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Desidero ricordare tutti coloro che mi hanno aiutato nella stesura della tesi con

suggerimenti, critiche ed osservazioni: a loro va la mia gratitudine, anche se a

me spetta la responsabilità per ogni errore contenuto in questa tesi.

Ringrazio prima di tutto la Professoressa Angela Besana, Relatrice; senza il Suo

supporto, la grande disponibilità e la cortesia dimostratemi questa tesi non

esisterebbe.

Proseguo con il Dottore in economia Amir S. Sadeghi Emamgholi, assistente

ricercatore presso il South Asia Region Office di The World Bank (Washington,

DC), per essersi più volte dimostrato disponibile nel facilitare le mie ricerche.

Un sentito ringraziamento ai miei genitori e a mia sorella, che, con il loro solido

sostegno morale ed economico, mi hanno permesso di raggiungere questo

traguardo.

Un ultimo ringraziamento ai miei amici, colleghi e alla mia fidanzata che mi

hanno incoraggiato o che hanno speso parte del proprio tempo a leggere e

discutere con me le bozze del lavoro.

A Voi è dedicata questa tesi.

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Indice

Introduzione

Capitolo 1: I mercati emergenti

1.1 Definizione e significato di mercato emergente

1.2 Il caso del sud-est asiatico

1.2.3 ASEAN: dalla crisi del 1997 all'ascesa degli anni recenti

1.3 Le politiche monetarie della FED: una minaccia per i mercati

emergenti

1.4 Dai BRICs ai MINT

Capitolo 2: La gestione d'impresa nel sud-est asiatico

2.1 Analisi di mercato

2.2 FDI, Foreign Direct Investment

2.3 Sostenibilità economica e finanziare per un'impresa

2.3.1 Fattori di successo

2.3.2 Livello di tassazione per le aziende

2.4 L'Italia investe in Vietnam; il caso Piaggio

Capitolo 3: Prospettive future: Nuove opportunità o minacce celate?

3.1 Fattori e tassi di crescita dei paesi emergenti

3.1.1 Fattori di crescita

3.1.2 Tassi di crescita

3.2 I punti di fragilità delle economie emergenti

3.3 Le minacce e le opportunità, per l'Europa e per il Made in Italy

derivanti dall'avvio di nuove start-up

3.3.1 Italia e start up

Conclusione

Bibliografia e sitografia

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Introduzione

Lo scopo della presente tesi è quello di dare al lettore una panoramica dei mercati

emergenti localizzati nella Regione del sud-est asiatico. In ragione di ciò, dopo

una breve definizione di “Mercato Emergente”, si indagheranno le opportunità,

ma anche le minacce per investitori ed imprese celate dietro i sostenuti tassi di

crescita registrati.

Nel 2001, l'economista Jim O'Neill1 ha coniato il termine BRICs, utilizzando

l'acronimo per indicare Brasile, Russia, India e Cina come le Nazioni che

avrebbero guidato la crescita globale del XXI secolo. Riponendo la fiducia nel

futuro di queste Nazioni e in un'economia sempre più attiva, i Paesi

industrializzati hanno iniziato a comprare un numero crescente di assets e a

intrattenere solide relazioni finanziarie con i sopracitati mercati. Tuttavia, in

seguito allo shock della crisi economica nel 2008, il sistema capitalistico

occidentale, per anni considerato il propulsore dell'economia moderna, ha

iniziato a sgretolarsi, trascinando con se le certezze degli investitori. Non solo; il

processo di globalizzazione, che ha portato ad un mondo sempre più connesso,

dove le transazioni finanziarie avvengono con intervalli brevissimi, ha implicato

una stretta interdipendenza tra le Nazioni, intaccando anche quei prosperi tassi di

crescita dei Paesi emergenti.

L'ipotesi che viene presentata in questa trattazione è quella di ritenere le Nazioni

del sud-est asiatico come un “post-BRICs”, ricche di punti di forza, testimoniati

da un crescente flusso di FDI stranieri, ma anche affette da minacce come

corruzione e complicata burocrazia. Come si avrà più volte modo di leggere e

assumere dai grafici nel corso dell'argomentazione, le Nazioni costituenti

l'ASEAN, Association of Southeast Asian Nations, sono tutte caratterizzate da

tassi di crescita, misurati come prodotto interno lordo percentuale, positivi e fino

al 5% superiori rispetto alle economie leader del XX secolo, Stati Uniti ed

1 Jim O'Neill, Global Economics Paper No: 66, Edited by Goldman Sachs, 2001, New York, www.goldmansachs.com [Ultimo accesso 2 settembre 2014];

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Europa. Tuttavia, come sosteneva Robert Kennedy2, Senatore degli Stati Uniti

d'America, la ricchezza di una nazione non si può misurare solamente attraverso

il PIL, per questo motivo verranno considerati altri fattori, come la presenza di

infrastrutture, la stabilità politica, e il livello di educazione.

La scelta di un tale argomento deriva dalla consapevolezza che, come sostengono

le principali testate economiche, tra cui The Economist3 e The Wall Street

Journal4, le Nazioni del sud-est asiatico, uscite rinforzate dalla crisi del 1997,

saranno per i prossimi 30 anni le principali piazze di scambio internazionali,

capaci di risollevare la pigra economia globale.

Inoltre, secondo uno dei guru di Wall Street, Warren Buffett5, possedere

un'elevata consapevolezza della direzione intrapresa dall'economia, può fare la

differenza tra l'avere un return on investment elevato oppure mediocre. Per

questo motivo, mi servirò, nel corso della tesi, di strumenti economici e

finanziari in grado di fornire dettagliate descrizioni su quali possano essere i

Paesi in via di sviluppo più propensi a fornire ottime chance di guadagno e quali

invece hanno ancora bisogno di solide certezze.

Se i primi due capitoli della tesi forniranno una panoramica delle condizioni

economiche delle Nazioni dell'ASEAN, concluderò l'elaborato procedendo ad

elencare quali possano essere le opportunità non solo per le multinazionali, ma

anche per quelle medie e grandi aziende o start up che si sforzano di esportare il

brand Made in Italy verso nuovi orizzonti. Nei prossimi trent'anni, 600 milioni di

persone, con un reddito medio di 35 mila dollari annui si affacceranno sui

mercati del sud-est asiatico; le opportunità di sviluppo per le imprese sono

solamente iniziate.

2 Robert Kennedy, Senatore degli Stati Uniti d'America, Il PIL e la felicità, discorso del 18 marzo 1968, Kansas University;

3 The Economist Insights, South-East Asia Summit 2014, 27 agosto 2014, www.economistinsights.com [Ultimo accesso 1 settembre 2014];

4 The Wall Street Journal, ASEAN: An Emerging Global Player, agosto 2014, in collaborazione con Asia Business Council, www.asiabusinesscouncil.org [Ultimo accesso 3 settembre 2014];

5 Warren Buffett, The Essays of Warren Buffett: Lessons for Investors and Managers, Edited by Lawrence A. Cunningha, IV edizione, Singapore, 2013, pp.35-37.

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Capitolo 1

I Mercati Emergenti

Il presente capitolo si pone l'obiettivo di dare una definizione di mercato

emergente, considerando l'attuale clima economico e lo spostamento degli

investimenti verso i Paesi in via di sviluppo, focalizzando particolarmente

l'attenzione sui mercati con un forte tasso di crescita nel sud est asiatico.

L'evoluzione dell'economia globale, con la rimozione delle barriere transazionali

e degli intermediari finanziari, ha permesso a sempre più nazioni di entrare a far

parte di quella che viene definita oggi la global supply chain. L'avvento del web

ha permesso di creare connessioni solide, anche tra Paesi situati a grandi distanze

l'uno dagli altri. In questo modo il network finanziario globale, fino ai primi anni

di questo secolo, ha svolto una funzione di primaria importanza nel creare un

mercato mondiale di risorse tangibili ed intangibili, le quali hanno sostenuto

considerevolmente lo sviluppo economico planetario. La crisi economica del

2008, che ha preso rapidamente avvio in tutto il mondo in seguito ad una crisi del

mercato immobiliare statunitense, ha causato un aumento dell'attrattività e del

potenziale redditizio delle nuove economie, considerate ad alto fattore di crescita.

Di conseguenza, molte multinazionali e molti investitori occidentali hanno

osservato con curiosità il continuo e stabile evolversi dei mercati emergenti negli

ultimi anni. Il flusso di capitali dai Paesi occidentali a quelli soprattutto orientali

ha dato un grande impulso ai nuovi mercati, che per i prossimi decenni vengono

considerati da esperti economici come le locomotive che traineranno l'economia

globale. In particolare il sud est asiatico sta diventato una delle destinazioni

principali di investimenti e filiali occidentali. Avendo subito in maniera minore il

contraccolpo della crisi, alcuni Paesi dell'ASEAN sono considerati il polo

mondiale degli scambi finanziari. Grazie anche ad una situazione politica stabile,

la fiducia degli investitori è destinata ad aumentare. Tuttavia, alcuni analisti

ritengono che l'euforia dei mercati emergenti sia solo una bolla, pronta ad

esplodere e a causare una nuova crisi, ben più devastante di quella in atto. A

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testimonianza di questa tesi sono i recenti cali di redditività dei Paesi emergenti e

un calo nel flusso di investimenti verso queste nazioni. Eventi negativi causati

anche dalle politiche di tapering recentemente attuate dalla FED per incentivare

la crescita interna degli Stati Uniti. Di conseguenza la fiducia verso i nuovi

mercati diminuisce, portando ad un flusso di capitali sempre minore; nonostante

ciò, Paesi come Cina, India ed Indonesia mantengono un PIL superiore e in

costante crescita rispetto ai Paesi industrializzati. Il prodotto interno lordo,

secondo recenti stime è destinato a espandersi da un 6.6% del 2013 ad un 6.7%

nel 2014, contro le previsioni più pessimistiche del 2012 del 6.1% (Dati Asian

Development Outlook (ADO), 2013).

1.1 Definizione e significato di mercato emergente

Durante gli anni settanta, il termine “Paesi in via di sviluppo” veniva utilizzato

per designare quei mercati meno sviluppati rispetto agli Stati Uniti, all'Europa e

al Giappone. Tuttavia questa definizione venne presto sostituita da “mercati

emergenti”, considerata più ottimistica e positiva. Le economie di certi Paesi,

furono classificate per la prima volta come “emergenti” nel 1986 dalla Società

Finanziaria Internazionale (World Bank International Financial Investments IFC)

che, fondata nel 1956 con lo scopo di promuovere lo sviluppo dell'industria nei

Paesi e nelle economie emergenti, stilò un rapporto dei mercati con i più elevati

tassi di crescita e di redditività. Una definizione universale di mercato emergente

è quella che tiene in considerazione due aspetti fondamentali; l'aumento di

mercati con accesso libero e la privatizzazione di imprese governative. Il primo

requisito permette alle imprese o al flusso di capitali da parte di investitori di

poter entrare liberamente in un mercato, grazie all'assenza di barriere come dazi o

tasse doganali. L'assenza di discriminazione rispetto ai possibili imprenditori,

garantisce la possibilità di sviluppare la propria idea di business in libertà. Il

secondo requisito, permette a cittadini privati di entrare in possesso di aziende o

imprese precedentemente controllate dallo stato. La privatizzazione consente la

cessazione del monopolio, in favore di un libero mercato concorrenziale e

l'eliminazione di vincoli e limiti imposti precedentemente dallo stato nei

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confronti delle imprese private. Altre condizioni sono relative ai processi

legislativi, ai sistemi giudiziari, all'amministrazione della res publica, alle

politiche tassative e ai di debiti. “...alle condizioni precedenti si aggiungono la

sostenibilità dei flussi di investimento e la direzione dello sviluppo economico

locale” (Dr. J.M.Mobius, 1996). “I mercati emergenti sono quei Paesi all'interno

dei quali la cura per la gestione della politica equivale alla cura per la gestione

dell'economia.” (Braker, Bremmer, Gordon, 2008). Nonostante il termine fosse

stato coniato negli anni ottanta, è entrato nel linguaggio d'uso quotidiano

solamente negli anni novanta. Di recente esso descrive quei mercati con un

notevole tasso di crescita, caratterizzati da un elevata profittabilità e da un

altrettanto elevato fattore di rischio, che si situano a cavallo tra i Paesi in via di

sviluppo e tra i Paesi sviluppati.

“...sono quelle regioni del mondo che sono sempre più soggette ad un

processo di informatizzazione, nonostante siano limitatamente o

parzialmente industrializzati.”

(Center for Knowledge Societies, 2008).

Alcuni esempi sono: Indonesia, Iran, Brasile, Argentina, Sud Africa, Russia. Nel

corso di questa tesi, mi focalizzerò sempre di più sui Paesi del sud-est asiatico.

La definizione di mercato emergente è diventata molto popolare tra i media, tra le

politiche estere, tra i dibattiti finanziari e tra le società di rating. Per questo il

termine racchiude una definizione molto ampia. “I mercati emergenti sono quelle

nazioni che stanno attraversando una forte fase di sviluppo in confronto alle

nazioni industrializzate.” (Guy Poupet, 2004). Definire un mercato emergente

significa indagare gli aspetti economici di un paese per poi confrontarli con i

risultati dei Paesi sviluppati.

“...un mercato emergente si presenta come un'economia in costante

crescita e caratterizzata da un forte impegno istituzionale in termini di

infrastrutture, legislazione e diritti al lavoro.” (Meyer e Tran, 2006)

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Di particolare rilevanza è l'impegno istituzionale. Lo stato deve garantire delle

leggi che siano in grado di favorire l'accesso e il libero sviluppo finanziario

all'interno del paese preso in esame. Se il governo, democraticamente eletto, è in

grado di garantire i presupposti e le basi per una crescita sostenibile, allora

aumenterà la fiducia in quel paese e quindi la probabilità che nuovi investitori

tenteranno di accedervi. Al contrario se un governo è instabile e incapace di

varare riforme per salvaguardare l'economie e gli investimenti stranieri, allora la

fiducia verso quel paese diminuirà, allontanando i capitali. Nel processo di

crescita di un mercato emergente, non si può non considerare il ruolo che le

nazioni leader devono avere nel salvaguardare il nuovo habitat. La maggior parte

degli investimenti, misurati attraverso l'FDI (Foreign Direct Investment)

provengono da investitori e multinazionali occidentali. La crisi finanziaria

scoppiata nel 2008 ha avuto effetti negativi sul flusso di capitali provenienti

dall'occidente. Le conseguenze più devastanti si sono palesate, in particolar

modo, in quei Paesi che intrattenevano delle strette relazioni economiche con le

nazioni industrializzate. Ad esempio, la Cina ha subito un calo di produttività in

alcuni settori a causa di numerose imprese americane, che in seguito della crisi

furono costrette a chiudere non solo le filiali nel paese straniero, ma a fermare la

produzione del prodotto. Nel contempo, se da un lato Stati Uniti e Europa hanno

subito un forte rallentamento nella crescita e nella disponibilità di capitale, altre

nazioni come Cina, sud Africa e America Latina, spinti da un costante sviluppo,

hanno iniziato ad investire nel sud est asiatico. In questo modo si è creato un

flusso di investimenti interno ai Paesi emergenti, sostenuto da un'economia in

crescita. Il nuovo triangolo economico permette ai mercati emergenti di

autofinanziarsi e di prendere il posto che prima avevano i Paesi industrializzati.

Un altro aspetto molto importante che i Paesi occidentali non dovrebbero

sottovalutare, è la salvaguardia dei mercati in via di sviluppo. Oggi una delle più

diffuse tendenze è quella di sovraccaricare di merci i mercati globali e soprattutto

quelli in crescita, creando stagnazione e costringendo le aziende a concorrere sui

prezzi. Quando un mercato è saturo e le aziende si fanno concorrenza sui prezzi,

irrimediabilmente molte di queste saranno costrette ad uscire dal mercato, a

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causa dei ricavi insufficienti a coprire gli elevati costi sostenuti per concorrere.

I criteri che possono essere utilizzati per definire i mercati emergenti sono i

seguenti:

TABELLA 1: CRITERI UTILIZZATI PER DEFINIRE UN MERCATO

EMERGENTE

Categoria Criterio

Povertà • Basso/Medio livello di entrate

statali;

• Basso/Medio standard di vita;

• Bassa o non aggiornata

tecnologia. industriale

Mercato di capitali • Bassa capitalizzazione del

mercato paragonato al PIL

statale;

• Basso turnover aziendale;

• Elevati costi e difficoltà per

l'accesso ai capitali;

• Basso raiting finanziario.

Crescita potenziale • Mercato liberalizzato;

• Privatizzazioni governative;

• Apertura verso investimenti

stranieri;

• Recente crescita economica ed

industriale.Fonte: Khanna e Palepu (2010)

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I mercati emergenti hanno un grande ruolo nello sviluppo della crescita dei

consumi di prodotti, servizi e risorse al mondo. Questo è un aspetto importante

poiché diventano protagonisti e motori dello sviluppo economico globale. Nel

corso degli anni sono stati creati nuovi termini per definire i mercati emergenti,

acronimi che rappresentano i Paesi con un elevato tasso di crescita. La nozione

più utilizzata, coniata nel 2001, è quella di BRIC, Brasile, Russia, India e Cina;

considerati da qualche decennio nazioni emergenti a livello globale, per il fatto

che raccolgono circa il 50% della popolazione mondiale e si affacciano sul

mercato richiedendo sempre un maggiore numero di merci di consumo. In

seguito alla crisi del 2008, si sono scoperti nuovi mercati nei quali investire;

Paesi con grandi risorse economiche e lavorative sono stati sempre più attrattivi

per le multinazionali occidentali, in cerca di territori dove espandersi per

aumentare i propri profitti. Ai BRIC si sono aggiunti i BRICET (BRIC più

Europa dell'est e Turchia), i BRICS (BRIC più Sud Africa), BRICK (BRIC più

Corea). Queste nazioni non hanno obiettivi in comune, ma stanno tutte

concorrendo ad avere un ruolo dominante nella crescita economica globale.

Gli economisti, per valutare e riconoscere quali possano essere i mercati

emergenti, fanno ricorso ad un'analisi dell'evoluzione del PIL (Prodotto Interno

Lordo) di diversi Paesi.

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TABELLA 2: EVOLUZIONE DEL PRODOTTO INTERNO LORDO DAL 2000

AL 2010

Nazione PIL 2000 PIL 2010 % PIL 2000 % PIL 2010 Crescita PIL

2000-2010

Cina 1,2 5,93 3,72% 9,39% 5,67%

Brasile 0,64 2,09 2,00% 3,31% 1,31%

India 0,46 1,73 1,43% 2,74% 1,31%

Russia 0,26 1,48 0,81% 2,34% 1,54%

BRIC 2,56 11,22 7,95% 17,78% 9,83%

USA 9,9 14,59 30,70% 23,11% -7,60%

Germania 1,89 3,28 5,85% 5,20% -0,65%

Italia 1,1 2,05 3,40% 3,25% 0,15%

Economie

Sviluppato

20,35 30,19 63,13% 47,82% -15,3%

Fonte: Dati dalla Banca Mondiale (2012)

Come è possibile notare, mentre le economie sviluppate hanno visto una

decrescita del PIL di circa il 15%, i BRIC sono cresciuti del 9.83% nel periodo

2000-2010. Inoltre, se da un lato i Paesi sviluppati come Germania e Stati Uniti

hanno risentito della crisi in maniera più forte, dall'altro lato Cina e Russia hanno

ottenuto dei risultati di modesta crescita. Secondo gli economisti Pacek (2007),

O'Neill (2010) e Agtmael (2007), il trend positivo delle economie emergenti si

manterrà al di sopra delle economie sviluppate per i prossimi trenta anni.

Quest'ultimo aspetto enfatizza il potenziale di investimento che i mercati

emergenti possiedono. La globalizzazione porta sempre più multinazionali a

vendere prodotti e servizi ai nuovi clienti che si affacciano sul mercato. Di

conseguenza molte aziende devono affrontare le differenze di business che

esistono tra i Paesi sviluppati e quelli emergenti, creando nuove strategie di

successo e mantenendo un'elevata flessibilità.

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1.2 Il caso del sud est asiatico

Le nazioni del sud est asiatico si distinguono dagli altri Paesi emergenti per un

constante aumento del flusso degli investimenti provenienti dai Paesi occidentali.

Gli analisti ritengono che la principale ragione sia dovuta, prima di tutto, a

specifiche restrizioni nelle politiche commerciali verso determinati Paesi e, in

secondo luogo, a salde regolamentazioni sulle politiche finanziarie, sia interne

che esterne. Le restrizioni commerciali garantiscono una minore concorrenza tra

le imprese nel territorio e una maggiore possibilità di successo. In questa tesi i

Paesi sud-est asiatici che saranno presi in esame sono Singapore, Malesia,

Indonesia, Vietnam, Corea e Tailandia.

Negli ultimi venti anni, l'influenza dell'Asia nell'economia globale è aumentata

considerevolmente. In seguito alla crisi finanziaria mondiale, la crescita

economica dei Paesi asiatici ha seguito un trend totalmente opposto rispetto le

nazioni più industrializzate; infatti, lo sviluppo dell'oriente è rimasto a livelli pre-

crisi e in alcune circostanze, come per la regione del sud-est asiatico, sono stati

raggiunti livelli di maggiore sviluppo economico in grado di portare queste

nazioni a guidare l'intera economia planetaria. La recente crescita è stata

rinforzata da una costante domanda interna che riduce l'impatto negativo della

crisi. Ma, mentre le politiche monetarie e fiscali sono stabili, alcune

preoccupazioni sorgono per quanto riguarda il livello dell'inflazione, connesso ad

un aumento dei prezzi del cibo e delle risorse energetiche. Per sostenere la

crescita, nel futuro devono essere applicati alcuni accorgimenti. Prima di tutto,

dopo aver creato dei programmi di regolamentazione macroeconomica, si

dovrebbero rinforzare le attività strutturali della regione; si intende estendere le

attività economiche inter-regionali ed intra-regionali tra i Paesi del sud est

asiatico e creare in questo modo delle relazioni più salde. A livello

macroeconomico, si dovrebbero concordare le decisioni di politiche monetarie e

finanziarie, oltre che regolare il flusso di investimenti in entrata in modo equo tra

le diverse nazioni.

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1.2.3 ASEAN: dalla crisi del 1997 all'ascesa degli anni recenti

L'associazione delle nazioni del sud-est asiatico è un'organizzazione politica ed

economica costituita da dieci nazioni situate nell'estremo oriente. Essa fu fondata

l'8 agosto 1967 da Indonesia, Malesia, Singapore, Filippine e Tailandia, con lo

scopo principale di promuovere la cooperazione e l'assistenza reciproca fra gli

stati membri. Negli anni successivi vennero inclusi Paesi come il Brunei (1984),

Vietnam (1995), Laos e Myanmar (1997) e Cambogia (1999), creando quelli che

sono oggi gli stati membri dell'ASEAN. Gli obiettivi di questa organizzazione

sono numerosi e tutti rivolti positivamente verso una maggiore stabilità. Primo

fra tutti, accelerare la crescita economica, il progresso sociale e culturale nelle

regioni, creando uno spirito di uguaglianza e di collaborazione. Promuovere la

pace e la stabilità tra le nazioni membri. Creare collaborazioni e reciproca

assistenza su materie economiche di comune interesse. Provvedere ad una rete di

assistenza sanitaria, professionale, amministrativa, tecnica ed educativa.

Collaborare in modo efficace per un migliore uso delle risorse agricole e

industriali. Infine, mantenere delle salde e benefiche relazioni di cooperazione

con le organizzazioni internazionali di altri Paesi, creando un mercato equo,

trasparente e in continua espansione. Il più importante risultato raggiunto

dall'ASEAN è stato quello di creare una forte identità comune al suo interno, che

anche oggi, ne garantisce l'esistenza e la prosperità.

Grafico: 1

Con queste premesse le nazione

dell'ASEAN si affacciarono sul

mercato globale, ottenendo

risultati economici superiori a

qualsiasi altra economia

mondiale. Per tre decenni, fino

al 1997, il sud-est asiatico aveva

mantenuto dei tassi di crescita

elevati, abbattendo la povertà e

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alzando il reddito medio pro capite. Il “miracolo asiatico” era garantito da

politiche governative orientate al risparmio e da un'attenta ridistribuzione degli

investimenti su tutto il territorio. L' espansione economica era sostenuta dalla

facilità con cui il credito bancario veniva erogato e da bassi tassi di interesse, che

incoraggiavano gli investimenti in attività produttive. Tuttavia il settore

finanziario era deregolamentato e fragile. Senza restrizioni le banche

incoraggiavano investimenti interni ed esterni, sicuri che in caso di insolvenza

sarebbe intervenuto lo stato. Le imprese, seguendo questa logica, apparivano

eccessivamente indebitate ed esposte al rischio di volatilità nel breve termine.

Una qualsiasi variazione nel mercato regionale, avrebbe provocato una reazione a

catena di larga scala, colpendo tutti i settori produttivi.

Sul finire degli anni '90, il mercato dei capitali nella regione era piuttosto

sottosviluppato e il flusso di denaro proveniente dai Paesi stranieri veniva gestito

da intermediari finanziari e banche che avevano il controllo sui tassi di cambio

delle monete locali. Tuttavia le politiche di gestione finanziaria tenevano poco

conto delle valute di Paesi stranieri; in molti casi sia i prestatori di denaro che i

creditori non badavano a delle possibili fluttuazioni dei tassi di interesse. Queste

furono le premesse con le quali i Paesi dell'ASEAN affrontarono la crisi del

1997.

Principale fattore scatenante fu la svalutazione della moneta cinese Remnimbi e

dello Yen giapponese, che ebbe delle conseguenze gravi sui tassi di interesse. In

Tailandia, il paese coinvolto più duramente, oltre ad avere subito un calo dei

prezzi di vendita e quindi una diminuzione dei ricavi, fu attraversata da severe

speculazioni a livello finanziario, che portarono al collasso la moneta Bath nel

luglio del 1997. In un solo giorno, la moneta locale crollò del 13,5%, per

chiudere il mese giù del 23%.

L'economia tailandese fu attraversata da un elevato calo della competitività.

Molti investitori iniziarono a diminuire i flussi di denaro, sinonimo di una

riduzione della fiducia nel paese. Nei mesi seguenti ulteriori svalutazioni

monetarie e una caduta dei titoli azionari si espansero in un primo momento nelle

nazioni dell'ASEAN e successivamente in tutto il sud est asiatico. L'anno

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successivo al collasso del Bath, le monete correnti dei diversi stati persero dal

35% al'83% del valore iniziale contro il dollaro statunitense, mentre i titoli in

borsa cedettero punti da un minimo del 40% al 60% del valore iniziale. I flussi di

crediti che venivano erogati dalle banche rallentarono, mentre i tassi di interesse

sui prestiti aumentarono considerevolmente. Il panico che si era diffuso tra i

depositari di titoli bancari, sfociò in una crisi di liquidità per le banche, che non

avendo abbastanza cash per soddisfare la domanda dei clienti furono costrette a

chiudere. Quelle aziende che rimanevano scoperte nel breve termine, a causa di

leverage elevati, già prima della crisi, si ritrovarono senza liquidità per far fronte

ai debiti e furono costrette a dichiarare bancarotta.

“...le istituzioni finanziarie del sud est asiatico avevano accumulato

un'eccessiva quantità di obbligazioni, che però non erano state trasformate

in moneta liquida, creando un elevata vulnerabilità nel breve termine. Un

interruzione nel flusso internazionale di denaro, si dimostrava in questo

modo decisiva tanto che lo stato non poteva intervenire con politiche di

risanamento.” (Radelet e Sachs, 1998)

Il Fondo Monetario Internazionale (FMI) intervenne con un prestito per la

Tailandia di oltre 20 miliardi di dollari, nel tentativo di risanare il deficit

nazionale e ripristinare la fiducia nella moneta. Tuttavia i fondi versati erano visti

con sospetto e come un tentativo per aiutare le banche occidentali, che avevano

prestato denaro alle imprese locali, a risollevarsi dalla crisi. Una tesi ampiamente

dibattuta dall'economista americano Joseph Stiglitz.

“...L'FMI ha inutilmente esposto economie con alti tassi di risparmio alla

volatilità dei capitali esteri, nonché ha versato ingenti somme nelle casse

dei Paesi in difficoltà con l'unico scopo di rimborsare le banche creditrici

occidentali e causando ulteriori danni alle economie già in difficoltà.”

(Joseph Stiglitz, Verso un nuovo paradigma dell'economia monetaria,

2003, pp.315-316)

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Al di la di queste indiscrezioni, il tentativo dell'FMI fu smorzato da continue

speculazioni e fughe di capitali. Oltre a misure finanziarie il governo tailandese

approvò misure strutturali come un aumento dei tassi di interesse, una riduzione

della spesa pubblica ed un aumento della pressione fiscale. Solamente nel 2001 la

Tailandia manifestò i primi segnali di ripresa e nel 2008 il Bath veniva scambiato

con un rapporto di 31 a 1 con il Dollaro.

TABELLA 3: PIL DEL SUD EST ASIATICO

Espresso in percentuale di crescita annua

1987-1996 1997-1999 2000-2006

Hong Kong 5,2 -0,8 4,7

Indonesia 7,1 -6,4 4,9

Corea 8,1 1 4,6

Malesia 9,5 -0,8 4,7

Filippine 3,6 1,4 4,6

Singapore 9,2 2,8 4,6

Taiwan 7,2 5,1 3,3

Tailandia 9,5 -3,3 5,1

Sud est asiatico 7,6 0 4,5Fonte: IMF, CEIC, RBA

Le prospettive di crescita, negli anni immediatamente successivi alla crisi,

subirono forti rallentamenti. I costi per questa crisi furono molto elevati e le

speranze che venivano riposte nel sud est asiatico, lasciarono il posto a molte

incertezze. La dimensione finanziaria della crisi non riguardò solamente la

Tailandia, ma presto si diffuse in tutta la regione asiatica con pesanti

ripercussioni in termini di produttività e competitività. Escludendo Cina e

Giappone, il PIL calò di circa il 9% nella regione, in Indonesia del 15%. Secondo

le stime i prestiti insolventi (Non Performing Loans NPLs) in Indonesia ed in

Tailandia avevano raggiunto la metà dei prestiti sottoscritti. In seguito alla crisi,

molti economisti e analisti finanziari analizzarono la situazione, cercando di

scoprire quali furono le specifiche cause che portarono ad una delle più onerose

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crisi finanziarie.

Un primo punto di debolezza delle nazioni asiatiche, fu quello di non avere delle

infrastrutture finanziarie abbastanza solide da reggere a delle variazioni del flusso

di capitali internazionali e a variazioni nelle politiche monetarie straniere. In

questi casi di fondamentale importanza è la flessibilità degli istituti di credito, in

modo tale da non mettere eccessivamente sotto intenso sforzo le risorse

disponibili, causando un'incontrollata fluttuazione dei tassi di interesse. Un

secondo punto di debolezza fu la scarsa capacità dei mercati asiatici di gestire la

crisi. I piani dei governi in termini di risoluzione delle emergenze tenevano poco

conto delle possibili esposizioni a fluttuazioni dei valori monetari.

TABELLA 4: PIL PRO CAPITE DEL SUD EST ASIATICO

Cambiamenti

percentuali in seguito

alla crisi del 1997

Anni necessari per la

ripresa

Hong Kong -6.4% 3

Indonesia -15,00% 7

Corea -7.5% 2

Malesia -9.5% 6

Filippine -2.7% 3

Singapore -4.6% 2

Tailandia -11.6% 5

Sud est asiatico -8.8% 3Fonte: IMF, CEIC, Thomson Financial, ABS, RBA

In seguito alla crisi, le nazioni del sud est asiatico attuarono una serie di politiche

di prevenzione per evitare possibili crisi future. Prima di tutto, i Paesi cercarono

di auto-assicurarsi, creando una riserva monetaria in grado di far fronte a nuove

speculazioni. Nel caso in cui si fosse verificata una nuova crisi di liquidità, le

riserve monetarie sarebbero state in grado di soddisfare la domanda delle banche.

In secondo luogo furono fatti sforzi per cercare di aumentare la stabilità delle

istituzioni finanziarie, con piani di gestione delle crisi e regolamentazioni per un

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intervento rapido e incisivo. Venne ridotta a burocrazia, attraverso la quale si

doveva passare per varare delle azioni immediate. Enfasi venne posta anche

sull'operato delle banche; furono assunti molti supervisori, che avevano il

compito di controllare le transazioni dirette soprattutto verso il settore privato. I

supervisori avevano il compito di fare ricerche sui sottoscriventi il prestito e

considerare le variabili di ricavo o di insolvenza.

La crisi economica asiatica fu molto costosa e portò a un nuovo modo di

concepire la regione, sia in Asia che in tutto il mondo. Le politiche appropriate

per gestire la crisi e il ruolo di enti nazionali e internazionali garantirono nel

medio periodo una ripresa costante. Se nei primi anni questa ripresa era garantita

da nuove regolamentazioni e spirito imprenditoriale del settore privato, negli anni

successivi si dimostrò una ripresa fondata sul flusso degli investimenti

proveniente dai Paesi più sviluppati. Questi ultimi, infatti, incoraggiati dalla

velocità delle riforme e dalla stabilità politica avevano ritrovato la fiducia per

investire in un settore industriale ed informatico in costante ascesa.

“Riteniamo che il futuro, sia da un punto di vista demografico che di risorse

tangibili e intangibili, appartenga all'ASEAN.” (Trinh Nguyen, 2013).

Secondo la Banca dello sviluppo asiatico, gran parte delle economie orientali

stanno ottenendo ottimi risultati, sia in termini di aumento della domanda di beni

interni, sia in termini di esportazioni. A testimonianza del fatto, il PIL dell'anno

2013 si è attestato attorno ad una crescita del 6.6%, rispetto al 6% dell'anno

precedente (Fonte dati, Banca Asiatica). In aggiunta, contemporaneamente alla

ripresa di alcune nazioni industrializzate dalla crisi mondiale, le nazioni del sud

est asiatico continuano ad attivare politiche volte a creare una maggiore

cooperazione e coordinazione tra le nazioni dell'ASEAN. Gli esperti di politiche

finanziarie cercano di creare regolamentazioni di breve termine che non abbiano

conseguenze su quelle di lungo termine, in questo modo l'obiettivo è quello di

creare più stabilità, sostenibilità e una maggiore integrazione nazionale delle

economie. Nonostante un cambio di direzione delle esportazioni asiatiche, dovute

ad una diminuzione della domanda soprattutto estera, nel 2011 gli scambi

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interregionali si sono mantenuti al 56%. Questo fatto dimostra come le nazioni

del sud est asiatico si stiano trasformando in uno stato autosufficiente, capace di

autoregolarsi, di far circolare i capitali e di soddisfare la domanda interna con

l'offerta delle imprese locali. L'ASEAN costituisce circa il 15% dell'output

asiatico e circa il 25% del mercato orientale regionale. L'espansione dei

collegamenti tra i diversi mercati riflette l'importanza delle economie sud est

asiatiche nella scena globale.

TABELLA 5: CRESCITA ECONOMICA DEL SUD EST ASIATICO 2008-2014

2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014*

Indonesia 6 4,6 6,2 6,5 6,2 6,4 6,6

Malesia 4,8 -1,5 7,2 5,1 5,6 5,3 5,5

Singapore 1,7 -0,8 14,8 5,2 1,3 2,6 3,7

Laos 7,2 7,3 7,5 7,8 7,9 7,7 7,7

Vietnam 6,3 5,3 6,8 5,9 5 5,2 5,6

Cambogia 6,7 0,1 6 7,1 7,2 7,2 7,2

Tailandia 2,5 -2,3 7,8 0,1 6,4 4,9 5

Sud Est

Asia

4,4 1,4 7,9 4,7 5,5 5,4 5,7

*Previsione secondo la Banca dello sviluppo asiatico

Fonte: outlook ministero dello sviluppo asiatico, 22 aprile 2013

Dalla tabella riportata è comprensibile notare come le regioni meno soggette a

capitali e investimenti provenienti da Paesi industrializzati abbiano sentito in

modo minore gli effetti della crisi del 2008. Ad esempio Laos e Cambogia hanno

mantenuto dei tassi di crescita elevati per tutto l'arco temporale analizzato, infatti

l'FDI da parte dei mercati occidentali si è mantenuto basso fino ai primi segnali

di ripresa odierni. In questo modo le due regioni non hanno risentito del taglio

dei capitali operato dagli investitori in seguito ala crisi finanziaria.

Grande importanza, nella recente crescita dei Paesi sud est asiatici, è stata data

dagli accordi per un mercato libero (FTAs, Free Trade Agreements), che si

fondano su due principi; consolidamento, per creare un mercato privo di

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restrizioni all'interno della regione e multi-lateralizzazione, per garantire

preferenze non discriminatorie da parte dei Paesi non membri e per eliminare

eccessive discrepanze tra le nazioni stipulanti l'accordo. La linea di principio che

si vuole seguire è quella di intensificare l'integrazione all'interno dell'ASEAN.

L'obiettivo per il 2015 è quello di creare un ASEAN economic community (AEC)

che punti a promuovere un flusso di prodotti e servizi a bassa tassazione,

investimenti e un istruzione professionale per la forza lavoro. Realizzare una tale

integrazione economica potenzierebbe i ricavi e il benessere delle regioni.

Nazione promotrice di tale integrazione è la Tailandia, che ha vissuto dal 2011 al

2012 una crescita del PIL dallo 0.1% al 6.4%; oggi è considerata, assieme alla

Malesia, una nazione a medio-alto reddito.

1.3 Le politiche monetarie della FED: una minaccia per i mercati emergenti

La Banca Centrale degli Stati Uniti, in risposta alla crisi del 2008 aveva attivato

una serie di politiche monetarie convenzionali e non, con lo scopo di sostenere

un'elevata liquidità nel sistema finanziario e spingere, al più presto possibile i

mercati mondiali fuori dalla recessione. Il quantitative easing (QE) ha avuto

l'obiettivo di contenere il livello dei tassi governativi a lungo termine. Attraverso

operazioni di mercato aperto, come l'acquisto di attività finanziarie, tra cui molti

titoli tossici derivanti dalla bolla speculativa sui sub-prime, la banca centrale

rilasciò gradualmente sul mercato elevati quantitativi di liquidità cercando di

arginare le passività di aziende e istituti bancari. Da marzo 2009, attraverso

diverse operazioni di QE, vennero immessi nel circuito finanziario circa 2000

miliardi di dollari, derivanti dall'acquisto di titoli di stato. Nonostante alcuni

segnali di ripresa dell'economia americana nel 2010, l'allora presidente Ben

Bernanke decise di mantenere una linea sicura per garantire solide basi alla tanto

attesa recovery. L'ultima operazione, denominata QE3 avvenne nel dicembre

2012, quando il Federal Open Market Committee (FOMC) annunciò degli

acquisti mensili di 85 milioni di dollari ogni mese, per garantire una sufficiente

liquidità e diminuire il rischio di default. Un rischio di una tale politica espansiva

è quello di un deprezzamento del tasso di scambio della moneta locale, in questo

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caso il dollaro. Si calcola che solamente dopo l'annuncio del CEO della FED, di

attivare un ciclo di QE, la moneta statunitense abbia perso circa il 7% del valore

iniziale rispetto ad un ampio paniere di valute. A spingere questo trend sono stati

anche coloro che scommettendo contro il dollaro hanno attivato una serie di

speculazioni. Come precedentemente descritto, le politiche di QE permettono nel

lungo periodo di mantenere dei bassi tassi di interesse, che possono incentivare il

flusso in uscita di capitali verso altri Paesi; ma tali politiche possono

contemporaneamente ridurre la domanda estera di moneta locale, in quanto

deprezzata. Coloro che possono in primis beneficiare del QE sono gli esportatori

che vivono nella nazione che applica tale operazione non convenzionale e allo

stesso modo i debitori, che grazie ad una diminuzione del tasso di interesse sui

prestiti devono meno denaro agli istituti bancari, grazie al meccanismo

dell'inflazione. L'economista e direttore de International Business at the India,

China & American Institute Dan Steinbock, ha definito il quantitative easing

come una hot money trap. Secondo il ricercatore, la reazione dei mercati

emergenti fu quella di incrementare i tassi di interesse sui depositi e sui prestiti,

per prevenire una minaccia di inflazione o bolle speculative. In particola modo la

Cina passò da un 2.5% ad un 5.56%. In occidente la prima reazione fu quella di

sell-off nei mercati, ossia una vendita di titoli in previsione di quotazioni al

ribasso. La trappola della liquidità tuttavia non intaccò la crescita delle economie

del sud est asiatico, meno coinvolte direttamente con gli Stati Uniti. In queste

regioni si osservò un aumento dei capitali provenienti dai Paesi occidentali,

incentivati da un basso costo dei prestiti e da un dollaro sufficientemente potente

rispetto le valute locali. Con la politica di QE gli Stati Uniti, dal 2009 al 2013,

hanno beneficiato di una debole, ma costante ripresa, ad esclusione del tasso di

disoccupazione stabile al 6.5%. Una ripresa che ha favorito un aumento dei FDI

verso le economie emergenti, trasportandole verso il successo economico.

Il miglioramento dello stato macroeconomico statunitense ha portato nel 2013 ad

una serie di dibattiti su quanto fosse necessario continuare o ridurre il QE. Uno

dei rischi derivanti dal ricorso di politiche monetarie non convenzionali nel lungo

periodo è quello di disincentivare l'attuazione di riforme strutturali necessarie a

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stimolare la crescita nel medio-lungo termine. La liquidità rilasciata nel sistema,

infatti, crea dipendenza per le imprese e per le banche, che possono in questo

modo ottenere denaro molto più facilmente rispetto all'assenza di politiche di QE.

In relazione ai presenti rischi, nel maggio 2013, il presidente della FED Ben

Bernanke annunciò l'intenzione della banca centrale americana di ridurre

gradualmente le operazioni di QE sul mercato, attivando la politica del tapering.

Nella conferenza stampa svoltasi nel dicembre 2013, fu confermata l'intenzione

di ridurre gli stimoli monetari attraverso i quali ogni mese la FED rilasciava

liquidità sul mercato. Un primo rallentamento negli acquisti di prodotti finanziari

vide il passaggio da $85 a $75 milioni. Lo stesso taglio di $10 milioni venne

applicato nei mesi successivi, raggiungendo la soglia di $65 milioni. Con il

cambio del CEO della FED, la politica di tapering non è cambiata; a giugno

2014, l'amministratore delegato Janet Yellen ha progressivamente ridotto gli

acquisti della banca centrale statunitense a $45 milioni al mese. Per scongiurare

dei contraccolpi eccessivi nel mercato e per evitare che il tapering fosse visto

come una politica monetaria eccessivamente restrittiva, fu adottata una mix-

forward guidance, limitando l'incertezza sui mercati. Un mix di strumenti che

operavano in direzioni opposte; infatti, se da un lato veniva diminuita

l'immissione di liquidità nel sistema con il tapering, dall'altro venivano garantiti

dei tassi di interesse bassi fino a quando non si sarebbero raggiunti gli obiettivi

occupazionali prefissati. Le prime reazioni dei mercati emergenti non furono

positive. La possibile idea di limitare l'immissione di denaro liquido e un futuro

aumento dei tassi di interesse, aveva spaventato soprattutto quei Paesi con un alto

indebitamento verso gli Stati Uniti. Inoltre, per quelle regioni che avevano

accolto la fuga di capitali, in seguito alla crisi del 2008, si stava avverando la

tendenza inversa. Gli investitori, confortati dalla fiducia che la FED garantiva al

mercato americano in lieve crescita e preoccupati per un eccessivo indebitamento

dei mercati emergenti, iniziarono a spostare i capitali nuovamente nei Paesi

industrializzati. Un deflusso di capitali, a seguito di un'inversione della politica

monetaria statunitense, ha gravato non indifferentemente sulle condizioni

finanziarie locali e ha anche portato ad un deprezzamento delle valute.

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GRAFICO 2:

SCOMPOSIZIONE DEI FLUSSI NETTI DI PORTAFOGLIO

In miliardi di dollari

Fonte: elaborazione SACE su dati FMI, WEO ottobre 2013

Come è possibile notare dal grafico, durante l'attuazione delle politiche di QE i

flussi di capitali, sia in titoli di stato che in equity si sono mantenuti a livelli

discretamente elevati. Nel maggio 2013, l'annuncio del tapering ha creato delle

profonde perplessità e un deflusso degli investimenti, nuovamente verso i Paesi

sviluppati. Un side effect prevedibile, dal momento che la FED comprerà sempre

meno prodotti finanziari e di conseguenza rilascerà una minore quantità di

liquidità circolante. Gli investitori, temendo un possibile aumento dei tassi di

interesse preferiscono avere una riserva di capitale, richiamando quindi

dall'estero i propri assets.

In vista di ampi deflussi di investimenti, le banche centrali asiatiche, per arginare

il ribasso delle proprie valute hanno fatto ricorso a strumenti di mercato, come

l'aumento dei tassi ufficiali e operazioni sul fronte dei cambi. A differenza della

crisi asiatica del 1997, oggi i tassi di cambio non sono più fissi e risulta meno

complesso gestire la volatilità dei mercati finanziari. Nel sud est asiatico, oltre

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all'India, l'Indonesia ha registrato un marcato peggioramento nel cambio con il

dollaro. Inoltre, la presenza di partite correnti negative e deficit fiscali in

aumento hanno causato squilibri strutturali interno non indifferenti. Nonostante

alcune incertezze sul mercato, causate da un possibile ritiro del QE, le nazioni

dell'ASEAN si dimostrano più solide rispetto a quando furono colpite dalla crisi

del 1997. Oggi presentano dei tassi di crescita elevati, dei debiti in valuta locale

con una struttura a lungo termine, partite correnti con saldi migliori, tassi di

cambio flessibili e non fissi e ingenti riserve valutarie che aiuterebbero a

controbilanciare il deflusso dei capitali. Ciò che gli analisti finanziari si

domandano è quanto possa durare la fuga di capitali dai Paesi emergenti in

seguito al tapering e se questa sia una stagione o solamente una pausa di

riflessione per i mercati emergenti.

“In conclusione, permangono dei problemi, principalmente in India e in

misura minore in Indonesia, ma i recenti deflussi di capitali riflettono

principalmente il nervosismo nei confronti di un rallentamento del

quantitative easing, piuttosto che problemi strutturali nella regione. I

fondamentali restano solidi e i recenti timori risultano essere eccessivi. La

regione dell'ASEAN rimane, nel complesso, lontana dagli eccessi che

portarono alla crisi del 1997.” (Cfr. DBS Group Research, 2013,

Economics Markets Strategy 4Q 2013, 12 settembre 2013, pag.6)

In conclusione il tapering ha avuto inizialmente degli effetti negativi soprattutto

sui flussi di capitali che gli investitori inviavano verso i Paesi emergenti. Nel

caso del sud est asiatico, grazie alla capacità di autoregolarsi e di autofinanziarsi,

alcune regioni dell'ASEAN hanno risentito in modo minore gli effetti di questa

politica non convenzionale. Tuttavia i capitali dei Paesi industrializzati

rimangono una risorsa di primaria importanza per quelle regioni che ne

necessitano. Attraverso i capitali si possono finanziare opere pubbliche e

soprattutto, attraverso l'apertura di filiali o imprese, si può dare lavoro a migliaia

di persone, aumentando il tenore di vita della popolazione locale.

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1.4 Dai BRICs ai MINT

La globalizzazione e l'espansione dei mercati finanziari sono fenomeni che si

sono evoluti in tutto il mondo in modo non omogeneo. Prima delle guerre

mondiali il punto di riferimento era l'Europa, con l'Inghilterra che poteva contare

su un impero di colonie che garantivano l'approvvigionamento delle materie

prime e dei mercati di sbocco ai quali vendere prodotti finiti. Alla fine della

seconda guerra mondiale, furono gli Stati Uniti ad uscirne rinforzati. Il “sogno

americano”, possedere una casa, un lavoro e un auto, era l'emblema del

capitalismo moderno. Negli anni '60 si sviluppò una nuova mentalità economica

di tipo imperialista. Molti investitori, spinti dalla fiducia post bellica e dai

continui guadagni derivanti dalla ripresa, cercarono nuovi mercati finanziari dove

poter investire e avere dei ritorni economici elevati. Con l'abbattimento del muro

di Berlino, infine, il mondo occidentale, con i suoi prodotti e la sua cultura, si

affacciò sul mercato orientale. La fine della guerra fredda aveva permesso una

maggiore unificazione del commercio mondiale, abbattendo le barriere culturali e

permettendo ai mercati emergenti di acquistare fama. Il flusso di capitali,

proveniente dai Paesi industrializzati era libero di circolare in tutto il mondo; una

tendenza che si accentuò sempre di più con l'avvento del web e dell'elettronica.

Principale destinazione dei flussi finanziari erano quei Paesi che possedevano

delle materie prime in grado di soddisfare la domanda dei Paesi industrializzati.

Nel 2001, un gruppo di economisti della Goldman Sachs guidati da Jim O'Neill,

iniziarono uno studio sui mercati emergenti che, secondo le ultime statistiche e

stime economiche, erano i più propensi ad una rapida crescita. I BRICS Brasile,

Russia, India, Cina e dal 2010 sud Africa diventarono nel corso di pochi anni un

vero e proprio punto di riferimento per i mercati emergenti. I cinque Paesi

formano un aggregato geo-economico pronto a competere sulla scena mondiale

con le economie sviluppate, gravemente indebolite dalla crisi finanziaria. I Paesi

che compongono i BRICS sono accomunati da alcune caratteristiche tipiche di

un'economia in via di sviluppo: una popolazione numerosa, un ampio territorio,

abbondanti risorse naturali strategiche e una forte crescita del PIL paragonato alla

quota del commercio globale. Oggi i Paesi dei BRICS comprendono il 42% della

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popolazione mondiale, il 25% dell'estensione totale terrestre, il 20% del PIL

mondiale e il 16% del commercio internazionale. La struttura portante dei

BRICS fu inizialmente costituita da Russia, India e Cina. Tuttavia il limitato

raggio d'azione non permetteva all'alleanza di competere sulla scena globale e di

espandere la propria influenza e attrattiva, soprattutto in riferimento a Stati Uniti

ed Europa. Si pensò, quindi, di aggregare altre potenze che agli inizi degli anni

2000 davano qualche segno di sviluppo positivo. Il primo paese ad essere

coinvolto fu il Brasile, che costituiva la maggior potenza economica dell'America

meridionale e la quarta economia emergente a livello mondiale. Nel 2010, in

seguito ad un summit e su pressioni della Cina, fu coinvolto anche il sud Africa,

un paese caratterizzato da una forte crescita economica e da un costante flusso di

investimenti proveniente soprattutto dall'Europa. Nonostante i BRICS vengano

rappresentati come Paesi dalle caratteristiche omogenee, esistono alcune

particolarità proprie ad ogni paese. La Cina, ad esempio, si è dimostrata essere la

testa dei BRICS, con un PIL pari al 55%, un commercio estero del 65% e una

produzione di energia del 50% rispetto agli altri Paesi componenti il gruppo. Non

vanno inoltre sottovalutati alcuni fattori di tensione che potrebbero minare la

solidità interna ai BRICS. In India, ad esempio, gli scandali di corruzione

potrebbero avere delle ripercussioni politiche, andando a minale la stabilità del

paese e quindi la possibile fiducia degli investitori. Il processo tecnologico in

Russia è rallentato da una élite politica restia a tecnologie che potrebbero

provenire dal mondo occidentale industrializzato. La Cina è minacciata da una

continua crescita del divario tra ricchi e poveri. Il Brasile infine è costantemente

afflitto da campi repentini di governo e da riforme strutturali che non vengono

messe in atto, causando rabbia e scontri civili.

Il principale avvenimento che ha sconvolto l'evoluzione dei BRICS è stata la crisi

finanziaria scoppiata nel settembre 2008. Nonostante i livelli di crescita

promettenti, la diminuzione dei flussi di capitale provenienti dai Paesi sviluppate

causò un duro rallentamento.

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Grafico: 3

In seguito alla crisi finanziaria del 2008, la produttività dei Paesi industrializzati

è calata, così come sono diminuiti i flussi di investimento verso le economie

emergenti. Come riportato dal grafico Stati Uniti e Gran Bretagna sono stati, tra i

Paesi presi in esame, i più colpiti in una calo del PIL annuo fino al -5% negli anni

2009-2010, con dei deboli segnali di ripresa negli anni successivi. A seguito delle

perdite dei Paesi sviluppati hanno seguito anche delle perdite per i Paesi dei

BRICS. Alcuni come Cina e India non hanno subito dei cali eccessivi. La Cina

allo scoppiare della crisi, poteva già contare su di un economia basata sulla

produzione intensiva di merci e beni che avevano, se non in occidente, in oriente

un mercato di sbocco dove poter vendere i prodotti. Il calo del PIL di circa il 4%

fu causato essenzialmente da quelle imprese occidentali che, non avendo retto il

crollo finanziario e quindi una diminuzione dei propri capitali furono costrette a

disinvestire e a chiudere le filiali estere. Caso simile, fu quello dell'India, ma al

contrario della Cina, allo scoppiare della crisi finanziaria non aveva ancora

ottenuto il successo che ha oggi. La fiducia degli investitori era ancora bassa e

quindi gli investimenti occidentali si mantenevano a livelli medio-bassi,

diminuendo quindi la dipendenza dalle nazioni sviluppate. Nonostante oggi,

secondo le ultime stime, il PIL rimanga su uno stabile +5%, l'India sarà destinata

nel 2020 a diventare la più rapida economia in crescita. Una minore dipendenza

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si dimostrò proficua, causando analogamente come la Cina una diminuzione del

PIL di circa il 4-5%. Brasile e Russia, invece, furono le nazioni dei BRICS ad

essere più colpite durante la crisi, con una perdita del PIL negli anni 2009-2010

pari al -5% e -10% rispettivamente. Causa di questo drastico rallentamento nelle

stime della crescita sono dovute prima di tutto alla dipendenza di questi due Paesi

dai Paesi sviluppati. La Russia in particolare fu presa di mira da speculazioni

soprattutto in campo di disponibilità di risorse, come gas ed energia. Il Brasile,

invece, fu coinvolto, oltre che da una diminuzione del FDI da una crisi politica,

che portando il paese ad una minore stabilità, allontanò molti investitori.

Quello che più di tutto ha stupito gli analisti finanziari è stata la lenta ripresa dei

BRICS. In seguito alla crisi ci si aspettava una recovery, così definita dagli

americani, che avrebbe portato questi Paesi in via di sviluppo ad avere

nuovamente il ruolo di locomotiva dell'economia. Nel 2013 il Fondo Monetario

Internazionale (FMI), tagliò le stime di crescita del PIL cinese, dal 8.2% al

7.75%, un risultato che, seppure maggiore di molte economie sviluppate, inizia a

creare alcune preoccupazioni. Se la crescita cinese rallenta, una delle prime cause

potrebbe essere un aumento del debito pubblico, stimato attorno al 50% del PIL.

Anche le stime indiane sono riviste al ribasso. Mentre nel 2010-2011 il PIL

prometteva una crescita di quasi il 9%, oggi è stabile attorno al 5-6%, a causa di

forti inefficienze interne, imputabili soprattutto ad una normativa complessa e da

un fisco molto pesante. Il Brasile dal 2012 ha iniziato una campagna di aumento

dei tassi di interesse per contrastare l'inflazione al 6.46% del 2013, una campagna

totalmente differente rispetto quella messa in atto dalle banche centrali di tutto il

pianeta. Per quest'anno si potrebbe prevedere un ulteriore aumento dei tassi da

parte della banca centrale brasiliana, che dal'8% potrebbe arrivare al'8.5%. Allo

stesso tempo l'economia del Brasile ristagna, con una crescita del PIL solo dello

0.6%, portando ad un prodotto interno lordo totale del 3.5%. La Russia infine è

stata colpita negativamente soprattutto dai recenti interventi in Ucraina e Crimea.

La paura di una possibile guerra e di un congelamento delle relazioni

diplomatiche con gli Stati Uniti, hanno portato in un solo giorno il titolo RTS di

mosca ad un -10%.

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Questa serie di eventi e la paura di un nuovo rallentamento dell'economia

globale, causato questa volta dai paese emergenti ha portato gli investitori

all'esplorazione di nuovi Paesi, che nonostante la crisi mondiale in atto, hanno

subito dei contraccolpi più leggeri. L'attrazione dei capitali, inoltre, non dipende

solamente dalle condizioni economiche favorevoli, ma anche dalla stabilità

politica. Un governo solido permette di varare leggi e riforme che possano

tutelare il mercato e gli stockholder, garantendo un flusso di denaro in grado di

finanziare nuove opere economiche in un paese. Recentemente si è parlato di

MINT. L'economista britannico Jim O'Neill, che già aveva coniato l'acronimo

BRICS sostiene che nonostante le ultime titubanze, i mercati emergenti

continueranno a guidare l'economia globale. Le nuove economie esordienti

hanno in comune delle favorevoli dinamiche demografiche e prospettive di

crescita elevate. In aggiunta, come i BRICS, possono contare su un costo del

lavoro più basso rispetto agli standard europei e statunitensi. Nell'aprile 2014,

O'Neill ha stilato una lista di quelli che si stanno dimostrando i nuovi giganti

dell'economia, Messico, India, Nigeria e Turchia.

“Ho trascorso alcuni giorni in Indonesia per la realizzazione di una serie di

documentari per la BBC Radio sulle quattro economie emergenti non

appartenenti al gruppo BRICS. Queste ultime sono state già seguite

da vicino con un certo interesse. Il gruppo che invece sto studiando in

questo momento non merita certamente meno attenzione. Messico,

Indonesia, Nigeria e Turchia hanno avuto uno sviluppo demografico

considerevole negli ultimi vent’anni e le loro prospettive economiche sono

molto favorevoli.” (Cit. Jim O'Neill, Pan Kwan Yuk, Financial Times, 14

Novembre 2013)

La tesi dell'economista viene spiegata attraverso un grafico FMI e EDYMAR

PROJECTIONS che segue, sui futuri mercati nel 2050.

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TABELLA 6: PROIEZIONE DEL PRODOTTO INTERNO LORDO GLOBALE

Tra i primi dieci Paesi nel 2050, sei sono considerati economie emergenti, tra cui

Messico ed Indonesia. Attualmente il flusso di investimenti che viene diretto

verso i MINT è pari al 10% di quello che viene diretto verso i BRICS. Tra i nuovi

mercati emergenti, quello che attira di più l'attenzione degli investitori è

l'Indonesia. Nel luglio 2014 si verificheranno le elezioni presidenziali, come in

molti Paesi asiatici, che potranno causare una tornata positiva di ottimismo e di

capitali. Una possibile soluzione alla lama del tapering statunitense. La stabilità

politica potrebbe garantire un piano di investimenti nuovo e consolidare i risultati

economici attesi, con un PIL in crescita del 6%.

Accanto però a queste previsioni ottimistiche, alcuni analisti finanziari ritengono

che nel lungo termine i Paesi emergenti, appena citati, potrebbero subire dei

rallentamenti. Il fenomeno del re-shoring segnerebbe il ritorno della produzione,

soprattutto manifatturiera, dai Paesi con bassi costi di manodopera, ai Paesi

industrializzati. Una previsione quasi reale se si tiene conto dello stato di

recovery odierno degli Stati Uniti. Le cause di una tale migrazione produttiva

sono prima di tutto, il costo della manodopera che sta costantemente salendo nei

Paesi emergenti come la Cina, i prezzi dell'energia in continuo aumento e una

tasso di produttività piuttosto basso rispetto al numero degli impiegati.

Tra i Paesi che compongono l'acronimo MINT, l'Indonesia si è recentemente

mostrata come la nazione più promettente dell'ASEAN. L'aumento dei consumi e

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un proficuo scambio interregionale con le altre nazioni sud est asiatiche sono la

premessa per il successo del paese. Nel 2011 il PIL indonesiano si è attestato

attorno ai US$ 847,4 miliardi, rispetto ai US$ 713,7 miliardi del 2010 con un

conseguente incremento del 15.6% (Dati, Banca Mondiale, 2013). Tuttavia i

mercati sviluppati non possono prescindere solamente dai segnali positivi emessi

da queste nuove economie. Secondo i dati dell'ADO (Asian Development

Outlook) i prezzi ai consumatori sono destinati a salire da un 4% nel 2013 a un

4.2% nel 2014, contro le previsioni del 2013 del 3.7%. Un'inflazione che per il

momento rimane nella norma, ma deve essere costantemente monitorata. Stati

Uniti, Europa e Giappone devono creare delle regolamentazioni per garantire una

crescita sana. Alcune leggi in materia, hanno limitato l'accesso di capitali

provenienti dall'occidente per evitare una possibile bolla finanziaria.

Contemporaneamente anche all'interno dell'ASEAN sono state prese delle

precauzioni in termine di politiche fiscali e politiche governative.

Una nazione giovane, che si affaccia al futuro con una classe media numerosa e

ricercatrice di prodotti alla moda che ha subito un sensibile miglioramento nel

reddito pro-capite, passando da US$ 2,981 nel 2010 ai US$ 3.509 nel 2011, con

un incremento del 17.7% (Dati, Banca Mondiale, 2013). Secondo i dati della

Banca Mondiale, l'espansione del ceto medio indonesiano è stata pari a 61.73%

nel periodo 2003-2010, con un passaggio da 81 milioni a 131 milioni di

individui.

Una nuova sfida per i mercati mondiali, che assistono all'accesso di una nuova

potenza economica. Una nuova sfida anche per il nostro Made in Italy.

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Capitolo 2

La gestione d'impresa nel sud-est asiatico

Il seguente capitolo si pone l'obbiettivo di analizzare nel dettaglio quali possano

essere i punti di forza e i fattori in grado di attrarre investimenti ed imprese nei

mercati emergenti del sud-est asiatico. Investitori ed imprenditori hanno

l'obiettivo di massimizzare il profitto e creare relazioni durature nel tempo, in

modo tale da generare un guadagno non solo di breve, ma anche di lungo

periodo. Di conseguenza, se il primo passo è quello di attrarre investimenti, il

secondo passo consiste nel creare una sostenibilità finanziaria tale da garantire la

sopravvivenza di nuove start-up aziendali. Le componenti che sono in grado di

promuovere strategie positive per le multinazionali variano dalle relazioni con il

governo, con i consumatori, con i fornitori, con la comunità, alla capacità degli

imprenditori di adottare tutte le leve del marketing mix. Inoltre, nel caso dei

mercati emergenti, sono da considerare due importanti elementi; questi sono il

livello di povertà e la distribuzione del reddito.

I mercati del sud-est asiatico, negli ultimi anni, sono diventati, metaforicamente

parlando, un “regno del Sol nascente” per gli investimenti. Con la crisi del 2008,

e il successivo periodo di austerity, negativamente accolto dalla maggioranza

degli investitori e, in modo particolare, dalla loro fiducia, l'IMF (International

Monetary Fund), ha registrato un aumento nella curva della quantità di denaro

destinata ai Paesi emergenti situati ai confini dell'oriente. Il sud-est asiatico, in

particolare Indonesia, Malesia e Thailandia sono diventati mercati molto attraenti

per attività finanziarie e di business da parte di multinazionali occidentali.

“...Superata la crisi del 1997, le nazioni dell'ASEAN si sono affacciate sul

mercato mondiale come nuove frontiere da conquistare.”

(Christine Lagarde, managing director of the IFM, discorso del 7/07/2014)

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Una prospettiva, che permetterebbe a queste nazioni di integrarsi in modo

permanente nel mercato economico e finanziario globale è costituita dalla fiducia

che i trader mondiali ripongono nella stabilità dei governi e nei continui

miglioramenti delle infrastrutture locali.

A titolo esplicativo, secondo una ricerca di Frost & Sullivan (2013), l'aera sud

orientale dell'Asia, della quale fanno parte Indonesia, Malesia, Thailandia,

Singapore, Vietnam, Brunei, Myanmar, Cambogia e Laos, dovrebbe diventare

entro il 2018 il sesto mercato automobilistico nel mondo. Mentre in Europa e

negli Stati Uniti questo settore ha riscontrato notevoli rallentamenti, causati

anche da un aumento del carburante, la possibilità di esportare il prodotto

automobile in mercati nuovi e in via di sviluppo rappresenta una notevole

occasione di profitto. Secondo le stime si dovrebbe passare da 2,4 milioni di

unità/anno a circa 4,7 nel 2018.

“...Le opportunità di investimento sono interessanti. Grazie alla vastità

numerica del mercato (605 milioni di persone con un tasso di

motorizzazione pari a 50 auto ogni 1000 abitanti) ed un tasso di

crescita annuale del 10,1% nel periodo 2011-2018.”

(Frost and Sullivan, Annual marketing priorities suvey result 2011)

Nello studio, si sottolinea in particolare di come Thailandia e Indonesia

dovrebbero recitare un ruolo principale in questo sviluppo, favorite dagli ingenti

investimenti provenienti dalle case automobilistiche cinesi e giapponesi.

Ulteriore passo compiuto in questa sezione dell'operato è un'indagine sui

principali costi che un impresa deve sostenere se ha intenzione di investire

nell'area economica dell'ASEAN. Verrà proposta una case study su un'azienda

italiana che ha ottenuto successo e continua a generare profitto nella regione che

presenta un mercato in crescita e pronto ad accogliere l'offerta di imprese e

investitori.

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2.1 Analisi di mercato

L'analisi macroeconomica del mercato è una prima e fondamentale azione da

compiere per valutare l'ambiente in cui si andrà ad operare. Attraverso questo

strumento, imprenditori ed investitori possono ricavare utili dettagli legati ai

fattori chiave che potrebbero influenzare il loro business. I dati raccolti

serviranno poi a progettare delle strategie che saranno efficaci se porteranno a

risultati competitivi, economici e sociali positivi. In questo paragrafo, l'analisi

macroeconomica del mercato sarà effettuata considerando gli aspetti che, in

prima istanza, sono in grado di attrarre investimenti. Mi servirò, nelle seguenti

pagine, di due tipi di strumenti utilizzati per la valutazione economica delle

nazioni situate nel sud-est asiatico.

Il primo è quello condotto dal Business Innovation Observatory (2011); secondo

il quale, fine principale di un simile studio è quello di costruire scenari di medio-

lungo termine in grado di orientare i movimenti più ampi dei mercati. Le

principali variabili osservate sono due:

1 Indicatori di crescita economica:

-PIL;

-Produzione industriale;

-Consumi;

-Investimenti;

-Variazione delle scorte;

-Scambi con l'estero;

-Disoccupazione;

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2 Indicatori monetari:

-Inflazione

-Tassi di interesse.

-Livello di tassazione

-Barriere all'ingresso

Oltre a questi due tipi di indicatori, si aggiungono variabili proprie dei mercati in

via di sviluppo. Nell'analizzare le nazioni del sud-est asiatico, secondo The

European Commission's Directorate General for Enterprise and Industry (2008),

non bisogna sottovalutare la stabilità politica, il livello delle infrastrutture e la

rete di comunicazione.

“...Oggi internet costituisce il primo mezzo di comunicazione di massa e

saperlo sfruttare al meglio può fare la differenza tra un business model

di successo e uno scadente.”

(Warren Buffett in Janet M. Tavakoli, dear Mr. Buffett: what an investor

learns 1,269 miles from Wall Street, John Wiley and Sons, 2008)

Un secondo tipo di analisi, consiste nello studio dell'indice MSCI Global Equity

Indexes, che rappresenta oltre 650 fondi di investimento coprendo 75 Paesi

sviluppati, emergenti e in via di sviluppo. Questo tipo di studio permette una

comparazione tra i vari mercati, settori o segmenti per dare una visione globale e

indirizzare i traders al migliore business.

“...I mercati del sud-est asiatico stanno diventando affollati di investitori,

con valutazioni in certi casi davvero elevate.”

(Stefano Testori, Non solo Cina, Norisk, analisi ETF views)

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Analisi di mercato secondo i criteri economici e monetari

Di seguito vengono riportate delle schede economiche di Malesia, Indonesia e

Thailandia analizzate con il criterio degli indicatori economici e monetari.

L'analisi di mercato è stata effettuata da The world bank, che nel 2013 ha

considerato queste tre nazione come le più propense ad attrarre investimenti, con

tassi di crescita sostenuti.

Malesia

La Malesia si affaccia sul mercato mondiale come una potenza di media

grandezza. Nonostante il PIL si collochi al decimo posto tra i Paesi dell'Asia,

dopo Cina ed India, la nazione è al quarto posto tra i nuovi Paesi industrializzati

del pianeta.

“Negli ultimi 30 anni la Malesia ha conosciuto un fortissimo sviluppo

economico divenendo uno dei Paesi più ricchi del sud-est asiatico, non più

dipendente soltanto dalla produzione ed esportazione di materie prime. Se

da una parte la Malesia mantiene il primato mondiale nella produzione di

caucciù e di stagno, dall’altra è diventata leader mondiale nella produzione

di componenti elettronici e primo Paese del sud-est asiatico per

l’assemblaggio e l’esportazione di autoveicoli.” (RBS, Trend and Trading,

Malesia, l'economia ruggisce ma preoccupa la debolezza della valuta,

martedì 4 febbraio 2014)

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TABELLA 7: DATI MACROECONOMICI DELLA MALESIA

2005 2008 2010 2013

PIL – tasso di

crescita %

5,30% 5,00% 5,20% 5,60%

PIL – mld

USD

202,3 247,5 289,3 312,4

PIL pro

capite USD

5270 7278 8754 10514

Tasso di

inflazione

annuo %

(CPI)

3,00% 5,40% 1,70% 3,20%

Tasso di

disoccupazion

e (%della

forza lavoro)

3,50% 3,70% 3,10% 3,10%

Debito

pubblico (%

del PIL)

52,40% 53,50% 54,70% 53,00%

Dati: The World Bank 2013

A testimoniare una tale posizione è la moderata, ma costante crescita percentuale

del prodotto interno lordo. Nonostante un rallentamento, verificatosi in

coincidenza alla recessione globale (il PIL malesiano subì una contrazione del

1,7%), si è passati da 247 a 312 miliardi di dollari in soli cinque anni. Una

crescita economica che è andata a beneficio di tutti i vari ceti sociali evitando in

parte che l'incremento del reddito medio fosse accompagnato da un aumento del

divario fra le varie classi sociali. Nel 1970, in coincidenza con la trasformazione

da paese produttore di materie prime a economia emergente multi-settoriale, il

governo decise di emanare dei decreti legge in grado di garantire un' equa

distribuzione di capitale a tutte le regioni della nazione. Il settore privato

continuerà a trainare l'economia, con una previsione d'aumento del 6,6%, una

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crescita dei consumi privati del 6,2% e degli investimenti privati 8,3% (Dati

forniti da: Banca Centrale della Malesia).

La Malesia, oltre a far parte dell'ASEAN, è uno dei 12 pesi del TTP (Trans-

Pacific Partnership). L'obiettivo dell'attuale governo è quello di aggiornare la

propria economia per raggiungere lo status di nazione sviluppata entro il 2020.

“...La Malesia continua nel tentativo di raggiungere nel 2020 lo status di

paese ad alto reddito puntando sull'incremento dei processi produttivi ad

alto valore aggiunto, in modo tale da attrarre investimenti esteri.”

(Mohammad Najib Abdul Razak, Primo ministro della Malesia)

Secondo i dati Mincomes dell'ufficio statistica Malesia – MIDA – MATRADE, la

bilancia commerciale si attestava ad un +40,7 miliardi di dollari (USA) costante

fino al 2011. L'ultimo dato è un +31,6 miliardi nel 2012. Come testimonia il dato,

il valore delle esportazioni supera quello delle importazioni. Secondo la teoria

mercantilista, il commercio estero, specie se consente di esportare beni di lusso,

materie prime e semilavorati, accresce la ricchezza del paese perché fornisce una

aggiunta alla domanda effettiva disponibile all'interno.

GRAFICO 4: CRESCITA DELLE ESPORTAZIONI NEI PRINCIPALI SETTORI 2013-2014

Fonte: Malaysia external trade development corporation

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Merchandise Trade Data (2012) ha classificato la Malesia al 25 posto come più

grande mercato di esportazione per i prodotti USA. Inoltre gli Stati Uniti

rappresentano il quarto più grande partner commerciale, dietro Cina, Singapore e

Giappone. Nell'estate 2013, l'esportazione nei settori manifatturiero e minerario

sono cresciute fino al 40%. Ad alimentare questa crescita è stato l'aumento di

foreign direct investment (FDI) da parte degli Stati Uniti, che da $13.9 miliardi

nel 2011, sono passati a $15 miliardi nel 2012. Gli investimenti esteri si sono

diretti prevalentemente verso il settore manifatturiero, i servizi e l'industria

estrattiva. Nonostante la grave crisi che stanno attraversando i mercati

internazionali, il ritmo degli investimenti esteri in Malesia dovrebbe crescere per

l'anno corrente.

Benché l'export, in particolare di elettronica, petrolio e gas rimangono un

importante motore dell'economia, la politica economica tiene in particolare

considerazione l'aumento della domanda interna, nel tentativo di diminuire la

dipendenza della regione dalle esportazioni. Producendo prodotti che non sono

richiesti dal mercato locale, si garantisce una maggiore occupazione lavorativa.

Il tasso di disoccupazione è stabile, dal 2010, attorno al 3%. Un risultato di tutto

rispetto, considerando che in Europa l'OCSE ha rivalutato al ribasso le

prospettive dell'immediato futuro, passando dal 5,8% del 2007 al 8,5% del 2014.

In Italia, l'ISTAT rivela un 13,6% in aumento.

La Malesia rimane uno dei Paesi più attrattivi per gli investimenti esteri; il

numero di aziende che sono state create nell'ultimo lustro sono pari ad una media

annuale di circa 38000 nuovi business. Una crescita di oltre il 3,7%, di gran

lunga superiore alla media dei principali Paesi industrializzati e ai BRICS.

“...La Malesia si piazza al diciottesimo posto tra i Paesi dove è più facile

fare business...” (Banca Mondiale, pubblicazione n° 118 del 2012)

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GRAFICO 5

Osservando il grafico delle importazioni in Malesia, appare evidente come la

domanda interna dei consumatori sia in crescita. Il 12% dei prodotti importati

sono beni pronti per essere consumati; il 60% invece è costituito da macchinari e

prodotti industriali, utili per la costruzione di infrastrutture e per il miglioramento

delle aziende produttive (Dati: Trading Economics, 2014).

Le ottime infrastrutture e un efficiente network di servizi, un ambiente

macroeconomico stabile, un mercato interno in forte crescita, un efficiente

sistema bancario e una disponibilità di manodopera specializzata a prezzi

concorrenziali fanno della Malesia una delle mete favorite dagli investitori

stranieri.

Nel 2011 si registrò un flusso di investimenti pari a 15,6 miliardi di euro, con una

crescita del 49% rispetto al 2010. Principali investitori furono Giappone, Corea

del Sud, USA, Singapore e Arabia Saudita. Come riportato da ADBInsitute nel

Working Paper numero 422 del maggio 2013, la creazione di un'associazione tra

le nazioni del sud-est asiatico riguardante le politiche di finanziamento sono

possibili. Entro il 2015, l'ASEAN si predisporrà alla creazione del ASEAN

Economic Community (AEC) per facilitare e offrire vantaggi alle transazioni

provenienti dai Paesi in via di sviluppo localizzati nelle regioni dell'estremo

oriente.

Obiettivo principale sarà quello di liberalizzare i principali servizi finanziari, con

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la rimozione delle barriere in materia di transazioni finanziarie, assicurazioni e

financial assets. Il vantaggio consisterebbe nella creazione di una maggiore

competitività tra le istituzioni finanziare domestiche, diminuendo la dipendenza

da banche straniere.

Un secondo progetto che il Governo malese ha annunciato, contenuto

nell'Economic Transformation Programme, vedrà la compartecipazione straniera

per investimenti pari a 23 miliardi di dollari (USA) e creeranno oltre 88000 nuovi

posti di lavoro. I settori che saranno interessati sono prima di tutto quello

petrolchimico, settore turistico e ospedaliero.

La politica monetaria della Banca Centrale malese (Bank Negara) continua a

rimanere espansiva, nonostante alcuni interventi al rialzo hanno portato il tasso di

interesse di riferimento al 3% negli ultimi mesi del 2011. L'obiettivo della

nazione è quello di sostenere la ripresa economica attraverso condizioni di

pressioni inflazionistiche sotto controllo. Attualmente l'inflazione è pari al 3,2%,

ai massimi da due anni (Dati: Bank Negara 2012).

Un azione che ha destato qualche perplessità presso Wall Street;

“...Sostenere la crescita del paese anziché frenare la debolezza della

moneta locale Ringgit è molto rischioso.” (Doug Flynn, investment

advissor at LLC).

Sul piano della politica fiscale, il governo malese, a partire dal 2009 ha introdotto

una serie di misure atte a stimolare l'economia locale. Obiettivo primario era

quello di ridurre il deficit pubblico il più possibile.

“...Un espediente che è risultato fondamentale. Il disavanzo federale, che

era pari al 7% del PIL nazionale nel 2009, è stato ridotto fino al 5,6%.”

(Tan Sri Muhyiddin Yassin, vice- Primo Ministro della Malesia, World

Economic Forum, meeting invernale di Davos 2011)

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Secondo The World Bank Group (2012) il debito pubblico malese si attesta al

53% dl PIL. Una cifra giustificata dall'aumento delle spese per investimenti in

infrastrutture ed aumenti dei salari nel comparto pubblico. Una crescita che

tuttavia non preoccupa gli investitori, dal momento che il governo malesiano ha

predisposto una legge che limita l'ammontare massimo del debito pubblico al

55% del PIL. Nel 2012 l'agenzia di rating Moodys ha espresso un giudizio

positivo sul taglio del debito pubblico della Malesia. Infatti, se nel 2011 il deficit

era pari al 5% del PIL, nel 2012 esso è sceso al 4,7%. Una diminuzione che ha

permesso una riduzione sugli interessi del debito e a un maggiore stimolo per gli

investimenti pubblici.

Per concludere, da una prospettiva finanziaria, la Borsa di Kuala Lumpur

rappresenta la terza maggiore piazza del sud-est asiatico e la principale per la

finanzia islamica, con una quota del 70% delle obbligazioni emesse nel 2013.

Nel 2010 è stato varato il Government Transformation Programme che ha attratto

investimenti per oltre 300 miliardi di euro. In questo modo, l'indice malese KLSE

Composite Index ha guadagnato negli ultimi 12 mesi quasi l'11%.

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Indonesia

“A promising future comes from dedication and a passion for learning.

Abundant natural resources, strongly supported by macroeconomic

policies and political stability. This is a state of democracy with a growing

middle class and a youthfull workforce. A member of the trillion dollar

GDP club. The right door will take you to the right investment; as shown

by the investment grades. Indonesia is in its golden moment a prefferd

investment destination. Invest in remarkable Indonesia.”

(BBC, Invest In Remarkable Indonesia, Spot 2013 II)

L'Indonesia è considerata, da Indonesia-Investments come l'economia più potente

del sud-est asiatico, nonché la regione più densamente popolata, con 246.9

milioni di abitanti (2012). Un potenziale che non è passato inosservato da parte

della comunità economica internazionale. La nazione, secondo parte della stampa

specializzata, tra cui Bloomberg (04/2011) e WSJ Central Banks (05/2011)

sarebbe una possibile candidata per entrare a far parte dei BRICS, dimostrando

una rapida e visibile crescita simile a quella delle economie più sviluppate.

Inoltre, recentemente, gli economisti hanno coniato un nuovo termine che

racchiude i mercati mantenuti sotto una più attenta osservazione. I CIVETS

(Colombia, Indonesia, Vietnam, Egitto, Turchia e Sud Africa). Secondo le più

ottimistiche stime, entro il 2020, queste nazioni costituiranno metà del PIL

mondiale. Un importante riconoscimento proviene inoltre dalle agenzie di rating

Standard & Poor's, Fitch e Moody's che nel 2012 hanno portato la classificazione

dell'Indonesia da Ba1 a Baa3 con outlook positivo.

“This upgrade will confirm how good Inodesia's investment climate is,

which will make foreign direct investment flow stronger.” (Felix

Sindhunata, economist at PT Henan Puthrai in Jakarta, on Novrida

Manurung and Berni Moestafa, Indonesia Regains Investment grade at

Moody's after 14 years, Bloomberg, 01/2012)

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Il flusso di FDI, che è rimasto particolarmente debole durante gli anni della crisi

asiatica, è aumentato sensibilmente in coincidenza della crisi globale del 2008-

2009, beneficiando anche di un upgrade in sede OCSE (nel 2010 e nel 2012).

TABELLA 8: DATI MACROECONOMICI INDONESIANI

2005 2008 2010 2013

PIL – tasso di

crescita %

5,30% 4,80% 7,40% 5,30%

PIL – mld

USD

285,5 510,2 709,2 868,3

PIL pro

capite USD

1273 2272 2946 3556

Tasso di

inflazione

annuo %

(CPI)

4,80% 5,10% 5,40% 6,40%

Tasso di

disoccupazion

e (%della

forza lavoro)

6,20% 5,40% 6,10% 5,80%

Debito

pubblico (%

del PIL)

55,80% 35,00% 28,60% 24,00%

Dati: The World Bank 2013

La prospettiva di crescita del PIL è ciò che attrae maggiormente gli investitori.

Nonostante abbia subito un notevole rallentamento tra il 2010 e il 2013, secondo

Reuters (2014) si manterrà su livelli ben superiori rispetto la media europea.

Nello specifico, mentre l'Eurozona crescerà dello 0,2% - 0,3%, secondo i dati

Trading Economics (08/2014) l'Indonesia si manterrà sul 5,1% - 5,2%.

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Motore traino dell'economia indonesiana, così come per la Malesia, è il

compartimento industriale, che costituisce circa il 46.5% del PIL totale. Nel

suddetto settore, l'industria manifatturiera ricopre un ruolo primario; nel 2013

essa ha rappresentato il 24% dell'output totale. Al secondo posto, con una

percentuale del 38% del PIL, ci sono i servizi. Negli ultimi anni, con l'industria

del turismo in costante crescita, sono aumentate le strutture alberghiere,

raggiungendo il 14% del PIL locale. Comunicazione e finanza sono al 7%,

mentre l'agricoltura rimane stabile al 15%.

Nel 2013 la Banca Centrale indonesiana, Bank Central Republic Indonesia, ha

mantenuto il tasso di interesse BI stabile al 6%, lo stesso dell'anno precedente.

Nel novembre 2013, essi sono stati portati al 7,5% con lo scopo di conservare la

stabilità della rupia, la moneta locale indonesiana, un'inflazione moderata e un

cambio della moneta favorevole. Inoltre dal 2005, come in altri Paesi, è stato

introdotto il meccanismo Inflation Targeting Framework (ITF). Tale sistema

permette di usare i tassi di interesse come strumento per raggiungere un

inflazione bassa e stabile. Essendo l'economia in crescita, consumatori e aziende

sono propensi a spendere più denaro. Quando la domanda di beni e servizi supera

l'offerta, i produttori aumentano i prezzi. Al crescere della spesa viene immesso

nel sistema più denaro, che gradualmente perde di potere d'acquisto. Un'alta

inflazione, definita come un aumento prolungato e generalizzato dei prezzi, porta

ad un alto tasso di interesse, poiché il valore del denaro viene eroso.

Considerando che l'attuale inflazione indonesiana è del 6,40%, le decisioni della

Banca Centrale indonesiana in termini di politica monetaria sono giustificate e

accettate dalla comunità economica mondiale.

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TABELLA 9: VARIAZIONE DEI TASSI DI INTERESSE

NEGLI ULTIMI ANNI IN INDONESIA E NEL MONDO

Data di

modifica

Percentuale

BI

indonesiano

Regione Banca

Centrale

Percentuale

tassi esteri

Data

12/11/13 7,50% USA FED 0,25% 16/12/08

12/09/13 7,25% Australia RBA 2,50% 06/08/13

29/08/13 7,00% Brasile BACEN 11,00% 02/02/14

11/07/13 6,50% Canada BOC 1,00% 08/09/10

13/06/13 6,00% Cina PBC 6,00% 06/07/12

09/02/12 5,75% Europa BCE 0,15% 05/06/14

10/11/11 6,00% Giappone BoJ 0,10% 05/10/10

11/10/11 6,50% Gran

Bretagna

BoE 0,50% 05/03/09

04/02/11 6,75% Russia CBR 8,00% 25/07/14

05/08/09 6,50% Sudafrica SARB 5,75% 17/07/14Fonte: global-rates.com

La crescita economica indonesiana è trainata dai consumi domestici e dalle

esportazioni di materie prime. Principale prodotto è il carbone con un 11,61% e il

petrolio con il 9,29% delle esportazioni totali (Dati Observatory of Economic

Complexity 2012). I primi mercati di sbocco nel 2012 sono stati la Cina

(13,33%), il Giappone (11,31%) e gli Stati Uniti (9,68%) (Dati Gruppo SACE).

Essere un grande esportatore di commodities ha portato il governo ad attuare

delle politiche molto attive in campo economico-finanziario. La dinamicità con la

quale viene regolato il mercato nazionale è fondamentale considerando la

volatilità dei prezzi relativi alle materie prime, come il petrolio. Altre politiche

statali sono concentrate nel creare un valore aggiunto al prodotto, come la

riduzione della filiera nell'estrazione mineraria o petrolifera.

Tra il 2008 e il 2012, le esportazioni sono cresciuti con una media del 11.9 %

secondo Trading Economics.

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GRAFICO 6: ESPORTAZIONI

Fonte: Tranding Economics

Tuttavia negli ultimi mesi del 2013, come riportato da Il Sole 24 Ore, la lenta

crescita cinese degli ultimi due anni ha comportato un rallentamento delle

principali economie che avevano siglato con la Cina contratti economici. Nello

stesso anno la bilancia commerciale ha segnato un record negativo pari a 1,65

miliardi di dollari (USA) dovuto principalmente ad una contrazione delle

esportazioni di row materials verso la Cina.

“L’attuale situazione in Cina, Nazione che sta vivendo una crescita

economica rallentata, colpirà con forza anche noi, visto che attualmente è

il nostro partner commerciale maggiore. La domanda dei nostri beni si

contrarrà anch’essa e manifesterà gli effetti di tutto ciò sul nostro

sviluppo” (Gita Wirjawn, ministro indonesiano per il Commercio).

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GRAFICO 7:

Parallelamente al rallentamento delle esportazioni, essendo la Cina il principale

partner commerciale dell'Indonesia, anche nel campo delle importazioni (19%),

queste ultime hanno subito un rallentamento negli ultimi mesi del 2013, andando

ad intaccare i risultati osservabili nella presente bilancia commerciale.

GRAFICO 8:

Secondo gli esperti del The German Institute for Economic Research (2014), è

probabile che la crescita cinese più debole non solo abbassi il livello della

domanda, ma possa anche risultare in prezzi dei beni e delle merci più elevati;

una situazione che potrebbe avere delle implicazioni significative sull'economia

indonesiana e sui suoi prodotti principali, come carbone e olio di palma.

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Gli investitori rimangono fiduciosi secondo Indonesia-Investments (2014); i

punti a favore della nazione sono un abbondanza di risorse naturali che la

rendono la seconda e più ricca bio diversità al mondo, una popolazione costituita

per il 50% da giovani al di sotto dei 29 anni, una stabilità politica, un basso costo

del lavoro e 135 milioni di possibili consumatori in più entro il 2030.

Thailandia

“La Thailandia aspira ad assumere il ruolo di Paese leader nell’ambito di

una eventuale costituenda revisione dell’ASEAN in direzione della

costruzione degli 'Stati Uniti dell’ASEAN', conscia della ricchezza del suo

Regno, della cultura religiosa e della sua capacità di auto promuoversi

come guida della Comunità Economica ASEAN (AEC) entro il 2015.”

(Philip Kotler, professore presso la Kellog School of Management della

Northwestern University, USA)

TABELLA 10: DATI MACROECONOMICI THAILANDESI

2005 2008 2010 2013

PIL – tasso di crescita % 3,60% 1,50% 4,10% 3,00%

PIL – mld USD 176,5 272,6 318,9 387,3

PIL pro capite USD 7159 9245 9377 10512

Tasso di inflazione annuo

% (CPI)

4,10% 9,00% 3,50% 2,70%

Tasso di disoccupazione

(%della forza lavoro)

1,30% 1,20% 1,00% 1.1%

Debito pubblico (% del

PIL)

49,50% 38,70% 45,80% 43.7%

Dati: The World Bank 2013

Osservando i dati riportati da The World Bank (2013), ciò che entusiasma in

modo elevato gli investitori è il tasso di disoccupazione. Secondo The Office of

the National Economic and Social Development Board (2014) la nazione è al

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quarto posto, dopo Cambogia, Monaco e Quatar per ridotto tasso di

disoccupazione; lo stesso è previsto scendere allo 0,7% nel 2014 a fronte di una

media del 6% globale.

Come sostiene l'economista Shotaro Kumagai del Japan Research Institute, nel

2013 la fiducia nei consumatori è aumentata per il terzo anno consecutivo,

permettendo all'economia di avanzare e garantendo la sopravvivenza di piccole e

medi business. Mentre le grandi multinazionali sono alla continua ricerca di

personale qualificato. In particolare compagnie finanziarie e banche come Citic

Securities International Co. e HSBC Holdings plc competono per l'assunzione di

personale in Asia, al fine di sfruttare i mercati che si sviluppano nell'area. Un

trend opposto a ciò che le stesse compagnie stanno facendo in Europa o negli

Stati Uniti, dove gli alti costi di mantenimento del personale hanno portato alla

cancellazione di oltre 30000 posti di lavoro nelle maggiori istituzioni bancarie

nel 2013 (Forex Info 2013).

Per quanto concerne la politica monetaria, la Banca Centrale della Thailandia ha

mantenuto i tassi di interesse al 2,50%, prevedendo di mantenerli invariati nel

2014. Secondo gli esperti di Barclays, la Banca Centrale ha rilevato qualche

consolidamento dell'attività globale e prudentemente starebbe spingendo

l'economia thailandese ad assumere un ruolo di primo piano. Gli economisti

sostengono che una tale politica monetaria sia adatta all'economia della regione;

benché si prevede che la Thailandia esca nell'anno corrente dalla crisi tecnica,

sono molto limitati i rischi di una stretta monetaria, perché la ripresa dovrà essere

consolidata. L'inflazione rimane ad un livello relativamente basso e

contemporaneamente, soprattutto negli ultime mesi la domanda interna è

aumentata visibilmente. L'espansione economica e gli stimoli indotti dal fisco,

come tasse ragionevoli, hanno permesso un più alto potere d'acquisto e

permettendo ai consumatori una più elevata libertà di disporre del proprio

capitale.

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Nel 2013 l'economia thailandese è cresciuta del 3%, grazie all'incremento del

consumo interno, agli investimenti, al turismo e alla riduzione delle spese

governative. La Thailandia fornisce alle regioni ASEAN prodotti quali materie

prime e hard disk, incoraggiando in questo modo le economie della regione a

riprendersi dalla crisi. Tuttavia anche i fattori interni alla nazione sono

importanti; inflazione sui prezzi delle case, debiti sub-prime e stabilità

governativa sono tenuti sotto attenta osservazione da parte degli investitori.

In seguito alle proteste politiche, che avevano raggiunto il loro apice nel

novembre 2013 con circa 700 morti e che hanno condotto ad un colpo di stato nel

maggio 2014, l'economia thailandese ha subito un brusco rallentamento. Il settore

turistico è stato quello più gravemente afflitto dai tumulti politici, con un

progressivo calo dei visitatori stranieri, allarmati dalle violente proteste, dalle

leggi marziali e dal coprifuoco in vigore. Thai Airways International ha

confermato di aver perso circa 12 milioni di Bath, pari a circa 369 milioni di

dollari nel periodo novembre 2013 e gennaio 2014. L'associazione degli

albergatori sostiene che nel 2013 ci sono stati circa 26 milioni di visitatori su

tutto il territorio, tuttavia nel 2014 questo dato è destinato a rimanere stabile.

Secondo l'agenzia AsiaNews, nel gennaio 2014 le importazioni sono calate del

15,5% rispetto all'anno precedente. L'import di computer e componenti

elettroniche è calato del 19%, mentre il settore dell'auto segna un -31,8%.

In aggiunta, secondo gli analisti del Credit Suisse (2014), il PIL thailandese

continuerà a crescere nei prossimi anni, tuttavia sotto la soglia potenziale fino a

quando non ci sarà un governo stabile.

“Gli analisti di Credit Suisse prevedono una sotto-performance del

mercato azionario thailandese nei prossimi 1-3 anni, visto che il colpo di

Stato potrebbe dare il via a un nuovo ciclo di instabilità.” (Milano

Finanza, Thailandia, colpo di stato peserà su economia, 26 maggio 2014)

Nonostante la comunità economica internazionale si mostra preoccupata per le

tensioni nella nazione, il Prodotto Interno Lordo è destinato a passare da 365,9

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nel 2012 a 390,4 miliardi di dollari nel 2014 (Dati Trading Economics 2014).

Il 16 giugno 2014, il Consiglio Nazionale per la Pace e l'Ordine (NCPO) ha

annunciato la revoca con effetto immediato del coprifuoco in vigore in

Thailandia.

A parere dell'Asian Development Bank (2014), le stime di crescita per il 2014

sono state abbassate da un iniziale 4% ad un 3%. Mentre per il 2015 è previsto un

nuovo incremento al 4,5%, sostenuto da una probabile intesa politica.

TABELLA 11: ULTIMI DATI ECONOMICI (Agosto 2014)

Main Economic Indicators 2014 2015

GDP Growth 2,90% 4,50%

Inflation 2,40% 2,60%Fonte: Asian Development Bank, ADB estimates

La Thailandia è un economia orientata verso le esportazioni. Secondo Trading

Economics (2014), esse costituiscono circa il 65% del PIL totale e potrebbero

garantire una solida crescita del paese nonostante i tumulti politici. La nazione

esporta principalmente prodotti manifatturieri, che sono pari al'86% del totale

merci; seguiti da elettronica (14%) e autovetture (13%). I prodotti agricoli, come

riso e gomma sono stabili al'8%, tuttavia essi si distinguono per qualità e valore

aggiunto, grazie ad una manodopera già da anni specializzata. I maggiori partner

commerciali sono Cina (12%), Giappone (10%), Stati Uniti (10%) e Unione

Europea (9,5%). Con la nascita e il consolidamento dell'ASEAN, anche nella

regione sud-est asiatica sono state create rotte commerciali in grado di portare

vantaggio alla nazione, soprattutto con Malesia, Singapore e Australia (Dati

Trading Economics, 16 agosto 2014).

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GRAFICO 9:

Per quanto riguarda le importazioni, la regione acquista materie prime, come

petrolio o altri derivati, elettronica di base e macchinari per la trasformazione

delle row materials in prodotti pronti per il consumo. Il 20% delle importazioni

sono effettuate con il Giappone, il 15% con la Cina. Come per le esportazioni i

due maggiori partner commerciali sono regioni orientali.

GRAFICO 10:

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Nel giugno 2014 la bilancia commerciale thailandese è risultata positiva, con un

surplus di 1792.92 milioni di dollari. Come sostenuto precedentemente, essendo

la nazione orientata prettamente alle esportazioni, l'economia locale è esposta a

shock della domanda esterna di prodotti che potrebbero influenzare l'intero

apparato economico. Come è possibile osservare dal grafico sottostante, per gran

parte del 2013 la bilancia commerciale è stata negativa, creando passività per

6000 milioni di dollari. Un grave contraccolpo per l'economia emergente, dovuto

in prima istanza alla già citata crisi politica.

GRAFICO 11:

“Dopo mesi di stagnazione economica a causa di una crisi politica senza

via di uscita che ha portato al colpo di Stato militare del 22 maggio scorso,

in Thailandia la fiducia dei consumatori sembra aver ripreso vigore,

accelerata dalla speranza che la stabilità politica imposta dai militari possa

far ripartire la crescita economica del Paese.” (LookOut sicurezza,

geopolitica, economia, Segnali di ripresa dall'economia, ma le

manifestazioni non si fermano, Thailandia, 3 giugno 2014)

Secondo la Camera del Commercio thailandese (2014), l'indice di fiducia dei

consumatori, ha ripreso a salire, toccando il livello massimo del gennaio 2013.

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La giunta militare, da un lato, è riuscita ad incoraggiare consumatori ed

investitori, spendendo circa 9 miliardi di dollari destinati a piccole imprese,

coltivatori di riso e costruzione di nuove infrastrutture. Secondo il Centro di

Previsioni Economiche e del Business (CEBR), la fiducia dei consumatori è

cresciuta dal 72,1% nel maggio 2014 al 74,3% nel luglio 2014. Dall'altro lato,

tuttavia, la stabilità politica è ancora una volta messa a rischio, dal momento che

il capo delle Forze Armate ha fissato in non meno di 15 mesi il tempo minimo

necessario per far riconciliare le forze politiche e indire nuove elezioni.

2.2 FDI, Foreign Direct Investment

“Investors are attracted by a large consumer base, rich natural resources

and political stability, but often equally deterred by poor infrastructure,

rampant corruption and growing calls for economic protectionism.” (BBC

News Asia, Indonesia Profile, 9 luglio 2014)

Le nazioni del sud-est asiatico, come molte regioni sviluppate, sono attraversate

da un costante aumento di giovani pronti ad entrare nel mondo del lavoro. Per

assorbire un numero che secondo le stime di The world bank (novembre 2013) si

attesterebbe a 1 milione di nuovi lavoratori al mese per 20 anni, è necessario

creare alti standard di vita e ridurre la povertà; una sfida che l'ASEAN non può

affrontare affidandosi solo agli investimenti pubblici.

“The private sector will have to play a key role in creating productive jobs

for the new labor force entrants and a critical element of this is improving

the economic climate to attract private investments, a vital factor in

sustainable and broad-based growth.” (Policy Research Working Paper

6696 by The World Bank)

Gli investimenti destinati al settore privato, provenienti dall'interno sono si

importanti, tuttavia nessuna nazione ha mai raggiunto lo status di paese

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sviluppato senza affidarsi ad investimenti stranieri, come sostiene l'economista

David M. Gould (2008). Il flusso di capitali stranieri destinati alle imprese locali

sono costituiti da prestiti bancari con tassi agevolati, investimenti diretti e

indiretti, come l'acquisto di titoli di stato. “FDIs expand the potential sources of

capital available to countries, raising productivity and boosting growth.”

(Levchenko and Mauro 2007). Alcuni studi dimostrano inoltre che gli

investimenti stranieri aumentano la stabilità economica di una nazione e aiutano

a migliorare il trasferimento di conoscenze e tecnologie. Nel 2009 gli economisti

Bitzer e Gȍrg avevano dimostrato con un equazione come un cambiamento del

10% nel flusso di FDI possa condizionare il PIL di una nazione fino al 1,3%. Di

conseguenza, proseguono Blonigen e Wang, gli investimenti stranieri hanno un

ruolo quasi dominante sulla crescita sana di una nazione.

Una definizione esauriente di cosa siano i Foreign Direct Investment, proviene

dal Fondo Monetario Internazionale (IMF), che definisce gli FDI come una

categoria di investimenti monetari cross-nazionali provenienti dalla sede centrale

di una compagnia e indirizzati ad una subsidiary dislocata in un altro paese. Gli

FDI sono classificati ulteriormente come investimenti che possono riguardare la

costruzione di fabbriche o macchinari dal nulla, ma possono anche essere

condotti come mergers and acquisitions (M&A) con l'acquisto della proprietà di

stabilimenti o compagnie già avviate. Durante il Chicago Council on Global

Affairs (agosto 2010), i Foreign Direct Investment furono trattati con particolare

riguardo. L'obiettivo era quello di spronare le compagnie americane ad investire

in imprese provenienti dal sud-est asiatico, come la Malesia. Se una

multinazionale americana presenta uno stato patrimoniale largamente attivo, con

un avanzo e una disponibilità di denaro elevata, investire in un paese emergente

può rilevarsi una “mossa” vincente. Gli FDI permettono la costruzione di nuovi

uffici e la creazione di posti di lavoro. Inoltre, il governo del paese che riceve gli

investimenti, oltre ad agevolare gli investitori, riceve più denaro che può essere

utilizzato per finanziare il miglioramento delle infrastrutture, come le reti di

comunicazioni, strade e istituti bancari. Ciò che viene trasferito da un paese

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sviluppato ad uno emergente, non è solamente una quantità di denaro, ma è anche

la conoscenza; quest'ultima permette la creazione di manager di alto livello e

abili imprenditori, agevolando il benessere della regione. Nel periodo 2009-2011

in Malesia, gli investimenti stranieri hanno subito un incremento pari a sette volte

il valore iniziale; da 5 miliardi di dollari nel 2009, 29,3 miliardi di dollari nel

2010 e 36,7 miliardi nel 2011.

Come hanno sottolineato Blonigen e Wang (2005) le nazioni che riescono ad

attrarre un numero alto di FDI sono quelle che hanno adottato delle politiche

fiscali e monetarie favorevoli. Per esempio, leggi per la protezione dei diritti

della proprietà privata, stabili politiche macroeconomiche, infrastrutture efficienti

e un ambiente regolato da una concorrenza leale.

Dal 1980 il flusso globale di Foreign Direct Investment è cresciuto in modo

esponenziale, diventando la più grande forma di trasferimento di capitale da una

nazione ad un'altra. Nel 2010 il flusso di FDI mondiale era di 1.4 trilioni di

dollari, 27 volte più grande dei 53 miliardi nel 1980; in rapporto al PIL mondiale

esso è diventato cinque volte più grande. Negli ultimi venti anni i flussi di

capitali, sotto forma di FDI, sono diventati un importante fattore di sviluppo e di

assistenza per le nazioni emergenti. I Paesi industrializzati rimangono i principali

fornitori di capitali, nonostante nell'ultimo decennio è diventato più visibile uno

scambio di investimenti tra le nazioni emergenti. Secondo i dati UNCTAD

(2012) la crescita dei flussi di capitali, ha permesso di creare posti di lavoro nei

Paesi in via di sviluppo, compresa la regione del sud-est asiatico. Secondo le

stime, nel 2011 gli impieghi creati ammontavano a circa 69 milioni, un 8% in più

rispetto l'anno precedente.

“Remember when everything was “Made in China”? Those days are long

gone and will likely never return. In 2013, foreign direct investment (FDI)

into Indonesia, Malaysia, the Philippines, Singapore and Thailand, known

as ASEAN 5, outstripped FDI into China for the first time, and a big

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chunk of the investment those Southeast Asian countries received came

from China, now the third-largest foreign investor in the world.”

(Interntional Business Times, by Sophie Song, Southest Asia Receives

More Foreing Direct Investment (FDI) Than China, Which Is Now The

World's Third-Largest Foreign Investor, 5 marzo 2014, Manila)

Nel 2013 le 5 maggiori nazioni dell'ASEAN, Indonesia, Malesia, le Filippine,

Singapore e la Thailandia, hanno ricevuto circa 128.4 miliardi di dollari sotto

forma di investimenti stranieri, il 7% in più rispetto ai 120 miliardi del 2012.

Contemporaneamente, in Cina, che ha raggiunto il picco massimo di investimenti

nel 2011 pari a 124 miliardi, il flusso di FDI è diminuito del 2.9%; dai 121.1

miliardi del 2012 ai 117.6 miliardi nel 2013 (Dati Bank of America Merrill Lynch

research note 2014). I trend di investimento, negli ultimi anni, sono cambiati e si

sono concentrati sulle nazioni del sud-est asiatico, dove le principali

multinazionali si sono insediate. I foreign direct investiment si sono irrobustiti del

19% in Malesia, 17% in Indonesia, 5% a Singapore, ma sono calati del 12% in

Thailandia a causa dell'instabilità politica iniziata nel novembre 2013. Le

Filippine hanno ottenuto un più 118% nei primi tre quadrimestri dell'anno e nel

2014 si prevede un ulteriore aumento del 24%. Un ruolo importante, nello shift

degli investimenti, lo hanno avuto le condizioni demografiche favorevoli

dell'ASEAN; tradotte in una popolazione giovane ed in rapida crescita.

Tradizionalmente, il flusso di FDI globale si muove tra le nazioni sviluppate, per

esempio gli Stati Uniti che investono nelle nazioni dell'Europa occidentale e vice

versa. Nel 2010, per la prima volta nella storia, circa il 51.6% degli FDI

mondiali, è stato ricevuto dalle regioni in via di sviluppo. Ciò riflette l'esistenza

di un mercato ben integrato e diversificato; inoltre dimostra come il centro di

gravità economico si stia sempre più spostando verso le nazioni emergenti. Un

trend giustificato, come già affrontato molte volte in questo operato, dalla crisi

globale e dalla successiva recessione. Mercati finanziari sotto stress, incertezza

negli investimenti, rischi di default, hanno causato incertezza nella capacità di

generare profitto e difficoltà finanziarie nel procedere con acquisti e fusioni. In

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questo contesto economico-finanziario, il flusso di FDI in entrata (considerati

come capitali investiti in imprese locali) nel periodo 2007-2009 è diminuito del

53.9% nelle nazioni sviluppate, mentre nei Paesi del sud-est asiatico sono calate

solo del 12.3%. Contemporaneamente, il flusso di foreign direct investment in

uscita (considerati come la disponibilità di capitali da poter investire) dalle

nazioni sviluppate è diminuito del 46.2% nello stesso periodo. Nel sud-est

asiatico, invece, il calo è stato solamente del 8%.

Gli investimenti nella regione ASEAN, non sono omogenei. Gli investitori

basano le proprie scelte su vari fattori, ciascuno dei quali si presenta in modo non

univoco a seconda del paese. Differenze si possono osservare dipendentemente

dalla morfologia geografica della nazione, dal livello di sviluppo industriale e

infrastrutturale, dalle regolamentazioni in termini di tassazione e accoglienza di

FDI e dalla larghezza dell'economia stessa. Ma gli investimenti si possono

differenziare anche a seconda del settore nel quale i proprietari del capitale sono

interessati. Come riportano i dati del International Trade Center and World Bank

Staff Calculations (2013) gli FDI in entrata nel sud-est asiatico si concentrano nel

settore dei servizi, mentre la percentuale nel settore manifatturiero e agricolo è

minore. Nel 2009, in coincidenza con la crisi globale, il 72% degli FDI totali era

indirizzato al settore dei servizi; seconda solo all'Europa e alle regioni dell'Asia

centrale. L'ammontare di capitale si aggirava attorno a 1.9 trilioni di dollari.

TABELLA 12: FDI VERSO IL SUD-EST ASIATICO

Developed

Coutries

Developing

Countries

Total

2003 - 2006 23 38 61

2007 - 2010 24 45 69Fonte: World Bank Staff estimates from UNCTAD statistics and fDimarkets

Il numero dei Paesi in via di sviluppo che investono nel sud-est asiatico sono

aumentati negli ultimi anni, riflettendo l'esistenza di migliori collegamenti

economici. Tuttavia, benché il numero di nazioni emergenti che investono

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nell'ASEAN sia maggiore, l'ammontare di FDI proveniente dai Paesi sviluppati

rimane più alto. Nel 2008 esso aveva raggiunto un valore di 608 miliardi di

dollari. Dal 2003 al 2011, circa il 70% di investimenti ricevuti nella regione sud-

est asiatica era provenente dai Paesi dell'occidente. Il 32% dall'Europa, il 17%

dagli USA e il 20% da altri Paesi industrializzati. Tra le nazioni in via di

sviluppo, coloro che investono in modo maggiore nell'ASEAN sono il medio

oriente e il nord Africa (MENA) e l'Asia pacifica dell'est (EAP). Emirati Arabi e

Cina, comprendendo Hong Kong, Macau e Taiwan hanno contribuito per l'8%.

Per attrarre maggiori FDI, le nazioni sud-est asiatiche hanno provveduto alla

regolamentazione di politiche di investimento favorevoli e alla liberalizzazione

del mercato finanziario, togliendo dazi e tasse sulle somme di denaro in entrata.

Nel 2006, the Agreement on South Asian Free Trade Area (SAFTA), fu lanciato

per ridurre le barriere commerciali tra le regioni ed è ancora oggi in vigore.

Rajan (2009) individua alcuni drivers che guidano gli FDI nell'economia. Il

primo è l'accessibilità del mercato, descritta come la capacità di acquistare

imprese estere o finanziarne il funzionamento garantendo la sostenibilità

economica. In secondo luogo l'accesso a materie prime, che garantiscono una

dipendenza maggiore da altri stati, è fondamentale. Investire in una nazione che

presenta le citate caratteristiche assicurerebbe vantaggi finanziari e possibilità di

crescita elevate.

GRAFICO 12:

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Come attrarre FDI secondo i World Development Indicators

L'analisi si serve di dati provenienti da più di 78 nazioni emergenti e in via di

sviluppo nella decade 2000-2010. Lo studio delle diverse economie ha permesso

di trovare 11 variabili che, a parere dei maggiori investitori costituiscono la base

per attrarre FDI.

1)Investimenti come percentuale del prodotto interno lordo;

La presente variabile è fondamentale nel momento in cui si deve scegliere quale

possa essere una delle possibili destinazioni del capitale. Se la percentuale è alta,

i presenti FDI, attrarranno maggiori FDI, dal momento che la fiducia degli

investitori nel paese risulta elevata. Gli investimenti già presenti sul territorio

vengono alimentati dalla presenza di materie prime e dall'accessibilità del

mercato (Rajan 2009).

2)Tasse per le imprese;

Alti livelli di tassazione allontanano gli investitori, portando ad una riduzione

degli investimenti.

3)Stabilità macroeconomica;

I ricercatori (Bond e Van Reenen 2007; Bloom 2009) sono giunti alla conclusione

che un'economia non sostenibile (alto rischio di default, basso rating da parte di

agenzie finanziarie, alto indebitamento pubblico) non è in grado di garantire la

certezza di ritorni economici, sia per FDI che per investimenti locali.

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4)Capitale umano;

Il capitale umano può garantire un aumento degli investimenti stranieri. Le

caratteristiche della conoscenza posseduta dalle persone permette agli investitori

di operare trasferimenti di capitali mirati in uno specifico settore. Ad esempio, la

presenza di lavoratori con delle conoscente tecnologiche specifiche, indica un

settore dell'elettronica in crescita sul quale concentrare gli FDI; la presenza di un

largo numero di operatori, con conoscenze meccaniche, indica la possibilità di

investire in imprese manifatturiere, abbassando il rischio di incertezza

nell'ottenere profitto.

5)Qualità delle istituzioni

Il ruolo delle istituzioni è importante, come sottolineano Solomon e Ruiz (2012).

Migliori istituzioni permettono di ridurre tutti i tipi di costi, finanziari, tempo e

consegna. Inoltre garantiscono la costruzione di un ambiente economico

favorevole, proteggendone la trasparenza e le regole evitando asimmetrie nella

comunicazione e nelle attività.

6)Politiche di investimento pubbliche

Maggiore è l'accessibilità per gli investitori di raggiungere il mercato, maggiori

sono le aspettative di aumento degli FDI. Alcune nazioni impongono regole

diverse per politiche di investimento domestiche e straniere; alcune limitano

l'accesso agli scambi esteri, imponendo ulteriori tasse su pagamenti, trasferimenti

e transazioni finanziarie; infine ci sono stati che chiudono determinate aziende

dagli investimenti stranieri.

7)Infrastrutture

La qualità e la disponibilità di infrastrutture è un fattore chiave per attrarre FDI

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(Blonigen e Piger 2011). Infrastrutture curate facilitano il flusso di investimenti,

diminuiscono i costi di produzione, migliorano i servizi di approvvigionamento e

permettono ai profitti di crescere.

8)Apertura al commercio

Il commercio libero attrae FDI ed è una prerogativa per le economie che sono

orientate verso le esportazioni.

9)Disponibilità di energia e di risorse naturali

Nei Paesi in via di sviluppo, le risorse naturali, come materie prime e derivati,

sono deterrenti per il settore produttivo e guidano gli investitore nella

distribuzione del capitale

10)Sviluppo finanziario

Si traduce con la presenza o meno di intermediari finanziari, istituti di credito e

disponibilità di concedere prestiti alle imprese.

11)Costo del lavoro

Più basso è il costo del lavoro, meno spese un'impresa dovrà affrontare e più alti

saranno i profitti.

In conclusione, gli FDI globali degli ultimi decenni hanno seguito dei patterns di

crescita stabili con

un'accentuata accelerazione in prossimità della crisi. Con le economie mondiali

deboli, nel periodo successivo al 2008, i foreign direct investment sono calati

soprattutto qualora la loro destinazione erano i Paesi già industrializzati. Gli

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investimenti, diretti invece verso le economie emergenti, si sono ripresi in un

periodo inferiore rispetto alle previsioni degli investitori, sottolineando un trend

già argomentato; lo spostamento del centro di gravità economico dalle economie

sviluppate a quelle emergenti. Attualmente circa la metà degli FDI è destinato

alle regioni in via di sviluppo, attratti dalla solida e attuale crescita economica, da

un ambiente di business favorevole ed in netto miglioramento e da politiche

finanziarie atte a favorire il flusso di capitali stranieri.

2.3 Sostenibilità economica e finanziaria per un impresa

I mercati delle nazioni emergenti sono diventati negli ultimi decenni una meta

per le attività di business per molti imprenditori. Le multinazionali che nascono o

che si insediano nei mercati emergenti, vanno a competere direttamente con le

multinazionali delle nazioni industrializzate. L'alto potenziale di crescita ed

integrazione nell'economia mondiale, ha aumentato in modo esponenziale

l'interesse verso queste regioni da parte di compagnie occidentali, che, per

competere sul mercato locale, devono riadattare le loro strategie, sapendo

sfruttare al massimo tutte le leve del

marketing mix.

GRAFICO 13:

Una delle numerose strategie che si

possono utilizzare per accedere in un mercato emergente, è quella descritta da

IDC Analyze the Future (2012). La multinazionale che decide di operare in un

mercato emergente deve essere prima di tutto in grado di comprendere quale

siano le necessità del mercato in cui ci si sta per insediare. A livello globale

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l'impresa dovrà essere in grado di esercitare una strategia efficace, con degli

obiettivi ben precisi e una solidità finanziaria che possa permettere di procedere

con l'investimento. A livello regionale, la strategia vincente, sarà quella che si

saprà adattare alle condizioni economiche, sociali e ambientali della regione. La

strategia, intesa come il modo in cui l'impresa interagisce con l'ambiente

circostante, non deve mai essere statica, ma deve essere in grado di assorbire le

specificità del mercato per saperle trasformare in vantaggi competitivi, sociali ed

economici. Infine, a livello locale, la multinazionale dovrà garantire la presenza

dei prodotti che essa commercializza in punti vendita efficienti e ben forniti.

Dovrà essere in grado di trasformare l'orientamento strategico di fondo del

management in azioni proficue, sia in termini economici, sociali e competitivi.

Secondo l'associazione degli studiosi provenienti dalla facoltà di economia

dell'università di Craiova (2011), l'ambiente economico, presente nei mercati

emergenti del sud-est asiatico, è orientato verso le persone e nel creare relazioni

tra gli investitori che possano portare ad una network society.

Le compagnie multinazionali si presentano come grossi agglomerati di imprese

strettamente legate alla nazione di origine, ai governi e alle comunità locali. Le

imprese possono essere socialmente responsabili.

GRAFICO 14:

La creazione di un'impresa di successo si colloca nell'intersezione di tre

fondamentali componenti. Prima di tutto la sostenibilità economica, che permette

ad un'attività di avere un capitale iniziale, di saperlo sfruttare al massimo e

ottenere dei ricavi, maggiori delle spese. La massimizzazione del profitto

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dovrebbe essere seguita da un interesse per la sfera sociale all'interno della quale

si opera. Un esempio è la giusta retribuzione dei dipendenti, pratiche di

concorrenza leale e rispetto dei diritti umani. Infine, la variabilità ambientale, che

si traduce nella capacità dell'impresa di insediarsi in un determinato territorio

senza intaccarne in modo irreparabile le caratteristiche.

GRAFICO 15:

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2.3.1 Fattori di successo

Nell'elaborato International Business Strategy In Emerging Country Markets

degli esperti in strategia aziendale Jansson H. e Edward Elgar Publishing (2011),

appare chiaro come le organizzazioni possano essere socialmente responsabili

attraverso il sostengono dei fornitori presenti sul territorio, con il training di

manager locali, con l'apertura verso l'istruzione e attraverso l'essere coinvolti in

partnership sociali ed economiche riguardanti la cultura, l'educazione e la

comunità. Le imprese possono in questo modo creare un' immagine positiva nel

territorio e migliorare le conoscenze locali. Una alta reputazione diventa un

importante sostegno per la differenziazione e il riconoscimento da parte dei

consumatori. Il rispetto delle risorse intangibili permette di accrescere le risorse

tangibili, come capitale e forza lavoro, necessari per la sopravvivenza del

business.

Alcuni dei fattori importanti che sono tenuti in grande considerazione dalle

multinazionali che investono nei mercati emergenti sono la strategia di entrata,

l'adeguamento delle leve del marketing mix per incontrare i requisiti del mercato

locale, delle buone relazioni con le istituzioni governative, con i fornitori, con i

clienti e con l'intera comunità.

“L'esperienza di un'impresa può essere considerata un fattore di successo

nel condurre attività in un mercato emergente, dal momento che crea

profonde relazioni e conoscenze del territorio, della cultura e

dell'economia locale.” (Knight G., International Business, Ed. Pearson

2012)

Un esempio, che viene affrontato spesso come case history di successo, è il caso

Caterpillar. L'azienda, con un' esperienza di oltre 30 anni nel mercato edilizio, è

stata in grado di insediarsi in Cina, in India, Indonesia e Thailandia, ottenendo

ottimi risultati. La strategia vincente, è stata quella di creare punti vendita e centri

di ricambi meccanici negli stessi Paesi in cui vendeva i prodotti, abbattendo i

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tempi di consegna e di riparazione, diminuendo i costi operativi e aumentando la

soddisfazione dei clienti (Daniels J., International Business. Environments and

Operations, Ed Pearson, New Jersey, 2011).

Lo studio dell'ambiente economico dei mercati emergenti è difficile, soprattutto

con l'economia globale instabile degli ultimi 5 anni. Previsioni e Analisi vengono

condotte in modo empirico, ma ciò che emerge con particolare chiarezza, come

sostengono gli studiosi di Business Strategy della London Business University

(2011), i migliori metodi per stabilirsi in una nazione con un' economia in via di

sviluppo sono la join venture e le alleanze; infatti questi due metodi permettono

un esborso di capitali non eccessivo, come potrebbe essere la creazione di

stabilimenti e capannoni nuovi. Nel sud-est asiatico, molte imprese locali, hanno

stretto alleanze con le multinazionali straniere, aprendo nuove opportunità in

termini di soddisfazione e ricezione dei clienti per gli imprenditori stranieri e una

stabilità economica elevata per le industrie regionali. I vantaggi non terminano

qui; secondo il Professore di Economia presso l'Università di Roma LUISS

Guido Carli (2013), la creazione di un network di alleanze tra partner locali e

stranieri, garantisce un accesso alle tecnologie e al marketing regionale, stabilità

finanziaria per le aziende della regione e riduzione di costi e rischi per gli

investitori. Buone relazioni e alleanze con i partner locali si rivelano, ancora una

volta, molto importanti per il successo della strategia di un' azienda. In India, a

titolo esplicativo, la società automobilistica Volvo, ha stretto un' alleanza con

Eicher Motors, produttore locale di autoveicoli. Volvo è stata così in grado di

sfruttare la manodopera, i punti vendita e le infrastrutture del partner per portare,

secondo le previsioni, la vendita di autoveicoli da 5000 nel 2013 a 100000 nel

2015.

Un secondo tipo di relazione che si dovrebbe venire a creare, è quella nei

confronti del governo locale; essa include l'accesso preferenziale ad una vasta

gamma di licenze per operare nella nazione e diversi tipi di incentivi per

esportare o vendere le merci con i mercati circostanti. Dal canto loro, le aziende

che rispettano la cultura, i valori e le norme locali, permettono la creazione di

posti di lavoro e l'impiego di manodopera specializzata, l'aumento della

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knowledge nell'ambito lavorativo scelto e l'alimentazione del PIL nazionale.

Infine, il prodotto che viene commercializzato deve permettere la formazione di

relazioni positive con il cliente, a vantaggio della reputazione e dei risultati

competitivi aziendali. L'oggetto offerto dall'impresa deve accontentare la

domanda del mercato, deve essere friendly per il consumatore, sia da un punto di

vista ambientale che pratico (Jansson, 2007) e dovrebbe avere un prezzo

proporzionale alle prestazioni che promette. Le multinazionali non dovrebbero

solamente assemblare il prodotto pensando al mercato di sbocco, ma collaborare

con i produttori locali, condividendo conoscenze e manodopera per un perfetto

design che rispecchi la cultura del luogo.

Nel sud-est asiatico, una delle strategie messe in pratica dalle maggiori

multinazionali, consiste nel creare, nella regione in cui ci si insedia un Hub

manifatturiero. Un centro che serve a rifornire i mercati circostanti. LG

Electronics, ha inaugurato in Thailandia, due fabbriche manifatturiere che

assemblano televisori, cellulari, monitors per poi esportarli in Sud America e

negli Stati Uniti.

Una business strategy di successo deve anche prevedere l'aumento inevitabile dei

costi che un investimento genera. Molto importante è la decisione di dove

collocare impianti, fabbriche e magazzini, soprattutto quando la regione è

sottosviluppata o ha una carenza di infrastrutture efficienti. Sempre nel caso di

LG, le fabbriche sono collocate in prossimità di India e Cina, che garantiscono

una manodopera a basso costo per la lavorazione di materie prima che verranno

poi assemblate in Thailandia da lavoratori specializzati. Una strategia di

successo, favorita da incentivi statali in termini di tassazione.

I più importanti ostacoli che le compagnie occidentali potrebbero incontrare,

soprattutto in Paesi dove il livello di contraffazione dei prodotti, di corruzione e

di instabilità politica sono numerosi. Un mercato commerciale limitato con un

canale distributivo ridotto, unito ad una bassa sicurezza garantita dal governo in

termini di lotta alla falsificazione, una grande distanza culturale e incomprensioni

linguistiche, una differente attitudine al lavoro e alla leadership, cambi di

regolamenti e di leggi. La prevenzione di questi inconvenienti è essenziale per

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evitare la perdita di ingenti capitali. La prima fase della strategia aziendale dovrà

quindi riguardare una lettura macroeconomia e microeconomica specifica della

nazione target. Gli investimento dovranno essere mirati e pensati.

“The multinational companies will have to rethink their business models,

being more flexible and creating relationships with non-traditional

partners and local entrepreneurs.” (London and Hart 2004)

2.3.2 Livello di tassazione per le aziende

Nel 2007, i dieci stati che compongono l'ASEAN hanno firmato il The ASEAN

Economic Community Blueprint (AEC), concordando sulla formazione di una

comunità economica ce ha trasformato i Paesi del sud-est asiatico in un singolo

mercato e base di produzione di beni, servizi, investimenti, liberi di circolare tra

le nazioni firmatarie. Le principali caratteristiche dell'AEC, la cui attivazione è

prevista per dicembre 2015, includono l'assicurazione di competitività

economica, equilibrio dello sviluppo economico delle regioni e un economia

locale ben integrata nel mercato mondiale.

TABELLA 13: CONFRONTO DEL LIVELLO DI PRESSIONE FISCALE

Malesia Indonesia Thailand Singapore Vietnam Euro

Zone

USA

Pressione

fiscale

sui

redditi

d'impresa

(%)

24,00% 25,00% 20,00% 17,00% 22%

(ridotte

al 20%

nel

01/16)

27,00% 30,0

0%

Tariffe

doganali

(%)

25,00% 24,00% 23,00% 24,00% 21,00% 26,00% 28,0

0%

Fonte: KPMG ASIA PACIFIC TAX CENTRE, novembre 2013

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Favorire gli investimenti significa creare le condizioni economiche necessarie

cosi che gli investitori possano ottenere un return on investment favorevole.

L'armonizzazione del tasso di prelievo fiscale avviene quando i membri di più

regioni o nazioni applicano le stesse percentuali di aliquote, aumentando

l'integrazione economica, ma a discapito di una restrizione dei poteri di ogni

singolo governo. L'assenza dell'armonia fiscale, provoca livelli di tassazione

diversi tra i vari Paesi, che competono continuamente l'uno contro l'altro.

Nell'ASEAN, osservando i trend degli ultimi quindici anni, si nota un netto

decremento della pressione fiscale. Gran parte delle nazioni della regione,

applicano un 23.1% medio di prelievo sulle aziende. Con la firma dell'AEC, il

sud-est asiatico ha aperto le porte ad un mercato interno di 600 milioni di

persone, dove il livello di crescita del PIL medio è 5.4%. Secondo Asia Research

Online (2011), la spesa dei consumatori nel 2020 è destinata a raggiungere 1.5

trilioni di dollari.

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TABELLA 14: INDONESIA

Pressione fiscale La pressione fiscale è del 25%; sono disponibili incentivi

fino al 5% per imprese che possiedono determinate

caratteristiche.

Multinazionali con profitti superiori ai $50 milioni di

dollari possono ottenere uno sgravo del 50%.

Tariffe doganali 20% per merci ordinarie, dal 25% al'80% per gli

autoveicoli e fino al 170% per gli alcolici

Patti di libero

mercato

The ASEAN Trade in Goods Agreement (ATIGA);

ASEAN – China Free Trade Agreement; ASEAN – Korea

Free Trade Agreement; Indonesian – Japan Free Trade

Agreement / Indonesia – Japan Economic Partnership

Agreement (IJEPA); ASEAN – India Free Trade

Agreement; ASEAN – Australia New Zealand Free Trade

Agreement; Indonesia – Pakistan Free Trade Agreement

Fonte:Fonte: KPMG ASIA PACIFIC TAX CENTRE, novembre 2013

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TABELLA 15: MALESIA

Pressione fiscale 24,00% per tutte le imprese. Alcuni

sgravi fiscali sono 19% fino al primo

mezzo milione di MYR e 24% per il

successivo.

Tariffe doganali Possono essere imposte, a seconda del

prodotto, dallo 0% al 60%; per

facilitare il commercio con l'ASEAN, i

prodotti provenienti dalla regione

possono essere tassati dallo 0 % al 5%

Patti di libero mercato Bilateral agreements: Australia; Chile;

India; Japan; New Zealand; Pakistan;

Turkey

Multilateral agreements: ASEAN-

Australia and New; Zealand; ASEAN-

China; ASEAN-India; ASEAN-Japan;

ASEAN-Korea

Fonte: KPMG ASIA PACIFIC TAX CENTRE, novembre 2013

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TABELLA 16: THAILANDIA

Pressione fiscale 20% per tutte le aziende; 50% sulle

compagnie che importano o esportano

petrolio e gas; 3.3% sulle istituzioni

finanziarie

Tariffe doganali Dal 1% al 20% per la maggior parte dei

prodotti; 60% per prodotti come

autoveicoli, sigarette e alcolici

Patti di libero mercato Australia, India, Japan Peru, New

Zeland;

ASEAN: Brunei Darussalam,

Cambodia, Indonesia, Japan, New

Zealand, Lao, Malaysia,

Myanmar,Peru, Philippines, Singapore,

Vietnam

Fonte: KPMG ASIA PACIFIC TAX CENTRE, novembre 2013

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2.4 L'Italia investe in Vietnam; il caso Piaggio

“Il Vietnam è una delle migliori basi per entrare nel grande sistema

produttivo dell’estremo oriente, nella supply chain dei giapponesi e dei

coreani, e al tempo stesso una porta per il mercato dell’ASEAN e per tutto

il mercato asiatico.” (Tommaso Andreatta, Vice Presidente di Eurocham

Vietnam, L'investimento italiano in Vietnam, 2013)

Negli ultimo decennio, con il rapido aumento del costo del lavoro e la riduzione

di disponibilità di manodopera in Cina, Giappone e Corea, sommati alle tensioni

politiche, le grandi aziende dei settori automobilistico, infrastrutture, elettronica,

materiali da costruzione e i loro fornitori, hanno creato nuove fabbriche nel sud-

est asiatico, da un lato per evitare l'inasprimento delle tariffe commerciali e

dall'altro incontrare un mercato con un elevata domanda interna.

Per le grandi aziende italiani fornitrici di materie prime, accostarsi alle

multinazionali giapponesi e coreane garantirebbe l'accesso al mondo dell'estremo

oriente. Permetterebbe, inoltre, di entrare a contatto con un mercato economico

dove per struttura della popolazione, accumulazione del reddito e cultura negli

investimenti è destinato a crescere in modo maggiore rispetto alle altre economie

mondiali. Come precedentemente accennato in questo elaborato, l'ASEAN è il

gruppo dei dieci Paesi del sud est asiatico con 600 milioni di abitanti ed un

reddito pro-capite medio di 4000 dollari circa. Un area dove le tariffe sono

comprese tra il 5% e lo 0%. Nel 2015 i Paesi della regione, come riportato nel

paragrafo precedente, lanceranno una comune area economica promuovendo il

libero scambio (FTA) sia a vantaggio dell'ASEAN che dei grandi Paesi in

prossimità. Questo, secondo CNBC, permetterà a merci con contenuto locale pari

o superiore al 40% dell'intero prodotto, di entrare e uscire dall'area senza

l'imposizione di alcun dazio e con la sospensione delle tariffe doganali. Essendo

il Vietnam, assieme a Cambogia, Laos e Myanmar, uno degli ultimi Paesi entrato

a far parte dell'ASEAN, sarà esonerato dal peso della pressione fiscale in ambito

commerciale fino al 2018; “Si verrà a creare una base con protezione temporanea

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per chi volesse produrre in questi quattro Paesi” (Gemma Price, International

Trade Blogger UK). Inoltre, gode del System of Preferences (GSP) da parte

dell'Unione Europea con tariffe al minimo o a zero, in quanto paese in via di

sviluppo. Gli Stati Uniti, contemporaneamente stanno negoziando un Trans

Pacific Agreement (TPA) che garantirebbe sgravi fiscali e agevolazioni

commerciali.

Il Vietnam, ha mantenuto dal 1986 una politica di liberalizzazione economica,

ricevendo una quantità elevata di investimenti diretti e statali per la costruzione

di infrastrutture, come base per futuri business.

“La corretta priorità per le società internazionali è di assicurarsi l'accesso

alle risorse naturali ed energetiche della regione di cui è ricca.” (Tommaso

Andreatta, Vice Presidente di Eurocham Vietnam, L'investimento italiano

in Vietnam, 2013)

Un vantaggio competitivo del Vietnam, secondo Il Sole 24 Ore (Febbraio 2014),

è una cultura simile a quella cinese, nazione dalla quale provengono i maggiori

investimenti. Un paese ufficialmente laico, ma con una popolazione buddhista e

confuciana, al contrario ad esempio dell'Indonesia che accoglie una maggioranza

musulmana.

Dal 2008 il Vietnam fa parte del World Trade Organization (WTO) e ha goduto

di ingenti flussi di investimenti diretti e finanziari sotto forma di FDI. Dopo la

Cina, Europa e Stati Uniti sono i due mercati principali dei prodotti vietnamiti;

verso queste nazioni il paese applica tariffe preferenziali per l'esportazione e

protegge il mercato interno.

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“Nei primi sei mesi dell’anno, il settore due ruote in Europa ha fatto

registrare un decremento del 16% (-20% negli scooter e -8% nelle

motociclette); andamenti, questi, aggravati dal lungo periodo di maltempo

che ha colpito la maggior parte dei Paesi europei. In area Asia-

Pacific la domanda nel settore due ruote è risultata piatta. Tra gli

andamenti di segno positivo spicca l’India, con una crescita del mercato

scooter del 8,8% nel primo semestre del 2013, e un incremento del 1,4%

per quanto riguarda i veicoli commerciali a tre ruote, mentre in Europa i

veicoli commerciali leggeri hanno fatto segnare una flessione del 6,6%

rispetto ai primi sei mesi del 2012.”

(Gruppo Piaggio, semestrale 2013, 26 luglio 2013)

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Case History: Piaggio

“Hanoi, 1 marzo 2012 – Il Gruppo Piaggio avvia ufficialmente oggi in

Vietnam una nuova e decisiva fase di sviluppo delle proprie operazioni

nell’area Asia Pacific, con l’inaugurazione di un nuovo stabilimento

motori destinato alla produzione di propulsori per i veicoli della

consociata Piaggio Vietnam, la cui capacità produttiva passerà a 300.000

veicoli/anno.” (www.piaggiogroup.com, 1 marzo 2012)

La succursale vietnamita della società italiana Piaggio, è stata costruita nella

provincia di Vinh Phunc nel 2007, entrando in funzione nel 2008. L'azienda si

occupa principalmente della produzione destinata al mercato interno, che ha

registrato un sostanziale aumento della domanda. Nel 2010, la vendita dei due

prodotti più richiesti, il Cub scooter o Vespa e lo scooter automatico, è aumentata

del 15.2% e 27.2% rispettivamente (Piaggio Group, annual report 2010).

“La mobilità dello stato asiatico si basa soprattutto sui motocicli (ne

circolano oltre 22 milioni), quindi si può ben comprendere la scelta

strategica di Piaggio. Tra l’altro, il gruppo ha sviluppato business

importanti anche in Indonesia, India e Singapore; l’annuncio di questi

successi di vendita ha portato a un forte rialzo del titolo a Piazza Affari

(+5,77%).” (Milano Finanza, 11 dicembre 2009)

All'inizio del 2011, lo stabilimento poteva contare sulla manodopera di 360

lavoratori specializzati, 190 addetti alle vendite e 16 manager di origine italiana

che si occupavano della gestione aziendale. Un requisito richiesto a coloro che

vogliano entrare a lavorare nel mondo Piaggio è un alta preparazione operativa

sui sistemi informatici, dal momento che quasi tutta la catena di montaggio è

robotizzata. Gli impiegati devono seguire dei corsi di tecnologia e sostenere un

esame finale. L'alto grado di istruzione richiesto, permette di aggiungere al

prodotto valore aggiunto; risparmio di tempo e merce impeccabile. Nonostante

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l'elevato standard richiesto, Piaggio non ha mai subito una carenza di lavoratori

in Vietnam. Nel 2011, secondo gli HR Managers dell'azienda venivano ricevute

dalle 50 alle 100 richieste di lavoro alla settimana. Motivazione plausibile, dal

momento che gli stipendi sono elevati, comprendenti bonuses e sopra alla media

della regione. Nel primo quadrimestre del 2012, Piaggio ha pagato stipendi per

circa 1.8 milioni di Dong al mese, mentre la media delle imprese locali della

regione si sono fermate a 1.4 milioni di Dong al mese; il principale concorrente

del marchio italiano, Honda ha distribuito stipendi per solo 1 milione di Dong al

mese. Il management aziendale si preoccupa di revisionare tutti gli anni gli

andamenti degli stipendi, cercando di assicurare un livello stabile per rimanere

l'azienda Top Player. In particolare, le retribuzioni vengono calcolate e

perfezionate confrontando il tasso di inflazione dell'anno precedente. Il

management delle risorse umane di Piaggio, sostiene che non ci siano mai state

richieste di aumento degli stipendi da parte degli operai, che si ritengono

soddisfatti. Inoltre, per l'azienda, la manodopera costituisce una risorsa materiale

importante, essendo specializzata, istruita e con un'elevata esperienza.

L'assemblaggio degli scooter avviene in catena di montaggio, ciascuna costituita

da alcuni team, costituiti da venti operati, specializzati in differenti sezioni della

produzione. Il team leader, è l'operatore con più esperienza, istruisce i nuovi

operai, interagisce con il management e il resto della produzione, è disponibile ad

ascoltare preoccupazioni e a risolvere i conflitti che possono nascere all'interno.

“The workers may not listen to me but they will definitely listen to their

team leaders. So when the company makes any important changes, I will

have to talk to them through the team leaders. If the team leaders are

persuaded, the workers will be persuaded.” (Costantino Sambuy,

Chairman and General Director Piaggio Vietnam, Executive Vice

President - Asia Pacifc 2 Wheeler)

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GRAFICO 16: OVERVIEW GRUPPO PIAGGIO

Fonte: www.piaggiogroup.com

La presente mappa illustra come il gruppo Piaggio non cerchi solamente di

soddisfare e di servire i mercati, ma istalla delle sedi societarie, in modo da

ridurre la filiera del comando. Le decisioni possono essere prese in maniere

rapida e senza perdite di tempo da un management specializzato nel proprio

mercato di riferimento. La comprensione dei gusti dell'ambiente in cui si opera è

fondamentale per la soddisfazione del cliente.

Come presentato nel bilancio semestrale 2014, pubblicato il 30 giugno 2014, il

mercato mondiale delle due ruote a motore nel primo semestre 2014 ha segnato

una crescita attestandosi poco sopra i 23,4 milioni di veicoli venduti, registrando

un incremento del 1,7% rispetto allo stesso periodo del 2013. Un risultato

notevole, considerando che in Europa, il mercato dello scooter, nel primo

semestre 2014 si è attestato a 349000 veicoli immatricolati. L’area asiatica

denominata ASEAN 5 segna un leggero calo dello 0,5% (poco superiore ai 7

milioni le unità vendute). Il paese più importante di quest’area, l’Indonesia, ha

continuato la sua crescita, arrivando a quasi 4,3 milioni di unità. L’Indonesia ha

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aumentato notevolmente il suo peso in quest’area arrivando a rappresentare il

61% delle vendite del sud-est asiatico; il Vietnam è rimasto il secondo mercato

dell’area con volumi leggermente inferiori a 1,3 milioni di unità, in diminuzione

del 9,2%; la Tailandia ha registrato un forte calo delle vendite nei primi sei mesi

del 2014 (circa - 23%) chiudendo a 865mila pezzi venduti. Tra gli altri Paesi

dell’area asiatica il mercato di Taiwan ha continuato la crescita nei primi sei mesi

del 2014, portando i volumi complessivi a 334mila pezzi con un aumento

percentuale del 10,7% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

Gli investimenti di Piaggio si attestano attorno ai 884 milioni di euro (primo

semestre 2014), contro gli 887,3 milioni del 2013 e gli 867,7 milioni del 2012.

La sfida del gruppo italiano punta a creare un mercato premium, fino ad ora

inesistente nella regione sud-est asiatica. L'Indonesia, ad esempio, secondo i dati

Sole 24 Ore, viene subito dopo l'Italia come numero di Vespa Club in attività.

L'investimento comprende, oltre il miglioramento delle infrastrutture e

l'aggiornamento dei macchinari di fabbrica, la costruzione di 42 concessionari;

aiutati anche dalla possibilità di creare partnership con aziende locali, tra cui

Atlantic 12, che fornisce immobili in locazione e Zongshen Piaggio Fosham

Motorcycle Co. Ltd, che vende veicoli, ricambi ed accessori alle regioni asiatiche

per conto di Piaggio.

Grazie a questi investimenti ed alleanze, il gruppo italiano di Pontedera è in

grado di coprire tutte le isole, comprese Sumatra, Giava, Bali e Sulawesi

Kalimantan.

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“In Vietnam, we operate in many areas. We have plants, a business

network and specific products for the market. About infrastructure, we can

say that 90% of it is completed. In the future, we will focus on developing

products, which has been done in the past in so many years but will be

enhanced in the future.” (Costantino Sambuy, Chairman and General

Director Piaggio Vietnam, Executive Vice President - Asia Pacifc 2

Wheeler)

Piaggio ha sempre cercato di creare un legame stabile, forte e duraturo con il

Vietnam, prosegue Costantino Sambuy, già dalla prima produzione avvenuta nel

2009. Dal 2011, l'azienda italiana ha aumentato la propria capacità produttiva con

la costruzione di un nuovo impianto, passando da 100000 a 300000 unità l'anno.

In conclusione il gruppo ha previsto un aumento della domanda di motoveicoli in

vietnam pari al 8% per i successive 2 anni.

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Capitolo 3

Prospettive future: nuove opportunità o minacce celate?

Il capitolo conclusivo del mio lavoro, si occuperà di mettere in evidenza non solo

i fattori di crescita dei Paesi emergenti, in particolare del sud-est asiatico, ma

anche di sottolineare quali possano essere i rischi e i punti di fragilità

nell'investire in regioni in via di sviluppo. Se da un lato i return on investment

(ROI) per gli imprenditori sono attraenti e proficui, dall'altro andrebbero

considerati i fattori di rischio che possono annullare e mettere in pericolo la

sostenibilità economica di un'impresa. Particolare attenzione verrà posta sulle

opportunità, ma anche sulle minacce, che il Made in Italy dovrà affrontare nel

corso dei prossimi anni.

“I nuovi mercati esteri che si apriranno all'esportazione di prodotti italiani

sono quelli del Sud Est asiatico. La loro crescita economica, infatti, è

significativa e costante da diversi anni, e fanno di questa regione una delle

aree del mondo maggiormente attrattive e ad alto potenziale di

progressione nell'attuale contesto di mercato globale. E la richiesta di

prodotti alimentari italiani dal Sud Est asiatico è già una realtà che lascia

prevedere una crescita importante dell'export delle nostre aziende.”

(La Repubblica, Un futuro di Cibus? Si, sudest asiatico, Novembre 2012)

“I prodotti italiani hanno il vantaggio di essere considerati merce di lusso

nei Paesi emergenti.” sostiene l'imprenditore Diego Della Valle (22 agosto

2014), dopo aver chiuso il bilancio 2013 con un utile di 100 milioni di

euro. Tuttavia, come accade più spesso negli ultimi anni, il reato di

contraffazione è il primo fattore di rischio per il Made in Italy e per questo

le regolamentazioni commerciali, sempre più strette, su prodotti in entrata

e in uscita dai Paesi devono cercare di arginare perdite per milioni di euro

(Consiglio Nazionale Anticontraffazione italiano, 2014-2015).

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3.1 Fattori e tassi di crescita dei Paesi emergenti

Nei prossimi 8 anni, entro il 2022, ci saranno 200 milioni di persone appartenenti

al ceto medio e 200 milioni di nuovi proprietari immobiliari con redditi superiori

ai 35 mila dollari che i settori manifatturieri e tecnologici dovranno impegnarsi a

soddisfare (Il Sole 24 Ore, N°35, 5 febbraio 2014). “...Un treno da non perdere.”

ha ribadito Leonardo Del Vecchio, CEO di Luxottica, in un articolo del Financial

Times (1 Settembre 2014). Secondo l'imprenditore, le aziende non dovranno

solamente creare prodotti in grado di fornire beni e status symbol, ma anche

know how e soluzioni intelligenti per l'accesso alle energie alternative e alle

smart cities; dalle infrastrutture ai servizi legati alla salute, alla cultura e

all'istruzione.

Secondo il rapporto Rapid-Growth-Markets di Ernst&Young del 4 febbraio 2014,

anche se le incertezze sui mercati dovessero ridurre le aspettative di crescita dei

25 mercati emergenti dal 5% al 4% circa, i settori dell'edilizia, la distribuzione e i

servizi finanziari continueranno a crescere, nel 2015, ad un ritmo pari al 5%.

Come affrontato più volte nel corso di questa tesi, le prospettive di crescita dei

mercati in via di sviluppo, nonostante qualche rallentamento dovuto ad incertezze

politiche e variazione negli FDI, si manterranno a livelli superiori rispetto a

quelle dei Paesi industrializzati. Di conseguenza, la programmazione di una

presenza capillare, dal posizionamento di un brand alla ricerca di un partner,

dalla costruzione di una rete commerciale distributiva e post-vendita, si

dimostrerebbe un investimento dai ritorni non immediati, ma una exit strategy

anti-crisi nel medio termine per le imprese che operano nel nostro territorio e che

vogliono espandersi aumentando i volumi di vendita.

“Su Cina, India e Brics, vi è spesso un affollamento di investitori. Mentre

l'insediamento della Piaggio in Vietnam dimostra che sappiamo guardare

oltre le destinazioni più “gettonate” e talvolta non conformi né semplici

per la nostra struttura imprenditoriale, sappiamo arrivare anche prima

degli altri.” (Donato Iacovone, AD di Ernst&Young Italia, febbraio 2014).

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Le aziende devono selezionare il paese nel quale vogliono investire.

“Un ceto medio-alto che cresce comprerà più manifattura europea di qualità

piuttosto che low cost Made in China.” continua Iacovone, sostenendo che ne

potranno trarre vantaggio il food, il fashion e il design.

3.1.1 Fattori di crescita

Parlando di crescita economica, mi piacerebbe, in via preliminare, distinguere

questo concetto da quello di sviluppo economico, per aver un quadro più preciso

di quanto verrà trattato nei seguenti paragrafi. La crescita del sistema economico

è un obiettivo di medio-lungo periodo che consiste nel favorire la crescita del

potenziale produttivo, misurato con l'aumento del prodotto interno lordo di un

paese. Quando la produzione è al suo livello potenziale e tutti i fattori sono

completamente utilizzati, un'ulteriore crescita del prodotto si può determinare a

seguito di una maggiore disponibilità di fattori produttivi o di una migliore

capacità di un loro utilizzo che ne determina un aumento della produttività

(Roger Farmer, Macroeconomia, McGraw-Hill, 2014).

La crescita economica è un concetto quantitativo ed indica il tasso di variazione

del reddito reale o del prodotto reale, misurato come percentuale annua

(McGraw-Hill, 2011). Lo sviluppo economico, invece, fa riferimento a quei

fattori economici, sociali e culturali che si accompagnano alla crescita del reddito

pro-capite e per avere una giusta misurazione, si devono osservare variabili come

la distribuzione del reddito, l'istruzione, il tasso di alfabetizzazione.

“Lo sviluppo economico può essere definito come l'insieme degli sforzi

che cercano di migliorare il benessere economico e la qualità della vita di

una comunità generando e mantenendo occupazione e redditi crescenti o

quanto meno sufficienti.”

(Elhanah Helpman, The Mystery of Economic Growth, Havard University

Press, 2004)

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Nell'Introduction to Economic Growth di Jones e Charles (2002), lo sviluppo

economico viene descritto come la capacità di attrarre nuove imprese o attività

economiche verso una specifica regione, assistendo l'espansione o il

mantenimento di start-up aziendali, garantendone un sano funzionamento.

Secondo i due economisti, inoltre, lo sviluppo economico comprende tre aree

importanti. Prima di tutto le politiche che i governi intraprendono per conseguire

obiettivi economici di grande portata, come la stabilità dei prezzi, un'alta

occupazione ed una crescita sostenibile. Tra queste politiche si evidenziano

quelle in materia fiscale, monetaria e commerciale. In secondo luogo, lo sviluppo

economico comprende programmi per fornire infrastrutture e servizi per una

rapido e proficuo scambio di merci. Infine, l'ultima area include programmi

indirizzati alla creazione e al mantenimento di posti di lavoro.

La crescita economica comporta molti benefici, ma anche alcuni costi, che

possono essere rilevanti e compromettere le possibilità future, come

l'inquinamento ambientale o l'esaurimento delle risorse. Per questo motivo oggi

molti Paesi hanno attivato delle politiche di sviluppo economico sostenibile, per

permettere di soddisfare sia i bisogni delle attuali generazioni sia di quelle future.

“La crescita dello stock di capitale, la crescita della forza lavoro e il

progresso tecnologico interagiscono nel sistema economico influenzando

la crescita della produzione aggregata di beni e servizi.”

(Robert Solow, Il modello neoclassico, 1956)

In una riflessione sull'economia dal titolo L'economia che vorrei, l'autore Arturo

Gulinelli (2013), commenta brevemente quei fattori che sono in grado di

influenzare e guidare la crescita economica. Il capitale fisico, che consiste nella

necessaria e ottimale presenza di mezzi fisici per la produzione, come ad esempio

impianti, macchinari e infrastrutture. Il capitale umano; infatti i Paesi che

presentano una più alta scolarizzazione mostrano un tasso medio di crescita

superiore a Paesi con tassi di scolarizzazione bassi. L'innovazione tecnologica è

fondamentale e comprende tutte le politiche di ricerca e sviluppo, che permettono

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di migliorare i processi di produzione, ridurre l'inquinamento, migliorare la vita e

le aspettative di longevità, migliorare la comunicazione globale e rendere più

efficienti i trasporti. Norman ed Arrow (1960) teorizzano come l'avanzamento

tecnologico sia un processo di accumulazione di conoscenza che si produce dal

fare stesso, il modello learning by doing.

“Il progresso tecnico, che incide sulla produttività, è il risultato di

invenzioni, di scoperte, di nuove conoscenze e di innovazione, vale a dire

dell'introduzione di nuove conoscenze nelle tecniche di produzione.”

(McGraw-Hill, p.466, 2011)

Con l'acquisizione di conoscenze approfondite, ciascun lavoratore è in grado di

aumentare la propria produttività, velocizzando il processo di creazione di beni e

servizi.

In conclusione, la qualità delle istituzioni e della politica, sono importanti per la

sicurezza e contribuiscono a creare condizioni favorevoli che attraggono

investimenti e industrializzazione, favorendo la crescita della nazione. Lo studio

dei fattori di crescita di un paese emergente sono fondamentali per guidare gli

investitori al miglior investimento, sicuro e redditizio. Le economie emergenti

tendono a crescere con un ritmo più sostenuto rispetto quelle mature, grazie ad

una rapida espansione demografica e una progressiva urbanizzazione. Questo

concetto è ribadito dall'ipotesi di convergenza; rispetto alla media, i Paesi poveri

crescono più rapidamente e i Paesi ricchi più lentamente.

“I Paesi poveri, caratterizzati da una bassa dotazione di capitale iniziale,

crescono a ritmi straordinariamente rapidi finché il prodotto e il capitale

non raggiungono il tasso di crescita dello stato stazionario; i Paesi ricchi,

che hanno in partenza una dotazione di capitale molto elevata, crescono a

tassi inferiori alla media fino a quando il capitale per lavoratore non

ritorna al livello di stato stazionario.” (McGraw-Hill, l'ipotesi di

convergenza, p.472, 2011)

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“Quando il capitale per lavoratore è basso, non sono richiesti grandi

investimenti per dotare nuove unità di forza lavoro del capitale necessario,

pertanto la quota rimanente di investimenti può essere destinata ad

aumentare il capitale per lavoratore.” (McGraw-Hill, l'ipotesi di

convergenza, p.472, 2011)

TABELLA 17: CRESCITA DEL PIL PRO CAPITE

(in migliaia di dollari USA 1997)

Inizialmente 1987 2008 Rapporto 2008/1987

Bangladesh Povero 0,3 0,5 1,67

Nigeria Povero 0,42 0,7 1,68

Cina Povero 0,35 2,17 6,22

Indonesia Povero 0,78 1,35 1,72

Turchia A medio

reddito

3,28 5,71 1,71

Corea A medio

reddito

6,23 16,8 2,7

Portogallo A medio

reddito

9,92 17,4 1,75

Spagna Ricco 14,84 26,9 1,81

Irlanda Ricco 15,27 40,9 2,68

Italia Ricco 21,83 31,5 1,42

Regno Unito Ricco 21,23 39,9 1,88

Francia Ricco 27,13 38,2 1,39

Stati Uniti Ricco 29,92 45,2 1,61

Svizzera Ricco 46,17 59,4 1,29Fonte: World Development Report, McGraw-Hill, p.472, 2011

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Le stime della banca mondiale relative al reddito pro capite mostrano come le

economie dell'estremo oriente, come la Cina, abbiano avuto un tasso di crescita

molto elevato negli ultimi tre decenni. Mentre i Paesi dell'OCSE tendono a

crescere più lentamente. Secondo il Professore Alwyn Young del MIT le

economie del sud est asiatico hanno subito una rapida crescita in determinati

input. Lavoro, investimenti e capitali umano, accompagnati da stabilità politica,

assenza di conflitti interni e apertura al mercato mondiale che hanno favorito la

fiducia e la crescita economica. La società PricewaterhouseCooper (2011) ha

fatto alcune proiezioni per i prossimi quaranta anni. Secondo queste stime vi sarà

una crescita della popolazione, cresceranno le competenze, il capitale umano e

aumenteranno gli investimenti nel capitale fisico e nel progresso tecnico, che si

diffonderà in tutto il mondo. Una prospettiva di lungo termine ottimistica.

Secondo Forum Banca 2014, i principali fattori di crescita economica sono, per

prima cosa, l'aumento della popolazione, che, come precedentemente

sottolineato, genera capitale umano, forza lavoro e consumatori; secondariamente

la quantità di investimenti, sia esteri che interni, in grado di promuovere nuove

attività commerciali e creare posti di lavoro. Le nazioni del sud-est asiatico sono

le più propense ad essere sottoposte a tali cambiamenti (Chushla Sharlock,

Credit Suisse, 2014). Secondo il Global Wealth Report di Credit Suisse,

l'incidenza dei Paesi emergenti sul patrimonio globale è destinata a raddoppiare

entro il 2018, creando così una considerevole base di risparmio e di consumo. A

trarre profitto da questo rapido aumento della ricchezza tra i consumatori delle

economie emergenti saranno gli investitori privati e le aziende, che vedranno i

propri margini di guadagno raddoppiare rispetto il periodo 2000-2010 (Paul

Bratby, broker presso Bespoke Investment Group, 2014).

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GRAFICO 17: AUMENTO MEDIO ANNUALE DELLA POPOLAZIONE NEI

MERCATI EMERGENTI E SVILUPPATI

Fonte: Divisione Popolazione del dipartimento per gli Affari economici e sociali

presso il Segretariato delle Nazioni unite, Crédit Suisse

Nel considerare l'aumento della popolazione, secondo Richard Kersley, autore

dell'Emerging Consumer Service (2014) condotto dall'Economic Research

Institute, è di cruciale importanza valutare fattori quali la distribuzione del

reddito, l'età e il luogo in cui vive il consumatore per saper sfruttare al massimo

le opportunità esistenti. Infatti, con la crescita della classe media globale, che

secondo le previsioni dovrebbe raggiungere i 2 miliardi di persone tra il 2010 e

2030 (Nazioni Unite, Divisione Popolazione del Dipartimento degli Affari

Economici e Sociali, 2014), si apriranno nuove opportunità grazie all'aumento

della domanda di beni e servizi. Tuttavia, se da un lato la crescita della

popolazione avrà dei risultati positivi sulla crescita e sullo sviluppo economico di

una nazione, dall'altro sarà necessario porre dei limiti all'urbanizzazione e

industrializzazione dei Paesi in via di sviluppo, in modo da preservare le risorse

naturali e l'ambiente.

“Prevediamo che per il 2050 la popolazione raggiungerà i 9,1 miliardi.

Insegnare il rispetto dell'ambiente ed un efficiente utilizzo delle risorse

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naturali è di primaria importanza per una crescita sana e controllata.”

(Hania Zlotnik, Nazioni Unite, Divisione Popolazione del Dipartimento

degli Affari Economici e Sociali, New York, 2014)

L'aumento della popolazione sarà un fenomeno che accrescerà il fabbisogno di

nuove ed efficienti infrastrutture. Non solo, secondo quanto scritto nel rapporto

dell'ONU (2014), i Paesi del sud-est asiatico, dovranno essere i primi ad

affrontare e gestire le conseguenze.

“Il bisogno globale di energia è destinato ad aumentare del 60% entro il

2030 – secondo una previsione dell’Agenzia Internazionale per l’Energia

– e la domanda di energia arriverà dai Paesi in via di sviluppo.” (William

Cosgrove, coordinatore ONU, 16 marzo 2014)

GRAFICO 18:

ENTITÀ DEGLI INVESTIMENTI (miliardi di dollari)

Fonte: RBS, Banca mondiale 2011

Crescere economicamente significa possedere i capitali in grado di creare posti di

lavoro, una rete produttiva e di vendita efficiente, in grado di comprendere le

esigenze del mercato locale, infrastrutture e tecnologie avanzate. Il flusso di

investimenti provenienti dall'estero, come FDI diretti o indiretti, aumentano la

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disponibilità finanziaria per le imprese, generando maggiori profitti e

accelerando il processo di espansione. A titolo esemplificativo, in India, tra il

2007 e il 2012 sono stati inaugurati 602 progetti di espansione tra imprese locali

e multinazionali estere, generando 103210 nuovi posti di lavoro e un flusso di

investimenti pari a 20 miliardi di dollari. Il flusso di denaro si è concentrato

soprattutto attorno alle grandi aree metropolitane, dove sono presenti

infrastrutture moderne e un accesso ampio al mercato nazionale (Ernst&Young,

report india 2014, Il Sole 24 Ore, marzo 2014).

La presenza di ingenti quantità di materie prime, inoltre, è stato un fattore

cruciale per la crescita delle economie emergenti. In particolare risorse minerarie

e agricole. Nel 2012 presso il New York Stock Exchange (NYSE) il 37% degli

investitori ha acquistato pacchetti azionari di commodities provenienti soprattutto

da India, Indonesia, Singapore e Brasile. L'obiettivo è stato quello di investire in

risorse per alimentare le multinazionali statunitensi, tra cui Chevron, IBM e

Apple (Business Insider, finance, 2013). Il flusso di capitali ha permesso

un'immissione di moneta elevata nelle economie emergenti, garantendo la

prosperità di industrie estrattive e petrolifere (Business Insider, strategy, 2013).

GRAFICO 19:

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Secondo la rivista Forbes (2014), un'ulteriore fattore di crescita di una nazione è

la percentuale di spesa dei consumatori. Come riportato nel presente grafico, con

la crisi del 2008, i consumi degli utenti americani sono diminuiti di oltre 5 punti

percentuali. Al contrario invece, la spesa dei consumatori nei mercati emergenti è

aumentata; complice una maggiore disponibilità di denaro proveniente dalla fuga

degli investimenti occidentali, verso le nazioni in fase di sviluppo. Il

miglioramento delle condizioni di vita ha permesso la crescita di un ceto medio

con un elevato potere di acquisto, che alimenta il commercio e la circolazione di

capitali.

GRAFICO 20:

Le 10 nazioni presentate nel grafico soprastante, sono, secondo Global

Intelligence Alliance (2012) le future economie emergenti. I criteri che sono stati

utilizzati sono gli stessi presentati nel paragrafo corrente; tecnologia, capitale

umano e sociale, flusso di investimenti, propensione all'acquisto dei consumatori,

educazione e disponibilità di risorse naturali.

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3.1.2 Tassi di crescita

La definizione più accreditata di crescita economica è quella che vede

quest'ultima come l'aumento del valore delle merci e dei servizi prodotti da un

economia (www.businessdictionary.com). L'aumento del valore delle merci è

garantito dal mercato, punto di incontro tra domanda e offerta. Più merci sono

richieste, più aumentano le possibilità di generare profitto, garantendo la

sostenibilità dell'azienda e la prosperità di uno Stato. Accanto alla crescita

economica, come precedentemente descritto, vi è lo sviluppo economico, che ha

il compito di facilitare la nascita, l'espansione e la sopravvivenza delle attività

economiche. Come fa notare Xavier Sala-i-Martin in Global Inequality Fades as

the Global Economy Grows (2007), sviluppo e crescita economica, in una fase

dinamica e di ampliamento del paese, si alimentano a vicenda. Nel caso delle

economie emergenti, basti pensare allo sviluppo tecnologico ed infrastrutturale in

seguito all'accumulo di capitali esteri e alla conseguente creazione di nuovi posti

di lavoro nel sud-est asiatico.

GRAFICO 21:

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GRAFICO 22:

Nei grafici riportati si può notare come l'aumento di capitali, provenienti da

investitori esterni o interni all'ASEAN abbia contribuito ad incrementare il

numero di ricercatori per migliaia di persone. La tesi di Xavier Sala-i-Martin si

rivela corretta, dal momento che una variabile puramente finanziaria, in grado di

generare crescita economica, ha portato a dei miglioramenti nel campo della

ricerca e sviluppo, amplificando lo sviluppo economico.

La crescita economica di un paese viene misurata in termini di PIL, prodotto

interno lordo, per indicare l'aumento della produzione, del reddito e per cui

dell'economia di un paese. Il prodotto interno lordo spesso è utilizzato anche

come indicatore del tenore di vita medio in un paese e che ne testimonia quindi la

crescita economica. In questo paragrafo il PIL verrà utilizzato come indicatore di

crescita delle nazioni, nonostante siano state mosse critiche nei confronti di

questo metodo.

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“The gross national product includes air pollution and advertising for

cigarettes and ambulances to clear our highways of carnage. It counts

special locks for our doors and jails for the people who break them. GNP

includes the destruction of the redwoods and the death of Lake

Superior. It grows with the production of napalm, and missiles and nuclear

warheads... it does not allow for the health of our families, the quality of

their education, or the joy of their play. It is indifferent to the decency

of our factories and the safety of our streets alike. It does not include the

beauty of our poetry or the strength of our marriages, or the intelligence

of our public debate or the integrity of our public officials. It measures

everything, in short, except that which makes life worthwhile.” (Robert

Kennedy, Senatore Americano democratico, candidato alla presidenza

degli Stati Uniti d'America, 1968)

“...The welfare of a nation can scarcely be rinferred from a measure of

national income...”

(Simon Kuznets, inventore del prodotto interno lordo, 1934)

La crisi che ha colpito il mercato finanziario nel 2008 e che si sta manifestando

come piaga recessiva a livello globale ha reso sempre più incerte le previsione di

crescita economica. Nel gennaio 2014, la Banca Mondiale aveva previsto una

aumento del PIL mondiale del 3,2%, subito rivisto al 2,8% nel secondo quarto

dell'anno a causa della crisi ucraina e dei negativi dati provenienti dal mercato

del lavoro statunitense (Rai News Economia, giugno 2014). Questo è uno dei

numerosi esempi di come sia difficile calcolare il prodotto interno lordo in un

ambiente economico altamente instabile.

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“L'economia mondiale ha avuto un inizio dell'anno turbolento con

l'inverno freddo negli Stati Uniti, le turbolenze finanziarie e il conflitto in

Ucraina. Nonostante l'inizio lento, la crescita è prevista accelerare con

l'avanzare dell'anno", afferma la Banca Mondiale. A spingere la crescita

sono le economie avanzate, ma la crescita statunitense è stata tagliata a

+2,1% dal +2,8% precedentemente previsto.” (Rai News, economia, la

crescita del PIL mondiale frena: colpa della crisi in Ucraina e del gelo

negli USA, Washington, 11 giugno 2014)

Secondo Christine Lagarde, CEO del Fondo Monetario Internazionale (FMI),

l'economia mondiale “corre” a tre velocità (2013). I mercati emergenti, che

crescono a velocità elevata, Stati Uniti, Svizzera e Svezia a velocità stabile,

mentre Eurozona e Giappone sono vittime di un andamento lento. Come già

riportato numerose volte, è verosimilmente possibile che i mercati avanzati e

sviluppati non possano guidare la ripresa globale; i Paesi emergenti, si

inseriscono in questo contesto come traino per le nazioni industrializzate del XX

secolo. Secondo i dati FMI (2013) i mercati emergenti arriveranno a produrre

fino al 74% del Prodotto Interno Lordo mondiale entro il 2017.

GRAFICO 23: CONFRONTO CRESCITA PIL GLOBALE E MERCATI

EMERGENTI

Fonte: Forbes.com (2014)

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Durante il crash del mercato immobiliare negli Stati Uniti, che ha portato alla

recente crisi economica, il panorama finanziario globale è stato sostenuto dalle

economie emergenti. I Paesi in via di sviluppo, si sono rivelati maturi, potenti,

essenziali e alleati della ripresa. Ampiamente superata la crisi del 1997, le

nazioni dell'ASEAN hanno giocato un ruolo fondamentale nel periodo

immediatamente successivo al fallimento di Lehman Bros, presentandosi come

una regione pronta ad accogliere investimenti con alti potenziali di ritorno

economico.

GRAFICO 24:

Fonte: Forbes.com (2012)

Page 106: 1008746 Giacomo Piazza 2

“Around 70% of world growth over the next few years will come from

emerging markets, with China and India accounting for 40% of that

growth. Adjusted for variations in purchasing power parity, the ascent of

emerging markets is even more impressive: the International Monetary

Fund forecasts that the total GDP of emerging markets could overtake that

of the developed economies in 2014. China's purchasing power is

expected to surpass that of the US by 2016. With GDP growth generally a

lagging indicator, it is often more rewarding to pay attention to policies

that encourage economic growth when trying to predict outperforming

global markets.” (Vlad Signorelli, Global research director, Brettonwoods

Research LLC, 2012)

GRAFICO 25: CRESCITA PERCENTUALE DEL PIL IN SEGUITO ALLA

CRISI FINANZIARIA DEL 2008

Fonte: Forbes.com (2012)

Page 107: 1008746 Giacomo Piazza 2

Come è possibile notare, se da un lato i Paesi industrializzati, afflitti dalle

politiche di austerity, rappresenteranno una sempre più ridotta percentuale del

PIL globale, le economie emergenti, forti di ingenti flussi di capitali

aumenteranno in modo stabile la loro presenza nella costituzione del prodotto

interno lordo globale.

GRAFICO 26: PREVISIONE DI CRESCITA PERCENTUALE DEL PIL PER

NAZIONI

Il Fondo Monetario Internazionale (2013) ha indicato i Paesi emergenti come le

più interessanti destinazioni di investimento. I mercati in via di sviluppo, secondo

le previsioni, cresceranno sino a tre volte il PIL statunitense.

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“This growth narrative is important for Main Street investors who are not

clued in on the big Wall Street long bull trends. The public investor is still

underweight emerging markets in their portfolios. Yet, corporate profits

tend to grow faster when economic growth is higher.” (James Gorman,

Morgan Stanlye's CEO, N°2 Forbes 2014)

GRAFICO 27:

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3.2 I punti di fragilità delle economie emergenti

“Hanno vissuto di rendita per cinque anni. L'abbondante liquidità immessa

dalle banche centrali di tutto il mondo ha garantito un lungo periodo di

quiete ai Paesi emergenti. Ora però la festa è finita, la Federal Reserve ha

iniziato a ritirare gli stimoli monetari e i mercati si stanno adeguando a

uno scenario in cui è necessario diventare più critici e selettivi. Gli

investitori stanno così scoprendo, spesso sulla loro pelle, che tra le

economie emergenti si nascondono non poche insidie.” (Gabriele Meoni,

Meno crescita e più rischi: tutte le fragilità degli emergenti, Il Sole 24 Ore,

26 gennaio 2014)

L'intensa fase di crescita che ha avuto come protagonisti i Paesi emergenti,

soprattutto dopo lo scoppio della crisi finanziaria del 2008, nasconde non poche

perplessità (Pierre-Olivier Beffy, Chief Economist presso Exane BNP Paribas,

2014). L'economia globale, che racchiude i mercati di scambio di tutti i Paesi è

strettamente interconnessa; una falla nel sistema può provocare una reazione a

catena irreversibile. La fuga degli investimenti dai Paesi occidentali verso i

mercati emergenti, in seguito alle previsioni di tassi di crescita molto bassi è stata

una delle ragioni per cui molte nazioni hanno prosperato mentre andava

sgretolandosi il sistema finanziario delle economie industrializzate (Ben

Bernanke, Former CEO at FED, 2012). Ciò che è emerso al termine dell'anno

2013 nel contesto delle economie emergenti, secondo il Sole 24 Ore (gennaio

2014), è stata una crescita più bassa, uno squilibrio nei conti con l'estero e delle

riserve valutarie in netto calo. Nonostante i mercati emergenti restino un motore

fondamentale dell'economia globale, riesplodono scontri e proteste di piazza che

accumulandosi provocano instabilità politica e al contempo diminuiscono

l'interesse degli investitori in queste regioni. “Per i BRICS, e non solo, è finita un

era” sostiene Lin Yifu (Ex capo economista della Banca Mondiale, 2014). I tassi

di crescita che le economie emergenti hanno mantenuto per decenni ora non sono

più sostenibili. La Cina, ad esempio, negli ultimi 35 anni è cresciuta con una

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media del 9,7% annui; nel 2013 si è arrestata al 7,5%, l'India viaggia attorno al

5%, l'ASEAN è costante al 4,5%, mentre Russia, Brasile e Sudafrica sono stabili

tra il 2 e il 3 per cento (Dati: Sole 24 Ore, gennaio 2014). Come brevemente

accennato in precedenza, essendo l'economia globale strettamente connessa ad

ogni nazione presente nel pianeta, non stupisce che la perdita di un punto

percentuale di crescita del GDP di una nazione possa causare una reazione

negativa sull'economia di un altro paese.

«Secondo le nostre stime, un punto in meno di crescita degli investimenti

in Cina toglie quasi un punto alla crescita del valore aggiunto nella catena

di fornitori regionale». Min Zhu, vice direttore dell'FMI, al World

Economic Forum, Davos, 2014)

GRAFICO 28:

Il rallentamento cinese ha per cui degli effetti non solo a livello fisiologico

interno alla regione, ma ha anche pesanti ripercussioni sia verso i Paesi fornitori

di materie prime, tra cui Brasile, Argentina e Cile, che verso i mercati di sbocco,

Thailandia, Malesia e Singapore. Secondo Lin Yifu (2014), si tratta di una frenata

strutturale e non ciclica, provocata da un mix di fattori. Tra i fattori esogeni, il

principale è la fine del boom dei prezzi delle materie prime, di cui molti Paesi

emergenti sono grandi esportatori; mentre tra le cause endogene spicca la carenza

di investimenti che non riescono a garantire le forze necessarie per soddisfare la

crescente domanda di consumi da parte della classe media, infrastrutture

inadeguate, burocrazia e carenza di manodopera qualificata.

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“Three of the five BRICS (Brazil, India and South Africa) are now part of

what investors consider the Fragile Five emerging market economies (the

other two being Turkey and Indonesia). These fragile emerging markets

share weaknesses, such as large current account deficits, large fiscal

deficits, falling growth, rising inflation and political and policy

uncertainty, and they all face parliamentary or presidential elections this

year. Last year their financial markets headed south (weaker currency,

weaker bond markets and weaker equity markets) and this year could also

be a challenging one.”

(Nouriel Roubini, professore di economia e international business presso

The Leonard N. Stern School of vbusiness, New York, in un discorso al

World Economic Forum Annual Meeting 2014 in Davos, Svizzera)

Secondo Nouriel Roubini, economista e parte attiva presso il World Economic

Forum (2014), i Paesi emergenti si troverebbero in una crisi di mezza età. La

testimonianza di tale affermazione proviene dalla riduzione della crescita di

colossi mondiali tra cui Cina ed India. Se, infatti, negli ultimi trent'anni essi sono

cresciuti a ritmi del 10%, oggi le loro prospettive di crescita percentuale si sono

ridotte a poco più della metà. Per Christine Lagarde, Managing Director del

Fondo Monetario Internazionale, il rallentamento dei BRICS e non solo, sarebbe

dovuto, prima di tutto al fallimento della seconda generazione di riforme

strutturali atte a garantire una migliore produttività interna alle nazioni emergenti

e con l'obiettivo di proteggere i mercati locali di fronte alle multinazionali

occidentali. La prima generazione di riforme fu varata nel 2001 da parte di Jim

O'Neil, CEO di Goldman Sachs, oltre che coniatore del termine BRICS, egli stilò

alcune leggi per la salvaguardia del commercio internazionale, favorevoli

soprattutto alla naturale e sana crescita di quelle che sarebbero diventate le

economie emergenti del XXI secolo. In secondo luogo, sempre secondo la

numero uno dell'FMI, non solo le riforme si sono dimostrate fallimentari nel

tentativo di migliorare un mercato orientato alla crescita sostenibile, ma molte di

queste sono andate sempre più verso un regime capitalistico, basato

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sull'economia dell'occidente, impraticabile per i giovani mercati emergenti; un

eccessivo ruolo del settore pubblico e delle imprese gestite dallo stato

nell'economia, un elevato controllo dello stato sulle banche con conseguente

inasprimento dei tassi di interesse sui prestiti, politica del protezionismo e

nazionalizzazione delle risorse. Questi sono solo alcuni esempi, messi in risalto

durante il World Economic Forum di Davos tra il 22 e il 25 gennaio 2014.

Ruth Stroppiana, analista presso Moody's Analytics, nell'articolo Global Outlook:

Economic Prospects Improve (settembre 2014), ha commentato le riforme che si

sono dimostrate fallimentari secondo l'FMI, sostenendo che in una prima fase,

quella dei primi segni importanti di crescita e durante la crisi economica, esse si

sono invece dimostrate fondamentali per mantenere bassa la spesa pubblica.

Tuttavia, con i primi segnali di ripresa economica americana e le conseguenti

politiche monetarie della FED, le riforme, che sono rimaste in vigore dal 2006,

hanno portato ad una distorsione dell'attività economica, caratterizzata da una

minore crescita del PIL locale e da una minore consistenza degli investimenti

stranieri. Nell'ASEAN, come nei BRICS la conseguenza è stata una stagnazione

dell'ambiente di business, con minori prospettive e risorse per la crescita, con

mercati internazionali meno incoraggianti e una minore affluenza di

multinazionali occidentali.

Ulteriore punto nell'analisi dell'FMI su quelli che sono i punti di fragilità dei

mercati emergenti e che ne stanno limitando il potere di crescita, è ricollegabile

alle politiche macroeconomiche attuate durante il periodo di massima espansione

di queste economie, collocabile tra il 2007 e il 2013.

“Excessive credit growth in part driven by excessive capital inflows;

growing currency appreciation, which led to a loss of competitiveness and

in some cases external deficit; and looser monetary and fiscal policy, given

cheap external financing.”(Christine Lagarde, Managing Director del

Fondo Monetario Internazionale, Talking Business BBC, gennaio 2014)

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L'inefficacia delle politiche macroeconomiche attuate hanno portato ad un

aumento del debito pubblico nei Paesi emergenti, causando un minor rateo di

crescita e un minor flusso di investimenti provenienti dall'estero data la riduzione

della fiducia degli investitori. Non solo; quello che gli economisti temono è la

Middle Income Trap.

“The middle income trap is a theorized economic development situation,

where a country, which attains a certain income, will get stuck at that

level.” (The World Bank Dictionary, 2012)

La Middle Income Trap porterebbe ad un fallimento del tentativo di aumentare il

reddito pro capite. Da un lato, solide istituzioni, una buona e appropriata condotta

nella gestione delle politiche macroeconomiche, capitali e presenza di lavoro

garantirebbero ad un'economia di raggiungere il Middle Income, così come è

successo nel sud-est asiatico e in altri mercati emergenti; tuttavia il passaggio a

paese sviluppato risulta più difficile (Victor L. L. Chu, Asia's Business Context,

11 settembre 2014). Come aggiunge The World Bank (2012), solamente un

ristretto numero di mercati emergenti sarebbero in grado di sfuggire alla trappola

del Middle Income. Secondo la Banca Mondiale (2012), per compiere la

transazione da “emergente” a “sviluppato” occorre passare dalla transazione di

risorse come lavoro e capitali ad una crescita sostenibile dei fattori produttivi,

che richiede innovazione, investimenti in tecnologie e lo sviluppo di un'economia

digitale. Inoltre è necessario aprire l'economia ai mercati esteri e rafforzare la

crescita del settore privato.

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GRAFICO 29:

Il presente grafico è una previsione risalente al 2012 da parte dell'Asian

Development Bank che rappresenta una possibile Middle Income Trap per l'Asia,

ASEAN incluso; nonostante il tasso di crescita del Prodotto Interno Lordo sia

destinato ad aumentare del 51%, il reddito pro-capite è solo di 8 punti superiore a

quello dell'Europa nello stesso periodo.

“Asia's seemingly relentless economic rise is still not inevitable. They're running

out of steam.” (The Economist, daily chart, 22 dicembre 2012).

“Il tapering della Fed, tassi di crescita più lenti in Cina, i timori generati

dalla svalutazione del peso in Argentina e l’instabilità politica in Turchia:

una “tempesta perfetta” di cattive notizie, che alla fine di gennaio ha

portato gli investitori a fuggire dai mercati emergenti.” (Peter Marber,

Head of Emerging Markets Investments, Loomis, Sayles & Company,

marzo 2014)

La crisi di volatilità e di bassi rendimenti che i mercati emergenti stanno

attraversando è iniziata nel 2013, in seguito a scontri politici e nuove politiche

monetarie adottate dalle principali Banche Centrali mondiali. Nonostante l'FMI

(2014) rassicura che i mercati emergenti, in particolare sud-est asiatico, America

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Latina e Sudafrica cresceranno ad un ritmo del 5,1% contro il 2,2% dei mercati

sviluppati, la Morgan Stanley in un report dal titolo ContagEm (marzo 2014),

enumera i fattori di rischio che gravano sulle economie sviluppate nel caso in cui

i mercati emergenti dovessero collassare.

“Uno shock degli emergenti sottrarrebbe l'1,4% di crescita agli Stai Uniti,

mentre sia Eurozona che Giappone precipiterebbero in recessione. Se la

FED e la Bank of Japan, in risposta, riavviassero subito politiche di

monetary easing la ripresa sarebbe possibile, ma in ogni caso sarebbe

debole, poiché si parte da una condizione, quella attuale, di crescita molto

bassa e decisamente inferiore a quella degli anni '90.”

(Morgan Stanley & Co., On the Markets, ContagEm: could it be worse

than in the 1990?, p.8, 2014)

Durante gli anni novanta le economie emergenti furono investite da un arresto nel

flusso di FDI, una riduzione dei prezzi, della valuta monetaria e dell'output

economico. La crisi asiatica del 1997, lasciò una cicatrice che iniziò a guarire

solamente nei primi anni del XXI secolo. Tuttavia vent'anni fa non esistevano

ancora i legami finanziari che possiamo trovare oggi tra developed economies e

emerging markets. In primo luogo internet e l'economia della rete, nell'ultimo

decennio hanno implementato le connessioni tra i mercati sviluppati e quelli

emergenti; creando maggiore dipendenza tra i listini finanziari. Di conseguenza

una crisi nei mercati emergenti porterebbe ad un più grave ed immediato

fallimento delle economie occidentali. Ulteriori connessioni si rispecchiano nei

dati relativi alle esportazioni tra le diverse economie. Secondo i dati Economic

Observer (2014) il 21% delle esportazioni europee, il 43% di quelle statunitensi e

il 59% di quelle giapponesi sono indirizzate verso le nazioni emergenti. Un calo

nelle consegne dei prodotti porterebbe a gravi danni economici, che uniti alle

politiche di austerity applicate in seguito alla crisi del 2008, renderebbe le

economie sviluppate ancora più deboli; la reazione a catena investirebbe, in un

secondo momento tutti gli altri mercati mondiali (Raffaele Testorelli, La crisi del

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sistema economico moderno, PARTE I, 2014)

GRAFICO 30:

Secondo i ricercatori di Morgan Stanley & Co., l'indice MSCI, che racchiude i

pacchetti azionari dei mercati emergenti e MSCI Asia Pacific, che include i

panieri borsistici provenienti dalle regioni sud-est asiatiche, sono destinati a

calare dal 3% al 1% con una riduzione di capitali provenienti da investitori esteri

ed un conseguente calo del valore della azioni.

“The core structural problem remains that many of these countries need to

overhaul growth models and revitalize productivity.” (Michael Wilson,

Chief Invesrment Officer, Morgan Stanley Wealth Management, New

York, 2014)

La riduzione della fiducia degli investitori, dovuta in prima istanza ad una

minaccia di bolla speculativa su investimenti e rendimenti, è alimentata da

recenti scontri politici. La rivoluzione ucraina e la conseguente incursione russa

in Crimea, diatribe nel mare della Cina, missili lanciati dalla Corea e continue

tensioni interne in Thailandia e in Turchia sono le principali fonti di perplessità

tra i broker mondiali.

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“The financial crisis was grim, but the most important global economic

development in the early 21st century was a positive one: the dramatic

acceleration of growth in the emerging world. Unfortunately, the era of

rapid catch-up already seems to be over. Growth has fallen sharply in

many emerging economies.” (The Economist, Emerging Market Incomes,

domenica 14 settembre 2014)

GRAFICO 31:

Fonte: The Economist, settembre 2014

Il grafico riportato rappresenta gli anni che sarebbero necessari alle economie

emergenti per raggiungere i livelli di sviluppo, crescita, infrastrutture e

tecnologie degli Stati Uniti. Nel periodo pre-crisi, durante un flusso di FDI

costante e consistente, l'aumento del GDP locale aveva permesso ai Paesi

emergenti di crescere in maniera elevata; tuttavia nel lungo periodo, le speranze e

la fiducia nelle nuove economie è calata, così come le opportunità per

raggiungere livelli di sviluppo occidentale in un breve arco temporale.

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In aggiunta alla diminuzione della fiducia nelle economie emergenti, dovuta in

particolare all'instabilità politica e al protrarsi delle conseguenze della crisi, si è

aggiunto un nuovo corso della politica monetaria attuata dalla FED. La reazione

nei mercati internazionali in seguito al tapering di fine 2013, ha portato ad una

rivalutazione delle prospettive di crescita nel PIL delle economie globali, con un

richiamo degli investimenti stranieri negli Stati Uniti e la conseguente riduzione

nella disponibilità di finanziamenti.

GRAFICO 32:

Page 119: 1008746 Giacomo Piazza 2

3.3 Le minacce e le opportunità, per l'Europa e per il Made in Italy derivanti

dall'avvio di nuove start-up

Il 29 Agosto 2014, il Consiglio dei Ministri ha approvato il decreto “Sblocca

Italia”, all'interno del quale è prevista l'adozione del Piano per la promozione del

Made in Italy, l'attrazione degli investimenti e l'espansione delle capacità

produttive all'estero. Obiettivo principale è quello di favorire

l'internazionalizzazione del Paese e sostenere le imprese italiane, in un momento

in cui l'export rappresenta per la nostra economia la leva più importante e

dinamica del PIL (Pier Gian Carlo Padoan, Ministro dell'economia e delle

finanze, 2014). Il piano prevede di ampliare di circa 20000 unità il numero delle

piccole e medie imprese esportatrici, espandere le quote italiane del commercio

internazionale, con un obiettivo di 50 miliardi in più, valorizzare l'immagine del

Made in Italy nel mondo e attrarre investimenti dall'estero maggiori di 20

miliardi di euro (Ministero dello Sviluppo Economico, 2014). In questo quadro

economico, la creazione e l'avviamento di una nuova start-up risulta facilitato da

una serie di azioni attutate mediante l'Agenzia ICE, che ha il compito di

sviluppare, agevolare e promuovere i rapporti economici e commerciali italiani

con l'estero. Con la collaborazione di Italian Trade Agency, sono state evidenziati

alcuni accorgimenti che permetterebbero alle nuove imprese italiane di

espandersi in modo sostenibile all'estero, in particolare nei mercati emergenti,

dove una nuova classe media richiede sempre più prodotti.

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GRAFICO 33:

In stretto accordo con le associazioni di categoria, si agirà sulla formazione e

informazioni relative alle opportunità offerte dai mercati esteri alle imprese, si

promuoveranno fiere italiane a livello internazionale, con particolare enfasi su

Expo 2015. Verrà dato sostegno alla penetrazione dei prodotti italiani nei mercati

esteri, anche attraverso reti di distribuzione e promozioni innovative e sostegno

all'utilizzo di strumenti e-commerce all'insegna dell'efficienza.

“Valorizzare il Made in Italy, non significa solamente aumentare le

esportazioni all'interno della nazione, ma anche portare quelle piccole o

medie imprese a contatto con delle realtà emergenti. L'investimento

nell'estero rappresenta una prima forma di espansione della manifattura

italiana e per questo bisogna sostenere quelle aziende che decidono di

aprire una sede in un paese emergente.” (Cesare Fumagalli, Segretario

Generale di Confartigianato Imprese, conferenza del 28 luglio 2014,

Varese)

L'investimento all'estero non deve solo comportare un soddisfacente return on

investment, ma, come più volte ripreso dai professori d'economia aziendale della

London Business School (2013), la creazione di relazioni con la cultura,

l'economia e la politica locale, uniti ad una corporate social responsability

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efficace, sono ingredienti essenziali per ottenere ragguardevoli risultati

economici e di reputazione.

Avviare una nuova start-up aziendale in un paese emergente significa saper

cogliere le specificità di quella regione e sfruttare al massimo le risorse a

disposizione (Start-up Asia, Singapore, maggio 2014). L'analisi del vantaggio

competitivo di un paese, risulta di essenziale importanza per la creazione di un

business plan che permette all'imprenditore di valutare i fattori di rischio e le

opportunità di profitto.

GRAFICO 34:

Fonte: The Economist, 2013

In primo luogo, le condizioni relative ai fattori produttivi, riflettono la capacità di

un paese di trasformare le proprie risorse, naturali, infrastrutturali, sociali e

culturali in un vantaggio competitivo.

Secondariamente, prima di scegliere il mercato nel quale inserirsi, occorre

analizzare le condizioni relative alla domanda. Nel caso dei mercati emergenti, in

particolare nel sud-est asiatico, dove una classe media di circa 240 milioni di

abitanti sparsi in 5 mila isole circostanti si sta consolidando, le potenzialità sono

elevate.

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“L'export italiano crescerà di oltre il 10% nel 2013-2016. Tra i principali

driver vi sono le opportunità connesse ai nuovi consumi della classe media

in espansione, passata da 81 a 131 milioni di individui nel periodo 2003-

2010 (+65%), e allo sviluppo infrastrutturale ed energetico” (Analisti

Sace, Indonesia, una promessa per il Made in Italy, maggio 2013)

Le caratteristiche e le dimensioni della domanda descrivono lo sviluppo di un

certo settore; in riferimento al Made in Italy, nel 2013, è stato segnato un +4,1%

rispetto al 2012 nella richiesta di prodotti tipici del “Bel Paese”, con un fatturato

di 68 miliardi di euro (Fabio Papa, docente di Strategic Analysis of italian

industries, presso LIUC Università di Castellanza, Varese, 2013). Il vantaggio

competitivo italiano, che ha permesso la creazione di una nicchia di mercato nel

mondo, risiede nella tradizione artigianale in vari comparti, Fashion, Furniture e

Food.

“In Asia, e più in generale nel Far East, non hanno la cultura distributiva

tradizionale europea, fatta di negozi e centri storici. Per raggiungere gli

shopping mall e aggiudicarsi le grandi commesse contract bisogna far

capire dove siamo posizionati. Abbiamo voluto avvicinarci al target del

mondo della moda. Con un lessico più facile, senza sembrare arroganti,

abbiamo scelto di presentare i prodotti per dimensioni merceologiche,

cercando divconquistare i rivenditori.” (Ferruccio Laviani, Direttore

artistico di Kartell, Salone del Mobile 2013)

Un ulteriore fattore da considerare sono i settori industriali di supporto e

correlati. L'investimento in un mercato emergente, ad esempio l'Indonesia,

presuppone la presenza di fornitori e rivenditori in grado di garantire il flusso di

produzione e vendita di un'azienda. Di particolare importanza sono la presenza di

aziende fornitrici di materie prime nelle immediate vicinanze, in modo tale da

ridurre i costi relativi al trasporto e occasionali rallentamenti dovuti a scarse

infrastrutture. In aggiunta, l'organizzazione della fase di produzione dovrà

Page 123: 1008746 Giacomo Piazza 2

necessariamente tenere conto non solo dei costi connessi alla localizzazione della

produzione stessa, ma anche valutare il controllo della qualità, dell'etica e della

sostenibilità (Pelle, 2007).

La prevenzione di simili inconvenienti è necessaria per evitare l'aumento dei

costi di produzione.

TABELLA 18: LIVELLO INFRASTRUTTURALE NELLA REGIONE ASEAN

Le infrastrutture economiche, fra cui i sistemi finanziari, di comunicazione, di

trasporto e di distribuzione di un paese, rappresentano un punto critico nel

valutare l'opportunità di entrare in un mercato estero (McGraw-Hill, Marketing,

p. 196, 2009). Mentre nei Paesi occidentali esse sono un requisito minimo, in

alcune economie emergenti, un sistema di comunicazioni stradali arretrato è un

limite molto forte per le imprese che hanno bisogno di movimentare le proprie

merci in tempi brevi. Contemporaneamente la presenza di sistemi di

comunicazione, come reti telefoniche fisse e mobili, TV via cavo, trasmissioni

radio, computer e satelliti permettono di interagire efficientemente con il resto

dei mercati globali.

“Uno dei maggiori ostacoli nell'implementazione di efficaci strategie

competitive nei Paesi emergenti riguarda l'inadeguatezza dei canali

distributivi” (Dawar e Chattopadhyay, 2002)

Page 124: 1008746 Giacomo Piazza 2

In conclusione è necessario uno studio relativo al contesto strategico, strutturale,

istituzionale e competitivo. Come più volte osservato nel corso di questo lavoro,

la stabilità politica è essenziale per attrarre investimenti in un dato paese; ma non

solo. La presenza di norme commerciali favorevoli alla creazione e gestione di

un'impresa sono aspetti salienti da considerare nella creazione di un business

plan. Il contesto istituzionale e normativo caratterizza che caratterizza i mercati

emergenti influenza in modo significativo le strategie delle imprese che ne

devono pertanto tenere conto (Nielsen, 2005; Prahalad e Lieberthal, 1998).

TABELLA 19: Specificità istituzionali e normative dei mercati emergenti rispetto

ai mercati sviluppati

Mercati Emergenti Mercati Maturi

Sistema

Giuridico

• Moderata capacità di far

rispettare le leggi;

• Ridotto ricorso alle vie legali

connesso all'alto livello di

social embeddednes;

• Diffusione e rischi elevati

legati alla corruzione e al

crimine;

• Elevata burocrazia.

• Elevato ricorso

alle vie legali per

garantire il rispetto

dei propri diritti;

• Risultati delle

controversie legali

più certi;

• Minore

corruzione.

Influenza

degli

Stakeholder

• Influenza elevata degli

stakeholder sulle imprese, in

particolare dei governi che le

considerano uno strumento per

raggiungere obiettivi sociali ed

economici.

• Moderata

influenza della

società civile, del

governo e degli

altri stakeholder.

Fonte: adattamento da Burgess, S. M., & Steenkamp J-B. E. M. (2006), op. cit.,

p. 342.

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Conoscere le regole è importante per comprendere quali siano i gradi di libertà

per un impresa all'interno del mercato obiettivo. Lo scopo è quello di evitare di

incorrere in sanzioni amministrative e penali con conseguenti danni economici e

di immagine. In Giappone ad esempio esistono 11000 norme commerciali

relative alla sicurezza per le automobili. In Europa sono invece 10000 le regole

che vanno rispettate e che specificano come le merci devono essere fabbricate e

commercializzate. Inoltre in alcuni Paesi la promozione e la pubblicità di un

determinato prodotto devono essere adattate alla cultura e alla religione locale, in

modo da mostrare la sensibilità con la quale l'impresa vuole affermarsi nel

mercato. Ragione per cui McDonald's, ad esempio, è stato in grado di elaborare

un menù su misura che potesse essere gradito in ogni parte del mondo,

applicando l'utilizzo di alcuni ingredienti e l'eliminazione di altri a seconda dei

gusti e della dieta alimentare di una nazione. Dawar e Chattopadhayay (2002)

sostengono che sarebbe preferibile per un impresa multinazionale entrante in un

mercato emergente, insediarsi nelle aree rurali, dove i piccoli negozi tendono ad

avere in assortimento una sola marca per categoria. In questo modo, il brand

straniero, presentandosi come novità, rimarrebbe maggiormente impresse nella

mente del consumatore (Pelle, 2007)

Le regolamentazioni commerciali e le leggi, riguardano anche la capacità delle

autorità locali di garantire il rispetto di tali norme. La lotta alla contraffazione è

una fondamentale attività che dovrebbe essere garantita all'interno di un mercato.

Il fenomeno della contraffazione assume proporzioni elevare soprattutto in Cina,

anche a causa di un'impostazione culturale in base alla quale l'imitazione di un

prodotto famoso non è altro che un riconoscimento del suo successo (Goria F.

2008). Tuttavia questa pratica ampiamente utilizzata risulta dannosa per i marchi

prestigiosi e non. Ad esempio, Ferrero, a pochi anni dal suo ingresso nel mercato

cinese, nel 1984, aveva dovuto assistere all'imitazione di uno dei suoi best selling

product, da parte di un'impresa dolciaria locale, la Montresor. Le cause legali,

che iniziarono nel 2003 e conclusesi nel 2008, a favore dell'impresa italiana,

avevano stabilito un risarcimento di 70 mila euro e il ritiro dei prodotti imitati (Il

Sole 24 Ore, Made in Italy: dopo i Ferrero Rocher i falsi sandali Gucci, 15 aprile

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2008). L'importanza del rispetto delle regole commerciali può migliorare i

rapporti tra stato e imprese straniere; soprattutto nei mercati emergenti, dove la

corruzione, l'elevata burocrazia ed il crimine organizzato sono molto attuali.

Il raggiungimento di obiettivi di politica sociale ed economica pacifici può

giocare a favore delle aziende che vogliono penetrare in un nuovo mercato. I

governi dei Paesi, come in Malesia (Nielsen 2005), possono percepire i vantaggi

della presenza straniera e supportare il business garantendo l'accesso a risorse

locali, umane e finanziarie.

Secondo Arnold e Quelch (1998), la tempistica e l'ordine di ingresso nei nuovi

mercati emergenti rappresenta un punto a favore per coloro che come first mover

si insediano in una nuova nazione.

GRAFICO 35:

Page 127: 1008746 Giacomo Piazza 2

Le aziende che avviano un'attività prima delle altre, possono godere di vantaggi

aggiuntivi in termini di relazioni con le istituzioni e acquisizione di risorse. Di

parere opposto, Cui e Lui (2005) che, dopo una ricerca svolta in Cina, ritengono

che le imprese che accedono da pioniere nei mercati emergenti godono di un

piccolo vantaggio solo in termini di quota di mercato, ma non di redditività.

Infatti, i primi entranti devono affrontare un maggiore grado di incertezza e

cambiamenti più radicali poiché operano nella fase iniziale di sviluppo del

mercato, che si possono tradurre ad esempio in costi più elevati per costruire le

infrastrutture di mercato, educare il consumatore e avviare le attività con

efficienza.

L'avvio di nuove start-up, secondo il Fondo Italiano di Investimento (FII) (2011)

deve essere preceduto da una critica valutazione del tipo di investimento a

effettuare.

GRAFICO 36: TECNICHE DI INVESTIMENTO SECONDO FII

Fonte: Fondo Italiano di Investimento (2010)

Page 128: 1008746 Giacomo Piazza 2

Tra le tecniche di approccio all'investimento affrontate, secondo Gabriele

Cappellini, Amministratore Delegato del Fondo Italiano di Investimento (2011),

la preferita dalle pmi italiane è la venture capital; si tratta di un apporto di

capitale di rischio di un investitore per finanziare l'avvio o la crescita di

un'attività in settori a elevato potenziale di sviluppo. L'investimento di venture

capital predilige, in genere, idee imprenditoriali particolarmente promettenti e

aree ad alto contenuto di innovazione. Spesso le società in cui fondi di venture

capital investono sono caratterizzate dalla presenza di un rischio operativo

elevato. Tuttavia, un fondo di venture capital è disposto a sopportare il rischio a

fronte di un rendimento futuro atteso altrettanto elevato (Il Sole 24 Ore, 11

gennaio 2012, p. 25)

GRAFICO 37:

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3.3.1 Italia e start-up

Secondo il Venture capital monitor, l’osservatorio dell’Università LIUC di

Castellanza (Varese), dei 110 milioni di euro messi a disposizione delle start-up

da fondi di venture capital e dal Fondo di Investimento Italiano, solo 88,3 milioni

sono stati utilizzati in 4 anni, il resto è rimasto in cassa. E i dati sono in crescita:

sono 66 le start-up finanziate da venture capital in Italia nel 2013, il 16% in più

rispetto all'anno precedente.

“L’Italia è un paese per start-up, ma solo finché restano nane. Perché,

quando tentano di crescere, sono dolori. L’ecosistema italiano è quello

giusto per mettere alla luce una società innovativa: ci sono davvero le

condizioni per far lievitare le idee di ingegnosi giovani in cerca di

un’avventura imprenditoriale.”(Gloria Riva, Innovazione, piccolo (non) è

bello. L'industria italiana ignora le start-up, l'Espresso sezione affari ed

investimenti, 28 luglio 2014)

Secondo www.cliclavoro.gov.it, il sito che fa capo al Ministero del Lavoro,

l'universo delle start-up italiane è sempre più popolato e vivace. Si contano nel

Registro delle Imprese 1554 società innovative iscritte tra il 2013 e l'inizio del

2014. Questo comporta una maggiore crescita, una più elevata competitività e

anche più occupazione. Tuttavia, i leader nel settore del finanziamento delle

start-up per l'estero (Business Angels), Riccardo Donadon, Salvo Mizzi e

Massimiliano Magrini (2014) sostengono che la maggior parte delle attività

avviate si arena nel giro di pochi anni.

“Il tessuto industriale nei mercati emergenti, spesso, non è in grado di

assorbire le innovazioni tecnologiche generate dalle start up italiane,

perché manca qualcuno di grosso che faccia da apripista.” (Massimiliano

Magrini, gestore di Annapurna, investimento totale in start-up: 60 milioni

di euro, 2014)

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In questo modo, prosegue Magrini, “...si buttano sulla produzione di servizi,

segmento poco scalabile” (2014), cioè che ha poche prospettive di crescere dopo

un certo limite.

Per definizione, come anche ribadito durante il World Business Forum MI (2013),

la start-up attraversa tre fasi. L'incubazione, dove si mettono a disposizione dei

talenti creativi i mezzi per concretizzare le idee dell'imprenditore. La fase degli

investimenti, quella in cui i venture capital puntano economicamente sullo

sviluppo delle piccole aziende tecnologicamente avanzate. In conclusione la fase

della crescita e dell'espansione che dipende sia da fattori di sostenibilità

all'interno dell'ecosistema della start-up, che da fattori esterni, relativi alle

regolamentazioni e alla disponibilità di infrastrutture nel paese emergente scelto.

Secondo Roberto Donadon, di H-Farm (2014) sarebbe necessario stimolare,

attraverso agevolazioni e sburocratizzazione le medie imprese che decidono di

investire e adottare start-up. Il maggiore ostacolo, come sostiene Marco Bicocchi

Pichi, Ernst&Young (2014), è la mancanza di investitori e di una politica che

possa sostenere questi finanziamenti rischiosi.

“...va detto, inoltre, che le imprese innovative, anche quelle che

implodono, generano lavoro e favoriscono lo sviluppo. Chi le sostiene,

aiuta l’Italia a uscire dal torpore e a rilanciare il Made in Italy come

sinonimo di certezza e qualità.” (Marco Bicocchi Pichi, Ernst&Young,

imprenditore in start-up per investimenti pari a 50 milioni di euro, 2014)

I motivi principali che spingono a cercare il successo al di fuori dell'Italia sono la

facilità nell'ottenere i finanziamenti, gli sgravi fiscali e una cultura di impresa più

preparata ad accogliere aziende attive in ambito digitale ad alto potenziale.

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“L’estero rimane sempre una molla costante e quotidiana di stimoli e

anche se un' idea non è al 100% realizzabile, ci sono delle condizioni che

la renderanno fattibile o per lo meno daranno la possibilità di provare

a crescere ed ad avere successo.” (Dino Distefano, informatico premiato

dalla Royal Society e professore presso la Queen Mary University, 2013)

All'estero, si moltiplicano i programmi che finanziano start-up straniere. Sono

sempre di più, infatti, i Paesi che richiamano a loro giovani cervelli

internazionali; tanto da aprire bandi che sostengono con agevolazioni e

investimenti emigranti che vogliono fare impresa (Giulia Cimpanelli, start-up, i

bandi per crescere oltre confine, Corriere della Sera, 28 marzo 2014). Uno dei

programmi che in Europa ha avuto maggior successo, nei primi mesi di

attivazione, è stato quello dell'Exist Business Start-Up Grant, in Germania. Il

Ministero dell'Economia locale supporta in questo caso i progetti delle start-up

più innovative di studenti ed istituti di ricerca, finanziando le attrezzature e il

coaching e coprendo le spese di soggiorno. Nel sud-est asiatico, un esempio di

programma “start-up friendly” è quello promosso da Hong Kong. Lo Accelerator

HK è un progetto di ampliamento delle piattaforme digitali per dare vita a strat-

up legate al mondo dei software per smartphone. L'iniziativa garantisce ai

canditati 15 mila dollari, la possibilità di fruire di una formazione specializzata

per i propri operatori, una continua assistenza tecnica e una sede legale.

I successi delle start-up italiane all'estero, non sono sporadici. Un esempio è

Frestyl (2012) che, ideata da Arianna Bassoli, permette di mappare i concerti live

organizzati in tutto il mondo. Iubenda (2012) genera impostazioni di privacy

automatiche nei siti e social network utilizzati dall'utente, Atooma (2012)

permette di impostare azioni fisse sui dispositivi Android, Beintoo (2012) è una

piattaforma di giochi sponsorizzati da aziende e l'utente che vince può ottenere

degli sconti dalle stesse aziende.

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“In definitiva l’estero sembra essere un posto dove molto è possibile, e in

certi casi lo è, ma alla base di tutto ci deve essere un' attenzione ed una

cura per la propria idea sempre e ovunque. All’estero è più facile trovare

un dialogo con le istituzioni e gli imprenditori, ma va tenuto sempre

conto che in ogni posto in cui si va, si porta sempre dietro ciò che si è.”

(Stefano Rosso, numero 2 secondo la lista Wired Italia tra i giovani

promettenti, Director of Corporate Development OTB group, 2011)

L'ASEAN, come più volte citato, è un'organizzazione politica, economica e

culturale di nazioni situate nella regione dell'Asia sud orientale, che attualmente

rappresenta per molte nazioni sviluppate una “valvola di sfogo” per i propri

commerci (Lorenzo Riccardi, Professore Associato presso Xian Jiao Tong-

Liverpool University, 2013). Durante il summit di Bali nel 2003, i leader dei

Paesi membri hanno deciso di integrare le proprie economie entro il 2020

attraverso l'AEC, ASEAN Economic Community. Obiettivo principale è stata la

creazione di una base produttiva e un mercato unico dove sia garantito un libero

flusso di beni, servizi, investimenti, capitali e lavoro specializzato. Le nazioni del

sud-est asiatico stanno quindi promuovendo congiuntamente l'ASEAN come area

fornendo alle società grandi opportunità in termini di sinergie e competitività nel

servire sia il mercato globale che quello locale.

“Le economie emergenti, specie quelle del Sud Est Asiatico, sono un

interlocutore privilegiato per le nostre imprese ad alto tasso di

innovazione. Per poter essere competitivi su quei mercati dobbiamo

investire sul know-how in campo tecnologico ed esportare le eccellenze

che il nostro sistema scientifico ed economico sa esprimere in campo

internazionale. molti Paesi dell’area asiatica come Indonesia, Cina, Corea,

Malesia, Vietnam, sono economie molto competitive da un punto di vista

produttivo ma, dal lato dell’innovazione e della creatività, possiamo essere

i partner ideali.” (Fabio De Furia, Presidente del Consorzio Roma

Ricerche, 1 luglio 2014)

Page 133: 1008746 Giacomo Piazza 2

Nonostante le prospere opportunità che l'estero sembra riservare alle imprese

italiane, nel report del terzo trimestre del 2012, gli esperti di Kaspersky Lab

hanno esaminato i cambiamenti nel panorama delle minacce, soprattutto

nell'ambito dell'IT. E' emerso che i terminali d'accesso negli uffici presenti sul

territorio dei Paesi emergenti sono vittima di spionaggio informatico in

un'elevata percentuale di casi. La Russia è posizionata al vertice della classifica,

con il 23,2%, per malware.

Nel grafico sottostante sono rappresentate le percentuali di rischio dei Paesi nel

mondo.

GRAFICO 38:

Fonte: Kapersky Lab (2012)

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GRAFICO 39:

Fonte: Kapersky Lab (2012)

La minaccia di possibili e frequenti attacchi informatici ai sistemi operativi è una

fonte di rischio che le giovani start-up devono affrontare nel caso in cui

decidessero di investire nelle economie emergenti. Nel grafico precedente sono

presentate le percentuali di computer infettati da virus nelle principali nazioni del

mondo.

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Conclusione

Nel corso della mia trattazione, l'ipotesi per cui le Nazioni del sud-est asiatico

possano essere considerate un “post-BRIC's” è stata verificata. Mentre Cina e

Russia hanno subito conseguenze maggiori in seguito alla crisi economica, la

minore interdipendenza tra i Paesi occidentali e i Paesi dell'estremo oriente, ha

permesso a questi ultimi di sfruttare in modo efficiente le risorse disponibili. Il

flusso di capitali, nella così citata “fuga di investimenti dall'occidente”, è stato un

propulsore per le economie locali, garantendo un miglioramento nelle condizioni

di vita e di lavoro. Le numerose start up, sulla scia del gruppo Piaggio in

Vietnam, che hanno deciso di sfruttare la crescente importanza dei mercati del

sud-est asiatico, hanno ottenuto successi in grado di ripagare gli investimenti

iniziali. Non è un caso, quindi, che le società di credit rating tra cui Moody's e

Fitch Ratings abbiano attribuito a queste Nazione una tripla A con output

positivo; la promozione delle economie dell'ASEAN servirà a garantire una

crescita stabile e sana. Tuttavia, come è stato possibile osservare, accanto agli

indicatori monetari ed economici incoraggianti, altri sono i punti di debolezza di

queste Regioni. Infatti, se da un lato gli investitori sono propensi ad indirizzare le

proprie risorse in Nazioni come Malesia, Indonesia e Singapore, dall'altro lato

l'instabilità politica di Thailandia e delle Filippine rende le tecniche di approccio

alle economie emergenti più complicate. I fattori di rischio, come la caduta di un

governo o addirittura una rivoluzione, prolungano i tempi attraverso i quali il

management di una azienda prende le decisioni; i rallentamenti delle scelte non

fanno altro che causare un rallentamento del flusso di capitali ed un calare delle

prospettive di crescita. In aggiunta, altre considerazioni in merito al livello delle

infrastrutture e alle disuguaglianze sociali impongono agli investitori di

mantenere alta la guardia. In soccorso a questi ultimi, le prevenzioni prese dai

governi negli ultimi 5 anni, per stabilizzare e rendere meno turbolenti i mercati,

si stanno rivelando efficaci, come dimostrano i tassi di crescita previsti per il

2015.

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L'obiettivo di formare un'unità economica integrata presso l'ASEAN, rimane il

fulcro centrale delle politiche dei Governi locali. La Regione, i cui membri

presentano diverse situazioni finanziare, necessiterebbe di regolamentazioni in

grado di annullare le disuguaglianze tra gli Stati e istituire un unico agglomerato

economico. Tra le varie misure, sono state segnalate il bisogno di un'industria

primaria solida, un miglioramento dell'educazione e un'alleggerimento dalla

burocrazia e dalle regolazioni interne alle Nazioni.

“Most of all, it needs committed leaders capable of forging a common vision

from very disparate parts; a vision that not only recognizes ASEAN’s enormous

opportunities, but also the vital challenges standing in the way of their

realization.”6

6Asian Business Council, ASEAN: An Emerging Global Player, agosto 2014,

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