quantitativo, ma esprime una molteplicità interna a Dio, trascendente (sumuntur a

multitudine secundum quod est trascendens).9 Abbiamo quindi tre relazioni reali, ma non tre dèi:

abbiamo un’unica Divinità, ma non un’unica Persona. Dopo diversi secoli, il grande filosofo russo

ortodosso (e platonizzante) Pavel Florenskij dirà che lo homoousion niceno è la rivelazione

definitiva della unimolteplicità presentita dai misteri pagani (lo “hen kai pollà”, Uno-e-molti): ogni

Persona è relazione, ma “relazione-sostanza”, cioè Dio; la ousia del dogma non è la sostanza dei

filosofi, ma è l’amore (agape), vero centro della Rivelazione cristiana (“Dio è Amore”, 1Gv 4,16).

Il Dio Ignoto e nascosto dei platonici e degli altri antichi, Uno e Assoluto e anteriore ad ogni

molteplicità e manifestazione, si rivela ai cristiani come il “Dio Noto”, Amore che fonda in Se

stesso un’identità plurale ed indivisa.10

“Senza divisione e senza confusione (adiairètos kai

9 Tutti i passi citati sono nella Summa Theologica.

10 Cfr La colonna e il fondamento della verità. Secondo una formulazione classica, Padre, Figlio e Spirito sono,

rispettivamente, l’Amante, l’Amato e l’Amore. Il Padre è la Fonte (peghè) o l’Origine (archè) della vita trinitaria: il

Figlio è l’eterno oggetto dell’Amore, ed è la Conoscenza (in quanto Verbo e Sapienza) del Padre. Ma poiché, come

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asynchytos, indivise et inconfuse)”, dice il dogma: a questa comunione è chiamato, per

partecipazione, attraverso Cristo, l’uomo, ogni uomo. Ecco il nocciolo mistico-soteriologico della

apparentemente sottile teologia.

Il dogma niceno suscitò, com’è ovvio, l’opposizione monarchiana e sabelliana e,

paradossalmente, anche quella di molti che accusarono lo homoousion di monarchianesimo, in

quanto sembrava sacrificare le articolazioni interne all’enfasi sull’unità. In effetti, la quasi

equivocità fra termini come ousia ed hypostasis, nonché le incomprensioni tra i greci e i latini,

richiedeva maggiore specificazione nel nascente lessico teologico, nonché un’attenzione più

rigorosa alle peculiarità dello Spirito, la persona più “impersonale” della Trinità, e quindi la più

trascurata fino ad allora. A Costantinopoli gli sforzi più o meno congiunti (almeno della Chiesa

orientale) portarono alla redazione pressoché definitiva del simbolo: il cristiano deve credere alla

dottrina di Nicea, nel senso che c’è un’“unica divinità, potenza e sostanza (ousia) del Padre, del

Figlio e dello Spirito Santo...in tre ipostasi perfette o anche tre persone (la parola è prosopa)

perfette”. Il linguaggio dogmatico sembra mirare alla concordia tra le posizioni occidentali e

orientali: ma resterà per sempre la controversia sullo Spirito, che per gli orientali procede

(ekporeuetai) solo dal Padre, mentre per gli occidentali procede congiuntamente dal Padre e dal

Figlio; la questione del filioque, che qui ci è impossibile trattare diffusamente. Resta solo da

ricordare lo strenuo lavoro teologico e politico di Atanasio, il grande niceno, e dei Cappadoci,

Basilio di Cesarea e Gregorio di Nazianzo, di origine patrizia e di ottima formazione intellettuale,

ispiratori del Concilio costantinopolitano.

Ma, una volta messe a tacere (non certo annientate) le pur sensate obiezioni degli ariani, il quinto

secolo, fatale anche sul piano politico per la poco compatta cristianità, doveva infiammarsi intorno

alla definizione di un dogma cristologico condiviso. Le grandi questioni sollecitate dal pensiero di

Apollinare di Laodicea portarono ad applicare le intuizioni della teologia trinitaria alla persona

Christi: il dogma niceno, scendendo alla concretezza dell’evento evangelico, l’incarnazione, la

passione, la morte e la resurrezione del Verbo-uomo, mostrò le sue ardue nuances e la sua tenuta

concettuale ad un tempo. Apollinare era amico e seguace di Atanasio, il campione di Nicea: ne

riprese e sviluppò alcune idee, arrivando a conclusioni abbastanza razionali, ma molto inquietanti. Il

Verbo diventò carne, dice la Scrittura (kai ho logos sarx egheneto, Gv 1,14): ciò significa che ha

“assunto” (verbi lambanein e analambanein) la corporeità umana, ma non l’anima (psychè) e

l’intelletto (noûs) umani, il cui posto è stato preso dal Verbo stesso come Persona divina. Il Logos

non si è incarnato totalmente, non si è unito alla natura umana nella sua interezza, altrimenti non

sarebbe stato impeccabile (anamartetos): per salvare l’uomo, intimamente segnato dal peccato, Dio-

Verbo ha dovuto in un certo senso afferrare e guidare il passivo ricettacolo della carne creaturale,

prescindendo dalla presenza e dalla mediazione di ciò che è specificamente umano, l’anima

razionale e pensante (psychè loghikè); quindi: “Il Figlio non è due nature [divina ed umana], ma una

sola natura, quella del Verbo di Dio, incarnata” (Confessione a Gioviano 1). Era iniziata la stagione

della controversia monofisita (da monos, “uno solo” e physis, “natura”, l’affermazione di una sola

natura in Cristo).

Cerchiamo di accostarci al nodo cristologico, senza pretendere di esplorarne tutte le pieghe. Dopo

l’emarginazione della grande effervescenza gnostica, con le sue visioni e le sue proliferanti

narrazioni simboliche, la sfida che Gesù Cristo lancia al pensiero dei suoi fedeli “ortodossi”, che

seguono cioè la orthè doxa, la “retta opinione” sulle verità di fede (definita dal dogma), è

molteplice: concepire insieme, non solo l’umano e il divino in lui, ma anche la convergenza fra due

movimenti opposti; da Dio-Verbo all’uomo (l’incarnazione, liberamente voluta da tutta la Trinità), e

dall’uomo a Dio, da Gesù di Nazareth, che lentamente ed enigmaticamente si rivela Figlio nel

ricorda S. Weil, l’oggetto, in Dio, non può essere meramente passivo, ma è al tempo stesso soggetto (e quindi Dio),

l’Amore è infinitamente e realmente corrisposto, ed è così totalmente donato da essere una terza Persona, lo Spirito

(quindi detto anche Dono). Questa koinonia (comunione) può essere sperimentata nell’amore fra uomini, che non è “a

due”, perché, come fra il Padre e il Figlio media e distingue lo Spirito, così “dove due o tre sono riuniti” nel nome di

Gesù, Egli è in mezzo a loro (en meso autôn).

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10

battesimo, nella predicazione, nella Trasfigurazione e, in modo sommamente misterioso, nella

Passione, Morte e Resurrezione (l’esaltazione o divinizzazione dell’uomo). Il Verbo, che è Dio ma

nella sua specificità relazionale di Persona, assume, prende su di sé liberamente non un individuo

umano, né la sola corporeità (come per Apollinare), ma l’umanità “secondo natura”, come è stata

creata, cioè senza peccato. Questa è l’opera della salvezza: poiché la caduta dell’uomo, in Adamo, è

stata radicale e totale (qui è evidente il tratto pessimistico ed apocalittico soprattutto della prima

predicazione cristiana), la riconciliazione fra creatura e Creatore può avvenire solo per la amorosa

iniziativa del Creatore stesso, che ‘deve’ intimamente entrare nella natura di ciò che è “suo” eppure

alienato per “salvarlo”; cioè, come suggerisce il ventaglio semantico del greco sozein, per

ricondurre l’uomo a se stesso, al proprio modello autentico, traendolo da ciò che crede di essere. La

cristologia è dunque il fondamento dell’antropologia cristiana: Cristo è il Nuovo Adamo, quindi è

l’uomo perfetto proprio mentre è vero e perfetto Dio; il Verbo, Sapienza di Dio Padre, si è incarnato

in tutto ciò che è veramente e propriamente umano, perché “ciò che non viene assunto, non viene

neanche risanato (to gar aproslepton atherapeuton), invece ciò che è unito a Dio, questo si salva

(hò de henotai tô theô toûto kai sozetai)” (Gregorio di Nazianzo, Lettera a Cledonio 1). La

theandria, la divino-umanità del Logos fatto carne o fatto uomo (si parla sia di ensarkosis che di

enanthropesis per sottolineare le due diverse sfumature e prospettive), è il fondamento di una

dottrina importante, nota come “comunicazione delle proprietà” (idiomaton koinonia, communicatio

idiomatum): in Gesù Cristo, l’umano e il divino sono così intimamente ed amorosamente congiunti,

al pari di una sposa con il suo sposo (la simbologia nuziale biblica viene usata ampiamente, a partire

da Paolo), che le loro rispettive proprietà, pur restando in sé distinte, sono messe in comune e quindi

continuamente scambiate, in una circolazione d’essere che manifesta la comunione (koinonia) della

Trinità stessa. Si può e si deve quindi dire che Dio è nato, ha patito ed è morto (in Gesù), così come

l’uomo è Dio (in Gesù) e resuscita i morti e risorge lui stesso. In realtà è proprio questa la “prova

sperimentale” del dogma, e il telos della Rivelazione: Dio è divenuto uomo affinché l’uomo diventi

Dio; l’umanazione (enanthropesis) del Verbo rende possibile la deificazione (theosis) dell’uomo. Il

Verbo, che è Figlio di Dio per natura, diventa Figlio dell’Uomo affinché tutti i figli d’uomo

diventino Dio “per grazia”, cioè per partecipazione a Lui e in Lui.11

Dopo molti secoli, Meister

Eckhart e i suoi seguaci (soprattutto Angelus Silesius) diranno, con urgenza biblica e mistica

insieme: Che mi serve se Dio si è incarnato in Gesù una volta, ma non nasce qui ed ora dentro di

me? Resta però quella differenza essenziale: Gesù è Figlio e Dio per natura, gli altri uomini per

grazia e attraverso di lui. Non è immediatamente comprensibile, e del resto non può che essere,

prima di tutto, oggetto di fede.12

Ma per ora basti.

L’insegnamento di Apollinare rendeva urgente una reazione che sottolineasse la piena e perfetta

umanità di Gesù congiunta alla divinità: ma a Costantinopoli le opinioni del nuovo arcivescovo,

Nestorio, rivolsero l’attenzione di molti ad altri aspetti del dogma, ancora più riposti. Nestorio

rifiutava la dottrina della comunicazione delle proprietà: poiché il Verbo è Persona divina e davvero

si unisce all’umanità, per non cadere nel monofisismo bisogna ammettere che anche l’umanità,

nell’incarnazione, sia una persona, un prosopon; quindi abbiamo un prosopon umano e un prosopon

divino, che però si congiungono (synapheia) in un solo prosopon, detto “prosopon di unione” e

chiamato Cristo. Questa congiunzione o unione rende impossibile la comunicazione delle proprietà

in senso forte: non si può dire che Dio è nato, ma che Cristo è nato; è meglio chiamare Maria

“madre di Cristo” (Christotokos), piuttosto che, come si iniziava a fare allora, “madre di Dio”

11

Come membra del Corpo Mistico di cui Cristo è il Capo, e che è il Christus Totalis di Agostino e Isaac de Stella,

Capo-e-membra, Gesù-e-i-credenti. Mentre, come abbiamo visto, Gesù dice di essere “una cosa sola” (hen, unum) con il

Padre, Paolo dichiara che gli uomini sono “una sola persona (heis, unus) in Gesù Cristo (en Christô Iesoû)” (Gal 3,28). 12

I Padri greci si accostarono a questa differenza con grande sottigliezza. Non basta dire che Gesù fu preservato dal

peccato, perché anche sua madre Maria lo fu: inoltre, la professione di fede chiede all’intelletto una più vasta

articolazione. Massimo il Confessore, il campione dell’ortodossia nel VII secolo, dirà che Gesù ha avuto volontà

umana, ma non la volontà gnomica che caratterizza tutte le persone umane altre da lui: si tratta della volontà di ogni

persona in quanto separata, che sa alcune cose ed altre ne ignora, e quindi si pone di fronte alla possibilità con la propria

facoltà di scelta (proairesis).

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11

(Theotokos). La asperrima controversia fra lui e l’alessandrino Cirillo portò, lentamente e con

pesanti colpi di mano, ad uno dei concili più importanti dopo quello niceno, il Concilio di

Calcedonia (451).

Cirillo si appoggia ai Padri niceni come a suo tempo Apollinare, ma con maggiore equilibrio fra il

dato della fede e il movimento del raziocinio. Il Verbo ha assunto l’umanità nella sua interezza, ma

proprio per questo non ha assunto una persona umana, perché la persona umana è separata dalla

totalità del genere, non ha l’unità della Persona divina: è appunto la Persona divina a “personizzare”

l’umanità assunta; l’unità di Gesù Cristo è nel Verbo, che è il Soggetto e il punto di partenza

dell’incarnazione. Anche la posizione di Cirillo non è immune dal razionalismo monofisita, ma la

sua tempra di lottatore aprirà rudemente la strada alla laboriosa definizione del dogma calcedoniese.

Nella “formula di unione” del 433 si cerca un equilibrio tra le diverse fazioni: Gesù Cristo è

“consustanziale (homoousios) al Padre secondo la divinità, e consustanziale a noi secondo

l’umanità: infatti è avvenuta l’unione di due nature (dyo gar physeon henosis ghegone)... senza

confusione (o mescolanza, aggettivo asynchytos)”. Quanto alle espressioni riferite a Gesù dagli

evangelisti e dagli apostoli, “alcune le hanno rese comuni [alle due nature] (koinopoioûntas),

riferendole all’unica persona (os ef’henòs prosòpou), altre le hanno divise (diairoûntas), riferendole

[di volta in volta] alle due nature, e ci hanno tramandato quelle divine (theoprepeîs) riferendole alla

divinità del Cristo, quelle invece che indicano abbassamento (tapeinàs) riferendole alla sua

umanità”. È già la fede calcedoniese: come in Dio c’è una sola natura in tre persone, così in Cristo

(nell’incarnazione) ci sono due nature in una sola persona; quasi un riflesso speculare della Trinità

sulla terra, che la conferma e realizza. Di nuovo, si è trattato di pensare insieme unità-e-

molteplicità, identità-e-alterità: forse al prezzo di trascinare la robusta fede evangelica, la semplicità

del kerygma, in dispute taglienti e interminabili, ma con indubbia coerenza di cuore ed intelletto. Il

Messaggio è stato accolto dalle genti, e le genti erano impregnate di metafisica ellenica e di

pensiero giuridico romano. Il dogma-decreto parla di sostanza, ipostasi, mescolanza e via

filosofeggiando, ma il fine è la novità, il novum cristiano: “aprire” la metafisica della sostanza alla

Rivelazione di Gesù come Figlio di Dio e Dio; “ferire” l’ontologia, il Dio Essere Assoluto o “Dio

dei filosofi” (Pascal), per dischiuderlo alla mistica escatologica della palingenesi, quando Cristo

sarà “tutte le cose e in tutte le cose” (panta kai en pâsin Christòs, Col 3,11), e quindi ricondurrà il

creato “nel seno del Padre” (Gv 1,18). Con efficace sintesi, scriveva il vescovo di Roma Leone

Magno al vescovo di Costantinopoli Flaviano: “Restando dunque integre (salva) le proprietà di

entrambe le nature e sostanze confluenti (coeunte) in un’unica persona, la Maestà assunse la

bassezza, la Forza la debolezza, l’Eternità la mortalità”; “per pagare il debito della nostra

condizione [=per riscattarci dall’umanità caduta]”, bisognava che l’Unico Mediatore Gesù Cristo

“potesse da una parte morire, e dall’altra essere immortale”. La communicatio idiomatum è una

realtà irrefutabile: il Figlio dell’Uomo è sceso dal cielo, il Figlio di Dio è nato e morto. La

coincidenza degli opposti, che in ogni tradizione spirituale è il livello più alto e mistico del discorso

sul Divino, trova qui un’articolazione razionale difficile, ma in qualche modo richiesta dal concreto

formarsi della Chiesa di Cristo nella storia.

I sudditi cristianizzati dell’Impero Romano non potevano pensare la loro fede, di lontana origine

semitica, se non applicando avventurosamente gli strumenti del loro logos, di meno lontana origine

greca. Se poi questo logos abbia finito con imporsi al Logos che è Cristo, non è dato dire: l’oleastro

pagano innestato sul nobile ulivo semitico (cfr Rm 11,16-24), Paolo ne era già consapevole, avrebbe

avuto un destino complesso e tortuoso. E non poteva impedire che altri pensieri sul suo Capo,

Cristo, sorgessero nelle contrade dell’impero sempre più vasto ed anche fuori del limes: soprattutto

non poteva prevedere che il sogno di unità imperiale andasse ad urtare, proprio nel secolo di grandi

difensori della fede come Massimo il Confessore e, più tardi, Giovanni Damasceno, contro

l’espansione politica di un piccolo popolo semitico, e soprattutto contro la comparsa di una

Rivelazione che sembrava riaprire i conti con una visione non “romana”, e non “universale”, di

Gesù il Messia, figlio di Maria di Nazareth.

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12

LETTURA DEL RADD AL-JAMIL

Non intendiamo qui esaminare la questione dell’attribuzione del Radd al-Jamīl, se l’opera sia di

al-Ghazālī, la “prova dell’Islam” (come ancora pensava, ad esempio, Massignon), o se sia di un

cristiano copto convertito, secondo la ben argomentata ipotesi di G. S. Reynolds.13

Non mancano

elementi a sostegno dell’una come dell’altra posizione: diremo qui molto brevemente che l’operetta

non sarebbe indegna del grande mujaddid di Ṭūs per l’equilibrio del pensiero e l’acribia scientifica,

nonché per la diffidenza più volte sottolineata nei confronti della filosofia, congiunta però alla pia

calliditas di utilizzarne gli strumenti logico-euristici a fini apologetici e polemici;14

del resto, la non

comune conoscenza delle Scritture, delle dottrine e delle confessioni cristiane, nonché un ricorso

alla lingua copta in uno dei passi cruciali, potrebbero giustificare il sospetto di un passato cristiano

dell’Autore, dando così alle frequenti stoccate di devota indignazione comm’il faut le drammatiche

risonanze della psicologia del convertito. Proveremo a leggerla semplicemente seguendo il filo delle

sue argomentazioni, in attesa di riprendere il nostro nell’ultima parte di questo lavoro.

I cristiani si dividono in coloro che, non avendo pratica delle scienze (filosofico-teologiche),

contraggono l’abitudine dell’ignoranza e restano attaccati a ṣuwar, immagini; e in coloro che,

avendo un po’ di intelletto e di pratica delle scienze, si attengono all’imitazione pedissequa (taqlīd)

del Filosofo (per antonomasia: cioè, come in tutto il medioevo ebraico, cristiano e musulmano,

Aristotele) sulla questione dell’unione dell’umanità e della divinità in Gesù (ittiḥād), che essi

riconducono al nesso esistente tra l’anima (nafs) e il corpo di carne (jasad).15

Ma si tratta di un

ragionamento analogico (qiyās) assurdo: infatti non c’è alcun elemento comune tra l’ittiḥād e

l’unione anima-corpo; se essi tuttavia obiettano che è una forma di paragone ed esempio (tashbīh

wa-tamthīl), bisogna rispondere che in Aristotele non c’è nulla di chiaro sull’anima e sul suo nesso

col corpo:16

è dunque un qiyās da rifiutare, ambiguo (qiyās at-ta‛qīd), perché cerca di spiegare

qualcosa di ignoto ricorrendo a ciò che è ancor più ignoto (ignotum per ignotius). Inoltre, secondo

Aristotele il rapporto che l’anima ha col corpo è quello della forma che lo organizza (tadbīr), e ciò

accade in virtù di una corrispondenza e di una convenienza reciproche, che non possono darsi

affatto tra l’umano e il Divino.

Al di là dei puntelli filosofici, i cristiani si appoggiano direttamente alle loro Scritture, e fanno

dei miracoli di Gesù (in particolare la revivificazione dei morti, iḥyā’ ’l-mayyīt) la prova della sua

divinità. Se è vero che il miracolo profetico (mu‛jiz)17

comporta un’interruzione delle leggi

ordinarie (o delle consuetudini, kharq al-‛awā’id), ciò sarà valido per tutti i miracoli di tutti i

Profeti, a cominciare dal legislatore degli Ebrei, Mosè-Mūsā, che trasformò la verga in serpente ed

13 Gabriel Said Reynolds, The ends of Al-Radd Al-Jamil and its portrayal of Christian Sects [Islamochristiana], 1999,

n° 25 , pagg. 45 – 65. 14

In realtà, nonostante il suo rifiuto della “filosofia ellenizzante” (falsafa: celebre il suo Taḥāfuṭ al-falāsifa,

“L’incoerenza dei filosofi [ellenizzanti]”, noto nel medioevo latino come Destructio philosophorum) in quanto

potenzialmente ed attualmente “innovatrice” rispetto alle verità rivelate, al-Ghazālī considerava la logica (manṭiq) uno

degli strumenti dell’ijtihād, lo “sforzo” ermeneutico che è uno dei compiti sacri della comunità musulmana nel suo

insieme. Devo questa rettifica al prof. Adnane Mokrani. 15

In effetti la teologia cristiana si è servita spesso della psicologia aristotelica ed ha evocato, a proposito

dell’incarnazione, l’unione tra l’anima ed il corpo umani per analogiam: è questa infatti un’unio personalis simplex, in

cui i due componenti, ciascuno dei quali è in sé incompleto, si congiungono per divina creazione a formare una persona

integra; quella tra la natura umana e la natura divina in Gesù è invece unio personalis hypostatica, sostanziale,

soprannaturale e indissolubile, perché qui non abbiamo due componenti incompleti che si completano a vicenda, e

perché laddove il soggetto della prima unione è il prodotto di questa stessa unione, nel caso di Cristo è il soggetto (il

Verbo) a produrre l’unione (assunzione – è Dio-Verbo il soggetto che unisce a sé l’umanità sua creatura, e la salva

anche nel senso che la conserva nella distinzione). 16

Più avanti l’Autore proporrà l’obiezione definitiva: Aristotele ha insegnato dottrine contrarie alla Rivelazione (una

per tutte, l’eternità del mondo contro la creazione), è quindi inaffidabile sul piano dei contenuti, sebbene non del

metodo. 17

Il miracolo del santo (walī) si chiama invece karāma.

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13

ebbe la mano bianca come per la lebbra senza esser malato. Anzi, il miracolo della verga – un

essere inanimato che diventa animato – è superiore a quello della revivificazione dei morti – un

essere che è già stato animato e che viene ricondotto al suo stato primo – miracolo che, tra l’altro,

era stato precedentemente compiuto anche da Elia ed Eliseo. Inoltre, anche i Profeti (anbiyā) che

non furono Inviati (rusul) possono aver avuto questa relazione (nisba) con Dio, ma senza

manifestarla.

A questo punto, l’Autore inizia l’esame del Vangelo di Giovanni, il quarto dei vangeli canonici,

che per i cristiani è “il più chiaro” (awḍaḥ).18

Mentre la maggior parte dei polemisti musulmani

accusa i cristiani di taḥrīf an-naṣṣ o bi-l-lafẓ (alterazione del testo scritturale nella sua letteralità,

nella fattispecie il testo dei Vangeli), l’Autore imputa loro un taḥrīf bi-t-ta’wīl, o taḥrif al-ma‛anī

(alterazione sul piano dell’interpretazione del testo, quindi sul piano dei significati e non dei

significanti),19

salvo poi recuperare, almeno come sospetto, la posizione maggioritaria nell’esame di

un unico, ma fondamentale, versetto giovanneo. Le armi vengono subito snudate: nel Vangelo di

Giovanni ci sono 1) passi “manifesti” (ẓawāhir, plurale di ẓāhir) che indicano l’umanità di Gesù e

2) passi di cui i cristiani rifiutano il ta’wīl. Infatti, se i testi concordano con l’intelligenza (al-

ma‛qūl) vanno lasciati nel loro senso “manifesto”, ma se contraddicono l’evidenza razionale è

necessario interpretarli: il loro senso proprio (ḥaqīqa, cioè “verità”) non è il senso voluto, bisogna

quindi “rinviarli” (radduha)20

al senso metaforico-traslato (majāz).

I primi passi esaminati sono proprio quelli che hanno bisogno del ta’wīl, i testi cioè sull’ittiḥād

di Gesù con Dio. Il locus classicus è Gv 10,30-36, in cui Gesù dice: “Io e il Padre siamo uno” (anā

wa-l-ābu wāḥidun).21

Gesù stesso ha detto chiaramente agli Ebrei, interlocutori del discorso, che

queste parole non andavano intese nel senso “manifesto” ma nell’accezione “traslata-metaforica”, e

lo ha fatto proponendo loro un esempio (mathal) tratto dalla Torah, il versetto 6 del salmo 82: “Io

ho detto: voi siete dèi (āliha, in ebr. elohim)”; Gesù è associato (verbo shāraka) ai suoi interlocutori

in virtù di questo significato non proprio. Qui l’Autore tenta un accostamento con il ḥadīth at-

taqarrub,22

un importante testo della tradizione islamica (“Il Mio servo non si avvicina a me con

qualcosa che Io ami di più delle opere da Me prescrittegli. Ed egli si avvicina a Me con le opere

supererogatorie finché io non lo amo. E quando Io lo amo, Io sono l’udito con cui egli ode, la vista

con cui vede, la mano con cui afferra, il piede con cui cammina etc.”): Dio non può essere presente

(ḥāllan) nelle membra dell’uomo, né essere quelle membra tout-court (‛ibāratan ‛anha); il senso è:

se il servo si sforza di obbedire a Dio, riceve da Lui potere ed aiuto (qadra wa-ma‛awana), e così

può usare le proprie membra con l’unico fine di avvicinarsi a Dio, non di identificarsi con Lui. In

questo modo, i servi non sono più separati da Dio nel senso che non sono più in contrasto con la

Sua volontà: vogliono ciò che Egli vuole. L’Autore ha poi buon gioco nel sottolineare che la

traduzione araba del verbo apostello (da cui “apostolo”), usato per indicare la missione di Gesù, è

arsala, “inviare”, da cui rasūl: Gesù sta dicendo di condividere con tutti gli uomini il significato

generale della metafora dell’ittiḥād, e di esser loro superiore per i gradi della profezia e dell’essere-

inviato (faḍaltukum bimarātibi ’n-nubūwwa wa-r-risāla). Ha mostrato (bayyana) agli uomini il Dio

da adorare: come può essere egli stesso Dio? Torniamo dunque all’argomento principe della

polemica ariana.

18

Senz’altro è il vangelo teologico per eccellenza, quello che meglio accosta alla conoscenza di Dio come Trinità e di

Gesù come Verbo del Padre incarnato (l’animale simbolico di Giovanni è l’aquila, che nei bestiari antichi era detta

l’unico essere vivente capace di fissare il sole). 19

Posizione del resto implicita nel titolo completo dell’opera: Ar-radd al-jamīl l-ilahyati-‛Isā biṣarīḥ al-Injīl (“La bella

refutazione della divinità di Gesù com’è chiaramente espresso dal Vangelo”). 20

Si comprende dunque che il Radd è una “refutazione” nel senso specifico di un’argomentazione che “rinvia” i testi

evangelici alla loro corretta interpretazione. 21

Da notare che il testo greco usa il verbo essere (esmen) e dice “uno” al neutro (hen=una cosa sola: Egò kài ho patèr

hèn esmen). Su queste differenze tra la lingua greca (lingua della redazione neotestamentaria, ma non lingua parlata da

Gesù) e le lingue semitiche si tornerà più tardi. 22

Si tratta di un ḥadīth qudsī, un testo cioè in cui Dio parla in prima persona.

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14

Il passo seguente è Gv 17,11, tratto dal “discorso sacerdotale” dell’Ultima Cena: “Padre Santo,

conservali nel Tuo Nome che mi hai dato, affinché siano uno con Te come noi”. È qui ancor più

chiaro che si tratta di un paragone (mathal), perché Gesù usa una particella comparativa (ḥarf at-

tashbīh), “come”: egli prega Dio che conservi i discepoli nel Suo Nome come conserva lui, affinché

conseguano in virtù di ciò l’unità con/in Dio (waḥda bi-Llāh). Se la sua unità con Dio gli avesse

dato il diritto alla divinità, egli avrebbe chiesto, per i suoi discepoli, che diventassero dèi:23

ma,

come si tratta di un’unione metaforica se riferita agli altri uomini, così anche se riferita a Gesù. È

paragonabile alla conformità di volontà che si ha con un amico, e che ci spinge a dire: Io e lui siamo

uno.

Il testo seguente appartiene ancora al “discorso” o “preghiera sacerdotale”: è il famoso ut unum

sint: “E io ho dato loro la gloria che Tu mi hai dato, affinché siano uno come noi siamo uno” (Gv

17,22). Gesù chiede la gloria (majd) anche per gli uomini affinché essa dia ordine alla loro

dispersione, e possano così allearsi per obbedire a Dio (o: gareggino nell’obbedirgli). Infatti,

obbedire a Gesù è obbedire a Dio, e viceversa: questa è la proprietà dei Profeti e degl’Inviati. In

quanto profeta ed inviato, egli dichiara che, se ciò avvenisse (se gli uomini obbedissero a Dio per

mezzo di lui), saremmo tutti come una sola essenza (ka-dhātin wāḥidatin). La qualità di inviato è

particolarmente evidente in Gv 12,44: “Chi crede in me, crede anche a Chi mi ha inviato”: cioè: Io

do notizia di Lui secondo verità (ukhbiru ‛an-hu ḥaqīqatan). La prima parte di 17,22 indica la gloria

in generale (‛ala al-‛umūm), poi Gesù la intende in senso specifico (waṣafahu), cioè nel senso della

gloria propria dei Profeti e degli Inviati: ma egli non ha chiesto per i discepoli che diventassero

profeti ed inviati, quindi ha donato loro la conoscenza di ciò che conviene alla Maestà di Dio

(i‛lāmihim bimā yaliq bijalāli-Llāh), cioè la conformità a Lui attraverso gli ordini, le proibizioni e le

decisioni che ha rivelato, ed ha richiesto l’assistenza (tawfīq) di Dio perché agissero secondo questa

conoscenza. L’espressione: “E santificali nella Tua Verità (Ḥaqq)” allude al fatto che è Dio,

secondo il Suo Nome al-Ḥaqq, il creatore degli atti umani, come vuole l’ortodossia musulmana.

Obiezione cristiana: perché nella gloria donata non può esser compresa l’unione che ha dato a

Gesù il diritto di essere un dio (ilahan)? Ma si tratta di una tipica petizione di principio: forse che

l’essere-dio (ilahya) può essere donato?24

Ci sono poi i passi in cui l’umanità di Gesù è manifesta, e coincidono proprio con i testi della

controversia ariana. L’Autore richiama sin dall’inizio l’attenzione su quella che, “secondo la loro

[dei cristiani] opinione” (‛alā ra’yihim),25

è la sofferenza di Gesù sulla croce, espressa (in Mt 27,46)

con il grido del salmista, che qui viene tradotto in arabo: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai

abbandonato?” (ilahī ilahī lima taraktanī?). Ciò contraddice la divinità (munāfiya li-l-ilahya), come

pure l’episodio del fico (Mc 11,12-14), in cui Gesù maledice la pianta perché, contro le sue

aspettative, priva di frutti, episodio che dimostra insieme la sua fame e la sua ignoranza, qualità

eminentemente creaturali. Egli tuttavia, in quanto profeta, ha compiuto il prodigio (la pianta sarà

sterile in eterno) per consolidare i discepoli nella loro fede (ciò è suggerito dal passo seguente,

11,20-25, secondo il quale chi crede può ottenere, con le sue sole parole, che un monte si getti nel

mare) e per insegnar loro a sostenere le prove ascetiche che conducono in Paradiso.26

A proposito

poi del testo sulla montagna che si precipita nel mare, va rilevato che Gesù ha conferito ai suoi

discepoli, in virtù della walāya (santità-amicizia con Dio, in questo caso sinonimo di fede), il potere

di compiere prodigi ben più grandi del fico disseccato, il che si collega immediatamente ad un

23

Abbiamo visto, e vedremo ancora, come per il cristianesimo, specialmente orientale, sia proprio questo il fine

dell’Incarnazione. 24

Secondo il dogma trinitario è proprio così: anzi lo Spirito Santo, nesso del Padre e del Figlio, ha fra i suoi appellativi

quello di Dono. 25

È noto che l’Islam tende a negare la morte ignominiosa di Gesù sulla croce, recuperando l’antico docetismo per

ribadire, almeno nella prospettiva sunnita, la visione più “biblica” (ma non del tutto biblica) del profeta divinamente

assistito anche negli aspetti mondani della sua missione, in quanto manifestazione della potenza di Dio fra gli uomini.

Cfr soprattutto Cor 4, 157-158. 26

Gesù è per l’Islam, ed in particolare per i sufi, soprattutto maestro di pratica spirituale. I detti e fatti, per lo più

apocrifi, riportati da al-Ghazālī nell’Iḥyā ‛ulūmi d-dīn sono tutti degli apophtegmata di carattere ascetico.

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15

versetto molto importante,27

Gv 14,12: “Chi osserva i miei comandamenti farà opere anche

superiori (afḍal) alle mie”.

Altro versetto lungamente discusso anche nella cristianità: “Quanto a quel giorno e a quell’ora

[il giorno e l’ora dell’eschaton], nessuno li conosce, né gli angeli del cielo, né il Figlio, ma il solo

Padre (illā al-āb waḥdahu)” (Mc 13,32). Qui Gesù fa una dichiarazione di pura umanità (al-

insāniyya al-maḥḍa), negando di avere la conoscenza (‛ilm) propria della Divinità: ne consegue che,

quando Gesù dice Figlio, intende se stesso (nafsahu), e quando dice Padre, intende la Divinità (al-

ilah).

Intorno al passo seguente (Gv 17,1-3), l’esegesi si fa più sottile: “E questa è la vita eterna, che

conoscano Te come il solo Dio vero (al-ilah al-ḥaqq waḥdaka) e colui che hai inviato, Gesù Cristo

(Yasū‛ al-Masīḥ)”. Abbiamo ora, secondo l’Autore, la prova che il linguaggio neotestamentario non

è “rigoroso”: per i cristiani, infatti, la parola Masīḥ, Cristo, indica la totalità di una sostanza

composta di divinità e di umanità (majmu‛ ḥaqīqa murakkaba min lāhūt wa-nāsūt);28

ma qui si

parla dell’invio di Gesù, cioè del suo essere, islamicamente, rasūl e quindi mero uomo. Si tratta

insomma di una sorta di metonimia totum pro parte, come se dicessimo di aver visto dell’inchiostro

(composto), intendendo il solfato di ferro (uno dei suoi componenti).

Vengono poi allegati diversi passi neotestamentari per corroborare le idee già esposte: “(Quando

ci sarà la Resurrezione), il Figlio si sottometterà a Colui che gli ha sottomesso tutte le cose” (1Cor

15,28): sottomettersi (khaḍā‛) alla Sublimità di Dio è proprio dei servi (sha’n al-‛abīd), mentre

sottomettere è proprio di Dio il Possente (ilah al-Qādir). In Ef 1,16-17 si parla del “Dio di Nostro

Signore Gesù Cristo”; in 1Tm 2,5 il fatto che Gesù Cristo sia “l’unico mediatore (wasīṭ, in gr.

mesites) fra Dio e gli uomini” viene esplicitamente connesso alla sua umanità (l’arabo dice insān, il

greco anthropos). Mt 23,9, “un solo maestro (mu‛allim), il Cristo; un solo Padre, Colui che è in

cielo”, indica chiaramente una distinzione (taghāyur), perché Gesù assegna a sé l’unicità

dell’insegnamento (waḥdati-t-ta‛līm) sulla terra, e alla Divinità l’unicità della Paternità. La

sottomissione di Gesù esclude la sua divinità: egli ha spesso pregato (per la resurrezione di Lazzaro,

cfr Gv 11,41-42, nel Getsemani, cfr Mt 26,39 e, come si è già ricordato, sulla croce), ed in

particolare la preghiera nell’Orto esprime prima dubbio (shakk) (“Padre mio, se è possibile, passi da

me questo calice”) e poi distinzione (ghāyara) tra la propria volontà e quella del suo Dio (“però non

come voglio io, ma come vuoi Tu”).29

L’Autore formula a questo punto una sentenza efficacemente

lapidaria: “Chi invia non è chi è inviato” (al-mursil ghayr al-mursal).

Dopo altre citazioni giovannee dello stesso tenore (Gv 8,39-40, in cui Gesù chiama se stesso “un

uomo che vi ha detto la Verità che ho sentito da Dio”, Gv 8,26, “Colui che mi invia è Verità [al-

Ḥaqq]” e Gv 12,49-50, “Perché io non ho parlato da me stesso [min nafsī] etc.”), un passo

particolarmente mistico della Epistola agli Ebrei di S. Paolo (3,1-2) consente paradossalmente di

introdurre nell’argomentazione due spunti interessanti, che potremmo definire, come tutti gli altri,

“ebioniti”, in riferimento alla piccola setta giudeo-cristiana delle origini: “Guardate questo Inviato,

il sommo sacerdote della nostra fede, Gesù Cristo, che ha la fiducia di colui che lo ha inviato (al-

mu’attaman ‛inda mursilihi, in gr. pistòn onta tô poiesanti autòn), come Mosè in tutta la sua casa”.

Da una parte, si sottolinea che, nella lingua originale in cui fu redatta l’Epistola, la parola

mu’attaman è sinonimo di colui che serve-adora Chi l’ha creato; dall’altra, la “casa” (bayt) di Mosè

non è se non la sua umma di credenti, il popolo ebraico, e Chi l’ha costruita è Dio, che costruisce

ogni cosa (cfr Eb 3,4); quindi entrambi questi rusul, Mosè e Gesù, sono un dono per il loro popolo,

e il Donatore non è che Dio. Notiamo che il testo originale (sebbene tradotto in arabo) è accettato,

come sempre (tranne l’unica eccezione che vedremo), ma è, più evidentemente che altrove,

sottoposto ad una ri-lettura pesantemente islamizzante: nel primo caso, la parola mu’attaman, si fa

27

E pregiatissimo da tutti coloro che hanno interpretato la profezia del Paraclito, di cui si parlerà dopo, come

un’apertura a rivelazioni ulteriori: fra questi ci sono appunto i musulmani. 28

Cioè l’unione ipostatica, ma espressa qui con parole che fanno trasparire (imperfettamente) la cristologia nestoriana,

probabilmente la meglio conosciuta dall’Autore. 29

Si ricordi la controversia sul monotelismo e il ditelismo nell’epoca di San Massimo il Confessore.

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un riferimento, difficile da giustificare, all’Urtext; nel secondo caso, si omette ‘strategicamente’ il

versetto 3 (“Infatti Gesù è stato reso degno di una gloria tanto maggiore di quella di Mosè, quanto

l’onore di chi costruisce la casa è maggiore di quello della casa”), in cui è già in nuce tutto il

pensiero cristiano sulla pienezza della rivelazione di Gesù rispetto a quella mosaica in virtù del suo

irripetibile rapporto con Dio.30

Dopo questo primo studio di passi neotestamentari, l’Autore trae una conclusione chiara ed

originale: le espressioni di Gesù riferibili al ḥulūl (l’“inabitazione” di Dio nell’uomo) e

l’affermazione “Io e il Padre siamo uno” (nonché, come verrà sviluppato in seguito, la terminologia

della relazione Padre-Figlio) non sono state permesse (lam yu’adhan) al fondatore (o latore) della

“nostra” Legge (ṣāḥib sharī‛atinā), Muḥammad, e a nessuno della sua comunità; ma anche Gesù è

fondatore di una Legge, ed ogni Legge ha ricevuto dei privilegi particolari (ikhtaṣṣat bi-ḥkām). Ora,

poiché egli si è discolpato dal sospetto di intendere le suddette espressioni nel loro senso

“manifesto” proponendo un paragone (cfr supra su Gv 10,30-36), è dimostrato che aveva il

permesso di pronunciarle (udhina lahu b-iṭlāqiha) e di utilizzare quel tipo di accezione metaforica.

Ma in ciò il cristiano non ha affatto seguito il Maestro: la sua pseudoesegesi consiste, in breve, nel

ricondurre alla natura umana (nāsūt) di Gesù i testi che ne indicano l’umanità, l’essere-uomo

(insāniyya), e di riferire alla sua natura divina (lāhūt) ogni passo “manifesto” (ẓāhir) che non è in

grado di interpretare (‛ajiza ‛an ta’wīlihi); sicché egli fa del suo Dio ora un uomo, ora una divinità

(yaj‛alu ilahahu tāratan insānan wa-tāratan ilahan).

In quest’ultima proposizione è implicito tutto il giudizio dell’Autore sui dibattiti cristologici: ma

una cospicua parte dell’operetta è dedicata alla confutazione per extensum delle “fazioni” cristiane,

rappresentate dai giacobiti (ya‛qūbīyya, la chiesa monofisita siriana), dai melchiti (malkīyya, sensu

latiore i cristiani ortodossi di lingua araba)31

e dai nestoriani (nusṭūrīyya).32

La discussione è tutta

condotta sul filo di una logica filosofica piuttosto razionalistica, che con i suoi acidi va ad attaccare

i nodi dottrinali in cui il dogma media tra la Rivelazione e l’intelletto umano.

La confutazione della cristologia “giacobita” si giova dell’equivocità del concetto di mescolanza

e delle sue implicazioni nel linguaggio monofisita.33

Secondo questa chiesa, la Divinità avrebbe

creato la natura umana di Gesù, e si sarebbe manifestata in essa con un legame che è come quello

dell’anima col corpo: con questo legame, si sarebbe prodotta (ḥadatha) una terza realtà (ḥaqīqa),

distinta da ciascuna delle due nature ma composta da entrambe, lāhūt e nāsūt, dotata di tutti gli

attributi (mawṣūfa) propri di entrambe e quindi insieme Dio e uomo: il Cristo. Si obietta che

l’esistenza di ogni composto dipende dall’esistenza delle sue parti componenti e dal loro modo

specifico di composizione, così come ciascuna parte, entrando in composizione, ha bisogno degli

altri componenti: ma, in questo caso, ne seguirebbe che la natura divina ha bisogno dell’uomo.34

Inoltre, se la Divinità, creata la natura umana, si fosse manifestata in essa unendosi ad essa, si

sarebbe prodotto un attributo divino (l’unione=ittiḥād) dopo la creazione di qualcosa: ma gli

attributi divini sono necessariamente esistenti (wājiba al-wujūd), mentre la relazione di una creatura

con la potenza divina che la fa esistere fa parte della categoria dei rapporti relativi (nisab wa-

iḍafāt), che non sono una realtà di per sé esistente, ad es. l’esser sopra e l’esser sotto e... essere

padre e figlio!35

30

Va detto, però, che non sarebbe difficile “islamizzare” anche il terzo versetto: vedere l’ultima parte sulla relazione

Mosè-Gesù nella prospettiva musulmana. 31

La riunione dei Melchiti con la Chiesa Cattolica Romana risale a Serafino Tanas (Cirillo VI, 1724-1759). Devo

questa precisazione al prof. Adnane Mokrani. 32

Non è qui il caso di sottolineare la specificità di ciascuna delle Chiese nominate (spesso le differenze dottrinali sono

state, nel corso della storia, piuttosto limitate), soprattutto perché l’Autore fa un’esposizione sui generis della

cristologia, completamente funzionale ad una refutatio che investe la tradizione cristiana nel suo complesso. 33

La presentazione di questa dottrina fa pensare piuttosto al nestorianesimo storico vero e proprio. 34

Si mostrerà poi come questa idea, apparentemente eretica ed irrazionale, sia (esotericamente) alla base delle

rivelazioni monoteistiche. 35

È già implicito in questa asserzione il modalismo estremo della successiva confutazione della Trinità.

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La cristologia “melchita” somiglia di più a quella cattolica: la natura umana di Gesù e l’essenza

divina (dhāt al-ilah) sono due nature distinte (mutamayyazatāni), fra le quali non c’è mescolanza

(ikhtilāṭ) né fusione (imtizāj), ma ciascuna conserva le sue attribuzioni specifiche. Ora, il Cristo è la

persona (uqnūm) della natura divina soltanto, ed è una natura senza composizione, estratta (ukhidat)

dalle due nature, unita all’uomo universale (al-insān al-kullīyy, la natura umana come genere).36

Le

due obiezioni sono particolarmente interessanti: se ciò fosse vero, allora il Crocifisso stesso (al-

maṣlūb huwa) sarebbe Dio (superfluo dire che questo è il retto insegnamento cristiano, se bene

inteso);37

inoltre, o l’“uomo universale” esiste solo concettualmente (fi ’dh-dhihn), oppure, se anche

esistesse ad extra (fi l-khārij), avremmo, come assurda conseguenza, l’unione di Dio con tutti gli

uomini.38

La confutazione dei “nestoriani” è meno articolata e meno interessante, anche perché il

bersaglio sembra poco individuato.39

È invece assai notevole la parte iniziale della sezione

successiva (dedicata allo studio delle principali designazioni di Gesù Cristo), perché, con brusco e

sapido passaggio, la geometria della controversia scolastica cede ad un accostamento tra la persona

di Gesù ed uno dei gangli più vivi e dolorosi della mistica musulmana. Infatti, prendendo ad esame

il significato del nome “Dio” (ilah) in quanto riferito a Gesù, l’Autore si chiede se i cristiani lo

usino per magnificarlo (ta‛ẓīmihi), cioè in senso traslato, oppure per intendere la sua divinità

(ilahya), cioè in senso proprio. A questo punto osserva che la situazione è paragonabile a quella di

alcuni “grandi personaggi” dell’Islam, ad esempio di Abū Yazīd al-Bistāmī, che ha pronunciato le

espressioni subḥānī (“Sia gloria a me!”) e mā a‛ẓama sha’nī (“Quanto è sublime la mia

condizione!”) – ma l’Autore attribuisce la seconda ad un altro – e soprattutto di Ḥusayn ibn Mansūr

al-Ḥallāj, che disse anā Allāh (“Io sono Dio”, più nota la versione anā al-Ḥaqq, “Io sono il Vero”

i.e. Dio) e mā fi l-jubba illā Allāh (“In questa veste non c’è che Dio”). Si tratta delle famose

shaṭaḥāt, le “locuzioni teopatiche” che sembrano esprimere un livello estremo di unione uomo-Dio

(ittiḥād) e di inabitazione della Divinità nell’umanità (ḥulūl).40

Queste frasi, spesso brevi ed

interiettive, vengono imputate agli stati spirituali dei santi (aḥwāl al-awliyā’), potremmo dire alla

loro estasi, che impedisce il controllo del linguaggio (taḥaffuṭ fi l-maqāl). Si dice che i santi (i

mistici) siano ebbri (sukāra); i consigli dell’ebbrezza (majālis as-sukr) devono essere nascosti, e

36

L’Autore espone, in modo piuttosto avventuroso, la dottrina calcedoniese ortodossa: in Gesù Cristo le due nature,

perfettamente distinte, sono anche perfettamente unite nell’unica persona del Verbo che è Dio, il quale ha assunto la

natura umana in quanto tale, non una persona umana individuata. Da notare che la parola uqnūm, dal greco gnome

(conoscenza-volontà), è ancor più di hypostasis e persona esposta all’accusa di triteismo, laddove nel dogma trinitario è

chiaramente espresso che le tre ipostasi-persone hanno in comune una sola natura e quindi una sola conoscenza-volontà. 37

Infatti l’Autore dice “la divinità”, il che non è vero se si intende la Natura una della Trinità in quanto tale: è vero però

del Verbo, che “coinvolge” la Trinità nell’incarnazione, ma è l’unica persona ad incarnarsi in senso proprio. È chiaro

che questi “fraintendimenti” sono altrettanti corollari di una visione di Dio incompatibile con la Rivelazione trinitaria. 38

In altri termini: o l’ittiḥād, concepito in questo modo, è impossibile; oppure è possibile e reale per tutti gli uomini.

Questo argomento apparentemente banale è, a giudizio di chi scrive, suscettibile di un’amplificazione esoterica, come si

vedrà nell’ultima parte. 39

Si parla di un’ittiḥād che ha avuto luogo nella volontà (fi l-mashī’a), con probabile riferimento al monotelismo, già

confutato. Gesù, oltre a pregare per la propria salvezza, ha anche desiderato una cosa non avvenuta, la salvezza degli

Ebrei. Notiamo che l’Autore conclude per una separazione tra la Volontà divina quia talis e la volontà creaturale di

Gesù, sebbene egli, come tutti i Profeti e i Santi, abbia mantenuto il proprio volere sempre conforme alle prescrizioni

(aḥkām) di Dio 40

Le locuzioni di Ḥallāj citate dall’Autore esprimono soprattutto quella che potremmo chiamare una percezione del

fanā’, cioè, nel linguaggio sufico, dell’estinzione dell’individualità creata nell’Unità/Unicità divina. Il ḥulūl, invece,

l’immanenza di Dio in un individuo umano e nel suo corpo, suppone (come del resto l’unione, ittiḥād) una certa

permanenza della creatura come ricettacolo del Divino: di qui il possibile accostamento alla dottrina cristiana. Il testo

classico hallagiano sulla questione del ḥulūl è una sua poesia: “Io son Colui che amo e Colui che amo è me,/ siamo due

spiriti che dimorano in un corpo./ Da quando siamo in stretta intimità,/ la gente ci cita come esempio./ Se dunque vedi

me, vedi Lui,/ e se vedi Lui, vedi noi” (Diwan, tr. it. di A. Ventura, Marietti, 1987). L’accostamento tra il linguaggio di

Gesù e quello di Ḥallāj è anche in ‛Alaoddawleh Semnani, citato a questo proposito da Massignon e da Corbin (cfr. R.

Arnaldez, Gesù nel pensiero musulmano, tr. it. di F. Caponi, Ed. Paoline 1988, pagg. 168 ss.).

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non riportati.41

In altri termini, le suddette locuzioni non implicano estremismo speculativo, o

consapevole, e quindi blasfemo, antinomismo (tanto l’eresia quanto il peccato presuppongono un

pieno uso delle proprie facoltà), ma sono la traccia dell’excessus mentis, o per meglio dire

dell’eccesso divino, nel fragile contenitore del linguaggio umano. L’Autore termina la breve

digressione sui toni dell’eloquenza religiosa: i mistici “ebbri” (ma forse sta anche parlando, di

nuovo, dei cristiani) attirano su di sé la derisione come gli ebbri tout court, ed anzi non trovano

negli altri alcuna empatia e compassione: la via d’uscita, l’alternativa, per loro, sarebbe quella di

non opporsi frontalmente alla ragione, prendendo i testi nel modo opportuno (diciamo,

“sobriamente”).

Continuando a passare in rivista le designazioni di Gesù, l’Autore nota che Rabb (“Signore”) è

un appellativo comune a Dio e al proprietario (al-mālik) di un bene; così come Ilah, “Dio”, può

essere applicato a tutto ciò che è grande (‛aẓīm), a tutto ciò che viene adorato, rettamente o a torto, e

all’uomo investito da Dio di autorità sugli altri uomini (Es 7,1: “Ti [i.e. Mosè] ho posto come dio

per Faraone”). Singolarmente, commentando 1Cor 8,5-6 (“Non c’è altra divinità che Dio solo,

anche se ci sono cose in terra e in cielo che vengono chiamate dèi: e sebbene ci siano molti dèi e

molti signori [arbāb], noi abbiamo un unico Dio, che è Dio Padre... e un unico Signore, che è Gesù

Cristo, che ha tutte le cose nella sua mano, ed anche noi siamo in suo potere [fi qabḍatihi]”),

osserva che, dopo la chiara testimonianza dell’Unico Dio, viene attribuita a Gesù solo la “mano del

possesso” (yad al-mulk): il che rimanda, forse, al ruolo non più solo profetico, assunto da Gesù

nella sua vita mortale, ma anche messianico, alla fine dei tempi (si ritornerà più tardi

sull’argomento).

Vengono lasciati alla fine gli appellativi neotestamentari più importanti: quello di Figlio per

Gesù Cristo, e di Padre per Dio. Dopo aver ricordato che, nella tradizione ebraica, la parola “figlio”

indica sempre il popolo di Israele (cita l’espressione “Israele mio figlio primogenito”, e Es 4,22-23,

Sal 103,13), è esplicitamente introdotta, per la prima volta, quella che forse è l’intuizione,

l’esperienza semitica fondamentale: la Misericordia. Lc 6,35-35 connette limpidamente filialità e

misericordia: “Sarete i figli dell’Altissimo, perché è misericordioso (raḥīm) con chi non è benevolo

e con i malvagi: siate misericordiosi come il Padre vostro”.42

Le proprietà del padre (del Padre)

sono: un’inclinazione ad essere ricco di tenerezza (ḥanan),43

dolcezza (ra’fa), misericordia (raḥma),

compassione (shafaqa) verso suo figlio: e in questo Dio è superiore ad ogni padre.44

Le proprietà

del figlio sono: rispettare (muwaqqiran) suo padre, glorificarlo (mu‛aẓẓiman), essere ricco di

venerazione (ḥayā’) per lui, ubbidiente (mumtathilan) ai suoi ordini: e in questo i profeti sono

superiori a qualunque figlio. Insomma, quando Gesù promette ai suoi discepoli la partecipazione

alla filialità, sta semplicemente dicendo: se obbedite a Dio, egli farà con voi ciò che un padre fa con

i suoi figli. I termini “padre” e “figlio” sono dunque accettabili, se ricondotti al loro statuto di

metafore della Misericordia: tutti i passi coranici in cui si nega che Dio abbia un figlio (ad es. Cor

6, 101; 4,171 e, ovviamente, la sura al-Ikhlās, 112) negano quindi la filiazione stricto sensu (la

dottrina cristiana della filiazione naturale), non il libero gioco dei traslati che non possono mai

definire Dio, ciò che Dio è.45

41

Cfr ‛Abd el-Kader, Il libro delle soste, Mawqif 322 (a cura di M. Chodkiewicz, Bompiani, 2001, pag. 100 ss.).

L’esoterico va celato: chi lo mette in luce pur essendo nel pieno possesso della ragione (come Ḥallāj stesso,

secondo‛Abd el-Kader), viene sanzionato sia dai dottori della Legge che dai mistici. Interessante la prospettiva

escatologica (o di escatologia esoterica): “Colui che, in questo mondo, dichiara di essere Allah, è dunque biasimato.

Benché ciò sia vero, di fatto lo è solo nella vita futura, allorché il servo diventa egli stesso creatore e se dice a una cosa:

‘Sii!’, la cosa è”. 42

C’è nella seconda parte del versetto un suggerimento che l’Autore non sviluppa, e che invece è centrale in Ibn ‘Arabī,

come vedremo. 43

Corrisponde alla hanna ebraica, da cui hannùn. 44

Cosa che ovviamente è sottolineata anche dal Cristianesimo, ma qui serve per suggerire lo scarto, il salto ontologico

che c’è fra l’Essenza divina, Dio in se stesso, e i suoi attributi e nomi come ciò che di Dio è in qualche modo

comunicabile agli uomini. 45

Particolarmente efficace il commento successivo a Gv 1,12-13 (“A coloro che credono nel suo nome e che non sono

nati né dal sangue, né dalla carne, né dalla volontà di un uomo, ma da Dio [Allah]”): la filiazione non va intesa

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È il momento giusto per affrontare il testo giovanneo più importante, il Prologo del quarto

vangelo, e attraverso di esso la dottrina della Trinità. L’ampia discussione segna il ritorno in forze

dell’argomentazione filosofica, come del resto sembra richiedere il dogma cristiano, formulato in un

linguaggio in cui i dati della Rivelazione e il lume della ragione cercano un difficile equilibrio.

L’essenza (dhāt) del Creatore è una nel suo sostrato (mawḍū‛: in greco si direbbe che è una l’ousia),

ed ha degli aspetti (i‛tibarāt): abbiamo dunque la tipica tesi del modalismo monarchiano. Infatti, si

dice, usando la stessa radice verbale, che se l’essenza è considerata (u‛tubirat) come determinata

(muqayyada) da un attributo (ṣifa) la cui esistenza non dipende dall’esistenza anteriore di un altro

attributo – cioè se la consideriamo come Esistenza (al-wujūd) – abbiamo la persona del Padre. Se è

considerata come specificata da un attributo la cui esistenza dipende dall’esistenza anteriore di un

attributo – cioè se la consideriamo come Scienza (al-‛ilm), perché se un’essenza conosce, deve

prima esistere – abbiamo la persona del Figlio. Se è considerata come conosciuta (ma‛qūla),

abbiamo la persona dello Spirito Santo (Rūḥ al-Quds). In realtà, l’Autore qui compone una triade in

cui si confondono due livelli che il dogma cristiano distingue: quello dell’essenza, che corrisponde

alla natura divina unica, e quello delle relazioni o articolazioni interne (livello delle persone); ma è,

la sua, una tipica posizione del monarchianesimo estremo.46

Anche l’interpretazione successiva è

monarchiana: il Padre è l’Intelletto Puro (al-‛aql al-mujarrad), cioè l’essenza in se stessa, il Figlio è

il Conoscente (al-‛āqil), l’essenza in quanto conosce se stessa, lo Spirito è il Conosciuto (al-

ma‛qūl), l’essenza in quanto è conosciuta da se stessa. La triade cristiana sarebbe piuttosto, come

abbiamo visto, il Padre-Conoscente, il Figlio-Conosciuto e lo Spirito-Conoscenza: ma anche questa,

se non è compresa nell’accezione “nicena”, può essere di nuovo una triade di “modi” o nomi

dell’Unico Dio.

La lettura del prologo giovanneo non fa che estendere questa prima esegesi. “La Parola era

presso Dio” (wa l-kalima kāna ‛inda Llāh, gr. pros ton theòn) vuol dire che il Conoscente (al-‛ālim)

non ha mai cessato (lam yazal) di essere un attributo della Divinità, che Gli appartiene stabilmente

(thābitan). Così la “luce del Vero” (nūr al-Ḥaqq, gr. to phôs to alethinòn=la Luce Vera) è appunto

la luce di Dio-al Ḥaqq, di Dio in quanto Dio. A questo punto l’Autore ricorre, per la prima ed unica

volta, all’imputazione di taḥrīf bi-l-lafẓ (alterazione della lettera del testo), seppure come sospetto

ed ipotesi di lavoro, e non a caso riguardo al versetto più “indigesto” per la sensibilità monoteistica,

il 14: “E la Parola divenne carne (kai ho logos sarx egheneto)”, in arabo ṣāra jasadan (=divenne un

corpo di carne). Il “sostrato” di questo testo, l’Urtext insomma, sarebbe quello copto, dove, in luogo

del verbo “diventare” (ṣāra), abbiamo af’ara o af’er, che significa “fare” (ṣana‛a). La Parola, che è

Dio in quanto Conoscente, ha fatto un corpo,47

e questo corpo è Gesù, ed è Gesù che si è

manifestato (ẓahara): come preciserà più tardi, nelle cose dello spirito il “venire” (majī’) indica il

“mostrarsi” (ẓuhūr); non c’è discesa né inabitazione, ma la manifestazione della luce divina in una

creatura fatta essere dal nulla. L’Autore è qui esplicito e definitivo: come si può usare il verbo

“diventare” nel suo senso letterale, quando è possibile una lectio facilior ortodossa, che evita la

conclusione assurda di un Dio divenuto carne e seppellito dopo una morte di croce! Bisogna quindi

concludere che “Parola”, essendo un appellativo ambiguo (mushkil), non è esclusivo della Divinità;

può essere applicato ad un attributo divino, ma anche ad una creatura corporea in quanto dotata di

conoscenza e linguaggio. Se si vuol sottolineare che appartiene esclusivamente alla Divinità, si deve

letteralmente, ma come l’eccesso nella vicinanza di Dio (ifrāṭ fi l-qurbi) e nella dolcezza (raf’a) che ha verso gli

uomini. Cfr Cor 50,16: “E Noi siamo più vicini a lui della sua vena giugulare (wa-naḥnu aqrab ilayhi min ḥabli ’l-

warīd)” 46

Ciò è evidentissimo nella definitiva confutazione logica della Trinità che l’Autore propone a suggello della

discussione: il ta’wīl che i cristiani fanno della dottrina delle Persone li porta o al triteismo (esistenza di tre dèi sia nella

mente, come concetto, che ad extra), oppure alla negazione dell’Essenza divina. Quest’ultima non fa parte delle realtà

relative (mutaḍā’ifa), quindi non può essere considerata padre sotto una condizione e figlio sotto un’altra. Se si obietta

che l’Essenza è una/unica, ma può essere qualificata da quegli attributi, si deve rispondere che l’essenza e l’attributo

non sono sullo stesso piano di realtà, perché altrimenti avremmo cause necessarie con effetti altrettanto necessari:

togliendo l’effetto (attributo), avremmo così tolto anche la causa (essenza divina)! 47

Cfr Eb 10,5: “…un corpo invece mi hai preparato”.

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ritornare al principio esegetico più importante dell’operetta: cioè diremo che Gesù è “Parola” per

via di metafora, in quanto c’è un’associazione di significato (mushārikatan fi mafhūmiha) tra i due

usi dell’appellativo. Il verbo usato è shāraka: quasi a dire che non c’è shirk (“associazione”, il

massimo peccato secondo l’Islam) ontologico tra Dio e altri da Lui, ma solo una certa

partecipazione della creatura agli attributi di Colui che l’ha creata, il che è in fin dei conti implicito

nell’idea di creazione e, più intimamente, in quella di Misericordia.

Questa traccia è seguita anche nell’esame degli ultimi passi neotestamentari, in particolare Gv

14,8-12.48

È un discorso di Gesù all’apostolo Filippo: “Chi vede me, vede il Padre... Non credi tu

che io sono nel Padre e il Padre è in me? Questa parola che dico non viene da me (laysa huwa min

‛indī), ma mio Padre che è presente in me (ḥāllun fiyya) compie queste opere... In verità, in verità vi

dico, chi crede in me farà le azioni che io faccio, e ne farà di ancor più grandi”. Da una parte, quelle

che sembrano senz’altro dichiarazioni di ḥulūl; dall’altra l’affermazione altrettanto netta, e assai più

compatibile con le idee del commentatore musulmano, che è Dio solo ad operare. Il nodo è sciolto

ancora una volta con il riferimento ad una profetologia immutabile: poiché Dio non può essere visto

dai suoi servi-adoratori, Egli ha designato i profeti affinché comunichino i Suoi decreti in Sua vece

(maqāma nafsihi), come i re che si velano al cospetto degli uomini. In altri termini, l’uomo è

khalīfatu-Llah, “vicario di Dio” sulla terra, e l’attribuzione di questo vicariato (istikhlāf) risplende

massimamente nei Profeti e negli Inviati, che sono il tramite dell’unica conoscenza di Dio possibile

all’uomo, quella dei Suoi ordini o decreti (aḥkām). Lettura squisitamente semitica: si deve

richiedere la conoscenza di Dio solo per avere la certezza che i comandamenti provengano da Lui, e

quindi per essere responsabile (mukallaf) di fronte alla Legge divina.

La parte finale del Radd prende in esame invece pochi e fondamentali versetti coranici,

iniziando da 4,171: “Gente del Libro, non siate eccessivi nella vostra religione (lā taghlū fī dīnikum)

e non dite di Dio se non la verità: il Cristo (al-Masīḥ), Gesù figlio di Maria, è inviato di Dio e la

Sua Parola gettata in Maria (wa-kalimatuhu alqāha ilā Maryam) e uno Spirito da Lui (rūḥun

minhu). Credete dunque in Dio e nei Suoi Inviati e non dite: ‘Tre!’...”. Ogni cosa ha una causa

prossima ed una causa remota: la causa prossima è dell’ordine delle causae secundae o cause

create, la causa remota è sempre Dio, “Colui che veramente opera” (aṣ-ṣāni‛ al-ḥaqīqīyy) in ogni

cosa. È un principio coranico che ha ricevuto una formulazione filosofica nell’“occasionalismo

atomistico” (A. Bausani) di buona parte del kalām musulmano: Dio è Causa Prima, e le cause

seconde o create non hanno consistenza ontologica; il mondo stesso non ha quindi continuità

d’essere, ma è creato da Dio ad ogni istante. Se vediamo prati verdeggianti, la causa prossima ed

evidente (ma che non ha solidità ontologica) è l’opera della pioggia, sebbene il vero Agente sia Dio;

se vediamo piante robuste in una terra arida in piena estate, la nostra attenzione si rivolge

immediatamente a Dio, Causa remota e vera, perché è venuta meno la causa ordinaria e apparente.

Ora, per quando riguarda la generazione (takwīn=esistenziazione) di Gesù, la Rivelazione coranica

ci indica chiaramente l’assenza di una causa prossima, ed è quindi un evento che viene messo in

relazione con la sua causa remota, cioè la kalima, la Parola di Dio: ogni creatura è infatti creata

dalla Parola di Dio, che dice a ciascuna “Sii!”, ed essa è (kun fayakūnu, Cor 36,82 et alia). La

Parola di Dio “gettata in Maria” è insomma l’ordine di esistenziazione (al-amr bi-t-takwīn) rivolto

alla creatura Gesù: è un’altra espressione da intendere nell’accezione metaforica, non in senso

proprio, come fanno i cristiani. Il Radd, prima di chiudersi su una questione filologica che non

fornisce spunti per il presente studio, ricorda il passo coranico in cui la generazione di Gesù, con

48

Meno interessante il commento di Gv 8,56-58, in cui Gesù dice: “Abramo ha desiderato di vedere il mio giorno... In

verità, in verità vi dico: io (sono) prima che Abramo fosse”. Abramo, come tutti i profeti, desiderava che durasse

l’obbedienza a Dio nel mondo e che continuasse la rivelazione delle Leggi (sharā’i‛), per questo gioì nel vedere in

ispirito la missione dell’inviato Gesù. Quanto all’anteriorità di Gesù rispetto ad Abramo, è semplicemente la

Conoscenza che Dio ha ab aeterno di tutti gli inviati che vuole manifestare agli uomini nel tempo. L’Autore allega a

questo punto il famoso ḥadīth in cui Muḥammad dice: “Ero profeta quando Adamo era tra l’acqua e l’argilla”.

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madre e senza padre, è accostata a quella di Adamo, senza padre né madre, creatura uscita

direttamente dalle mani e dal soffio di Dio.49

Quest’opera, che è senz’altro un adversus Christianos, fa riecheggiare nel lettore cristiano la

profetologia dimenticata dei giudeo-cristiani o “ebioniti” (il Cristo semplice uomo), che dopo la sua

breve stagione storica è ricomparsa, in forma meno radicale, nel monarchianesimo di Ario: cioè

nella risposta razionale del monoteismo puro alla sfida che Gesù rappresenta per il pensiero di chi

crede in lui, o semplicemente di chi gli si accosta. Pur nella sua esemplarità, il Radd è altresì ricco

di prospettive originali, spesso implicite, che solo un occhio del cuore più acuto ed appassionato

può articolare e sintetizzare in una visione unitaria.

GESÙ IN IBN ‛ARABĪ, CON PARTICOLARE RIFERIMENTO AL 15° CAPITOLO DEI FUṢŪṢ

AL-ḤIKAM

Muḥyīddīn ibn ‛Arabī, uno dei massimi maestri spirituali di ogni tempo, luogo e tradizione, ha

avuto un’esperienza travolgente di Gesù: ha incontrato ed accolto lo ‛Isā ibn Maryam del Corano,

della Sunna e dell’Islam in genere, ma ad un livello ben diverso dalla polemica teologica del Radd.

Se il tagliente e ordinato filosofo che ha composto la “Refutazione della divinità di Gesù” incalzava

i versetti evangelici, le affermazioni dogmatiche e le possibili obiezioni del masiḥīyy dimostrando

una buona preparazione scientifica, e scoprendo solo di rado, ma con intensa sobrietà, i propri

interessi spirituali; il Sommo Maestro (ash-shaykh al-akbar), Ibn ‛Arabī, prescinde quasi del tutto

dai testi e dai dogmi cristiani, e quando riprende le allocuzioni coraniche contro i loro errori, si pone

spontaneamente non sul piano del kalām (la teologia), ma dello ‛irfān (la gnosi, la conoscenza

esoterica). Seguiremo le sue intuizioni su Gesù come Sigillo dei Santi, e soprattutto, commentando

più da vicino il capitolo dei Fuṣūṣ al-ḥikam a lui dedicato, sulla sua stessa natura di “simbolo”

metafisico.

La profezia (nubūwwa), sia nella sua forma assoluta o tout-court (muṭlaqa), sia nella forma di

profezia legislatrice o invio di un “messaggio” normativo (risāla), è una relazione Dio-uomo volta

agli uomini e al loro essere-agire nel mondo (si parla non a caso di “discesa”, tanzīl). La santità

(walāya) è intimità e amicizia: come ogni cosa, appartiene principalmente e principialmente a Dio

(al-walāyatu ‘Llāhi ‘l-Haqqi, 18,44), ma in un senso particolarmente forte e pregnante. Se riferita a

Dio, è protezione, tutela misericordiosa del debole, dell’uomo, ma esercitata, a differenza della

Misericordia quia talis, su uno sfondo di affinità e prossimità: Dio è “il walī dei credenti” (3,68),

cioè li perdona ed è misericordioso con loro (anta walīyyuna fa’ghfir lanā warḥamnā, 7,155), ma lo

è in special modo dei ṣaliḥūn, gli uomini conformi alla Sua volontà, che Egli liberamente sceglie

(“Sì, il mio walī è Dio che ha fatto scendere il Libro e fa Suoi amici i ṣaliḥūn”, wa-huwa yatawallā

aṣ-ṣaliḥīn, 17,196). Riferita agli uomini, la designazione di walī/plur. awliyā indica la

partecipazione di/a questo compiacimento divino: i santi/amici di Dio sono coloro che Lo temono,

nel senso forte, religioso-mistico (al-muttaqūn, 9,34), ma che quindi, al tempo stesso, secondo la

vecchia idea biblica e in genere monoteistica, non hanno paura di altri da Lui (lā khaufun ‛alayihim,

10,62). Nella profetologia musulmana, i santi sono i seguaci/continuatori (at-tābi‛ūn) di un

particolare profeta e, al pari dei sapienti (‛ulamā), i suoi eredi (waratha), coloro che trasmettono il

suo messaggio, il suo deposito, custodendone il significato interiore e spirituale.50

Come dice però

Ibn ‛Arabī nelle Futūḥāt (vol. II p.252), la walāya in quanto tale è superiore alla profezia

legislatrice (risāla), ma nel senso che la santità di un profeta è superiore alla sua missione

normativa, non nel senso che un santo in quanto tale sia superiore ad un profeta in quanto tale,

49

“In verità Gesù è presso di Dio come Adamo, che Dio creò dalla polvere e poi gli disse: ‘Sii!’, ed egli fu”. 50

In un passo delle Futūḥāt si dice che i santi comunicano con Dio attraverso incontri notturni (asmār) e rivelazioni di

ḥadīth qudsī, parole divine enunciate alla prima persona. Si suggerisce insomma che la santità è il lato “notturno” e

quindi esoterico del “chiaro” e “diurno” annuncio profetico.

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perché, come si è appena visto, non c’è santità senza profezia: non c’è custodia interiore senza la

manifestazione del decreto divino alla comunità. Quello che appare un paradosso, o una subtilitas

teologica estranea alla semplicità della Rivelazione, è in realtà uno dei fondamenti della

profetologia, non solo islamica. Con bella sintesi, Aḥmad Sirhindi, il “Rinnovatore del Secondo

Millennio” (Mujaddid-i Alf-i Thānī), parlerà di quattro “viaggi” spirituali: un “viaggio verso Dio” e

un “viaggio in Dio”, che corrispondono alle stazioni del fanā’ (estinzione dell’individualità creata

nell’Unicità Divina) e del baqā’ (la permanenza disindividuata in Dio), e che possiamo riferire

all’intimità, alla prossimità spirituale della walāya; e infine un “viaggio da Dio attraverso Dio” e un

“viaggio nelle cose”, cioè un ritorno alla molteplicità, al creato e all’umano che appare una

“discesa” ma è la pienezza del rapporto tra Dio e uomo, perché porta la Vicinanza tutta interiore dei

primi gradi nel cuore stesso dell’alterità e della ferialità; questo “ritorno” può essere riferito

senz’altro alla nubūwwa.51

Come c’è una profezia assoluta, una nubūwwa muṭlaqa (quella comune a tutti i profeti della

storia, a coloro che hanno portato un messaggio divino agli uomini), e una profezia legislatrice

(nubūwwatu-t-tashrī‛ o risāla, quella degli inviati, rusul, latori di un messaggio in senso forte, di un

Libro e quindi di una rivelazione giuridicamente-religiosamente vincolante); così c’è una walāya

muṭlaqa, la santità comune a tutti i santi in quanto seguaci dei diversi profeti, e la santità

muḥammadica (muḥammadiyya), quella cioè vissuta nella sequela del Profeta che ha portato agli

uomini la legge (sharī‛a) definitiva, abrogatrice delle anteriori, e che è quindi giustamente

designato come khatm an-nubūwwa, Sigillo della Profezia: dopo di lui, dopo il Corano, non c’è più

spazio per un’altra missione divina agli uomini prima delle cose ultime. In questa prospettiva

escatologica, la profezia muḥammadica, come stabilisce sul piano giuridico, shara‛itico, la tutela

dietro tributo (dhimma) delle comunità che hanno ricevuto un’autentica Parola profetica segnata in

un Libro (ahl al-Kitāb), così, su un piano più generale, di “storia sacra”, ricapitola tutte queste

Parole riconducendole all’unità e all’universalità, le sigilla e quindi, superandole, ne garantisce

anche la parziale validità agli occhi di Dio. A questo punto sorge una domanda, in cui l’escatologia

coranica e il suo approfondimento esoterico si connettono inestricabilmente: poiché esiste un Sigillo

della Profezia, esisterà anche un Sigillo della Santità, che custodisce spiritualmente la Profezia? E

se sì, in che senso? E chi è khatm al-walāya, come Muḥammad è, indubitabilmente, khatm an-

nubūwwa?

La domanda compare per la prima volta, senza esplicita risposta (il che ci pone già sul livello del

bāṭin, il “ventre” o interiorità, l’esoterico insomma dello ẓāhir, ciò che della Rivelazione è

“manifesto” ed esterno), nel Kitāb Khatm al-Awliyā’ (“Libro del Sigillo dei Santi”) di al-Ḥakīm al-

Tirmidhī (m. 898 ca.), il grande sufi khorasaniano in odore di ghulūww: ma è stato Ibn ‛Arabī, ash-

shaykh al-akbar, a riprenderla e a darle una risposta, complessa ma limpida, che si integra

mirabilmente nel suo vasto disegno metafisico-profetologico.

Muḥammad ha sigillato la profezia, non la santità: anzi, come abbiamo visto, il sigillo apposto

sulla profezia custodisce la santità e la specifica come santità muḥammadica, che a sua volta

custodisce spiritualmente la missione del Profeta. Ma se, al di fuori di questo significato, la santità

non è stata sigillata storicamente, lo sarà però nell’eschaton, nel punto di fuga delle cose ultime che

il Libro dell’Islam è disceso a rivelare e a collegare ad una figura messianica, ad una persona (più

esplicitamente della Bibbia ebraica, e meno del Nuovo Testamento), il Mahdi. Mentre

nell’interpretazione sciita, in cui il piano esoterico “innova” (dal punto di vista sunnita) la

profetologia, il Mahdi è il Dodicesimo Imam, che è anche il Sigillo della Santità; nella lettura

akbariana, che è esoterismo puro, il Sigillo della Santità è ‛Isā ibn Maryam, Gesù, il penultimo

profeta, il profeta della santità. Cercheremo ora di capire, leggendo alcuni testi akbariani ed in

particolare le pagine dei Fuṣūṣ, perché sia proprio Gesù il Sigillo dei Santi e in che senso lo sia:

cioè che senso abbia questa sua “ultimità” che, se non è certo quella riconosciutagli dai cristiani, ne

è per così dire una traccia più povera e più esoterica al tempo stesso.

51

Vedi Shāh Aḥmad Sirhindī, L’inizio e il ritorno, a cura di D. Giordani, Introduzione pp. 23-26.

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Gesù chiude ed apre. Come nabī e rasūl, egli sigilla il ciclo storico adamico, cioè il tempo

intercorso tra la creazione del primo uomo (che per l’Islam è anche il primo profeta) e il proprio

stesso invio al popolo ebraico. Secondo la rivelazione coranica, egli è venuto a confermare

(muṣaddaqan) la Torah consegnata attraverso Mosè, ma anche per dichiarare lecite (li-uḥilla) agli

ebrei alcune delle cose che in essa erano state proibite, dichiarate ḥarām – e qui abbiamo una

ripetizione, già relativizzata ma abbastanza fedele, dei principi enunciati nel Discorso della

Montagna –; ma soprattutto Gesù ha recato la buona notizia, l’euanghelion (mubashsharan),

dell’invio dopo di lui di un Profeta già annunciato velatamente nella Torah,52

e che egli chiama col

nome di Aḥmad (61,6). Questo rasūl nabī, che è altrove chiamato ummī (probabilmente

“illetterato”, cfr 7,157), è Muḥammad stesso, identificato con l’oggetto dell’enigmatica profezia di

Gv 15,26: “[Gesù disse:] Quando verrà il Paraklētos, che io vi manderò dal Padre, lo Spirito della

Verità (to pneuma tes aletheias) che procede (ekporeuetai) dal Padre, egli testimonierà di me”.

Secondo un’ipotesi largamente accettata dai commentatori musulmani, avremmo qui un caso di

taḥrīf an-naṣṣ: non bisogna leggere Paraklētos, l’“Avvocato-Consolatore” (probabile traduzione

dell’ebraico Menahem, “Consolatore”, appellativo di Dio in quanto redentore e, per partecipazione,

del Messia), ma Paraklytos, l’Inclito, il Lodato, che è il significato immediato dei nomi arabi

Muḥammad e Aḥmad. Si tratta quindi di un’umile apertura al futuro Sigillo dei Profeti e, in lui,

all’eschaton: Gesù è veramente Annuncio dell’Ora escatologica (‛ilmun li-ssā‛ati, 43,61), e molti

aḥādīth estendono questi cenni, precisano le allusioni. Se il Corano (4,159) rivela che “non c’è fra

la Gente del Libro nessuno che non creda in lui [in Gesù] prima della sua morte,53

ed egli sarà un

testimone contro di loro nel Giorno della Resurrezione”, un ḥadīth del Profeta recita: “Per mezzo di

Colui che tiene la mia anima tra le Sue mani, è in verità con estrema prontezza che il figlio di Maria

discenderà tra voi come arbitro inviato per espandere con equità la giustizia tra voi”. In altri termini,

Gesù è sovrapponibile al Mahdi, e quindi confermerà messianicamente la parabola della

Rivelazione muḥammadica, che coincide con il secondo ciclo o ciclo muḥammadico, il tempo cioè

della storia sacra-profetica in cui il Nome divino “l’Occulto” (al-Bāṭin) cede al Nome “il

Manifesto” (aẓ-Ẓāhir): il tempo insomma in cui non ci sono più residui di non-manifestazione nella

comunicazione Dio-uomo, perché la Legge data attraverso Muḥammad è, in quanto Legge,

definitiva, abrogazione delle rivelazione normative anteriori ma, appunto, ricapitolazione e sigillo

del loro intimo significato. In un altro ḥadīth, il Profeta enuncia con grande semplicità questa

scansione della storia sacra, e distingue fra l’“ultimità” di Gesù e la propria mettendole in relazione:

“Tra gli uomini, io sono il più vicino al figlio di Maria; tra lui e me non c’è nessun profeta”, in virtù

appunto della promessa del Paraclito-Aḥmad. Più specificamente escatologico è il testo seguente:

“Gesù figlio di Maria discenderà sulla terra; si sposerà, avrà dei figli e vivrà quarantacinque anni.54

Poi morirà e sarà sepolto con me nella mia tomba. Allora Gesù figlio di Maria ed io ci alzeremo da

una sola tomba alla resurrezione, tra Abū Bakr e ‛Umar”, cioè tra i primi e i più importanti dei

khulafā’ ar-rashidūn, i “califfi (successori del Profeta) ben guidati”. Qui Gesù è perfettamente ed

icasticamente integrato nella storia profetica musulmana, ed è anzi strettamente congiunto alla

persona stessa dell’Inviato dell’Islam. Secondo Ibn ‛Arabī, che parte da questi dati per dare un

52

In particolare in Dt 18,15.18-19. 53

Qabla mawtihi: prima della morte del credente abramico, o prima della morte di Gesù? Nel secondo caso, avremmo

un rinvio esplicito, confermato dal resto del versetto, alle Cose Ultime: Gesù non è davvero morto, secondo il docetismo

coranico, ma Dio lo ha “elevato” a Sé in una ascensione simile a quella di Elia e di Idris-Enoch, e l’intera Gente del

Libro crederà al suo messaggio prima del suo ritorno definitivo suggellato dalla morte (è una prospettiva messianica

con cui Paolo stesso, in un senso evidentemente molto diverso, aveva letto la drammatica questione dell’“incredulità”

giudaica). 54

Notiamo, en passant, che questa parusia ancor più “umana” (dopo la prima venuta che, per i cristiani, è la discesa del

Verbo nell’umiltà della carne, in similitudine carnis peccati, e per i musulmani è la missione di un profeta specialmente

designato ad insegnare agli uomini il cammino ascetico) rappresenta, ad occhi semitici, un “riempimento”, quasi una

“compensazione” di quei “vuoti” (soprattutto il celibato e ciò che ne consegue) in virtù dei quali la pretesa e

difficilmente imitabile sublimità della vita del Gesù storico si configura piuttosto come una deminutio rispetto

all’esempio “totale” del profeta (e, in particolare, del Profeta in senso stretto).

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esoterico colpo di sonda, Gesù tornerà nell’Ora conosciuta da Dio solo (egli è ‛ilmun dell’Ora, e

non ‛ālim, come ben rilevava nella sua esegesi l’Autore del Radd) per assimilarsi, con evidenza

messianica, alla umma muḥammadica e, in questa prospettiva, egli sarà il Sigillo della Santità

muḥammadica (della walāya come specifica sequela di Muḥammad), così come storicamente è

stato Sigillo della santità dei profeti venuti prima di lui e di cui ha chiuso il ciclo: in tal modo,

“Gesù, benché sia egli stesso un Sigillo, sarà lui stesso sigillato da questo Sigillo muḥammadico”

(Futūḥāt III p. 514). Egli non è il Mahdi, che, come il Messia ebraico è discendente carnale del re

profeta David, sarà del lignaggio umano del Profeta, Muḥammad: egli è Sigillo della santità

assoluta (muṭlaqa) proprio in quanto erede spirituale di Muḥammad, perché la walāya, lo abbiamo

già visto, è questa eredità spirituale, questo lignaggio interiore; e quando ci sarà il suo Secondo

Avvento, sarà pienamente vero che “non ci saranno dopo di lui dei santi per una profezia assoluta”

(Futūḥāt II p.50). Per accostarsi alla luce di questo mistero, bisognerà esaminare più da vicino la

lettura akbariana di Gesù alla luce della profetologia e della metafisica del Maestro di Murcia.

In diversi passi delle Futūḥāt, Ibn ‛Arabī ha messo in rilievo due peculiarità della rivelazione

coranica a proposito di Gesù. Nella sua totalità, il Corano è dhikr (menzione-ricordo) in un senso

unitario ma complesso: è ricordo-menzione di Dio consegnata “ai mondi” (li-l-‛ālamīn), tanto da

configurarsi, al pari della Torah nella tradizione ebraica, come un unico Nome Divino il cui dhikr

rende in parte presente l’Assente per eccellenza;55

ed è anche ricordo-menzione degli uomini di

Dio, dei profeti-inviati, la missione di ciascuno dei quali è custodita nel Corano come ‛ibra

(insegnamento) e mithāl (modello, paradigma) per tutti gli uomini. Ogni profeta ha portato nel

mondo il dhikru-Llāh in una forma imperfetta ma reale, e il Libro che porta questo dhikr alla sua

pienezza li ricorda-menziona a sua volta, spesso con la formula udhkur (“Ricorda” il tal profeta),

adempiendo così, in chiave profetologica, una delle maggiori promesse divine: “Ricordatevi di Me.

Io Mi ricorderò di voi” (2,152). Ma il profeta Gesù non viene menzionato-ricordato in questo modo

nel Corano: riprendendo in parte la visione neotestamentaria, secondo la quale in lui si compiono

quelle che nella Scrittura ebraica erano anticipazioni e promesse, egli è soprattutto oggetto di

annuncio: “Dio insegnerà a Gesù il Libro, la Sapienza, la Torah e il Vangelo” (2,48); “O Gesù, in

verità Io ti chiamerò a me (innī mutawaffīka) e ti farò ascendere a Me”; e Gesù stesso parla dei suoi

miracoli al futuro (cfr 3,49), in una prospettiva che non è già più quella evangelica, ma è lo sguardo

a volo d’aquila, metastorico, con cui il Libro riconduce a sé i profeti del passato e ne fa, appunto,

insegnamento e modello per gli uomini e i mondi. Qui entra la seconda peculiarità del discorso

coranico su Gesù: Ibn ‛Arabī affianca più volte i due “saluti”, uno rivolto a Giovanni Battista

( ) e l’altro a Gesù, nella Sura di Maria, che ripercorre la storia sacra ebraica menzionando-

ricordando tutti i suoi profeti (secondo l’Islam). Giovanni, la cui nascita appena annunciata è sotto il

segno del miracoloso veterotestamentario (la gravidanza della sterile), viene salutato in questo

modo:

“Pace su di lui (salāmun ‛alayhi) nel giorno in cui nacque, nel giorno in cui morrà e nel giorno in

cui sarà resuscitato” (19,15).

Gesù invece, che è da poco nato attraverso un miracolo nuovissimo ed inaudito, parla agli ebrei

increduli dalla culla come il puer prodigioso degli Apocrifi, e dopo aver enunciato brevemente la

propria futura missione, rivolge a se stesso un saluto quasi identico a quello di Yaḥyā:

“La pace sia su di me (as-salāmu ‛alayya) nel giorno in cui nacqui, nel giorno in cui morirò e nel

giorno in cui sarò resuscitato” (19,33).

Come i primi testi sembrano suggerire lo statuto messianico di Gesù, il suo essere “segno” (āya)

in modo unico ed irripetibile, così queste parole di saluto alludono, per Ibn ‛Arabī, ad un tratto

55

È questo uno dei fondamenti della pratica spirituale del dhikr.

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ancor più essenziale della sua natura di uomo ed Inviato. La somiglianza fra i due versetti non

nasconde due vistose differenze: Gesù non riceve la “pace” da una parola divina a lui esterna, ma la

invoca su se stesso in prima persona; inoltre non chiede “una pace”, salāmun, ma “la pace”, as-

salāmu. La prima osservazione rimanda ad una delle principali intuizioni di Ibn ‛Arabī su Gesù: il

suo uso frequente e pregnante (che invero è molto più significativo e pervasivo, come ovvio, nei

Vangeli) della prima persona, la persona del mutakallim, di colui che parla. Nella fede e nel

pensiero cristiani questo “io”di Gesù, confrontato con il “noi” (“Io e il Padre”) specialmente

giovanneo, è il nous di Cristo, la sua persona in senso cristologico-trinitario. Ad Ibn ‛Arabī le

implicazioni appaiono del tutto diverse, ma rimane questa singolarità (khuṣūṣiyya, direbbe l’Autore

del Radd) di Gesù: il saluto non gli viene indirizzato nella terza persona, la persona dell’assente (al-

ghā’ib), ma è lui stesso, Parola di Dio (kalimatu-Llāh), la parola che Dio gli rivolge, e quindi egli,

pur essendo nient’altro che un uomo, se la assume.56

Mentre il ricordo-menzione degli altri profeti

postula immediatamente un’alterità tra il profeta e la parola che lo nomina, la parola-Gesù sembra

identificarsi (o rischia di identificarsi) con la parola di Gesù su Gesù. La seconda osservazione,

quella sul saluto “pace” in forma indeterminata per Giovanni e determinata per Gesù, entra ancor

più in profondità: “la Pace” (as-salām) è uno dei Nomi di Dio e quindi uno dei Suoi attributi; nel

caso di Giovanni, la Pace divina si manifesta su di lui come su tutte le altre creature, in modo

generale: nel caso di Gesù, egli stesso è la manifestazione del Nome e dell’Attributo “la Pace”.

Secondo il commento di ‛Abd ar-Razzāq Qashani: “Dio dà a Se stesso il saluto di pace, a causa

della Sua auto-determinazione nella sostanza cristica (‛isawī)”: Dio saluta Se stesso attraverso

Gesù; ma questo è, come vedremo, ciò che secondo il pensiero akbariano accade in ogni creatura, e

in modo speciale, ma non essenzialmente diverso, in quelle creature spirituali che ne sono

consapevoli: i mistici, ovvero gli awliyā’.

Invece di esporre i lineamenti della profetologia di Ibn ‛Arabī e di inserire Gesù nel suo

complesso disegno (impresa per la quale ci difettano e lo spazio e le conoscenze), tenteremo di

accostarci al Gesù akbariano leggendo il Faṣṣ ḥikma nabawīyya fi kalima ‛isawīyya (“Castone della

sapienza profetica nella parola di Gesù”) alla luce di una designazione di Gesù che troviamo nel

breve poema di apertura del capitolo: mathal bi-takwīn, “un simbolo dell’esistenziazione”.

Il nesso tra la persona, l’essenza di Gesù e il miracolo del suo concepimento e della sua nascita è

ben chiaro tanto ai cristiani quanto ai musulmani. Se però la coscienza del credente ingenuo tende a

vedere nel miracolo la lacerazione divina ed improvvisa di un tessuto di leggi stabili perché create,

Ibn ‛Arabī sottolinea spesso, come anche l’ultima sezione del Radd, che la creazione stessa è un

miracolo continuo e che qualunque fenomeno in qualunque mondo risale immediatamente, come

effetto, alla Causa Prima ed Unica. Non c’è rottura di un saldo intreccio, perché non si dà alcun

saldo intreccio “fuori” dall’azione divina. Secondo il Maestro andaluso, esistono quattro modi della

generazione umana, che si sono tutti manifestati nella storia sacra: Adamo è stato generato dal

soffio di Dio per mezzo dell’argilla, come l’opera di un vasaio; Eva è stata generata dal solo

maschio, cioè dal corpo di Adamo, come un’immagine scolpita nel legno (“per via di levare”). Con

un’intuizione perfettamente gnostica, che ricorda anche passi upanishadici, Ibn ‛Arabī sostiene che

il vuoto così apertosi in Adamo è diventato desiderio, eros, per la creatura vivente uscita dal suo

fianco. Dall’unione dell’“acqua” o seme maschile e dell’“acqua” femminile sono nati tutti gli altri

uomini: l’embrione-golem si costituisce come un “grumo di sangue” (‛alaq, cfr sūratu l-‛alaq 96),

cui Dio poi dà la forma umana e sul quale infine soffia il Suo spirito. In questi tre casi, abbiamo

sempre una materia prima (beninteso già creata e plasmata da Dio) e, successivamente, l’effusione

del Soffio che la vivifica: “Dopo che l’avrò [i.e. Adamo, ed ogni uomo] formato in modo armonioso

56

In un passo dei Fuṣūṣ è evidente che Ibn Arabī non considera questa differenza un segno della superiorità di Gesù su

Giovanni: se infatti le parole di Gesù sono “più perfette sul piano dell’unificazione” (akmal fi l-ittiḥād), quelle di

Giovanni sono più perfette “sul piano dell’unificazione e della credenza insieme” (fi l-ittiḥād wa-l-i‛tiqād) (I pp.175-

176). Infatti la prima persona è più ingannevole della terza (sembra quasi una rilettura esoterica dei passi del Radd sulla

scarsa prudenza espositiva di certi santi a proposito di unione e ḥulūl), che invece rimanda chiaramente a Huwa, il “Lui”

per eccellenza, il Divino come Assente.

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(sawwaytuhu) e che avrò soffiato il lui il Mio Spirito (fanakhaftu fi-hi rūḥī), prosternatevi a lui

[sono parole che Dio rivolge agli angeli]” (15,29). La generazione di Gesù, pur essendo in tutto e

per tutto la generazione di un uomo, cioè di un discendente di Adamo, è invece singolare già

secondo il testo coranico, che la accosta alla prima, cioè a quella di Adamo stesso: “In verità Gesù è

presso di Dio come Adamo, che Dio creò dalla polvere e poi gli disse: ‘Sii!’, ed egli fu” (3,59): egli

è stato creato da Dio attraverso il grembo di una donna, che in qualche modo è per Gesù ciò che la

terra vergine è stata per il Progenitore; è nato da una donna come ogni altro uomo, ma senza padre,

e direttamente da Dio in senso proprio e forte (non nel senso reale, ma limitato, comune a tutti)

come Adamo. Tuttavia per Ibn ‛Arabī c’è una differenza notevole, che cercheremo di studiare più

tardi: nella creazione di Gesù, l’effusione dello Spirito non è successiva alla formazione del corpo,

ma inerente ad essa; il corpo di Gesù è stato formato nell’istante stesso in cui lo Spirito è stato

insufflato.

Leggiamo brevemente il poema sopra menzionato. Lo Spirito [che qui indica Gesù stesso, come si

vedrà] fu posto in esistenza (takawwana) a partire dall’acqua (seme) di Maria e dal soffio (nafkh) di

Gabriele nella forma (ṣūra) dell’uomo fatto d’argilla (Adamo e, in lui, tutti gli altri uomini), in

un’essenza purificata dalla natura (ṭabī‛a)... Uno spirito da Dio, non da altri (cfr Cor 4,171, rūḥun

minhu), e per questo fece rivivere i morti e formò l’uccello d’argilla: egli ha una relazione

(nasabun) tale da parte del suo Signore, che mediante essa agisce (yu’aththiru) in alto e in basso.

Dio lo purificò nel corpo (jisman) e lo mantenne intatto nello spirito (rūḥan), e lo rese simbolo di

esistenziazione (mathalan bitakwīn). Notiamo anzitutto che qui, come in tutti i passi seguenti, lo

Spirito, lungi dall’essere l’ipostasi divina dei cristiani, è piuttosto l’energheia creatrice e

trasmutatrice di Dio nel mondo considerata nei suoi molteplici aspetti: talora ricorda il pneuma

stoico diffuso in ogni cosa, o il pneuma phantastikòn del platonismo tardo, in cui si profilano le

immagini anteriori ai fenomeni materiali, o lo spiritus ermetico come agente della trasformazione e

mediatore tra materiale ed immateriale. Infatti le righe successive ci trasportano in un’atmosfera

indubbiamente ermetica: vi si legge che è proprietà degli spiriti di non mettere i piedi su alcuna cosa

senza che essa viva e la vita si diffonda (sara’a) in essa. È poi citato il passo su as-Samīrī che anima

il vitello d’oro con una manciata di polvere raccolta dall’impronta di Gabriele, essere spirituale

(20,96): l’episodio dell’idolo aureo venerato dagli ebrei nel deserto è stato assunto, negli esoterismi

di tutte e tre le tradizioni abramiche, come metafora massima dell’opus alchemico.57

Qui è da

segnalare che le parole lāhūt (natura divina) e nāsūt (natura umana), già incontrate nel Radd per

“tradurre” i concetti della cristologia, vengono utilizzate in modo liberissimo: lāhūt è il potere della

vita diffusa in tutte le cose, mentre nāsūt è il ricettacolo (maḥall, “luogo epifanico” secondo Corbin)

che prende vita attraverso lo spirito-lahut, e a causa sua viene anch’esso chiamato Spirito. Iniziamo

ad intuire perché Ibn ‛Arabī, all’inizio della poesia, abbia usato il nome Rūḥ con chiaro riferimento

a Gesù.

Nel passo seguente, di estremo interesse e di vertiginosa densità, il Maestro riprende un’idea

comune all’esoterismo ebraico (ad esempio la Yiggereth ha-qodesh attribuita a Nachmanide) e al

pensiero ermetico di matrice cristiana (valga per tutti Paracelso): quella del ruolo della fantasia nel

concepimento, che è evidentemente un corollario della dottrina dell’“immaginazione creatrice”. Ne

isoleremo gli spunti più importanti. Con una serrata esegesi dei famosi versetti della sura di Maria,

Ibn ‛Arabī ricorda che Gabriele si manifestò a Maria assumendo l’aspetto (tamaththala) di un uomo

ben fatto, ed ella immaginò (takhayyalat) che si trattasse di un uomo che voleva avere rapporti con

lei: sapendo che ciò non era lecito, prese rifugio in Dio con tutta se stessa, ed ottenne uno stato di

Presenza perfetta (ḥuḍūr tāmm), che è lo spirito intellettuale (ar-rūḥ al-ma‛nawīyy).58

Qui

57

Quella polvere non può non ricordare la polvere di proiezione, che è la pietra filosofale specificata per agire sul

mondo metallico, per mutare cioè i metalli vili in oro. 58

Potremmo dire, in altri termini: Maria, rifugiandosi in Dio, sperimentò un’intensa concentrazione (un indiano direbbe

un forte stato di tapas), che coincide con il piano interiore del rūḥ; ciò le rese possibile, sia pure all’inizio sotto le

specie di una prova, accogliere lo Spirito fuori di lei.

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27

l’osservazione è notevole: se Gabriele avesse soffiato in lei in quel momento (waqt)59

mentre era in

quello stato spirituale (ḥāla),60

Gesù sarebbe stato un profeta scontroso ed insostenibile per gli

uomini. Ma poichè Gabriele le spiegò il significato della sua missione, Maria si distese da quella

contrazione (inbasaṭat ‛an dhālik al-qabḍ),61

il suo petto si dilatò (ansharaḥ), e in quel momento

Gabriele soffiò in lei Gesù. Importante la similitudine seguente: Gabriele era il trasmettitore (nāqil)

della parola di Dio a Maria, come l’Inviato trasmette la parola di Dio alla propria umma; Maria è

immagine del popolo intero, come nella tradizione cristiana, sebbene ovviamente in un senso ben

diverso. Ma ecco ora il passo forse più esoterico e provocante: in Maria, ormai fiduciosa e pronta, si

diffonde il desiderio d’amore (shahwa), l’eros; e il corpo di Gesù fu creato a partire dall’acqua-

seme reale (muḥaqqaq) di Maria e dall’acqua-seme illusoria (mutawahham) di Gabriele. Quindi

Gesù fu partorito in forma umana a causa della madre – che davvero apparteneva alla specie umana

– e a causa del “padre” Gabriele – che si era manifestato a lei come “uomo ben fatto” –: la legge

ordinaria della generazione umana è stata, anche in questo caso miracoloso, rispettata.

Il modo del concepimento di Gesù mette per sempre la sua natura sotto il segno di quella che

potremmo chiamare una dualità apparente, o una dualità non-duale: la madre ha veramente offerto il

proprio seme e il proprio ventre, ma spinta dal wahm, cioè dall’illusionistica suggestione indotta in

lei dalla parvenza umana di un angelo, che prima l’aveva sollecitata a rifugiarsi in Dio (e in se

stessa) e poi l’ha mossa fuori di sé in un empito di desiderio amoroso; ma questo wahm è veicolo di

una realtà, perché l’angelo è uno spirito, e nello spirito c’è la vita al suo stato principiale e sottile.

Quindi, Gesù è nato davvero, ma con un corpo di natura ambigua, oserei dire enigmatica.

Le righe successive sono particolarmente difficili. Come è di Dio la parola che ha creato Gesù (e

che crea tutti: il Kun!, ‘Sii!’, di Dio), ma è di Gabriele il soffio che l’ha generato; così, nei miracoli

più grandi di Gesù (la revificazione dei morti e la coranica animazione di un uccello d’argilla), la

vivificazione in sé (iḥyā’), l’atto, era di Dio, e il soffio (nafkh), l’energia che ha fatto da ricettacolo

all’atto, di Gesù. La sua azione di revivificare i morti era illusoria (mutawahham) in quanto

proveniente da lui, ma anche reale (muḥaqqaq) in quanto proveniente da Dio e dal suo soffio di

uomo, così come era reale il seme di sua madre che l’ha concepito. Poiché Gesù riuniva nella sua

natura (bi-ḥaqīqatihi) illusione e realtà, si è prodotta quella che i cristiani chiamano communicatio

idiomatum, cioè la possibilità di scambiare gli attributi della divinità e dell’umanità di Gesù in virtù

dell’unione ipostatica (per cui si può dire che “Dio è nato” e che l’uomo Gesù era “Signore”); ma

che, per il Maestro andaluso, è in realtà effetto della “perplessità” (ḥayra)62

di coloro che furono

testimoni degli atti di Gesù, ed oscillarono così tra i due poli della sua persona. Infatti Gesù, mentre

ridava vita ai morti, era così identificato col potere del suo “padre” immaginale, Gabriele, che gli

uomini dicevano che era lui e non era lui (huwa lā huwa), perché vedevano la sua forma umana

accompagnata dall’influsso (athar) divino. Per questo molti arrivarono a parlare di ḥulūl (=la

Divinità era presente in lui), e dissero che Gesù era Dio, cadendo così nella miscredenza (kufr). Ma

Ibn ‛Arabī dà un’etimologia esoterica del termine scritturale-teologico: la radice k-f-r vuol dire

“nascondere”, perché quegli uomini, i primi cristiani, velarono (verbo satara) Dio che realmente

ridava vita ai morti attraverso (bi) la forma umana di Gesù.63

La critica alla visione cristiana è

59

Il waqt è il concreto istante spirituale. 60

Il ḥāl è uno stato spirituale in genere impermanente, a differenza del maqām (stazione), che invece è durevole. 61

Si tratta, come in tutto il passo, di termini tecnici del sufismo: il qabḍ (contrazione) è lo stato di chi, “afferrato” da

Dio, viene sottratto o rapito alla molteplicità e a se stesso; il basṭ (distensione), spesso successivo al qabḍ, è invece la

fiduciosa apertura dell’anima sotto il tocco della Misericordia divina. È quindi un’idea legata a quella (espressa poco

dopo) di inshirāḥ, la dilatazione del petto quando può “respirare” il Soffio della Misericordia. 62

Secondo un ḥadīth spesso citato da Ibn Arabī, il Profeta chiese a Dio di accrescere la sua perplessità nei Suoi

confronti. La si può considerare una sorta di corrispettivo mistico del thaumazein o della docta ignorantia filosofici. 63

Bi (particella che vuol dire “in”, “attraverso”) è correttamente usato nell’espressione coranica bi’idhni-Llāh, “col

permesso di Dio” (cfr 3,49): Gesù riconosce di agire attraverso Dio, o meglio, riconosce che l’agente è Dio e che

l’uomo ne è lo strumento. Ma l’uso della preposizione en nei Vangeli (soprattutto in Giovanni), che ha significato non

dissimile dal be-bi ebraico ed arabo, viene piegato, dal punto di vista del commentatore musulmano, ad esprimere lo

ḥulūl (“in” locativo), e poi, nella teologia cristiana, l’ipostatizzazione trinitaria (“in” come “spazio giovanneo”, cioè lo

spazio dell’unità-distinzione delle Persone).

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radicale e complessa: essi non sono solo incorsi nella miscredenza, ma hanno anche errato nel senso

del ghulūww, della mancanza di equilibrio (cfr 4,171); infatti non hanno semplicemente detto che

Gesù è Dio (il che, come vedremo, nella prospettiva akbariana avrebbe un significato preciso), né

che era il figlio di Maria e basta, ma lo resero uguale a Dio (‛adlū) attraverso il taḍmīn, cioè

“rinchiudendo” il divino in Gesù. Insomma, non fecero della divinità l’essenza (‛ayin) della forma

umana di Gesù (altra espressione non incompatibile con l’esoterismo akbariano), ma anzi fecero

dell’Ipseità Divina, di Dio in quanto è l’Assente (al-huwiyya al-ilahiya), il principio (ibtidā’, archè)

della forma umana che è il figlio di Maria (=il Verbo si incarna in un uomo), e poi distinsero tra

questa forma e il suo principio divino (=distinzione tra natura umana e divina in Gesù). L’Autore

poi fa una originale presentazione delle più antiche “divisioni” teologiche cristiane: 1) Gesù, a

causa della sua forma umana apparente, è messo in relazione con l’apparizione di Gabriele

(cristologia ebionita e cristologia di Gesù-angelo); 2) a causa della sua natura spirituale (rūḥiyya), in

virtù della quale risuscitava i morti, è chiamato Spirito di Dio, rūḥu-Llāh (cristologia di Gesù-

spirito). Ma il punto è che non hanno mai centrato la questione della natura di Gesù, la conoscenza

della quale, a causa della compresenza di un principio immaginario e di un principio reale e

positivo, non può che manifestarsi sotto forma di congetture; quindi egli era, per chiunque lo

guardasse (‛inda kulli nāẓirin), conforme a ciò che si imponeva a lui in quel momento (bi-ḥasbi mā

yaghlabu ‛alayhi):64

Parola di Dio, Spirito di Dio e Servo di Dio. Ciò non è accaduto con

nessun’altra creatura, a causa del modo singolare della generazione di Gesù, su cui l’Autore trova

qui una parola defintiva: mentre nella generazione di tutti gli altri uomini, come si è visto, lo Spirito

viene soffiato sul corpo già “formato in modo armonioso” (15,29) – e quello, chiosa Ibn ‛Arabī,

risale a Dio sia nella propria essenza che nella propria esistenza – nel concepimento di Gesù la

formazione del corpo era compresa, o inclusa (indarajat), nell’atto stesso del soffio di Gabriele.

L’essenza di Gesù è spirito: per questo, nelle Futūḥāt, Ibn ‛Arabī lo chiama direttamente “Spirito e

Figlio dello Spirito”; ma, come ha detto all’inizio, anche il ricettacolo materiale vivificato dallo

spirito è spirito. Il corpo di Gesù, insomma, è alchemico: come la pietra filosofale, è caro

spiritualis, materia spirituale, mediazione tra materia e spirito. Per questo tutto ciò che egli toccava,

prendeva vita. Per questo “il suo passaggio all’esistenza somiglia alla resurrezione” (Futūḥāt III

p.514), ed egli è un segno, e una primizia, della resurrezione.

Da quest’ultima considerazione è dato vedere chiaramente che, se il discorso si fosse limitato alla

constatazione sulla “perplessità” dei testimoni dei miracoli, lo si sarebbe potuto ridurre ad una

riedizione, dal timbro esoterizzante, di certe affermazioni del Radd: i santi spesso non sono prudenti

nel linguaggio, e chi li vede e li segue può incorrere nella stessa, pericolosa, mancanza di adab, di

convenienza spirituale. Ma la perplessità davanti all’irripetibile fenomeno Cristo, in cui convivono

wahm e ḥaqīqa, suggestione e verità, può aprirsi, secondo Ibn ‛Arabī, alla comprensione di ciò che

è valido per tutti gli uomini e le creature, perché inerente alla struttura metafisica del mondo,

all’ontologia e non solo alla percezione e al linguaggio. L’illusione può e deve aprirsi

all’immaginazione, al khayāl, in virtù del quale, come ha commentato magistralmente Corbin,

perveniamo all’appercezione mistica, perché il mondo immaginale (‛ālam al-mithāl) ha uno statuto

ontologico specifico, ha esistenza. Ovviamente non è qui possibile presentare in modo esauriente il

grande edificio metafisico akbariano: cercheremo solo di mostrare come esso si fondi su quella che

è, a nostro giudizio (o meglio, a giudizio di grandi maestri come A. Y. Heschel e, in parte, Corbin

stesso), l’intuizione semitica ed anzi abramica originaria; quella della Misericordia.

Partiamo da una densissima poesia che è il centro di questo Faṣṣ. – Senza di Lui, Dio (lawlāhu), e

senza di noi, creature (lawlānā), nulla esisterebbe di ciò che è.65

Io adoro (a‛budu) secondo verità, e

64

Da notare ciò che Dio dice di Se stesso in un ḥadīth qudsī: “Io sono conforme all’opinione che il Mio servo si fa di

Me”. 65

Non si possono non ricordare, sin da ora, alcune parole del grandioso sermone Beati pauperes spiritu di Meister

Eckhart: “Se io non fossi, neanche Dio sarebbe; che Dio sia Dio, io ne sono causa prima; se io non fossi, Dio non

sarebbe Dio” (tr. di M. Vannini). Qui però lo sfondo è la presenza del Verbo, che è Dio-Figlio di Dio, nell’anima

dell’uomo.

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Dio è nostro Signore (mawlānā). E io sono lui stesso (‛ayinuhu), sappilo; anche se consideri in me

un uomo, non lasciarti velare dall’uomo, e ciò sarà per te una prova evidente (burhānan). Sii Verità

[Dio] e sii creatura (fakun ḥaqqan wa-kun ḥalqan), e sarai misericordioso per mezzo di Dio/in Dio

(bi-Llāh raḥmānan): nutri di Lui la Sua creazione... Noi diamo a Lui ciò con cui Egli appare

attraverso di noi (ma yabdū bihi fīnā), e Lui dà a noi noi stessi (a‛ṭānā). – Fermiamoci su queste

affermazioni fiammeggianti, ricche di pathos mistico. Nel pensiero akbariano, l’Essenza (dhāt)

divina si manifesta in primo luogo nei Suoi Nomi ed Attributi (asmā’ wa-sifāt). Questa prima

autodeterminazione dell’Essenza è il “tesoro nascosto” di un famoso ḥadīth qudsī: “[Dio dice:] Ero

un tesoro nascosto (kanzan makhfīyyan) e ho desiderato essere conosciuto (fa’aḥbabtu an u‛rafa)”.

La seconda parte del ḥadīth chiarisce il modo di questa conoscenza: “E ho creato le creature e la

creazione per essere conosciuto”. I Nomi divini sono in uno stato principiale di nascondimento, che

è paragonabile, sul piano dell’esperienza mistica, alla “contrazione” di cui si parlava prima; a

“distenderli” da questa concentrazione sopravviene, come nel caso del mistico, la Misericordia,

Raḥmaniyya, il “Respiro (o Sospiro) del Misericordioso” (nafas ar-Raḥmān), che consente ai Nomi

di manifestarsi negli “archetipi eterni” o “essenze immutabili” (a‛yān thābita) delle creature. Questi

a‛yān, sussistenti nella stessa Essenza divina, al di fuori della quale non si dà alterità, sono così le

“forme epifaniche” (Corbin), i ricettacoli della manifestazione (maẓāhir) dei Nomi che, nel loro

nascondimento, erano già manifestazione del Divino ineffabile ed incondizionato. Nella relazione

fra ogni Nome e il suo ricettacolo creato, il Nome diventa Signore (rabb) di un essere che è il suo

specifico marbūb: come ricordavano i versi di Ibn ‛Arabī, non può darsi la manifestazione del

primo senza il secondo; è questo ciò che viene chiamato, con formula pregnante, sirr ar-rubūbīyya,

“segreto del rapporto Signore-servo”, potremmo dire. Questo sirr, questo segreto, sono io, sei tu

(parafrasiamo ancora i versi precedenti): ogni esistente (mawjūd) è “teoforo”, portatore di un Nome

divino (è quindi marbūb), proprio in quanto è marḥūm, oggetto della Misericordia divina, che si

manifesta anzitutto come Misericordia di Dio per i propri Nomi (per Se stesso); come l’Amore (il

verbo del ḥadīth è aḥbabtu) di cui Dio è l’Amante è l’Amato. Dunque è proprio questa “estasi” di

Dio che pone Sé al di fuori di Sé a custodire l’Unicità, e a rendere tutto uno in Dio. È questo il vero

tawḥīd, il tawḥīd esoterico: l’Unicità dell’Esistenza (waḥdat al-wujūd), che però Ibn ‛Arabī ha

avuto la cura di esporre in modo da schivare ogni taccia superficiale di panteismo o di monismo

ingenuo. Infatti l’uomo è Dio-e-creatura: o meglio, il suo essere servo, la sua ‛ubūdīyya, è proprio il

nulla su cui si manifesta la Divinità; è il “segreto” della Sua manifestazione. Qui è evidente come

l’idea di creazione, enunciata dal ḥadīth, sia una sorta di espressione duale di una struttura

metafisica che è in realtà non-duale, basata com’è sull’idea di “teofania” (tajalli); ed è altrettanto

evidente che l’annientamento dell’individualità umana (il fanā’ dei sufi) è la ‛ubūdīyya perfetta, che

apre alla permanenza non individuale della creatura nell’Essenza divina (il baqā’): tanto è vero che,

secondo Ibn ‛Arabī, l’uomo è chiamato ad essere “misericordioso in Dio”, a partecipare cioè del

Nome più alto, ar-Raḥmān, attraverso un nulla-di-sé che riflette, e compie, l’estasi della

Misericordia divina. Certo, Dio, creando, è stato benefico verso Se stesso (imtanna ‛ala nafsihi),

cioè verso il Suo nafs, ponendo l’esistenza in Se stesso (bimā awjadahu binafsihi), ed ha dato

sollievo, o liberazione (naffasa), ai Suoi propri Nomi immanifesti: ma il nafas ar-Raḥmān ha

accolto (qabila) in Sé le forme del mondo, ed è per esse come la materia prima (ka’l-jawhar al-

hayūlānī); cioè si manifesta come il principio passivo e femminile dell’esistenza, conformemente al

significato primo di Misericordia (Raḥmaniyya da raḥim, utero, come in ebraico, Rahamim da

rehem),66

e tutto è nel grembo della Misericordia perché e in quanto la Misericordia gli ha fatto

spazio.

Nell’ultima parte del capitolo, l’intuizione si dispiega in diverse direzioni: ne accenneremo

alcune. Anzitutto, si legge che Dio si rivelò (tajallā) a Mosè come fuoco perché egli era in cerca di

un tizzone: se avesse cercato altro, avrebbe visto Dio sotto un’altra forma, e non viceversa. Il

66

Nel greco dei Settanta e del NT, abbiamo una traccia di questo significato originario in termini come splanche,

“visceri”, e splanchizomai, “fremere nelle viscere”, nonché, e più notevolmente, nell’espressione di Gv 1,18 eis ton

kolpon tou Patròs (“nel grembo del Padre”, detto del Verbo-Cristo)

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rapporto tra Rabb e marbūb custodisce l’Unicità/Unità divina proprio attraverso la molteplicità delle

teofanie, che sono determinate dal soffio di Misericordia spirante tra il Nome divino e il suo

ricettacolo creato. In questo senso, il nafas ar-Raḥmān è il Dio Creato (Ḥaqq makhlūq), l’istmo

(barzakh) in virtù del quale l’immaginazione è vera e il Vero immaginale: un livello intermedio e

mediatore dell’essere, attraverso il quale l’Immanifesto si manifesta come creatura, e la creatura

accede all’esperienza dell’Immanifesto. Il testo poi si chiude con una mirabile esplorazione, mistica

e teosofica, del significato della preghiera alla luce della metafisica sopra tratteggiata. Nella

preghiera, quando Dio ne ordina l’esecuzione, Egli è l’ordinante (al-āmir) e l’uomo, che è investito

dell’obbligazione giuridico-religiosa (mukallaf), è il destinatario dell’ordine (al-ma’mūr); ma

quando il servo/adoratore (‛abd) chiede al suo Signore di perdonarlo, è lui lo āmir, e Dio è il

ma’mūr. Poiché, secondo la metafisica akbariana, Dio agisce secondo gli “archetipi immutabili”

presenti nella Sua Scienza, ogni cosa che si manifesta in tutti i livelli dell’esistenza “si colora”

(yansabighu) di ciò che è proprio della realtà di quel livello, cioè del suo archetipo: quindi, in virtù

di questa corrispondenza, ogni invocazione (du‛ā’) è senza dubbio esaudita; se Dio sembra ritardare

la risposta, non è perché si sia allontanato dall’orante, ma solo affinché questi ripeta la preghiera per

amore (ḥubban).

È bene ora esaminare alcune delle riflessioni finali del capitolo a proposito di Gesù. La sua

peculiarità di uomo e profeta è essenziale, come si è visto, ma solo in quanto egli è la vivente chiave

per accedere alla conoscenza metafisica di tutti gli esseri attraversando la prova del wahm e della

“perplessità” sulla sua natura. Analizzando finemente una conversazione coranica tra Dio e Gesù

(5,116-118), il Maestro osserva che la risposta di quest’ultimo alla domanda divina (“Hai detto tu

agli uomini: ‘Prendete me e mia madre come dèi al di fuori di Dio’?”) è conforme alla convenienza

spirituale (adab), cioè alla teofania di Dio inerente a quella conversazione stessa. La sapienza

(ḥikma) esigeva da Gesù la massima operazione mistica: che egli distinguesse all’interno

dell’unificazione (tafriqa bi-‛ayini ’l-jam‛), cioè, secondo quanto prima detto, che riconoscesse al

tempo stesso la propria identità di essenza con Dio e la propria condizione creaturale. Per questo

egli inziò affermando la trascendenza (tanzīh) divina con la formula: “Sia gloria a Te (subḥānaka)”;

l’uso della seconda persona (il suffisso ka) indica chiaramente il faccia-a-faccia (muwājaha) tra

l’uomo e un Altro, lo scambiare parole (khiṭāb). La gloria “non appartiene a me” (prima persona) in

quanto me, individuo (anā li-nafsī), cioè in quanto sono al di fuori di Te (dūnaka); ma al tempo

stesso è Dio Colui che parla in ogni parlante, ed è la lingua stessa con cui l’uomo parla, secondo il

ḥadīth at-taqarrub, perché Egli identifica la propra Ipseità, il proprio Sé (huwiyya), con la lingua di

colui che parla in prima persona (mutakallim). Come l’uomo è Dio in Dio, ma in se stesso nulla

creaturale: così il Parlante è Dio, e la parola è del servo. Il mirabile anello si chiude. L’esegesi va

ancora più a fondo: Gesù si dichiara “testimone” (shahīd) per la propria comunità, come tutti i

profeti finché sono in vita. Ma la testimonianza (shuhūd) non va intesa solo in senso profetico-

essoterico, bensì anche come la conoscenza/contemplazione mistica: ora, la conoscenza-shuhūd che

l’uomo ha di se stesso, è la stessa conoscenza-shuhūd che Dio ha di lui.67

Dopo che Gesù è “morto”,

o meglio dopo che, coranicamente, è stato “richiamato” ed “elevato” a Dio, è stato Dio stesso il

Testimone per gli uomini a cui Gesù parlava, nel senso che Dio non ha più esercitato la propria

conoscenza di Sé attraverso il ricettacolo-Gesù (il testo dice sostanza, mādda), ma attraverso di

loro; anzi, per parlare in termini metafisicamente più esatti, essi hanno avuto, dopo la dipartita di

Gesù, la possibilità di aprire gli occhi a ciò che era sempre stato, a ciò che è sempre. Questa

interpretazione sembra quasi un’eco esoterica delle parole di commiato di Gesù ai suoi discepoli in

Gv 16,7: “È opportuno per voi che io me ne vada. Se infatti non me ne andrò, il Paraclito [lo

Spirito] non verrà a voi...”.

Un Gesù perturbante, quello di Ibn ‛Arabī: Sigillo dei Santi e della Santità; concepito e generato

in modo miracoloso, ma quasi come la pietra filosofale, che è l’anticipazione tangibile sulla terra

67

In modo diverso e simile, Meister Eckhart: “L’occhio con cui io Lo conosco è lo stesso occhio con cui Egli mi

conosce”. Cfr uno degli aḥādīth più amati dai mistici: “Chi conosce se stesso, conosce il suo Signore (man ‛arafa

nafsahu ‛arafa rabbahu)”.

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del corpo di resurrezione futuro: quasi una cristologia gnostica, o addirittura ermetica, con un corpo

in parte apparente e in parte reale, e le conseguenti congetture di coloro che lo hanno guardato,

toccato o solo amato e pensato, abbagliati dalla suggestione; ma soprattutto Gesù come accesso

privilegiato alla imaginatio vera che è il principio della conoscenza metafisica, e mathal bitakwīn,

simbolo del modo in cui Dio fa essere le cose, di quella Misericordia che è il segreto esultante

dell’Unità. Così, non è difficile comprendere perché il Sommo Maestro di Murcia abbia confidato

di essersi “convertito” per l’intermediazione di Gesù,68

suo primo maestro fra i profeti e i santi:

probabilmente non alludeva soltanto al pentimento (tawba) ascetico, che certo ci fu, e sotto il segno

del Gesù islamico, esempio di austerità e rinuncia; ma anche e soprattutto all’irreversibile ingresso

nel bāṭin, nell’esoterico, nella gnosi.

DISCUSSIONE

Nulla è tanto dissomigliante quanto il Creatore e qualsivoglia creatura. Inoltre, in secondo luogo,

niente è tanto somigliante quanto il Creatore e qualsivoglia creatura. Ma ancora, in terzo luogo, niente

è tanto dissomigliante e insieme somigliante a qualcos’altro, quanto Dio e qualsivoglia creatura sono,

insieme, somiglianti e dissomiglianti.

MEISTER ECKHART, Commento all’Esodo, 113

Iniziamo con un paradosso: il “paradosso del monoteismo”, secondo la parola di Henri Corbin. Il

monoteismo è potenzialmente più incline all’idolatria del politeismo. L’adoratore di una pluralità di

dèi non fa troppa fatica a riconoscervi la pluralità degli archetipi del mondo, non ha grandi difficoltà

a vedere in trasparenza la molteplicità degli eidola-immagini per quello che sono, manifestazioni

limitate ma essenziali del Divino, che non esauriscono il Divino. Il Dio Uno-Unico, invece, persona

infinita, pone il pensiero e la sensibilità umani, e la coscienza religiosa in generale, in una

drammatica aporia, in un’inquietudine radicale che investe ed incrina l’apparente semplicità

dell’Essere.

Nel suo Israël et l’humanité, il rabbino Elia Benamozegh (di antico lignaggio cabalistico

marocchino) individua limpidamente la dialettica monoteismo-politeismo: il monoteismo rivela ciò

che nel politeismo è esoterico, anzi è l’esoterico, cioè l’Unità-Unicità (come Mosè ha in fondo

trascinato nella nudità del deserto l’essenza del messaggio dell’egizio Ekhnaton);69

il politeismo

mette in piena luce ciò che il monoteismo nasconde nel riserbo come il suo segreto più geloso,

l’intima fecondità e pluralità del Dio Unico. È un gioco di specchi dalla chiarezza forse sospetta, ma

può aiutarci a vedere dov’è, se c’è, la remota affinità tra i politeismi dei popoli (i goyim) e i

monoteismi abramici, e quindi, il che è di maggior importanza, comprendere qualcosa di più sottile

sulla loro fin troppo vistosa e sottolineata differenza.

Si può parlare di essenza del monoteismo? Sicuramente i testi sacri dei monoteismi sono molto

consapevoli (ma in modo profetico, non filosofico o scientifico) dell’abisso che la rivelazione

dell’Uno scava fra chi la accoglie e tutti-gli-altri (i “popoli”, le “genti”, quasi aggregati confusi e

indistinti): anzi, la rivelazione fondata sulla “paternità” di Abramo si manifesta innanzitutto in una

migrazione, un esodo da una cultura religiosa fortemente sentita come laceratrice dell’Uno; da un

politeismo pensato (o immaginato) come idolatria. Ma qui cercheremo di seguire, per intravedere

l’identità abramica, un sentiero spesso interrotto e senz’altro tortuoso, la cui mappa è stata disegnata

da un grande pensatore ebreo del ‘900, Avraham Yehoshua Heschel.

L’intuizione radicale, fondamentale della profezia abramica, è la Misericordia. Ma la

Misericordia, cos’è? Uno degli aspetti più immediati dei tre monoteismi è senza dubbio l’essenziale

incommensurabilità fra il Dio Unico e gli enti, implicita nell’idea stessa di creazione: da un lato la

pienezza del Creatore, di fronte alla quale sta dell’irriducibile povertà della creatura; noi, qui in

basso, contingenti, impermanenti: Lui, più in alto di ogni altezza, assoluto e necessario,

68

Cfr Futūḥāt XII p.122; III p.341 69

J. Assmann, Mosè l’egizio, Adelphi, 2000.

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indipendente da ogni cosa proprio perché ogni cosa dipende da Lui. Se questa fosse tutta la verità, il

monoteismo sarebbe ipso facto un criptodualismo, il che in parte è, come hanno ben visto

(polemicamente) diversi maestri di sapienze e tradizioni extra-abramiche. Ma la rivelazione della

Misericordia complica questa prima intuizione, che potremmo definire quella della Giustizia e

Verità divine: un commento ebraico al primo capitolo della Genesi arriva a dire che, se Dio avesse

seguito i consigli del Suo Sigillo, la Verità, l’uomo, menzognero e criminale, non sarebbe mai stato

creato; quindi, che fece il Santo, sia benedetto? Prese la Verità e la buttò per terra (o: la seppellì in

terra)!70

Già si vede come sia difficile esprimere positivamente la Misericordia, proprio a causa

della sua massima positività: potremmo definirla, però, l’interdipendenza radicale fra il Creatore e

la Sua creatura; la percezione, profonda e quasi segreta, ma incancellabile, che noi abbiamo da Dio

l’essere e l’esistenza, ma precisamente per questo Dio non può manifestarSi, e quindi essere Se

stesso, senza il creato. L’idea appare eretica: in effetti, ogni volta che compare nel Talmud e nelle

raccolte di midrashim (commenti ebraici alla Scrittura) un’espressione che sembra in contrasto con

il principio dell’indipendenza assoluta di Dio, la si trova sempre accompagnata dalla formula

kevyakol. Kevyakol (o kevayakol)!: “come se ciò fosse possibile!” – “facciamo conto che sia

possibile!”; siamo, cioè, sul terreno della metafora, che però è, appunto, un terreno, non la mera

irrealtà. I testi da allegare sarebbero numerosissimi:71

“Se non vi è gloria per Me sulla terra, il Mio

Nome non è sulla terra né nell’alto dei cieli. Se il Mio popolo non Mi fa regnare sulla terra, non vi è

Regno per Me – se ciò fosse possibile – nell’alto dei cieli” (Shir Hashirim Zuta); “Se voi siete miei

testimoni, Io sono Dio; se voi non siete miei testimoni, Io non sono Dio – se ciò fosse possibile”

(Pesiqta de-Rav Kahana 102b); per bocca di Rabbi Yochanan, si ripete che l’uomo ha bisogno di

Dio, per bocca di Rabbi Resh Laqish si dichiara che Dio ha bisogno dell’uomo (Bereshith Rabbah):

Dio salva l’uomo, l’uomo salva Dio, Dio salva Se stesso nell’uomo: “La Mia redenzione è la vostra

redenzione. Se ciò fosse possibile, Io Mi sono riscattato insieme a voi” (Esodo Rabbah).72

Queste

affermazioni fiammeggianti e dialettiche (tutte appartenenti alla tradizione ebraica non esoterica)

riposano sull’intuizione fondamentale della Shekhinah di Dio, la “Dimora” di Dio (cioè la Sua

Presenza-Immanenza) che discende nel mondo (metaforicamente, ma realmente) quando viene

consegnata la Rivelazione, ma anche quando il popolo soffre ed è in esilio: si tratta di una delicata e

umbratile immagine femminile, che cerca di esprimere il mistero della “visceralità” divina, quella

Misericordia che nelle lingue semitiche ha evidentissima parentela con la fecondità e l’accoglienza

dell’utero (rehem in ebraico, da cui rahamim: raḥim in arabo, da cui Raḥmaniyya). L’essenza del

Divino, cui si deve alludere con una cauta segnalazione di traslato, sottile come un velo, sembra

essere la misteriosa, ed umile, Misericordia che intreccia l’alto e il basso, il necessario e il

contingente. Secondo la Qabbalah di Yitzhaq Luria, Dio ha creato ritirandoSi, limitandoSi (simsum)

per fare spazio all’altro da Sé. È come se esistesse, dal principio, un punto virtualmente privo di

Divino, che è lo spazio del timore della creatura-servo nei confronti del Creatore-Signore: nel

trattato talmudico Berakhoth (33b) leggiamo che “tutto è nelle mani di Dio, fuorché il timore di

Dio”;73

il dubbio, il tremore della creatura spirituale di fronte all’Unico consente all’Unico di uscire

da Sé. Il Dio del monoteismo è un “Salvatore che dev’essere salvato”: un Dio cioè che il rapporto

con l’altro-da-Sé deve riscattare dal rischio, sempre imminente, di essere (come dice Corbin) un Ens

Supremum, un Io Divino, una Persona chiusa in Se stessa e, in definitiva, un assurdo vivente.

Sarebbe lungo, ma non troppo difficile, mostrare le ramificazioni di questa radice nei tre

monoteismi abramici, dalla intima solidarietà fra Dio e il Suo popolo (che è appunto la Shekhinah)

nell’ebraismo, alla Prossimità fra Allah e il Suo servo nell’Islam (“Noi siamo più vicini a lui della

70

Il che può ricordare l’idea indiana di Māyā, ma con un tratto di “follia personalistica” che è tutto abramico (e

soprattutto ebraico). 71

Rimando a A. Y. Heschel, Torah min ha-shamayim (Soncino, 1965; in Italia ne è stata tradotta una sezione, col titolo

La discesa della Shekinah, Qiqajon 2003). 72

La dottrina gnostica del Salvator salvandus è come una lettura più razionale di questa Unicità divina straziata in se

stessa. 73

Vedi A. Neher, Il pozzo dell’esilio, Marietti.

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sua vena giugulare”, Cor 50,16), al mistero centrale del cristianesimo, l’incarnazione di Dio:

tuttavia in questa discussione si cercherà principalmente di rilevare le cospicue differenze tra i

monoteismi semitici e il monoteismo “gentile” dei cristiani, e soprattutto fra la nemesi semitica del

Patto abramico, che l’Islam ha voluto rappresentare sulla scena della storia sacra, e l’uni-trinità

affermata nell’elaborazione del dogma cristiano, nel cui cuore è ovviamente l’“annuncio propizio”

(euanghelion) di Gesù di Nazareth Salvatore del mondo.

Il cristianesimo, pur sottolineando che l’incarnazione e la salvezza sono opera della Misericordia,

si centra su un’idea che il greco neotestamentario esprime con una strana parola, agape. Agape,

infatti, fuori delle Scritture cristiane indica insieme un amore di preferenza e un amore di

benevolenza: raccoglie i significati di sollecitudine, stima, devozione umana, tutti connessi alla

volontà e, in qualche modo, al dominio dell’etica. Sebbene i redattori ebrei del Nuovo Testamento

mirassero, per suo mezzo, a tradurre nella lingua dell’ecumene la parola biblica ahavàh (che ha con

quella una lontana assonanza, ma indica l’amore in tutte o quasi le possibili accezioni), il risultato

fu sentito come nuovo e peculiare, e i latini ne rilevarono la curvatura semantica rendendola, a loro

volta, con termini come dilectio e caritas. Ad ogni modo, l’agape è l’essenza di Dio: “Dio è amore”

(ho theos agape estin, 1Gv 4,15). Ma cos’è l’agape e, soprattutto, cos’è di nuovo rispetto al

misericordioso amore semitico?

Possiamo tentare di rispondere a due livelli, uno psicologico ed uno ontologico. Per il primo ci

soccorre il grande teologo Massimo il Confessore: nelle sue Centurie sull’amore, dopo aver parlato

a lungo, come uno scrittore ascetico stoico, della negatività dei pathe (le passioni o condizionamenti

dell’anima), parla dell’amore stesso come di un makarion pathos: una “passione beata”, un “vincolo

divino” (il pathos è anche la passività dell’anima nei confronti di qualcosa)! Ossimori, per la mente

filosofica: paradossi, che rimandano tutti al paradosso fondamentale, l’Incarnazione di Dio,

culminata appunto nella Sua Passione (pathos), nelle Sue mortali sofferenze. L’amore è dunque la

redenzione dalla schiavitù proprio perché è una redenzione della schiavitù, che diventa libertà di

servire, principio di glorificazione del patimento così com’è. Sul piano ontologico, ricordiamo le

parole di Agostino a proposito delle Persone divine: ogni Persona è relatio subsistens, una relazione

che è tutt’uno con la sostanza; poiché l’essenza di Dio, cioè della Trinità, è l’amore, questo

movimento di vita nelle Persone e fra di Loro è proprio l’agape-caritas, la relazione essenziale.

Tutto ciò che ha, Dio anche lo è, dice ancora Agostino. In altri termini, l’amore rivelato da Gesù e

in Gesù è mediazione essenziale ed intradivina: l’estasi del Divino è un uscire da Sé in Se stesso, un

porre ed amare l’Alterità nel cuore stesso dell’Unicità ed identità divina. Ma la Misericordia

“semitica” è mediazione proprio in quanto extradivina o, per meglio dire, proprio in quanto

l’identità divina fa spazio all’alterità in una relazione con ciò che è fuori-di-Sé (il creato). Questo

non vuol dire che, per ebrei e musulmani, il creato sia necessario (in senso logico-filosofico) alla

manifestazione di Dio: anzi, la posizione mediana della Misericordia preserva proprio

quell’inquietudine radicale del profetismo abramico, per cui Dio, pur manifestandosi (come vuole

appunto la Misericordia), non può manifestarSi essenzialmente; Essenza e Manifestazione non

possono essere, nella Rivelazione, una cosa sola.

La differenza fra Amore e Misericordia, che in questa prima formulazione appare piuttosto un

innocuo dissenso filosofico, è più nitidamente illuminata dalla diversità fra l’idea “semitica” e l’idea

cristiana di Rivelazione, che qui non si pretende certo di trattare in modo adeguato. “Semitico”

viene da Sem, il figlio di Noè cui la Bibbia fa risalire quella famiglia di popoli e lingue: e Sem in

ebraico è Shem, “Nome”. La Rivelazione abramica è anzitutto rivelazione del Nome, in cui Dio

stesso Si rende presente. Heschel ci consegna, al riguardo, un’intuizione semplice ma preziosa:

nella Scrittura non si dice ciò che Dio è in Sé (=il Testo non ci porge la Sua Essenza), ma Chi Egli è

in relazione al mondo e agli uomini; la Rivelazione, dunque, esprime ed attua la “sollecitudine”

divina, che egli chiama col nome di pathos, intendendo il fremito della Misericordia, in cui è

compreso anche il disgusto della Giustizia violata ed offesa. Sia la Torah che il Corano iniziano,

non con la prima consonante dell’alfabeto semitico, la alef-ālif, simbolo dell’Unicità divina, ma con

la seconda, la beth-bā’, che vocalizzata è una preposizione: “in”, “per mezzo di”; simbolo del

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limite, della relazione, dello scambio che si apre e si realizza a metà strada fra cielo e terra, fra lì e

qui. Lo spazio di mezzo è uno spazio di mutue e reciproche benedizioni fra Dio e l’uomo (e,

nell’uomo, il mondo intero): la radice b-r-k indica proprio questa inclinazione nelle due direzioni,

una reale e viva comunicazione di potenza veicolata dalla preghiera, dal culto, dalla profezia. La

profezia abramica (sulla cui chiusura storica c’è sostanziale accordo tra ebraismo e cristianesimo,

ma non, ovviamente, fra l’Islam e gli altri due monoteismi) è estasi della Parola divina, del Nome

divino, cui però la Rivelazione non può essere adeguata, perché ciò fermerebbe il movimento stesso

della profezia. C’è dunque una tensione dialettica, e messianica, fra Rivelazione e Mistero (ciò che

resta nascosto), la cui oscillazione è arrestata solo nella prospettiva delle Cose Ultime: ma è una

prospettiva che la Scrittura in quanto tale lascia in perpetua sospensione, mentre la sensibilità

apocalittica (come dice la parola greca apokalypsis, “scoprimento”, “disvelamento”) la rende, pur

enigmaticamente, l’evento-limite della storia sacra in quanto tale. In questo senso si comprende

perché l’Apocalisse di Giovanni parli della rivelazione di un “nome nuovo” di Dio nell’eschaton

(3,12 e 19,12): coinciderà con la rivelazione definitiva di Dio, quando non ci sarà più mistero,

quando nulla resterà più nascosto.

Ma la profezia, che per il semitico è la massima relazione fra Dio e uomo, culmina nel dono di

una Legge, in un Patto cioè (berith, mithāq) custodito da una fede che è fedeltà (emunah, imān), e

che ha un’immediata dimensione attiva, di atti: una fede-fedeltà che è senz’altro “pegno” (secondo

la parola paolina) per il Mistero, per il Nascosto, ma non ha per oggetto un evento ultimo, bensì un

evento cruciale e dinamico proprio per la sua incompiutezza metafisica, per il suo rimandare ad

Altro; proprio perché, insomma, custodisce e preserva, con il Patto, la distanza (il chorismos,

direbbe un platonico) fra Nascosto e Manifesto, fra Essenza e Relazione (di Misericordia). La fede

cristiana (pistis), invece, si rivolge a quell’evento in certo modo ultimo che è il Cristo-Messia Gesù,

in cui le cose nascoste diventano manifeste (non totalmente, ma in modo realmente definitivo ed

irrevocabile), ed è fede-fedeltà all’uomo-Dio come separato (santo) da tutti e da tutto, ma anche e

per questo come mediazione sostanziale della teandria (divino-umanità) di tutto e tutti in Lui. In

altri termini, la Rivelazione cristiana è mistico-apocalittica:74

una rivelazione di salvezza e

iniziazione, che ritiene insufficiente la grazia effusa dalla Misericordia divina nelle comunicazioni

profetiche, perché postula una lacerazione cosmica originaria causata dal peccato, e quindi offre

(come un dono che è anche, in certo modo, una necessità) il superamento dell’umano in quanto solo

umano o, per meglio dire, una conciliazione sovrabbondante (secondo la parola paolina) fra uomo e

Dio. Questa sovrabbondanza si manifesta, come accennato, in una convergenza fra l’istanza mistica

e quella escatologica: Gesù rivela pienamente in se stesso ciò che nel profeta era segnato

dall’inquietudine; porge in piena luce ciò che nel Patto ebraico restava esoterico: come dice

Florenskij, il “Dio Ignoto” diventa “il Dio Noto”. La pistis sarà dunque “sussistenza (hypostasis)

delle cose sperate”: non a caso il termine paolino sarà fortunato nella teologia nicena; la fede è

fondamento e presenza già in atto di ciò che, per l’abramico, resta sempre imminente. Se Mosè è

morto sulla frontiera di Moab, il cristiano è invitato ad entrare, in un certo senso già qui ed ora,

nella Terra Deliziosa.

Da questo principio, sorgono molte ed importanti conseguenze, che cercheremo di esprimere con

una metafora. Riprendendo il linguaggio di E. Lévinas, la religione ebraica (e, a giudizio di chi

scrive, in buona parte anche quella islamica) è una religione della “carezza”:75

lo Spirito di Elohim

di Gen 1,2 “aleggia” sulla superficie delle acque, le “cova” (merahefet), non le tocca; c’è come un

asintoto perpetuo fra Dio e uomo, fra Creatore e creatura, in cui è la distanza stessa a fondare la

relazione. Troviamo, nell’ebraismo e nell’Islam, discussioni apparentemente letteralistiche, che in

realtà porgono un tratto semitico incancellabile: nel Talmud si discute spesso della distanza fra

acque superiori e acque inferiori (tra mondo celeste e terrestre), e sappiamo che Muḥammad vide

Gabriele, Spirito di Dio (o Dio stesso?), “alla distanza di due archi o meno” (fakāna qāba qawsayini

aw adnā, 53,9). Tutti i “forse”, i “magari”, i “se fosse possibile!” del discorso semitico alludono a

74

Non a caso Giovanni è ritenuto l’autore sia del Quarto Vangelo, quello “teologico”, sia dell’Apocalisse. 75

Cfr soprattutto Totalité et Infini, La Haye, Nijhoff, 1961.

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questa oscillazione fra Nascosto e Manifesto, con un forte pathos del Non-manifesto che è come un

eros inestinguibile, anche se un eros-di-Misericordia: e credo che nessun testo lo dica meglio

dell’Oracolo del Silenzio in Isaia: “‘Sentinella, a che punto è la notte? Sentinella, a che punto è la

notte?’ ‘È venuto il mattino ed anche la notte: se volete interrogare, interrogate; domandate,

venite’” (Is 21,11-12). Nel cristianesimo diventa fondamentale una metafora biblica ormai riempita

di significati nuovi: quella nuziale; il divino e l’umano si sposano in Gesù. Il contatto vietato è

avvenuto, ma non è, secondo la fede cristiana, una riedizione dell’idolatria, la divinizzazione di un

uomo: è anzi il farsi uomo di Dio, un moto di Misericordia che si compie come Amore. Se Gesù è

figlio di Dio per natura, e non nel metaforico (“carezzevole”) senso ebraico, allora il Nascosto si fa

evento, l’esoterico diventa storia: la Parola diventa carne. La Verità Ultima è detta, ma non in una

parola umana, bensì in un’esistenza umana, in un evento che è, nel linguaggio cristiano, mysterion:

sacramento (simbolo reale ed efficace) ed iniziazione non solo nascosta nel cuore, ma esplosa nella

storia, identificata in una persona.

Uno dei verbi cristiani più pregnanti è compiere: Gesù lo usò nel Discorso della Montagna (“Non

crediate che io sia venuto ad abrogare – katalysai – la Legge e i Profeti; non sono venuto ad

abrogare, ma a compiere – plerosai–”, Mt 5,17). È un punto in cui si fa particolarmente evidente la

differenza tra la Rivelazione semitica e quella cristiana. Nei due monoteismi semitici, la Parola

divina (che già non è Dio nel senso cristiano dell’ipostasi-persona) si manifesta come parola umana

che impegna nell’azione: il profeta ne è veicolo, ma la Parola, in quanto donata come messaggio e

fissata nella scrittura, lo supera, e deve superarlo. Nell’ebraismo questo superamento, questa

oltranza, si esprime nella catena dell’insegnamento rabbinico, nella tradizione che “apre” le dure

consonanti dello Scritto, paragonato ad un corpo, con la vocalizzazione che ne permette la lettura e,

in un senso più ampio, con la sua interpretazione, che è ancora e sempre principalmente volta

all’azione comunitaria e quindi, agli occhi “gentili”, appare tout-court come un commento

giuridico. Questa “apertura” della tradizione è il derash (da cui midrash), la “ricerca” amorosa ed

inesauribile di “nuovi volti” (panìm hadashìm), cioè nuovi sensi ed applicazioni, nella Scrittura: è

pur sempre uno dei tantissimi midrashim a restituirci il senso e lo straniamento del derash stesso nei

confronti della Bibbia, quando ci si racconta che Mosè, vedendo ed ascoltando profeticamente uno

dei più grandi rabbini della futura storia ebraica, Aqivà, si crucciò oltremodo di non capire neanche

una parola...finché il rabbino stesso non dichiarò che tutte le sue interpretazioni si fondavano

soltanto sugli insegnamenti consegnati a Mosè da Dio! L’interpretazione rabbinica è umile e

audace: rinnovandosi senza soste, traccia un “recinto” di azioni (la halakà) che è garanzia della

consegna della Parola alla vivente pratica degli altri uomini: garanzia cioè della tradizione. Anche il

Profeta dell’Islam, sebbene “la sua natura stessa” fosse il Corano, secondo le parole di ‛Ā’isha (e

sebbene Ibn ‛Arabī lo chiami “fratello del Corano” in accezione più mistica), è latore di

un’interpretazione ispirata del Libro che è senz’altro privilegiata, e infatti fonda la Sunna: ma il

“recinto” della shari‛a, edificato dai sapienti in quanto “eredi” del Profeta stesso, non è molto

dissimile dal “recinto” halakico del giudaismo rabbinico; custodisce e porge in qualche modo il

Nascosto, che si realizza nella pratica comunitaria, ma proprio tenendosene distante. Come ogni

mediazione, protegge, avvicina e separa al tempo stesso. Torniamo all’idea di “compimento”: nel

giudaismo rabbinico si parla di compimento (verbo le-qayyem), ma in riferimento proprio al derash,

alla “ricerca-commento”; è il derash che “compie” la Scrittura, “aprendola” a quel compimento

comunitario che è la pratica delle miswoth (i “precetti” rivelati): solo attraverso questa mediazione

si arriva al compimento messianico, cioè all’inverarsi definitivo delle promesse bibliche, che

tuttavia è sempre ulteriore. Secondo la tradizione ebraica, il derash impedisce l’idolatria del Libro:

Mosè ha dovuto rompere le prime tavole prima di consegnarle, riscritte; il Talmud al proposito dice

che “l’annullamento della Torah è il suo compimento (qiyyumà, dallo stesso verbo sopra citato)”. Il

commento salva il Libro distruggendolo. Sebbene l’Islam sia in questo meno radicale, è però ancor

più netto nella sua prospettiva escatologica: il commento “apre” il Libro, che è Parola di Dio, ma

l’apertura definitiva, a cui il Corano sempre rinvia il ricordo, è il “ritorno” di tutte le cose a Dio. Se

il commento riporta il Libro al suo senso primo (ta’wīl), lo fa appunto nella direzione delle Cose

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Ultime, che non sono tanto e soltanto il futuro escatologico, ma la realtà del mondo e di Dio nel suo

continuo farsi. Il verbo semitico, piuttosto che i nostri tempi, conosce ed esprime modi dell’unica

Azione divina, in un continuo e sottile rimbalzo tra ciò che è manifesto e ciò che non lo è ancora.

Nel cristianesimo, l’idea di compimento è molto diversa: vi risuona il Consummatum est (“Tutto è

compiuto”), le ultime parole di Gesù secondo Giovanni. C’è nella Rivelazione cristiana uno

slitttamento, per cui la Persona, il Corpo di Cristo (l’Evento-Cristo) diviene ciò che per l’Islam e

l’ebraismo è il corpo della Legge rivelata, “recinto” di azioni oltre il quale non può spingersi il

libero commento umano. Da una parte, l’angoscia, la sospensione delle promesse e delle domande

scritturali trova riposo e pienezza nella Legge-di-carne che è Gesù Cristo, e nella misteriosa

salvezza da lui operata; dall’altra abbiamo però un’unità (paradossale, come tutto il kerygma

cristiano) tra compimento e attesa, amore e fede, in virtù della quale si riapre la storia sacra (con un

altro popolo, un’altra comunità, universale), e l’evento Gesù viene custodito, non dal complesso

commento soprattutto “giuridico” dei semiti, ma dalla formulazione del dogma. Il dogma è legge

per il pensiero: il Mistero e la Manifestazione offerta a tutti vi coesistono in un equilibrio

paradossale, in un tentativo di mediazione tra il linguaggio filosofico dell’essere e la parola

profetica sul Dio Vivente. L’esoterico, portato alla luce da Gesù, che però deve ritornare di nuovo

nella sua Gloria, si fa legge, mentre l’uomo semitico preferisce che la legge religiosa lasci

l’esoterico ai margini del Testo, lì dove comunque resterà fino alla fine dei tempi. La tradizione

ebraica è stata particolarmente vigile al riguardo: la sua opposizione è mirabilmente riassunta in una

breve nota a lungo espunta (per giustificata cautela) dal trattato talmudico Shabbat: il vero

significato della parola greca euanghelion sta nell’ebraico awòn ghilayòn, “trasgressione dei

margini”. Il Logos incarnato in Gesù ha oltrepassato il testo e riempito i margini vuoti. L’Amore,

unità di Essenza e di Manifestazione, di Nascosto e Manifesto, ha chiuso lo spazio del commento

midrashico: se la Parola si è fatta carne, lo spazio che stava fra la Parola e la carne, in mezzo al

cielo e alla terra, è identificato con Gesù. La Legge, che per Paolo è stata un “pedagogo” ed è quindi

“schiavitù” e prigionia (cfr Gal 3,23-25.4,1ss.), per l’ebreo è libertà;76

l’unione uomo-Dio, che per il

cristiano è pienezza e compimento delle Scritture, per l’ebreo e il musulmano è regresso al caos

anteriore alla creazione, anteriore alla benedetta distinzione fra Dio e creatura.

Va ripetuto, tuttavia, che il cristianesimo si professa abramico, e quindi antiidolatrico, e che la sua

continuità con la Antica Alleanza non è solo nella direzione di un compimento che la uccide: la

morte di Gesù è la cristiana rottura delle Tavole; l’evento-Cristo è paragonabile (ed è stato

paragonato da molti Padri della Chiesa) al roveto ardente apparso a Mosè, che è consumato e

insieme non consumato dal fuoco. Il corpo di Gesù è la vera Scrittura cristiana: i Vangeli, scritti in

una lingua non sacra ma solo di grande diffusione nel mondo imperiale dell’epoca, sono sì testi

ispirati, ma stanno al cospetto della Parola, non sono Parola. Gesù, con le sue parole e i suoi atti, già

interpreta la Parola che egli stesso è, ma non chiude il commento, anzi apre ad una tradizione, ad

una Chiesa che, secondo la lettura mistico-messianica paolina, è il suo vero Corpo ancora nascosto,

costituito da tutti i cristiani suoi fratelli, divenuti figli di Dio nel Figlio, cioè Cristo in Cristo. Il

‘discorso sacerdotale’ di Gesù prima della cattura e della morte, che per gli ariani era l’ennesima

dichiarazione di inferiorità rispetto all’Unico Dio Padre, è in effetti un’apertura che annulla ogni

idolatria: “È opportuno per voi che io me ne vada. Se infatti non me ne andrò, il Paraclito [lo

Spirito] non verrà a voi” (Gv 16,7). Il dogma calcedoniese ripete che Gesù non è individuo (e non

va quindi adorato come individuo), ma una persona: la sua identità è tutta nel suo rapporto con Dio,

con il suo Dio, il Padre. Il “dare la vita” (psychèn thenai) evangelico è proprio alle radici dell’idea

di Uni-trinità divina: l’Amore trinitario dice l’Assoluto senza residui (“Dio è amore”) proprio

perché è il “dare la vita” di Dio nelle Persone. Ed è proprio qui che ebraismo ed Islam dissentono:

l’Essenza di Dio (Dio in Se stesso) resta il Nascosto, il ghayb; sebbene la Misericordia sia la

relazione prima e principiale fra Dio e il creato, Egli è il Misericordioso, non è Misericordia.

Sebbene Ibn ‛Arabī, ad esempio, dica che “la Misericordia è l’Essenza dei Nomi” di Dio, e chiami

76

A proposito dell’incisione della Torah sulle tavole di pietra, si commenta: “Non leggere ‘incise’ (harut), ma ‘libertà’

(herut)” (Mishna Avoth).

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Dio l’Amore, l’Amante e l’Amato come Agostino, pur nel suo excessus mistico-esoterico questa

posizione è ben distinta da quella cristiana: qui il Divino è pur sempre Uno che ama (o l’Uno che

ama), mentre, sintetizza P. Florenskij, il Dio cristiano non è uno-che-ama, ma agape estin, nel senso

trinitario.

Se la speculazione trinitaria è del tutto estranea alla sensibilità semitica, ricordiamo però che il

dogma trinitario illumina quello cristologico e ne è illuminato: il vero punctum dolens è chi è

Cristo, la persona di Cristo. E non c’è dubbio che nei Vangeli l’umanità di Cristo, il suo essere

semiticamente servo, sia presente ed anzi radicale e fondamentale: ma questa umanità, che sfolgora

tragicamente nel tremore del Getsemani e nel grido della Croce, non raggiunge (e non salva) gli

altri uomini se non in quanto separata ab origine dal peccato; anzi, Massimo il Confessore sostiene

che Gesù, pur avendo una volontà umana distinta da quella divina, non aveva una volontà gnomica,

cioè una volontà di scelta legata al suo essere individuo.77

Gesù, modello di tutto, non può essere

però (se non in senso mistico, e non nel senso della Sunna o della Legge) modello della penitenza o

conversione, cioè dell’atto principale dell’uomo abramico (teshuvah in ebraico, tawba in arabo): il

“ritorno” a Dio dal peccato è condizionato da quella distanza perpetua fra Creatore e creatura che

Islam ed ebraismo difendono, e che nel cristianesimo si ferma a questa soglia. Forse è qui che gli

abramici semitici sentono il vero punto di rottura, la vera separazione nei confronti della tradizione

cristiana.

È ora opportuno accostarci all’oggetto principale di questa discussione: se infatti il cristianesimo

si è presentato sin dall’inizio come l’erede autentico del Patto abramico ed ebraico, e in seguito il

dogma trinitario è stato proposto, da parte di alcuni Padri, come il perfetto equilibrio tra il

monoteismo degli ebrei e il politeismo delle genti; l’Islam si è riconosciuto, non meno nitidamente,

la posizione di rinnovatore dell’antico Patto, ma nel senso di una ri-vendicazione dello spirito

semitico nei confronti di quello “romano”, o gentile che dir si voglia. Una tavola trovata da A. J.

Arberry in un manoscritto delle Mawāqif del sufi Niffārī78

può introdurci validamente alla

questione: vi leggiamo il nome divino più importante insieme ad Allāh, ar-Raḥmān, affiancato

dall’attributo divino al-Jamāl, la Bellezza, e dal nome di ‛Isā; il nome al-Jabbār, Colui che

costringe, affiancato dall’attributo al-Jalāl, la Maestà, e dal nome di Mūsā: e infine entrambi i nomi

divini precedenti a fianco dell’attributo al-Kamāl, la Perfezione, e del nome di Muḥammad.

Partendo da questa triade, cerchiamo di schizzare la mappa della storia sacra secondo la Rivelazione

coranica e l’Islam che ne è nato. L’Abramo coranico, Ibrāhīm, chiamato con l’appellativo,

perfettamente aderente alla Bibbia e alla tradizione ebraica, di “intimo amico di Dio” (khalīlu-Llāh,

cfr 4,125), che per gli ebrei è il primo ebreo nel senso del primo “attraversatore di confini”, e per i

cristiani è il “padre dei credenti”, da una parte anticipa l’avvento dell’Islam con tratti e gesti

chiaramente extrabiblici (il figlio di cui gli viene ordinato il sacrificio non è menzionato nel Libro,

cfr 37,99-110, ma sarebbe per generale consenso Ismā‛īl, capostipite degli arabi, che ricostruì con

lui la Ka‛ba, cfr 2,125-132);79

dall’altra, come la maggior parte dei profeti “ricordati” nel Corano,

ripete alcuni atti e parole di origine biblica o midrashica: ma soprattutto è considerato il primo

ḥanīf: “Ibrāhīm non era né ebreo né cristiano, ma era un ḥanīf sottomesso a Dio (ḥanīfan

musliman), e non era del numero di coloro che associano (wa-mā kāna min al-mushrikīna)” (3,67,

77

Molto efficace la seguente esposizione di Piero Coda, applicabile anche alla differenza tra Gesù Figlio per natura e gli

altri uomini figli per grazia: “Per sé, le creature e, in special modo, le persone create non possono realizzare quest’atto

[il dono di sé totale dell’amore trinitario], appunto perché sono create: e cioè ricevono l’essere da Dio e non hanno la

possibilità di privarsene ontologicamente. Al massimo è loro possibile negar-si, perder-si intenzionalmente (a livello,

cioè, dell’atto di conoscenza e d’amore), ma non fino a dimettere totalmente il proprio essere in quanto essere. Solo la

morte costituisce la dimissione nelle mani di Dio, che per sé s’impone e va accolta, di tutto il proprio essere di creatura”

(Quaestio de alteritate in divinis. Agostino, Tommaso, Hegel. Pontificia Università Lateranense. A questo testo si

rimanda per i passi di Agostino e Tommaso citati in precedenza, e in generale per la presentazione del dogma trinitario). 78

Cfr A. J. Arberry, The Mawāqif and Mukhāṭabāt of Muḥammad ibn ‛Abdil ‘l-Jabbār al-Niffārī, Cambridge

University Press, London 1935, e R. Arnaldez, Jésus dans la pensée musulmane, Desclée, Paris, 1988. 79

Cfr inoltre il velato annuncio dell’avvento di Muḥammad in 2,129: “Signore nostro, manda loro un inviato preso fra

di loro (rasūlan minhum)...”, che a sua volta rimanda all’interpretazione islamica di Dt 18,15.18 (cfr anche Cor 7,157).

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38

cfr anche 2,135). Ḥanīf, che in siriaco (ḥanfā) indica il pagano tout-court e in ebraico (verbo hanàf

all’hifil) indica “colui che macchia e inquina” e “colui che seduce Israele ad assimilarsi alle genti”

(cfr Dn 11,32), anche in arabo è connesso ad una radice che esprime “deviazione dei passi” e

seduzione, ma nel lessico coranico indica il monoteista “aconfessionale”, il pagano sinceramente

animato dal desiderio di avvicinarsi al Dio Unico, come il giovane Ibrāhīm, contestatore del padre

idolatra. È importante la definizione di ḥanīf muslim riferita ad Ibrāhīm: in effetti, l’Islam si

presenta come restauratore del puro din al-ḥanīf, che è anche din al-fitra, la “religione primordiale”.

Ora torniamo alla triade dello schema di Niffārī. C’è una consapevolezza forse originaria

nell’Islam: ebraismo e cristianesimo costituiscono una diade, c’è una tensione polare fra l’antico

monoteismo semitico e il nuovo “monoteismo” gentile. Questa dualità si radica nell’opposizione

complementare fra i profeti delle due religioni: da un lato Mūsā, kalīmu-Llah, “l’interlocutore di

Dio”; dall’altra ‛Isā, kalimatu-Llah, “parola di Dio”. Attraverso Mūsā è stata trasmessa al popolo

ebraico una Legge, una sharī‛a; attraverso ‛Isā, gli ebrei e il mondo intero hanno ricevuto

soprattutto una via spirituale, una tarīqa. Mūsā, a cui Dio rivolge la parola normativa, provvisoria

ma valida in principio, è maestro degli atti cultuali, legislatore e capo politico. Il suo dominio

archetipico è quello dello ẓāhir, la manifestazione, correlativo del Nome divino aẓ-Ẓāhir, il

Manifesto, l’Apparente: tanto che il misterioso “servo” di Dio della sura al-Kahf (cfr 18,60-82),

identificato dalla tradizione con al-Khiḍr (l’“immortale” che ha più di un punto di contatto con

l’Elia dei midrashim e dell’esoterismo ebraico), non riesce ad aprire i suoi occhi interiori ai segni

incontrati nel corso di un breve viaggio iniziatico, e gli lascia, come unico (e pur prezioso)

insegnamento, quella della sua ignoranza. Ogni profeta, in quanto uomo, conserva questa ottusità,

questo fondo di tenebra e fragilità (anche Muḥammad non lo nascose mai): ‛Isā stesso, quindi, in

quanto profeta-inviato, ha ed ammette di avere l’irriducibile ignoranza dello ‛abd, del servo, nei

confronti della Scienza divina. Tuttavia il suo dominio non è quello normativo, cultuale e politico,

ma quello del bāṭin, dell’interiorità nascosta, corrispondente al Nome divino al-Bāṭin, il Nascosto. Il

Gesù evangelico annuncia di compiere le Scritture ebraiche (e in particolare la Torah, il Pentateuco

consegnato a Mosè, e le rivelazioni fatte ai profeti di Israele) prescindendo dalla “tradizione degli

uomini” (il giudaismo rabbinico), e di svelare il significato spirituale-escatologico celato nella

lettera del Testo, irreperibile ad una lettura fatta “secondo la carne”, cioè, come preciserà Paolo,

forse tagliando troppo bruscamente il nodo, una lettura normativo-giuridica come quella giudaica. Il

Gesù coranico, ‛Isā, si presenta come un rasūl che conferma la Torah e in parte ne abroga i precetti

negativi (cfr 3,50): tuttavia i suoi detti sapienziali, che hanno qualche profumo evangelico ma un

più spiccato tratto di amore per l’ascesi e l’austerità, e le sue taumaturgie, hanno fatto sì che la

tradizione islamica recepisse ‛Isā soprattutto come un maestro di pratica spirituale e quindi di

interiorità. Insomma, ‛Isā ha portato alla luce ciò che era nascosto nella sharī‛a consegnata ad

Israele, nella Torah: ha manifestato il Nome della Misericordia divina, che “apre il petto” del

credente, e l’Attributo della Bellezza, perché “Allāh è Bello e ama la Bellezza”, secondo il ḥadīth, e

la bellezza è l’oggetto del desiderio d’amore, nonché manifestazione dell’interiorità. Mūsā, invece,

come abbiamo visto, ha manifestato al mondo il Nome della Costrizione divina, perché la Legge

sacra è servitù, e l’Attributo della Maestà ed incomparabilità di Dio, la Sua trascendenza rispetto

agli uomini e agli stessi atti che la Legge prescrive.80

80

Per esprimere la dualità ebraismo-cristianesimo in termini più filosofico-teologici, possiamo dire che nell’ebraismo è

particolarmente forte il “pathos della distanza” o trascendenza divina: se di Mosè si dice che parlava con Dio “faccia a

faccia” (il che è da accostare all’appellativo coranico di “interlocutore di Dio”), altrove Dio gli comunica che non potrà

vedere il Suo volto (panìm), ma la Sua Schiena (ahòr) (il che è in parte da accostare al termine ẓāhir, connesso a ẓahr,

dorso, parte posteriore). Nel cristianesimo è più intenso il “pathos dell’immanenza” e della prossimità (il “Tu” del

dialogo Dio-Mosè diventa l’io del discorso di Gesù, che è il profeta della walāya, della santità come vicinanza di Dio

all’uomo). Non è forse inutile anche un accostamento all’esoterismo cabalistico: nell’albero sefirotico, i due aspetti

divini del Rigore (Din), connesso alla norma legale e cultuale, e della Clemenza (Hesed), connessa alla Torah

primordiale e totalmente spirituale, sono rispettivamente alla sinistra e alla destra dell’asta centrale, che come quella di

una bilancia li mette in equilibrio e in contatto. Questo aspetto centrale e mediatore è Tif’ereth, Bellezza, detto talora

anche Verità (Emeth), ed è connesso alla rivelazione del Tetragramma e della Torah.

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Il Cristo è dunque “segno di contraddizione” (Lc 2,34) e di dualità rispetto all’ebraismo-

giudaismo: se le Tavole di Mosè, distrutte per sdegno contro l’idolatria, sono agli occhi

dell’ebraismo immagine suprema di libertà (“non leggere incise, ma libertà”), agli occhi del

cristiano paolino la libertà è rappresentata tout-court dalla distruzione delle Tavole, che però non è

antinomismo, perché la fede in Cristo conserva e porta a pienezza lo spirito (interiorità) della

Legge. Tuttavia, nella visione coranica, Gesù, che pur abroga, da rasūl, la legge precedente, apre

non solo in direzione messianica (attesa escatologica, promessa dell’invio del Paraclito etc.), ma

anche in quanto sollecita un terzo che dia a sua volta compimento a quella dualità: un testimone, un

gesto di ricostituzione-rammemorazione (dhikr) dell’esodo di Abramo e del Patto monoteistico

originario. Questa terza religione, quasi sintesi in una sorta di dialettica della storia sacra,

ricostituendo il Patto ricostituisce anche il Libro (kitāb), che il Gesù cristiano aveva annullato in sé,

nella sua carne: ma un Libro che non è mera Legge, mero ẓāhir, bensì equilibrio fra bāṭin e ẓāhir. Il

Libro che sigillerà la Profezia avrà in sé la Legge e la norma, essenziali al Patto nella visione

semitica: ma, inserito nella traiettoria messianica avviata da ‛Isā, e consapevole del richiamo di

questi all’interiorità e alla purificazione, sarà un semplice dhikr, un ricordo-menzione del passato

profetico e un ricordo-menzione di Dio. Il Libro distrutto dai cristiani ritorna, ma soprattutto come

invito ad un tawḥīd (professione dell’Unità-Unicità) assoluto, nella corrente di un ritorno mistico e

profetico di tutte le cose e di tutti i cicli storici a Dio. Muḥammad, secondo lo schema di Niffārī,

manifesta la conciliazione fra i due Nomi divini opposti e complementari (ar-Raḥmān e al-Jabbār),

e trasmette al mondo la ḥaqīqa, la Verità intesa come retta conoscenza di Dio, e come via mediana

(ricordiamo il ḥadīth: “La migliore delle cose è quella che sta nel mezzo”, khayr al-umūr

awsaṭuha): l’Attributo divino corrispondente è la Perfezione, al-Kamāl, inteso in un senso affine a

quello del compimento evangelico, ma con maggior enfasi sull’equilibrio, sulla mediazione fra due

opposti. Infatti Mūsā ed ‛Isā sono grandi e veri profeti, ed hanno rivelato aspetti del Divino che si

completano l’un l’altro, ma ciascuno dei quali è pienamente reale in se stesso: tuttavia le comunità

religiose che hanno ricevuto il loro messaggio hanno tralignato dalla “religione primordiale”, dal

patto inscritto nella creazione stessa e rinnovato nella storia. Ebrei e cristiani, pur custodendo

entrambi l’unica Parola divina in due sue rivelazioni autentiche e parziali, non ne hanno custodito la

ḥaqīqa, il significato reale e dinamico, la totalità del senso. I commentatori musulmani hanno

interpretato in questa chiave il settimo ed ultimo versetto della Fātiḥa: “[Guidaci sulla via retta], la

via di coloro sui quali hai effuso la Tua grazia, non la via di coloro che incorrono nella Tua ira, né

quella di coloro che sono smarriti (ṣirāt alladhīna an‛amta ‛alayhim, ghayri al-maghḍūbi ‛alayhim,

wa-lā aḍ-ḍāllīna)”. “Coloro sui quali hai effuso la Tua grazia” sarebbero i musulmani, “coloro che

incorrono nella Tua ira” gli ebrei, e “coloro che sono smarriti” i cristiani: ebrei e cristiani hanno

mancato il segno, si sono allontanati dalla “via retta” (mustaqīm), dalla via mediana che l’Islam è

venuto a manifestare. Ma perché i cristiani si sono smarriti?

Come abbiamo già visto in precedenza, il Corano esorta i cristiani a non “eccedere” nella loro

religione, ed usa il verbo ghalā, che poi sarà applicato dai sunniti a tutte le grandi “eresie”

islamiche, in particolare alla shī‛a estrema non solo per la centralità che assegna al ta‛līm, l’autorità

e l’insegnamento ispirato degli imām (tratto che ha in comune con lo sciismo duodecimano o

imamita), ma anche e soprattutto per la divinizzazione del maestro, comunque essa venga intesa

dalle varie sette. Dopo la “tesi” semitica (ebraismo) e l’“antitesi” gentile (cristianesimo), il tawḥīd

islamico è un ripristino-dhikr del puro monoteismo abramico come unità originaria di legge e

santità, di sharī‛a e walāya: ed è un rinnovamento semitico (fondato cioè sull’estasi del Nome e

della Parola nella parola umana), in virtù del quale Muḥammad è ricettacolo del messaggio-

sapienza divina senza cadere nei due opposti errori dell’ebraismo-giudaismo e del cristianesimo.

Rileggiamo la prima parte del singolare verso 30 della sura 9 (at-tawba): “Gli ebrei hanno detto:

‛Uzayr è figlio di Allāh, e i cristiani hanno detto: Il Cristo (al-Masih) è figlio di Allāh. Questo è ciò

che dicono con le loro bocche, ripetendo ciò che dicevano i miscredenti (alladhīna kafarū) prima di

loro”. Se lo ‛Uzayr coranico è il biblico Esdra, il sacerdote e sofèr (scriba) che dopo la cattività

babilonese ebbe il mandato di riformare la comunità gerosolimitana, gettando le basi del giudaismo

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in senso proprio, è assurdo dire che gli ebrei lo abbiano considerato figlio di Dio: ma forse qui la

polemica coranica accomuna ebrei-giudei e cristiani per via del loro tralignamento dalla

Rivelazione originaria. Muḥammad ha portato il semplice messaggio primordiale senza la

mediazione costituita dallo spazio “troppo umano” dell’incessante derash giudaico, rappresentato

da ‛Uzayr-Esdra: il derash è stato “divinizzato” dagli ebrei, un po’ come nell’accusa rivolta loro da

Gesù (“Tralasciando i comandamenti di Dio, voi [farisei] vi attenete alle tradizioni degli uomini”,

Mc 7,8). Ma Muḥammad ha evitato anche che questo spazio vuoto tra Dio e uomo fosse riempito da

una parola non più profetica, la Parola fatta carne, Gesù Dio-uomo.

La breve analisi, condotta nei capitoli precedenti, di un testo come il Radd al-jamīl e di alcuni

passi di Ibn ‛Arabī su ‛Isā, può dare una prospettiva particolarmente interessante sulla polemica

musulmana nei confronti della teologia cristiana. Letto in questa luce, il Radd fornisce un’accurata

preparazione essoterica alle tesi akbariane su Gesù: e la metafisica visionaria del Maestro di Murcia

offre un ricchissimo sfondo esoterico agli argomenti razionali del Radd, e alla “cristologia”

musulmana in genere.

Le obiezioni del Radd, tutte riducibili alle grandi questioni della controversia ariana e, ancor più

radicalmente, all’esperienza presto rimossa (emarginata) del giudeo-cristianesimo primitivo,

riposano su un principio esegetico implicito: mentre il Corano è Parola di Dio così com’è, è Gesù

stesso ad essere (in senso coranico) parola-di-Dio, kalimatu-Llah; i Vangeli e il Nuovo Testamento,

pur essendo libro (anche i cristiani sono ahl al-kitāb, “gente del Libro”), sono parole ispirate e non

Parola, quindi, per farne l’esegesi, si può estendere l’uso del qiyās e degli altri strumenti che

“aprono” un testo non immediatamente chiaro. La maggior parte delle espressioni neotestamentarie

non vanno lette secondo la loro accezione “propria” (ḥaqīqa), ma secondo un’accezione “traslata-

metaforica” (majāz). Qui entra in gioco Ibn ‛Arabī e, in generale, la profetologia dei sufi: Gesù è il

profeta che ha manifestato il versante bāṭin (l’esoterico) della missione legislatrice di Mosè-Mūsā:

si potrebbe dire che è colui che ha reso ẓāhir la walāya, la santità/intimità con Dio. In quanto walī,

egli è quindi già erede (wārith) dei profeti: egli è già, in un certo senso, commento, come la santità è

già “commento”, approfondimento esoterico del ruolo che il profeta ha nel mondo. Nella

“cristologia” akbariana (soprattutto come è sviluppata nei Fuṣūṣ al-ḥikam) ‛Isā, in quanto rasūl

della walāya (e suo Sigillo), è il medium che fa accedere al “mondo degli archetipi” (‛ālam al-

mithāl, mundus imaginalis), piano ontologico della conoscenza profetico-esoterica e “luogo” in cui

si invera il ta’wīl, cioè l’“interpretazione” intesa come continuo, ermetico passaggio fra il Nascosto

e il Manifesto, tra il bāṭin e lo ẓāhir. Abbiamo esaminato la sorprendente trattazione di Ibn ‛‛Arabī

nei Fuṣūṣ: ‛Isā era (come profeta storico) ed è (come profeta sempre presente nel mondo sottile o

immaginale) in grado di far penetrare il suo seguace nel khayāl, in quella che il Rosarium

philosophorum, grande testo ermetico tardomedievale, chiama vera imaginatio, contrapponendola

all’illusione della fantasticheria. Ma è qui il tratto forse più esoterico di ‛Isā: questo suo ruolo

iniziatico si realizza proprio attraverso l’illusionismo del wahm; gli spettatori dei suoi miracoli

sperimentavano una perplessità (ḥayra) radicale, uno stupore vertiginoso riguardo alla sua natura: è

uomo? è Dio? è uomo-e-Dio? L’immaginazione di chiunque guardi e pensi Gesù è sottoposta ad

una prova inevitabile e decisiva: poiché è stato concepito dal rūḥ (seme di Jibrīl) e dall’acqua (seme

di Maryam) anche attraverso l’illusione sperimentata da sua madre al cospetto dell’angelo in

forma umana, egli non solo è in grado di operare miracoli “col permesso di Dio”, secondo la

precisazione coranica, ma fa sì che gli spettatori si meraviglino dicendo che “era lui e non era lui” al

tempo stesso. Si è cercato di mostrare come questa lettura di ‛Isā dia un abbrivo particolarmente

forte in direzione del centro della metafisica akbariana, il sirr ar-rubūbīyya: il segreto del legame

(misericordioso) tra rabb e marbūb, tra Signore e servo, che ha una consonanza con l’insegnamento

perfettamente cristiano (e perfettamente esoterico) di Meister Eckhart nel sermone Beati pauperes

spiritu. In effetti, il maestro domenicano medievale, partendo dalla dottrina mistica della

generazione del Verbo (Dio) nel fondo (Grund) dell’anima umana, dà un insegnamento molto

semplice, e tuttavia sconvolgente per la coscienza religiosa ordinaria: “Prima che le creature

fossero, Dio non era Dio: era invece quello che era. Quando le creature furono e ricevettero il loro

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essere creato, Dio non era Dio in se stesso, ma era Dio nelle creature”. L’Essenza divina, superiore

ad ogni determinazione, è Dio nella sua relazione con le creature, in particolare con l’uomo: è

Signore in relazione a dei servi; ma si tratta appunto di una relazione autentica, di una vera corrente

di essere-amore che per il domenicano è senz’altro il dinamismo della vita trinitaria, con il Verbo al

suo centro: “Se io non fossi, neanche Dio sarebbe; che Dio sia Dio, io ne sono la causa prima; se io

non fossi, Dio non sarebbe Dio”. Queste affermazioni non possono non ricordare la poesia di Ibn

‛Arabī nel Faṣṣ su ‛Isā, come anche i passi rabbinici citati all’inizio di questa discussione.

L’apofatismo sublime della dottrina akbariana porta con sé un’identità di essenza Creatore-creatura

che sembra superare la dottrina ortodossa della “prossimità” Dio-uomo, del taqarrub, l’“asintoto”

della Misericordia: ma identità di essenza non è né immanenza né “inabitazione” (ḥulūl), e

nemmeno, in profondo, unione (ittiḥād), perché nella manifestazione del creato la verità è Signore-

servo, rabb-‛abd; ed è propria del servo l’assoluta povertà, l’assoluta impotenza ed inconsistenza.

Fuori da Dio, tutto è illusione e nulla, ma nell’Essenza tutto è l’Essenza stessa. Né monismo

panteista, dunque, né, del resto, il complesso edificio del dogma trinitario: una non-dualità

esoterica, che cerca di ricondurre il tawḥīd alla sua concretezza mistica di “fare-unità” (è il masdar

della seconda forma fa‛‛ala) nel cuore dell’uomo e in Dio. “Né la Mia terra né il Mio cielo hanno la

capacità di contenerMi. Ma il cuore del Mio servitore fedele, pio e puro, ha la capacità di

contenerMi” (Ḥadīth qudsī).

Ritorniamo un istante all’esegesi del Radd. Leggendo i Vangeli, i cristiani per lo più si

smarriscono a causa di un ta’wīl errato: volendo riassumere, con terminologia quasi ariana, la

Parola-Gesù non è Dio ma è da Dio come il Rūḥ è angelo di Dio; tanto il Verbo che lo Spirito non

sono ipostasi-persone, ma creature, oppure eterni attributi di Dio, che però, in quanto ṣifāt, sono su

un piano diverso rispetto a quello dell’Essenza (Dhāt) “indipendente dai mondi”. In un caso, però, è

lecito parlare anche di un testo (naṣṣ) contraffatto: è “la Parola divenne carne”, su cui si basa

l’inaudita dottrina dell’Incarnazione. La Parola non diviene carne, ma crea una carne, che è la

creatura Gesù. Ora, per volgerci di nuovo verso Ibn ‛Arabī, è vero che il Sommo Maestro parla di

“Dio creato” (Ḥaqq makhlūq) a proposito della prima determinazione del nafas ar-Raḥmān, cioè del

barzakh (istmo) tra gli opposti metafisici: ma non lo dice certo nel senso cristiano del Creatore che

si fa creatura, perché questo è un livello di lettura in cui storia ed esoterismo si intrecciano, il livello

cioè dell’Incarnazione; invece la dottrina akbariana si fonda sul tajallī, sulla teofania, non

sull’incarnazione, che viene identificata con eresie come il ḥulūl e l’ittiḥād (valido solo come

percezione soggettiva del mistico). La mediazione rappresentata dalla teofania salva la distinzione

Creatore-creatura nel tempo, e quindi nella storia: la waḥdat al-wujūd riafferma l’Unicità in senso

islamico, non l’Unione in senso cristiano. In altri termini, risuona ancora la domanda formulata

sopra: se la Parola è diventata carne, cosa resta in mezzo? Ricordiamo lo stupore e il dubbio di

Paolo sulla propria ascesa al terzo cielo: “se con il corpo o fuori del corpo non lo so, lo sa Dio” (cfr

2Cor 12,2). Tertium non datur: eppure per Ibn ‛Arabī il tertium è fondamentale, ed è la gnosi.

Come fra ebraismo e cristianesimo media l’Islam in quanto religione, così, fra corpo e spirito, fra

ẓāhir e bāṭin, media il mondo immaginale, luogo della gnosi.81

L’Incarnazione tende a rendere

impossibile l’esoterismo, la sua oscillazione di bilancia fra Nascosto e Manifesto: l’Islam e

l’ebraismo lo tengono ai margini, pur con il rischio, ineliminabile e in parte previsto, che

l’essoterismo della Legge, votato a preservarlo, lo espunga dal libro vivente della comunità in modo

più o meno cruento.

Così, l’accostamento fra ‛Isā e l’alchimia, che sembra appartenere al repertorio illimitato e

pressoché arbitario delle amplificazioni esoteriche, acquista un sapore nuovo. Il corpus spirituale

che Ibn ‛Arabī gli assegna, da una parte conferisce uno sfondo autenticamente gnostico al vago ed

enigmatico docetismo coranico (Gesù non è morto sulla croce) e alla sua parentela, per via

dell’assunzione/elevazione, con gli altri “immortali” Ilyās-Elia ed Idrīs-Enoch, profeti

dell’esoterismo anche nella tradizione ebraica: dall’altra sembra quasi un ta’wīl genuinamente

81

Per questa idea si rinvia ovviamente a Henri Corbin, L’imagination créatrice dans le soufisme de Ibn ‛Arabi, Paris

1958.

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ermetico di alcuni temi propri della mistica cristiana sin dalle origini paoline. Al di là dell’alchimia

nata in terre cristiane, e senz’altro profondamente legata a molte metafore ed immagini della

tradizione religiosa di quelle, già nella predicazione di Paolo è molto forte l’annuncio messianico e

mistico della palingenesi del creato, del suo passaggio, in Cristo, dalla phthorà (corruzione) alla

aphtharsia (incorruttibilità: cfr ad es. Rm 8,18-22; 1Cor 15,35 ss.): la resurrezione di Gesù Cristo è

il principio effettivo della resurrezione di tutti e della trasmutazione del mondo, come la fede è

fermento segretamente operante nella pasta, e la presenza nascosta del Cristo risorto nelle specie

eucaristiche è principio attivo della trasformazione (in spirito, anima e corpo) del fedele che le

assume. Ma anche qui è evidente la distanza fra il mondo akbariano e la sensibilità cristiana: per Ibn

‛Arabī l’alchimia è pur sempre, riprendendo il detto attribuito ad ‛Alī, “sorella della profezia”, sua

compagna esoterica, che traduce gli annunci palingenetici della parola “pubblica” del profeta

nell’opus devoto dell’Artista ermetico, necessariamente appartato ed iniziato; la mistica eucaristica,

invece, cerca l’equilibrio fra esoterico ed essoterico nel corpo di Cristo, nella sua Incarnazione.

Dopo questo riesame delle intuizioni akbariane alla luce del dibattito filosofico del Radd, è forse

possibile cogliere una particolare sfumatura in uno dei termini più pregnanti utilizzati dal Maestro

andaluso per stigmatizzare il kufr cristiano: taḍmīn, “inclusione” di Dio in Gesù. Forse, oltre che al

ḥulūl propriamente detto, la parola vuole alludere al fatto che i cristiani “identificano” Gesù e Dio

su un piano, quello del rapporto Creatore-creatura, in cui appunto ogni identificazione è

impossibile. Questo errore potrebbe essere dovuto alla già citata “perplessità” dei credenti davanti

all’uso, nel discorso di Gesù così frequente, della prima persona. La prima persona singolare è, in

effetti, fonte di illusione in chi parla e in chi ascolta: ricordiamo il “rimprovero” dell’Autore del

Radd ad al-Ḥallāj quando proclama: “Io sono il Vero”, rimprovero condiviso da buona parte degli

stessi sufi. Ma il cristiano potrebbe obiettare che l’“io” di Gesù si realizza nel “noi” del rapporto

con il Padre: “Io e il Padre siamo uno”. Abbiamo già osservato come il greco evangelico dica più

cose rispetto ad una lingua semitica correntemente parlata: il neutro hen-unum, “una cosa sola”, e il

verbo essere, esmen, “siamo”, su cui si è appoggiata la riflessione trinitaria e cristologica per

definire l’unità-distinzione fra Padre e Figlio, e quindi la comunione fra le Persone divine. Ma

questa unità-distinzione è inaccettabile per la mente semitica, che, come si è detto più volte, vuole

che il Nascosto e il Manifesto comunichino in modo sottile e “carezzevole”, non che si “tocchino”

prendendo la forma di una creatura di Dio.