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L’architettura esistente e la cultura rinascimentale: tra teoria e prassi Ci siamo trovati sinora di fronte a una letteratura piuttosto avara di trattazioni sistematiche ed esplicite sul tema dell’intervento sulle architetture esistenti nei secoli precedenti l’Ottocento Sono emersi, come temi correlati, quello della necessità della cura delle antichità romane (Lettera di Raffaello a Leone X) come premessa per una emulazione dell’antica “età dell’oro” che sapesse superare le stesse acquisizioni della classicità (Alberti, Scamozzi…) il tema della durata come destino proprio dell’architettura (Alberti, Serlio …) • il principio della “conformitas”, come principio guida per la ricerca della “concinnitas universarum partium” (Alberti) e, quindi, come criterio fondante anche per alcuni interventi su fabbriche ritenute “erronee”, perché costruite secondo lo stile dei goti, ovvero dei “vecchi”, rifiutato ormai dalla cultura rinascimentale a favore di un ritorno allo stile degli “antichi” (vicende del completamento del Tiburio del Duomo di Milano - scritti di Leonardo, Bramante e Francesco di Giorgio Martini) il tema della “economicità” dei lavori (raccomandazioni del Serlio) e la preminenza delle motivazioni “sociali” e “culturali” per gli interventi di “rinnovo” delle forme degli edifici gotici (ricerca della simmetria e del decoro) il tema della comprensione dei modi secondo cui la fabbrica è stata concepita e costruita per evitare errori nel suo “rinforzo” (Tiburio di Milano e raccomandazioni di Serlio sulle “case che minacciano rovina”)

“case che minacciano rovina”) - UniGe · 2004. 3. 26. · Gian Pietro Bellori e i restauri di Carlo Maratta sugli affreschi di Raffello Primo intervento descritto dal Bellori

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L’architettura esistente e la cultura rinascimentale: tra teoria e prassi

Ci siamo trovati sinora di fronte a una letteratura piuttosto avara di trattazioni sistematiche ed esplicite sul tema dell’intervento sulle architetture esistenti nei secoli precedenti l’OttocentoSono emersi, come temi correlati,

• quello della necessità della cura delle antichità romane (Lettera di Raffaello a Leone X) come premessa per una emulazione dell’antica “età dell’oro” che sapesse superare le stesse acquisizioni della classicità (Alberti, Scamozzi…)

• il tema della durata come destino proprio dell’architettura (Alberti, Serlio …)• il principio della “conformitas”, come principio guida per la ricerca della “concinnitas

universarum partium” (Alberti) e, quindi, come criterio fondante anche per alcuni interventi su fabbriche ritenute “erronee”, perché costruite secondo lo stile dei goti, ovvero dei “vecchi”, rifiutato ormai dalla cultura rinascimentale a favore di un ritorno allo stile degli “antichi” (vicende del completamento del Tiburio del Duomo di Milano - scritti di Leonardo, Bramante e Francesco di Giorgio Martini)

• il tema della “economicità” dei lavori (raccomandazioni del Serlio) e la preminenza delle motivazioni “sociali” e “culturali” per gli interventi di “rinnovo” delle forme degli edifici gotici (ricerca della simmetria e del decoro)

• il tema della comprensione dei modi secondo cui la fabbrica è stata concepita e costruita per evitare errori nel suo “rinforzo” (Tiburio di Milano e raccomandazioni di Serlio sulle “case che minacciano rovina”)

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L’architettura esistente e la cultura rinascimentale: tra teoria e prassi

Non sono però emerse posizioni teoriche univoche.Abbiamo quindi volto lo sguardo verso le grandi fabbriche incompiute dell’epoca medievale e verso le soluzioni proposte per il loro completamento, tra Rinascimento ed età barocca, fino al XIX secolo (facciate del Duomo di Milano, del San Petronio di Bologna, Basilica di Vicenza, San Giovanni in Laterano)Emerge però, anche da queste vicende, una realtà complessa segnata da un equilibrio sempre mutevole tra:•“conservazione” e “trasformazione”, •“innovazione” e “tradizione”, •“amore per l’opera superstite degli antichi” • rispetto o rifiuto per il patrimonio dei “vecchi”

E spesso, più che da sole ragioni interne alla cultura architettonica, gli esiti di quelle vicendesono influenzati, da soggetti diversi, ciascuno portatore di una propria “visione” della questione:

•L’architetto progettista, con la sua formazione e cultura•Il committente, con le sue esigenze pratiche, rappresentative, politiche, economiche•Le maestranze, con le loro tradizioni, i loro meccanismi di formazione e di difesa del lavoro•Le componenti della società, spesso in lotta tra loro o con i poteri civili ed ecclesiastici

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Il Seicento e le prime riflessioni sul restauro pittorico

Per questo, torniamo al nostro breve excursus storico, dopo le incursioni verso l’Ottocento, per capire se e come già prima del “secolo della storia” siano emersi, con maggiore decisione e chiarezza, alcuni dei temi che caratterizzeranno la disciplina del restauro modernamente intesa.

Come anticipato, infatti, molti studiosi contestano l’affermazione di Viollet Le Duc secondo cui “le mot et la chose sont modernes”, ovvero che il restauro nasca solo nel XIX secolo (G. De Angelis D’Ossat ma anche M. Dezzi Bardeschi).

Marco Dezzi Bardeschi, presentando il libro di Pierluigi Panza, Antichità e restauro nell’Italia del Settecento, (F. Angeli, Milano 1990) sostiene, ad esempio, che:

“…almeno fin dalla metà del Settecento, gli interrogativi ed i nodi problematici ed interpretativi che continuano a venire al pettine della disciplina sono già tutti presenti”“Il secolo infatti si apre con un’ipoteca scomoda che finirà per ritardare la presa di coscienza della giusta causa della conservazione: la tradizionale definizione del restaurare come “reficere” e dunque come continuità, incessante operazione di riproduzione, ereditata dal mondo latino e convalidata dalle note tesi classiciste ed idealiste dell’abate Bellori (il suo Della riparazione della Galleria del Carracci e della Loggia di Raffaello alla Lungara è del 1695)”

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Gian Pietro Bellori e i restauri di Carlo Maratta sugli affreschi di Raffello

Guardiamo dunque a questa polemica e a quanto avvenne in quegli anni in campo pittorico poiché da quelle riflessioni emergono temi propri del dibattito successivo, fino ai giorni nostri .

Gian Pietro Bellori è abate, bibliotecario della regina Cristina di Svezia, antiquario di papa Clemente X.Secondo lui, nelle parole di P. Panza:“l’arte altro non era se non la incarnazione di un’idea nata all’interno degli insondabili moti coscienziali di un artista”

Concezione espressa in una delle sue opere più importanti Le vite de’ pittori, scultori e architetti moderni, Roma 1672 che significativamente riprende Le vite di Giorgio Vasari modificandone tuttavia ampiamente l’impianto critico soprattutto per quanto riguarda i rapporti tra Raffaello e Michelangelo (con una netta rivalutazione del primo autore) .Rifacendosi a Platone, attraverso il filtro offerto dalle riflessioni dello Zuccari (primo accademico di San Luca) il Bellori rinvia così ad una idea che:“…si svela a noi e discende sopra i marmi e sopra le tele” (L’idea del pittore, dello scultore e dell’architetto - 1664 - e Zuccari, L’idea de’ scultori, pittori e architetti, Torino 1607)

E ad essa affida, per Panza “ la somma delle potenzialità del fare artistico, ove l’informemateriale diventava sede di una attesa ierofanica e formatrice, mentre la forma restava rerum formas quas idea Plato vocat”

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Gian Pietro Bellori e i restauri di Carlo Maratta sugli affreschi di Raffello

Nel 1695 Bellori scrive la sua celebre:

Descrizione delle Stanze di Raffello

Con la quale entra nel pieno della nascente storiografia artistica portandovi un profondo influsso neoplatonico e individuando nell’opera d’arte un preminente nucleo etico-estetico ed esaltando in essa i valori metaforici dell’immagine e la sua capacità di mostrarsi come“exemplum”.

Tutto ciò tende ad esaltare il carattere “alto” dell’opera d’arte allontanandola dalla quotidianità e “svalutando“ la sua materialità, come semplice attributo secondario, necessario ma non influente sui suoi valori espressivi e concettuali.

Simili concezioni spiegano, almeno in parte, la difesa che il Bellori espresse degli interventi di Carlo Maratta (custode delle Stanze di Raffello durante il pontificato di Innocenzo XI) ) sugli affreschi alla Farnesina, prima, e poi su quelli dalla villa della Lungara e delle stesse Stanze dei Palazzi Apostolici.

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Gian Pietro Bellori e i restauri di Carlo Maratta sugli affreschi di Raffello

Primo intervento descritto dal Bellori - Galleria di Annibale Carracci a Palazzo Farnese

Nel 1693 l’abate Felini, agente del Duca di Parma:“…avendo osservato le ingiurie notabilissime che il tempo andava facendo alla celebre galleria dipinta da Annibale Carracci nel Palazzo Farnese ….”

diede ordine di procedere a una “conveniente e stabile riparazione” all’architetto Carlo Fontana e a Carlo Maratta .

Per impedire il maggiore inconveniente: “…una crepatura da capo a piede della volta, che segando per mezzo la larghezza, si stendeva giù per i muri fin’al pavimento…” ed avendo provocato il distacco di una consistente parte degli intonaci, Fontana decise di porre in opera delle catene, per impedire l’inclinazione dei muri, stabilì di realizzare un nuovo rivestimento del cornicione esterno e di utilizzare chiodi a T e d L per fissare gli intonaci pericolanti.I chiodi furono così ben dissimulati che, sottolinea il Bellori:

“….il signor Maratta …fatta più volte attenta osservazione , non gli dava l’animo di scuoprire ove fosse stato collocato il chiodo…”.

Si impone così il tema della mimesi ( poi aspramente denunciato dal Canova e da Winckelmann e ancora oggi oggetto di aspre contese nel mondo del restauro)

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Gian Pietro Bellori e i restauri di Carlo Maratta sugli affreschi di Raffello

Il giudizio si sposta dalla logica dell’identico a quella del simile, e l’opera del restauratore è accettabile perché favorisce, reintegrando le forme perdute o interrotte, quella lettura dell’opera d’arte proposta dal Bellori che esalta l’idea sottesa dall’immagine figurata.

Il giudizio positivo si estende, anzi, fino ai casi estremi in cui la mimesi del nuovo intervento non si limita a integrare e completare, ma giunge a cancellare e modificare l’opera d’arte, come sottolinea ancora il Bellori narrando che:

“Avvenne che l’istoria del Presepio di Carlo dipinta a fresco nella Galleria di Monte Cavallo…cominciò a patire con il muro…fu [allora] chiamato Carlo a ristorar la sua istoria , ed egli nel ritoccarla l’avanzò tanto che la ripassò tutta di nuovo e così la fortificò di colore che non sembra più quella di prima”

Bellori predilige perciò la completa leggibilità di un’opera, al termine di un “restauro”, anche se essa risulta affatto diversa dall’opera di partenza, ovvero all’originale e all’autentico

Il restauro come rifacimento diviene paradigma anche degli interventi alla Loggia di Psiche alla Farnesina

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Gian Pietro Bellori e i restauri di Carlo Maratta sugli affreschi di Raffello

Secondo intervento : gli affreschi di Raffaello nella Loggia di Psiche alla Farnesina

Le crepe dei muri sono ormai assestate, il fissaggio degli intonaci con i chiodi è prassi ormai consolidata, ma le pitture appaiono alquanto degradate, per la prolungata esposizione agli agenti atmosferici, hanno perso la vivacità cromatica originaria favore di una patina uniforme.Si scatena una polemica tra chi difende gli “interventi” di rifacimento e rinnovamento del Maratta e chi li avversa.

Ai secondi il Bellori risponde affermando che:

“…... Ma poiché questo è un male troppo difficile a ripararsi senza offendere la superstizione di alcuni, che consentono piuttosto alla caduta totale di una pittura egregia, che a mettervi un puntino di mano altrui, benché perito ed eccellente, è certo un inganno comune a credere, che non si possa fare altro, che attendere a conservare al meglio che si può, gli avanzi del tempo, e le venerabili reliquie di così mirabili lavori. E però vero che i posteri non saranno del sentimento de' scrupolosi moderni; perché se giungeranno a' tempi loro appena gl'embrioni di quei parti, che sapranno esser stati ai nostri di, o poco avanti cosi perfetti, ci riprenderanno di poca carità, e forse d'ingiustizia, che si sia negato di fare alla Pittura quella cortesia, che s'usa verso la Scultura, la quale vede frequentemente ristorate le sue statue col rifacimento delle gambe, o delle braccia, e talvolta della testa per sostenere il massiccio, ed il resto della figura”

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I restauri di Carlo Maratta sugli affreschi di Raffello e le integrazioni scultoree

Le reintegrazioni scultoree, molto in voga almeno dalla fine del Cinquecento (v. A. Conti, Storia del restauro, assurgono così, secondo Panza, da momento pratico a giustificazione teorico-etica delle reintegrazioni pittoriche, consentendo a Maratta di rinnovare “… tutti i campi, accordandoli a quel segno, che mostravano quei pochi antichi rimasti intatti” Si realizza così una vera e propria traduzione con la perdita del testo originale e trasferendo in essa solo il contenuto denotativo (ciò che tutti vedono) mentre il piano dell’espressione e dei contenuti connotativi (ciò che l’artista intendeva trasmettere) vengono sostituiti

Laocoonte restaurato da GivoannangeloMontorsoli - Roma, Musei Vaticani

Laocoonte ricostruito col braccio”Pollak”, dopo il restauro del 1960 - Roma Museo Vaticano

Raffaello e aiuti-Psiche portata in cielo 1517-punteggiature del Maratta (rimosse nel 1920)

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I restauri di Carlo Maratta sugli affreschi di Raffello e le integrazioni scultoree

La Galleria affrescata da Annibale Carracci a Palazzo Farnese in Roma

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I restauri di Carlo Maratta sugli affreschi di Raffello e le integrazioni scultoree

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La lunga tradizione delle ridipinture e delle integrazioni pittoriche, dopo il Maratta

La storia della pittura è ricca di quadri ritenuti dispersi e poi ritrovati sotto ridipinture successive , di quadri ritenuti falsi e rivelatisi veri, o viceversa, dopo vari interventi di restauro, di quadri attribuiti ad un autore in base ad un esame condotto, in realtà, su ridipinture, ritocchi, reintegrazioni …o, comunque su uno strato pittorico diverso da quello originario.

Insomma la storia della pittura è spesso riscritta dai restauri di ieri e di oggi

A sinistra: Giotto apparizione di San Francesco 1320-28 dopo i restauri del 1852 (in alto) e dopo quelli del 1959- Firenze S. Croce a destra: Tiziano: Ritratto di Vincenzo Mosti - 1520 con ridipinture secentesche e dopo il restauro del 1910- Firenze, Galleria Palatina

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I restauri di Carlo Maratta sugli affreschi di Raffello

Terzo intervento : gli affreschi di Raffaello nelle Stanze Vaticane

Tra 1702 e il 1703, Carlo Maratta viene incaricato della pulitura degli affreschi di Raffaello nelle Stanze Vaticane.Dell’intervento resta una relazione tecnica stesa da un aiuto. Da essa sappiamo che si partì da una critica a precedenti restauri condotti nella Stanza della Segnatura da

“professori poco pratici [i quali] invece di ricoprire con diligenza, e porre colore solamente dove mancava aveano ricoperti di una cattiva tintura tutti gli ornamenti di chiaro oscuro, sì dove erano conservati, che dove e rano laceri e consumati”

E che Maratta istruì i suoi aiutanti:

“…di non punto pregiudicare a quello, che si rittrovava conservato, ma che si colorissero i luoghi, dove erane bisogno, e che si accompagnasse bene l’antico nella forma del colore, in guisa che non apparisse rinnovata cosa alcuna…”

In realtà l’intervento i spinse ben oltre la semplice pratica “artigiana” della pulitura, affidata a Tosini ed eseguita con “vin greco”, e portò a estese “ridipinture” del Maratta e dei suoi allieviche si ritennero depositari della capacità di avvicinarsi allo “spirito” dell’originale e al suo specifico “codice” rappresentativo.

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I restauri di Carlo Maratta sugli affreschi di Raffello

Così:

Sugli affreschi consumati a tal punto che alcune figure erano “dal mezzo in giù…perdute affatto, e di due di esse neppur si poteva rintracciare l’attitudine…” Maratta compie la sua “lettura critica e formale” per restituire un disegno-modello che servisse ai suoi allievi come traccia per il rifacimento dei già chiodati affreschi della Stanza di Eliodoro.

Nella Sala di Costantino i chiaroscuri di “terretta” vennero rifatti seguendo il disegno di stampe antiche.

Nella Stanza della Segnatura si rimossero i precedenti interventi e si affidarono le grottesche e gli ornati architettonici a Domenico Belletti. Maratta inoltre “dipinge di nuovo tutte le figure di chiaro oscuro bianco[poiché] per essere affatto rovinate, non era possibile accomodarle”.

Al Bellori come a Maratta interessava il rispetto dell’idea, dell’esempio, non certo al sua reale consistenza e per questo, nel tentativo di rintuzzare le critiche dei nemici, egli lasciò: nella Stanza della Segnatura

“...una piccola parte di quegli ornamenti con quell’antico colore arrugginito...”

forse l’unico frammento originario che ci è rimasto e anche la denuncia del suo fallimento, visto che l’intento originario era che il nuovo si accordasse tanto all’antico da rendere irriconoscibile, ovvero mimetico, l’intervento.

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La fortuna critica di Carlo Maratta

Nel 1703 Carlo Maratta fu creato “Cavaliere di Cristo” e ottenne l’elogio dell’Accademia di San Luca attraverso le parole di Monsignor Sergardi:

“…che detto non avrei di quel fra gli altri eletto immortal pennello, che cancellando là sulle pareti vaticane le ingiurie del tempo , senza togliere alcun pregio all’antichità, le gloriose memorie dell’Apelle d’Urbino a nuovo giorno richiama?”

Gli ambienti accademici si opposero così alle prime ondate di critiche mosse a quegli interventi e ribadirono l’apprezzamento ancora nel 1708, invitando a consegnare al Maratta “perché si compiacesse di restaurarlo” il quadro della Vergine di Raffaello dipinto per la chiesa di San Luca.

I giudizi positivi continuarono per tutto il XVIII secolo anche se, lentamente, emersero sempre maggiori accenti critici, a cominciare da quelli di monsignor Bottari, propugnatore di una teoria del “giusto mezzo”, per giungere infine, agli inizi del XIX secolo, al giudizio sferzante di Filippo Agricola, primo cattedratico di pittura all’Accademia di San Luca, che accusò il Maratta di aver “ritoccato” più del necessario gli affreschi di Raffaello, già ridipinti da Sebastiano Venanzio, sotto il pontificato di Clemente VII:

“Disgraziatamente - ricordava infatti a proposito del Miracolo di Bolsena - Maratta, in questo classico dipinto,…per cagione dell’intonaco screpolato, ridipinse quasi tutta l’architettura: non restando di originale che il solo pilastro e base a mano destra del quadro”

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La fortuna critica di Carlo Maratta

Il miracolo di Bolsena - Raffaello Sanzio - Stanze Vaticane

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La fortuna critica di Carlo Maratta

La cacciata di Eliodoro dal Tempio - Raffaello Sanzio - Stanze Vaticane, Roma

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Le obiezioni e le critiche al Maratta - Il canonico Bottari

Professore di storia ecclesiastica alla Sapienza, sotto il pontificato di Clemente XII, studia a Firenze, ove si interessa di estetica e lancia un’ampia requisitoria sullo stato di abbandono delle opere d’arte:“dal vedere poi quante pitture, e quanti belli artifizi di simigliante natura sieno e per trascurataggine miseramente perduti, o per una goffa e non mai deplorabile barbarie, andati in perdizione…si vorrebbe pure una volta alla perfine imparare a non mettere cotanto in non cale l’antiche pitture, come tutt’ora si fa…;

La polemica contro il Bellori recupera in parte lo spirito Vasariano e parte dalla constatazione della perdita di capacità espressiva delle opere contemporanee rispetto a quelle antiche, perdita che impone appunto la conservazione scrupolosa di queste ultime evitando i conflitti tra riproposizione ex novo e riqualificazione dell’opera degradata:

“Non minore guerra vien fatta alle buone pitture da quelli, che si prendono di esse soverchia perniciosissima cura, anzi maggiore di coloro, che non se ne prendono cura nessuna; perché volendole o ripulire o lavare, ed essedo di sì fatte cose ignoranti, invece di levarne o la polvere o le sozzure, ne portan via pazzamente il migliore, e quest’ultime tinte, e quelle svelacchiature…e quegli estremi tocchi maestri, che sono il fiore della pittura. E in questo cogl’ignoranti s’accordano talora anche alcuni professori, o che vogliono passare per professori, che arditamente pongono le mani su gl’altrui lavori, e o per malizia o per ardire ritoccano e rifanno talvolta quasi le figure intere”

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Le obiezioni e le critiche al Maratta - Il canonico Bottari

Per questo, ricordando gli interventi del Maratta nelle Stanze Vaticane, il Bottari sentenzia:

“Insomma il volgo non conosce la strada di mezzo, e perciò sempre dà negli estremi, che sono sempre viziosi; onde è che o lascerà andar male le pitture, e consumare dall’umidità, o dall’intemperie, dal salnitro, o da’ raggi del sole, o dalla polvere, o da’ tarli, o da qualche altro malanno; o al contrario le farà lavare con mille segreti perniciosissimi, o ritoccare, e anche ridipingere in gran parte da qualche artefice ignorantello, che darà loro ad intendere mille frottole. Ora di questi due chi fa peggio? Io dico certamente i secondi, laonde sempre si torna lì, che sono peggiori degl’ignoranti affatto, i mezzo intendenti”

È questa una querelle, tra conservatori e novatori che si protrarrà per lungo tempo ancora e che, in queste occasioni, trova le sue prime espressioni pubbliche, anche perché come Bottari fa singolarmente e sconsolatamente dire a Maratta, in uno dei suoi dialoghi:

“Purtroppo così va la bisogna, e per questa ragione di quante belle fabbriche, e di quante belle opere di scultura, e di pittura siamo restati privi, e invece di esse ci troviamo le fabbriche pubbliche, tanto sacre, che profane, deturpate da mille aborti dell’arte”

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Le obiezioni e le critiche al Maratta - L’abate Luigi Crespi

Continuatore dell’opera del Malvasia, intenta a rivendicare un’autonomia della storia dell’arte “felsinea” contro il primato di quella toscana, scrive nel 1756 al conte Algarotti, una lettera di critica alle posizioni del Bellori e del Maratta.

Nella lettera il Crespi sostiene l’impossibilità tecnica di eseguire un corretto intervento direstauro. Egli contrappone al desiderio di rendere sempre e comunque leggibile l’opera d’arte degradata il pericolo di sovrapporre alla figura e all’opera dell’artista quella del restauratore. Il Crespi, inoltre, elogia la funzione estetica svolta dalla “patina” del tempo che arricchisce l’opera del maestro. Nasce così il tema del tempo visto come “grande pittore” e non solo devastante distruttore:

“Il dipinto vecchio, egli è fuor di dubbio, avvenga ché dipinto a fresco, ha preso la sua patina dalla calce, dall’aria, dalla polvere e dall’umido: la qual patina è difficilissimo, per nn dire impossibile, da imitarsi, massime col dipingere a fresco, il quale muta le tinte nell’asciugarsi, e però se s’imitasse nel dipingere, nell’asciugarsi poi diversificherebbe il dipinto ; e, rasciuttato che sia, non può ritoccarsi a buon fresco, sicché non si può col ritocco a buon fresco supplire alle mancanze già fatte [tanto che] …Parlandosi d’opere fatte a buon fresco non possono ritoccare né meno gli autori medesimi senza deteriorarle””

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Le obiezioni e le critiche al Maratta - L’abate Luigi Crespi

Così, alle speranze del Bellori e del Maratta, di far rivivere l’opera antica degradata, il Crespi oppone la convinzione che ciò sia impossibile ed erroneo, affermando che sia meglio mantenere:

“…intanto quel poco che ne rimane vergine ed illibato, che goderlo discordante col ritocco, e guasto; poiché nel vederlo malamente ridotto dal tempo, al più non possiamo lagnarci, o del tempo medesimo il quale, Ogno cosa quaggiù guasta, e corrompe, o della poca attenzione di chi lo fece fare, non avendo usato le necessarie cautele perché si conservasse o della trascuratezza di chi di mano in mano lo ha posseduto, in custodirlo: che certamente deplorabile, ma lo è sempre meno in questa forma di quello di doverci querelare inoltre dell’ignoranza di chi v’ha fatto por mano, del coraggio biasimevole di chi ve l’ha posta, e della disavventura di averlo volontariamente sempre più mal ridotto all’occhio intelligente, in veggendolo discordato e guastato”

Nasce il tema del valore preminente del frammento originale e autentico

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Le obiezioni e le critiche al Maratta - L’abate Luigi Crespi

Il Crespi, tuttavia, vuole rafforzare questa dichiarazione di “impossibilità tecnica” e di illegittimità culturale del restauro e, per non prestare il fianco alle obiezioni di chi riteneva giusto l’intervento per la sovrastante esigenza della intelligibilità dell’opera, pone a se stesso questa domanda:

“Ma se il male non fosse provenuto [all’opera] dall’intrinseco, ma solo dall’estrinseco, e che più non potesse provenire (ad esempio se si trattasse di un dipinto a fresco annerito dal fumo per cagione del fuoco….) non si potrà egli ripulire e così rimuoverlo, e rifar quei pezzi che fossero caduti e screpolati?”Ma alla domanda subito risponde:

“No, signore, che non si potrà poiché primieramente, trattandosi di ripulirlo dal fumo è necessario servirsi di un corrosivo per levare quel bituminoso che lascia il fumo attaccato al dipinto , e dovendosi servire di un corrosivo non solo si laverà il bituminoso, ma insieme le ultime pennellate, gli ultimi finimenti, le velature, e quelle tinte di cui si servirono i grand’uomini per sporcare il tutto insieme onde l’innanzi dall’indietro si distinguesse”

Come si vede, le recenti polemiche per le puliture sul Giudizio Universale di Michelangelo alla Sistina (v. James Beck) non sono affatto originali ma hanno illustri e antichi precedenti