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#13 COMPARTIR APRILE 2010 C OMPARTIR Notiziario del gruppo “In Bolivia 2004” Patronato San Vincenzo In questo numero BOLIVIA Latte che bontà, di Fabrizio Cotini TESTIMONIANZE Cinquant’anni di dono, cinquant’anni di vita, di Padre Sandro Peccati TESTIMONIANZE Progetto Qalauma, La Paz, di Elena Catalfamo DOSSIER Prodotti belli e perfetti, ma privi di un’anima, di Don Alessandro Sesana ATTUALITÀ I conflitti dimenticati CULTURA Recensione del libro Terra madre”, di Carlo Petrini

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Compartir (condividere) è il notiziario dell'associazione InBolivia2004 del Patronato S. Vincenzo di Bergamo. In queste pagine vogliamo provare a riflettere sul senso di quanto succede in Bolivia e, con uno sguardo più ampio, nel mondo.

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#13COMPARTIR

APRILE

2010

COMPARTIRNotiziario de l g r uppo “In Bol ivia 2004”

Patronato San Vincenzo

In ques to numeroBOLIVIA Latte che bontà, di Fabrizio Cotini

TESTIMONIANZE Cinquant’anni di dono, cinquant’anni di vita, di Padre Sandro Peccati

TESTIMONIANZE Progetto Qalauma, La Paz, di Elena Catalfamo

DOSSIER Prodotti belli e perfetti, ma privi di un’anima, di Don Alessandro Sesana

ATTUALITÀ I conflitti dimenticati

CULTURA Recensione del libro “Terra madre”, di Carlo Petrini

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ella giornata del 13 febbraio 2010, la Caritas diocesana bergamasca ha dedicato una no-stop di 24 ore dal

titolo “I conflitti dimenticati” alla veglia, alla riflessione e alla preghiera.Come amici che si impegnano a scrivere e pubblicare questo giornalino, abbiamo colto al volo l'occasione per addentrarci anche noi nel mondo così impegnativo dei conflitti e della pace. Chissà che questo argomento co-sì suggestivo non potrà in futuro diventare uno dei temi ricorrenti del giornalino, quasi un suo filo conduttore.

Parlare di conflitti, di pace, è un'idea per dif-fondere un poco la cultura della non violen-za e della capacità di superare i conflitti se-condo la logica della pace. Leggo dal libretto di introduzione della veglia organizzata dal-la Caritas: “corpi martoriati, scheletri uma-ni e rovine di case, macerie sotto le bombe. I riflettori dei media si accendono per i con-flitti mediatici, la cui notizia è proporziona-ta all'uso della forza. Si pensi ad Israele, Palestina, Iraq. Ma se lo sguardo va oltre la comunicazione di massa, si scoprono tra-gedie ignorate, lasciate nell'oblio: i conflitti dimenticati, ma ugualmente degni di no-ta...”. E per finire “tutti siamo chiamati a lasciare un segno: segno di pace e di pre-ghiera”.

Vogliamo attraverso queste righe ricordare, fare memoria. Non è possibile dimenticare queste situazioni di guerra e di violenza che generano solo ingiustizia e povertà. Voglia-mo altresì scrivere, magari denunciando, ma soprattutto raccontando storie al positivo. Vogliamo analizzare per conoscere, infor-mare e formare su questa vicenda tragica dei conflitti. Vorremmo essere, come diceva il vescovo Tonino Bello, i “cantori dell'arcoba-leno, coloro che scrutano l'arrivo della co-lomba.” Scriviamo e raccontiamo di tutto questo, perché crediamo nel valore della pace, della

non violenza. Non vorremmo trovarci nella condizione di essere uomini e donne inerti, incapaci di dire parole, troppo buoni per annunciare che è beato chi costruisce la pa-ce. Come sempre ci piace pensare che qual-cuno, leggendo queste righe, possa trovare la volontà di scrivere, di suggerire idee, di lasciare una sua testimonianza anche su questo argomento.

Ps. Compartir uscirà nei giorni di Pasqua e allora a nome di tutta la redazione e di tutto il gruppo in Bolivia 2004, lasciamo un sempli-ce motivo di augurio: la Pasqua ci possa re-galare giorni di pace e di giustizia.Una pace e una giustizia che non sono solo cercate, desiderate, pensate, ma che diven-tano gesti quotidiani. Fare la pace, vivere la giustizia, questo è l'augurio che lasciamo a tutti voi.Fare la pace e la giustizia, nella fiducia che ciascuno di noi può dare il suo contributo di impegno, di studio, di lavoro e di collabora-zione per un Italia che può essere fatta di mille colori e per un mondo dove le diversità possono diventare una ricchezza e una ri-sorsa, invece che un problema.

◆ Don Alessandro Sesana

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I conflitti e la pace

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n questo numero di Compartir abbiamo scelto di dedicare un po’ di spazio ad un progetto che

il Celim di Bergamo sta portando avanti nelle comunità di Cliza e Toco, in Bolivia. Il programma è iniziato nel 2007 e viene gestito da Giovanni Grisenti, un veterinario originario di Bergamo città.Come gli altri ragazzi che la scorsa estate sono stati ospiti alla Ciudad del Niño, ho avuto la fortuna di co-noscere l’impegno che con passione Giovanni sta portando avanti da al-cuni anni, lavorando per sviluppare la produzione di latte e prodotti ca-seari in cinque comunità rurali della zona di Cochabamba. Nell’incontro con tutti i missionari, e sin dai primi giorni trascorsi alla Ciudad in com-pagnia di Giovanni e Gigi, un altro volontario del Celim, ho potuto “assaggiare” una semplici-tà e un piacere autentici nella condivisione. Ripenso con affetto alla prima sera trascorsa a Cochabamba quando, sorseggiando un “mate de coca”, Giovanni ci chiedeva delle novità dal-l’Italia e si interessava dei nostri studi universitari. Noi che muovevamo i primi passi nel con-tinente sudamericano domandavamo avidi della sua esperienza, di cosa significasse donare agli altri alcuni anni della propria vita partendo volontari. Nel seguito trovate tutti i dettagli del progetto di questo ragazzo semplice, normale, che ha avuto la forza di fare scelte non co-

muni. Per ulteriori informazioni visitate an-che il sito www.celimbergamo.org.

◆ Fabrizio Cotini

Obiettivo: Promuovere e consolidare atti-vità di produzione di latte in 5 Comunità della giurisdizione di Cliza e Toco per il mi-glioramento delle condizioni di vita della popolazione locale.

Data inizio: ottobre 2007Durata: 4 anniCosto previsto: 250.000 €

Compartir · Aprile 2010 3

Bolivia

Latte che bontà

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Un momento di lavoro comunitario

Giovanni Grisenti con una delle bambine della Ciudad del Niño di Cochabamba

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Sono interessate dal progetto cinque comu-nità (circa 150 famiglie) del municipio di Cli-za e Toco che si trovano nel "Valle Alto" e fanno parte del dipartimento di Cochabam-ba. Si tratta di aree fortemente caratterizzate dallo spopolamento: mancano infrastrutture, scuole e servizi ospedalieri efficienti e le per-sone tendono a spostarsi verso la città che non offre però grandi opportunità professio-nali.

Favorire lo sviluppo locale significa non per-dere il patrimonio storico e culturale dei "campesinos" boliviani. Le famiglie attual-mente interessate al progetto sono dedite al-la coltivazione di mais, orzo, frumento, pata-te ed erba medica e in piccola parte alleva-mento di bovini. Il progetto è sperimentale ma molto articolato: innanzitutto sono stati costruiti tre pozzi d’acqua per irrigare meglio

la zona e permettere una coltivazione mag-giore di foraggi per garantire il sostentamen-to dei bovini da latte; in secondo luogo i bo-vini sono sottoposti ad un continuo controllo veterinario (attraverso il nostro volontario in loco) in modo da selezionare progressiva-mente la razza; viene poi offerta una consu-lenza per migliorare le tecniche di produzio-ne, raccolta e conservazione del latte anche grazie alla creazione di un impianto di raf-freddamento. Uno studio di settore ha per-messo di rilevare che attualmente la produ-zione di latte per capo è in media di 10 litri al giorno per una produzione totale di 1.500 litri al giorno, non sufficiente a soddisfare la domanda interna, circa pari al doppio. Oltre a ciò si ipotizza di sviluppare una produzione casearia e di potenziare le strategie di mar-keting sul territorio.

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Alcuni campesinos contribuiscono ai lavori per gli scavi di un pozzo a Cliza

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issionari in Bolivia, missionari in Asia, missionari in tutto il mon-do…padre Sandro Peccati, ber-

gamasco, ci manda la sua testimonianza di-rettamente dall’Indonesia, dove ha da poco coronato il cinquantesimo anno della sua at-tività missionaria! Una vita particolare la sua, di cui ci ha voluto comunicare il ruolo fondamentale della fede e del dono quoti-diano di sé.

Ecco in breve la lunga storia di quello che Dio ha fatto a me ed attraverso di me: consa-crato sacerdote a Parma il 25 ottobre 1959 e partito per la missione in Indonesia da An-cona la notte del 1 Gennaio 1961.Dopo l’arrivo a Jakarta il 5 febbraio sono su-bito volato a Padang dove sono stato un an-no per lo studio della lingua indonesiana (Bahasa). Il mese di Febbraio 1962 sono stato inviato in missione alle isole Mentawai e precisamente a Siberut. Dopo 10 anni venni eletto come Superiore Provin-ciale dei Saveriani in Indone-sia.

Nel 1977 a Roma per il Capito-lo Generale mi venne richiesto un servizio come Segretario per l'Istituto. Dopo sei anni, alla scadenza del mandato, ot-tenni il permesso ed il visto per rientrare in Indonesia: era il gennaio del 1984. Fui poi chiamato come assistente del-la gioventù della parrocchia della Cattedrale ed in seguito

di tutta la Diocesi. Dopo altri dieci anni a Padang mi venne richiesto un servizio di formazione dei nostri aspiranti indonesiani e stetti a Jojakarta nella nostra casa di Teolo-gia per un periodo di sei anni (1993-98). Dal febbraio 1999 mi recai in una parrocchia di Jakarta nel vecchio sobborgo cinese. Questa è pressappoco la parabola della mia vita con-sacrata alla Missione: 50 anni!

In questi anni passati troppo in fretta ho po-tuto sperimentare con mano la Fedeltà del Signore nei miei confronti. Con la Sua pa-zienza cosmica Dio anno per anno ha forma-to in me il Suo Sacerdozio missionario, at-traverso un sacco di traversie, di sbagli e di incontri.

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Testimonianze

Cinquant’anni di dono,cinquant’anni di vita

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Un’abitazione tradizionale delle isole Mentawai

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Per esempio ero convinto di essere inviato a portare Cristo a chi non lo conosceva ancora, ed invece Lui mi precedeva: era già lì in mez-zo alla foresta tra la povera gente e mi aspet-tava! A me toccava riconoscerlo e farlo cono-scere, attraverso la serie di avvenimenti, in-contri, esperienze, sbagli ha voluto formare e aprire il mio cuore alla missione universale della Chiesa.Prima con dieci anni in una comunità su di un’isola in mezzo all'oceano Indiano. Poi fa-cendomi sperimentare il lavoro missionario coordinando i missionari: facendomi pastore dei pastori del suo gregge. Poi ancora por-

tandomi a Roma, al centro dell'Istituto ed al centro della Cristianità per aprirmi alla Mis-sione universale della Chiesa. Così arricchito mi diede come regalo straordinario il visto per rientrare in Indonesia: ho detto straor-dinario perché c'è la proibizione per i mis-sionari di entrare.Mi fu affidato un servizio nuovo: l'assistenza al mondo giovanile della parrocchia della Cattedrale di Padang e poi di tutta la Diocesi (dalle isole Mentawai alle isole di Est Suma-tera). Poi, un’altra esperienza: impegno for-mativo nella Teologia saveriana a Jojakarta. Questo mi ha dato la possibilità ed il tempo per approfondire la vita spirituale.E ancora dopo sei anni di formazione sono ritornato alla base, alla vita pastorale, in una parrocchia nella “foresta” della città metro-politana di Jakarta.

Bei salti vero? Ma debbo ringraziare il Signo-re per tutto quello che ha compiuto in me e attraverso il mio apostolato.Unitevi a me a lodare la Bontà del Signore.

◆ Padre Sandro Peccati

6 Compartir · Aprile 2010

Il momento della celebrazione Eucaristica

Un’immagine dei festeggiamenti per i 50 anni di sacerdozio di Padre Sandro Peccati

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resentiamo in questa sezione una te-stimonianza di Elena Catalfamo, giornalista del quotidiano l’Eco di

Bergamo. Elena ci racconta le sensazioni vis-sute durante la visita al carcere San Pedro di La Paz e ci parla dell’intervento per il recu-pero di giovani detenuti che Riccardo Giava-rini sta sviluppando ormai da molti anni. Dedicheremo un approfondimento a questo importante progetto nei prossimi numeri di Compartir.

Ogni volta che ripenso alla mia visita al car-cere di San Pedro a La Paz in Bolivia, stringo le spalle e scuoto la testa cercando di scac-ciare una brutta sensazione che mi è rimasta attaccata addosso. É il ricordo di quelle celle pericolanti e sporche accatastate l’una sopra l’altra e il tremore di un uomo, un detenuto, che si stordisce con forti dosi di aulin e che dorme tutte le notti con una scopa a fianco al letto per difendersi dai topi.

Il carcere di San Pedro è un vec-chio monastero nel cuore della capitale boliviana: della vecchia struttura sono rimaste in piedi solo le mura perimetrali. Le stesse che sono sorvegliate dalle guardie con fucili e improbabili metal detector. Dentro ci sono un migliaio di detenuti, tutti uomini, 150 bambini, e tantis-simi adolescenti. Quando un uomo viene incarcerato deve partire da zero: sarà lui a co-struirsi o affittare una cella, a procurarsi da mangiare e tutto il resto. Se uno ha qualcosa da vendere – un lavoro, alcol, dro-ga, se stesso o sua sorella – so-pravvive.

Sono i soldi a fare la differenza: la corruzione è altissima. In carcere ci sono tv, prostitute e anche cellulari. La connivenza delle guardie ha sempre un prezzo. Metà dei detenuti sono in attesa di giudizio: dentro ci sono i capi del Mas (il partito di governo) e i trafficanti di droga senza distinzione alcuna. Malattie, de-grado e sporcizia sono ovunque: le celle sono costruite con materiali di fortuna e non esi-stono fogne, condutture elettriche o dell’ac-qua.In questo inferno un bergamasco, Riccardo Giavarini di Telgate, entra da più di 10 anni per fare laboratori con gli adolescenti. Con una costanza ammirevole e grazie all’aiuto di tanta gente semplice della Bergamasca è riu-scito a costruire fuori dalla capitale il primo centro rieducativo minorile della Bolivia per portare lontano i giovani finiti a San Pedro e dare loro nuove speranze per ricominciare.

◆ Elena Catalfamo

Compartir · Aprile 2010 7

Testimonianze

Progetto Qalauma, La Paz

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Riccardo Giavarini illustra l’avanzamento dei lavori per la costru-zione del centro di recupero degli adolescenti

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asi giovane è un gruppo di condivisione della Sacra Scrittura che si ritrova, ormai da qualche anno, la quarta domenica di ogni mese, per trattare tematiche del vissuto quotidiano partendo da insegnamenti del Vangelo. Come negli scorsi numeri del

giornalino abbiamo deciso di dedicare uno spazio all’argomento affrontato nell’ultimo incon-tro.

Io sono la mia rivoluzionenon posso chiedere ad altri di giocare per me

e a lotto e a tombole di vincere per meè una partita solitaria

con regole non sempre chiarele mani unico pettine per i guai

la schiena unica colonna del tempiole gambe uniche gondole nei canali

stufo di aspettare il messia incapace di partorire accoglienze

saprò trovare caldo in cappotti usatisarò grotta per orsi disillusi

senza piani e strategie

mago dell'improvvisazione esistenziale

non sono l'uomo delle grandi veritàsono l'eroe del silenzio

sono io, in fondo,la mia rivoluzione

(Massimo Pedrini)

Questa avventura, che vuole intrecciare continuamente la nostra storia con la Sacra Scrittura, continua. Certo, unire queste due vicende così meravigliose, ma anche complesse, non è faci-le. Questa arte del discernimento fa parte della sapienza degli uomini, che provano a scoprire con intelligenza il bene più grande. Non sempre questo discernimento ha il gusto della sa-pienza; ma quando questa sapienza umana trova la via giusta su cui camminare allora i frutti che si vedono sono opere di bene, per il bene di tutti.

In questo nuova riflessione vogliamo pensare al fatto che chi lavora rischia di produrre solo in serie e con un unico scopo: quello del consumare. Non si genera più. Tutto è pensato in fun-zione del consumo e di conseguenza viene a mancare un elemento fondamentale del lavoro:

8 Compartir · Aprile 2010

Dossier

Prodotti belli e perfetti,ma privi di un’anima

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l'amore e la passione. Tutto è pensato secondo un calcolo. Belli, perfetti, lucidi, ma senza un'anima, così ci appaiono certi prodotti, e se sono senza anima il rischio è che siano anche senza amore.

Non è che tante volte è proprio da questo che vengono fuori affermazioni come: tagliamo la produzione, mettiamo in mobilità? Il fatto è che si ragiona solo in termini di profitto e con-sumo, senza pensare che anche nel lavoro quotidiano si tratta di porre gesti di amore. Forse è da questo che qualcuno sta pensando in modo nuovo all'arte del riciclo, del consumare meno, di uno stile di vita più equo e sobrio. Forse è da questa logica di amore che bisogna ripartire. C'è una macchina per ogni prodotto e queste macchine fanno cose perfette, ma senza pensare al dono che abbiamo ricevuto attraverso quell'oggetto. Queste cose in serie non ci aiutano a ringraziare. Un vestito non ci ricorda la fatica amorevole di una madre che prova a costruire un maglione per il figlio. E al contrario il figlio quando pone sulle sue spalle quel maglione fatto in sere non riesce a ricordarsi del gesto amorevole di sua madre e quindi non ringrazia. Non c'è più il pensiero che un tavolo non è solo frutto di una catena di montaggio che produce tavoli tutti uguali e sotto costo. E nel produrre questi tavoli non c'è più l'uomo che si accorge che al termine del suo lavoro nessuno dei suoi tavoli è uguale all'altro, e che magari proprio nelle sue piccole imperfezioni risiede la vera ricchezza.

Per non parlare del lavoro dove la tecnologia prende il sopravvento, dove l'economia dilania tutto e dove l'informatica rischia di costruire relazioni liquide da aprire o chiudere a piaci-mento, come un file o una cartella del computer.

Insomma sembra che nel lavoro oggi manchi un sussulto di amore, di fantasia, di passione. La fabbrica non rende, si chiude; l'oggetto non funziona, si butta; quella persona non rientra nel-la programmazione, si mette in un angolo in attesa di...Mi domando se è proprio dentro que-sti spazi di mancanza di fantasia, amore e creatività che dobbiamo inserirci per inventare qualcosa di nuovo. Attenzione però, non per inventare pezzi alla moda, ma per dare significa-to al lavoro quotidiano e tornare così a renderlo più giusto.

Il giudizio della Bibbia

Compartir · Aprile 2010 9

Dal Vangelo secondo Marco

Diceva ancora: «Il regno di Dio è come un uomo che getti il seme nel terreno, e dorma e si alzi, la notte e il giorno; il seme intanto germoglia e cresce senza che egli sappia come. La terra da se stessa porta frutto: prima l'erba, poi la spiga, poi nella spiga il grano ben formato. Quando il frutto è maturo, subito il mietitore vi mette la falce per-ché l'ora della mietitura è venuta».

Diceva ancora: «A che paragoneremo il regno di Dio, o con quale parabola lo rappre-senteremo? Esso è simile a un granello di senape, il quale, quando lo si è seminato in terra, è il più piccolo di tutti i semi che sono sulla terra; ma quando è seminato, cresce e diventa più grande di tutti gli ortaggi; e fa dei rami tanto grandi, che all'ombra loro possono ripararsi gli uccelli del cielo».

Con molte parabole di questo genere esponeva loro la parola, secondo quello che pote-vano intendere. Non parlava loro senza parabola; ma in privato ai suoi discepoli spie-gava ogni cosa.

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Un dato sorprende nel racconto evangelico circa Gesù Cristo: egli ha passato gran parte della sua vita come un semplice e comune lavoratore. (Marco 6,3 «Non è questi il falegname, il fi-glio di Maria, e il fratello di Giacomo e di Iose, di Giuda e di Simone? Le sue sorelle non stanno qui da noi?» E si scandalizzavano a causa di lui.)Questo dato ci dice come Gesù ha condiviso fino in fondo la vicenda degli uomini, anche at-traverso il lavoro umile e semplice. Il lavoro di Gesù è il segno più evidente di come il Signore ha condiviso la nostra condizione umana. Questa esperienza ci fa conoscere, rivela, la solida-rietà del figlio di Dio con noi.

Fatta questa premessa circa il modo di Gesù di porsi di fronte all'esperienza del lavoro, vo-gliamo provare a leggere due parabole su come Gesù Cristo si prendesse cura di tutte le espe-rienze umane. È vero, la spiegazione che voglio dare di questi due brani di Vangelo non è im-mediatamente quella che viene tradizionalmente proposta: diciamo che questa volta la pren-diamo un poco alla larga. Di fatto le parabole che Gesù racconta hanno come scopo quello di presentare la realtà del Regno di Dio, cioè della Signoria di Dio, della misericordia e delle te-nerezza di Dio, fattosi uomo in Gesù. Ma la maggior parte delle parabole utilizza immagini e simboli che provengono dal mondo del lavoro, in particolare dal mondo dell’agricoltura e del-la pastorizia, due degli ambiti lavorativi più importanti al tempo del Signore.

La parabola di Marco ci dice di come il contadino impara dal suo lavoro alcune cose fonda-mentali, che sono poi quegli elementi che ci aiutano ad attendere il regno di Dio. Vi è una me-ticolosità, una precisione nel preparare il terreno, una passione e una attenzione nel predi-sporre tutto nel migliore dei modi. Ma poi lo stesso contadino, che sa che il frutto finito non è opera sua, lascia che il seme nel campo cresca da solo. Una volta seminato egli rimane in pa-ziente attesa. Per noi che produciamo in serie e pensiamo di essere gli artefici di tutto quanto facciamo, questo modo di lavorare del contadino è quanto meno complicato da accettare; questa parabola è emblematica di un modo di essere e di agire di Gesù. Un modo che sicura-mente abbiamo perso. Confrontarci con la Sacra Scrittura ci spinge a recuperare tutto quanto

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Dal Vangelo secondo Giovanni - Gesù, il buon pastore

«In verità, in verità vi dico che chi non entra per la porta nell'ovile delle pecore, ma vi sale da un'altra parte, è un ladro e un brigante. Ma colui che entra per la porta è il pa-store delle pecore. A lui apre il portinaio, e le pecore ascoltano la sua voce, ed egli chiama le proprie pecore per nome e le conduce fuori. Quando ha messo fuori tutte le sue pecore, va davanti a loro, e le pecore lo seguono, perché conoscono la sua voce. Ma un estraneo non lo seguiranno; anzi, fuggiranno via da lui perché non conoscono la vo-ce degli estranei».

Questa similitudine disse loro Gesù; ma essi non capirono quali fossero le cose che di-ceva loro.

Io sono il buon pastore; il buon pastore dà la sua vita per le pecore. Il mercenario, che non è pastore, a cui non appartengono le pecore, vede venire il lupo, abbandona le pe-core e si dà alla fuga (e il lupo le rapisce e disperde), perché è mercenario e non si cura delle pecore. Io sono il buon pastore, e conosco le mie, e le mie conoscono me, come il Padre mi conosce e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore.

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di umanamente bello è racchiuso dentro la storia degli uomini, in questo caso ovvia-mente stiamo parlando del lavoro.

Vi è una seconda immagine straordinaria che voglio presentarvi oggi: è quella del buon Pastore. Di colui che si prende cura del suo gregge, colui che non fugge di fronte al pericolo come il mercenario, co-lui che conosce le sue pecore una per una. Colui che addirittura offre la sua vita per il suo gregge. Il buon pastore è Gesù che of-fre la vita per i suoi amici.

Ancora, la Sacra Scrittura ci pone di fronte all'unicità, non alla serie, alla cura, non

alla catena di montaggio. La Sacra Scrittura ci pone di fronte al piccolo, non al grande. Ma la Sacra Scrittura ci pone di fronte anche al “prendersi cura” con passione e amorevolezza al punto tale che il pastore si offre, donando la vita. Vivere della propria professione non da mercenari ma da appassionati. Forse è questo il volto nuovo che dobbiamo dare alle nostre fatiche per renderle sempre più umane, più autentiche. La passione per la cura, la passione per il prendersi cura. Chissà che il lavoro assuma finalmente un volto più umano, che sia se-gno della giustizia del Regno.

Mettiti in azione

Come vivi il tuo lavoro tra passione e fare tutto in serie?

Come esprimi nel tuo lavoro la capacità di prenderti cura delle cose che fai e delle persone che incontri?

Gesù ha lavorato per anni in modo nascosto a Nazareth. Che cosa può voler dire per la tua vita questa esperienza del Signore?

◆ Don Alessandro Sesana

Compartir · Aprile 2010 11

Un bue impegnato nella trebbiatura del grano, in un campo nei dintorni di Anzaldo

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uesto primo decennio del nuovo se-colo ha inaugurato il III millennio cristiano riproponendo su vasta scala l'antica quanto tragica logica

dei conflitti: non soltanto nella prosecuzione di quelli irrisolti nelle decadi precedenti, ma aprendone di nuovi e inquietanti, dal-l'Afghanistan all'Iraq. Sono anni però in cui abbiamo anche visto risorgere una coscienza col-lettiva, capace di grandi mo-bilitazioni, nelle piazze come nei luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle comunità eccle-siali, nelle case...in alcune oc-casioni persino sui balconi, tinteggiando le nostre città coi colori stessi dell'arcobale-no: antico e biblico segno posto da Dio, im-pegno perenne di pace fra il cielo e la terra, fra tutti i suoi figli. Ben sappiamo però come le preoccupazioni e la fatica quotidiana minaccino costante-mente di sopraffare anche gli slanci più sinceri e generosi, so-prattutto nei contesti dominati dalla logica del "mordi e fuggi", in cui nel volgere di po-chi istanti anche le emozioni più forti fi-niscono inesorabil-mente per essere tra-volte dall'assuefazione e da un senso di ar-rendevole impotenza.Di più, siamo consa-pevoli di come, in un mondo dominato dai media, soltanto le notizie che ricevono

adeguata accoglienza dagli organi divulgativi assurgono alla dignità dell'esistenza, con-dannando immani tragedie a non lasciare traccia semplicemente perché ignorate.Se poi allarghiamo lo sguardo, scopriamo come nel mondo esista una zona "grigia", co-stituita dai cosiddetti "conflitti a bassa inten-sità", dove alle grandi ostilità si sostituiscono una serie di vessazioni continue, di sistema-

tiche violazioni dei diritti umani, di imperiture violenze strutturali, tale per cui la di-gnità umana e la sicurezza delle persone risultano offese quanto nel corso delle guerre ufficialmente riconosciute.Al di là di una articolata defi-nizione di conflitto, focaliz-

ziamo l’attenzione su 20 “aree di crisi”, che hanno vissuto o vivono ancora situazione di conflitto armato.- sette si trovano in Africa: Algeria, Burundi,

12 Compartir · Aprile 2010

Prigionieri di guerra, in un conflitto “a bassa intensità”

Attualità

I conflitti dimenticati

Q

In un mondo dominato dai media, soltanto le not iz ie che r icevono adeguata accoglienza dagli organi divulgativi assurgono alla dignità dell'esistenza

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Uganda, Rwanda, Liberia, R.D. del Congo e Sudan; - altre sei in Asia: India (Kashmir), Nepal, Filippine, Myanmar (ex Birmania), Sri Lan-ka e Pakistan; - quattro in Medioriente: Iraq, Afhanistan, Israele-Palestina e Turchia;- altre due nel continente americano: Co-lombia e Perù;- una, infine, in Europa: Russia (Cecenia). Non è un elenco esaustivo, ma in evoluzione continua, in base anche alle vicende storiche dei paesi presi in esame e di altri, che ver-ranno successivamente aggiunti.

Ricordiamo come a partire dagli anni No-vanta, 57 guerre sono state combattute sul suolo di 45 paesi. Allargando il quadro al pe-riodo 1945-1999, secondo il programma di ricerca statunitense Correlates of War si re-gistrano 25 guerre interstatali, che hanno prodotto circa 3,3 milioni di morti in com-battimento; nello stesso periodo sono defla-grate ben 127 guerre civili, che hanno lascia-to sul terreno 16,2 milioni di morti. Questi dati mostrano in modo inequivocabile che le guerre intrastatali (con o senza forme di in-tervento esterno) sono diventate la principa-le forma di violenza organizzata negli scenari globali.

Nella giornata del 13 febbraio 2010, la Cari-tas diocesana bergamasca ha dedicato una no-stop di 24 ore di veglia, riflessione e pre-ghiera dal titolo: “I conflitti dimenticati”. Nel seguito vi proponiamo una parte della riflessione riguardante la situazione del Bu-rundi, presentata da Camilla Veglia.

Il Burundi, piccolissimo e bellissimo paese dell’Africa centrale, ha vissuto diversi periodi di conflitto interno: nel 1965, 1972, 1988, 1992 ed infine quello del 1993, caratterizzato da un mostruoso genocidio che neanche nei momenti più sanguinosi ha attirato l’atten-zione delle politiche occidentali, e non ha in-teressato le cronache europee. Spesso a noi italiani, europei, occidentali, piace parlare di guerre etniche…ci sembra che con queste due parole tutto prenda finalmente un senso e un posto nell’ordine delle cose.

Quello che posso dirvi è che le differenze et-niche in Burundi esistono, ma che spesso vengono utilizzate per proteggere o favorire interessi economici, politici e di potere.Quest’anno avranno luogo le elezioni, il Bu-rundi sta cercando la difficile strada della pace, della riconciliazione e della democrazia dopo 17 anni dallo scoppio dell’ultima guer-ra. Nel paese si vive ormai un “conflitto a bassa intensità” e quindi…conflitto dimenti-cato. Vorrei parlarvi della guerra in Burundi, delle sue conseguenze e dell’impatto sulla vita dei giovani tramite le testimonianze, ri-salenti al 2005, di due amici.

Claude, 30 anni, hutuNel ’93 studiavo. In una scuola non lontana dalla mia ci fu un massacro di tutsi ad opera degli hutu. Si, parlo di ragazzi della scuola. Quando abbiamo saputo, pur restando nello stesso edificio, ci siamo separati, hutu da una parte e tutsi dall’altra. Dopo l’uccisione dei ragazzi tutsi nell’altra scuola è arrivato un gruppo di soldati dell’esercito ed ha piaz-zato una postazione proprio di fronte alla nostra scuola. Quando abbiamo saputo che mostravano come usare le armi ai nostri compagni tutsi siamo scappati. Cinque mesi dopo sono riuscito a tornare a Kamenge, il quartiere della città di cui sono originario: ci colpivano con le granate, i quartieri erano diventati tutsiland o hutuland. Qui a Ka-

Compartir · Aprile 2010 13

Un bambino-soldato imbraccia un kalashnikov

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menge sono stati brutalmente uccisi mio pa-dre e mio fratello maggiore. Così io, a ven-t’anni, sono diventato responsabile della mia famiglia e ho dovuto lasciare la scuola: avevo sette fratelli più piccoli e anche mia madre era morta. Oggi non ho problemi con i tutsi, siamo stati tutti quanti manipolati, sia hutu che tutsi sono stati brutalmente uccisi.

Jerome, 28 anni, tutsiVivo a Cibitoke, quartiere che con la guerra è diventato tut-si, ma prima abitavo a Ka-menge che poi è diventato quartiere hutu, quindi ho dovuto abbandonarlo. Nel quartie-re si sparse la voce che bisognava eliminare i tutsi per evitare che uccidessero altri hutu. Il nostro vicino di casa, hutu, venne ad avvi-sarci della parola d’ordine, cioè uccidere i tutsi. Siamo riusciti a scappare da casa no-stra, avevamo la folla inferocita alle costole, ma hanno trovato sulla strada altri tutsi, la mia famiglia è stata fortunata. Siamo rimasti nascosti in casa di amici hutu, che hanno co-sì rischiato la vita per noi. Un giorno l’eserci-to è venuto a prenderci, a prendere tutti i tutsi che erano rimasti in quel quartiere che ormai era diventato terreno delle milizie hu-tu. Quando sono arrivato a Cibitoke, il mio nuovo quartiere, ho visto le stesse cose che avevo visto a Kamenge: i morti per le strade.

Per quanto mi riguarda, sono stati i nostri vicini hutu a salvarci. Certo, io la penso così perché ho sempre avuto amici hutu. E mi hanno salvato. Per me la speranza sta nel fatto che sia gli

hutu che i tutsi hanno perso, hanno sofferto. Oggi non pos-siamo ancora ucciderci tra noi. Se sarà ancora guerra, sarà solo a livello militare. La gente non vuole uccidere, glielo leggi negli occhi. La guerra è una questione dei grandi politici, ma il male ri-cade sulla popolazione, che

adesso ha capito. Oggi io spero che i grandi capi si mettano d’accordo per il bene del mio popolo, che è stato manipolato.Il mio migliore amico? Era un hutu, ma dallo scoppio della guerra del ‘93 non so più dove sia.

Jerome al tempo di questa testimonianza la-vorava per un centro giovanile nei quartieri di cui si è parlato precedentemente. É un centro che promuove la pace, la nonviolenza e la cultura democratica, e Jerome era un grande pilastro di questo centro.Jerome non c’è più. Nel 2007, in un momen-to di particolare tensione del paese, è stato ucciso, insieme alla moglie che portava in grembo il loro primo figlio. Una delle tante vittime di un conflitto, un conflitto a bassa intensità…un conflitto dimenticato.

“Non c’è pace senza giustizia. Non c’è giustizia senza perdono”

(Papa Giovanni Paolo II)

Per approfondire il tema dei conflitti dimen-ticati visitate il sito ww.conflittidimenticati.it

14 Compartir · Aprile 2010

O g g i n o n p o s s i a m o ancora ucciderci tra noi. Se sarà ancora guerra, s a r à s o l o a l i v e l l o militare. La gente non vuole uccidere, glielo leggi negli occhi.

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Come nell’ultimo numero vi presentiamo la rubrica dedicata ad alcune proposte letterarie le-gate ai temi trattati nel Compartir. Questo mese pubblichiamo la recensione di Terra Madre, un libro di Carlo Petrini.

Crisi energetica, climatica, alimentare, fi-nanziaria: mai come oggi il mondo ha avuto paura per il proprio futuro. Il futuro è sem-pre imprevedibile, ma questo senso di gran-de incertezza è causato dal modello di pen-siero che è stato causa prima delle crisi. Un modello che ha fallito e non sa trovare solu-zioni innovative al di fuori del sistema glo-bale che ha creato.L'alternativa a un futuro di crisi deve partire dall'alimentazione: il futuro del cibo è il fu-turo della Terra. Il cibo è stato snaturato fi-no a diventare un mero prodotto di consu-mo, privato dei valori profondi che ha sem-pre avuto; è diventato sprecabile, una merce qualsiasi, altamente insostenibile in tutte le sue fasi, dalla sua coltivazione fino all'atto di mangiare. Riscoprire la centralità del cibo nelle nostre vite e nelle nostre attività ci può

aiutare a trovare una chiave interessante per immaginare un futuro migliore. Saranno i contadini a salvare il mondo, con la loro estraneità dal modello di pensiero imperan-te e grazie al fatto che sanno lavorare in sin-tonia con la natura, con la madre Terra.

·Carlo Petrini è il fondatore di Slow Food, il movimento internazionale che sostiene l’importanza del piacere legato al cibo, di-fende le cucine locali e un'agricoltura soste-nibile. L'autore mette in luce che "siamo 6,3 miliardi di persone sul pianeta, ma produ-ciamo cibo per 12 miliardi di viventi e un miliardo soffre di malnutrizione". Questo libro vuole insegnarci, senza presunzione alcuna, che con piccoli e facili esami di co-scienza forse qualcosa possiamo cambiarlo anche partendo da noi stessi.

Compartir · Aprile 2010 15

“Terra madre”, di Carlo Petrini

La copertina del libro e una foto recente dell’autore

Cultura

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· Campo di lavoro 17 e 18 aprileCome ogni anno il gruppo in Bolivia 2004 del Patronato San Vincenzo promuove ed organizza due giornate di sensibilizzazione, formazione e lavoro a favore della Ciudad de los Niños di Cochabamba. Questa attività è pensata in modo particolare per tutti i giovani che in questi anni hanno condiviso impegno e passione per la Bolivia e che vogliono cimentarsi in azioni concrete di volontariato. L'esperienza vuole essere un momento di incontro, amicizia, genero-sità e servizio, oltre che di formazione e testimonianza. Si svolgeranno diversi lavori a seconda degli obiettivi che si programmeranno per il campo di lavoro (imbiancature, giardinaggio, pu-lizie, raccolta cancelleria...)

Programma:Sabato 17 Aprile8:30 Ritrovo presso il Patronato San Vin-cenzo, presentazione delle attività lavorative ed inizio lavoroOre 12:30 Pranzo e presentazione del pro-getto “spesa solidale” in collaborazione con la bottega AltraScelta di San Paolo d’Argon oppure pranzo tipico bolivianoOre 14:30 Ripresa del lavoroOre 19:30 Cena con i prodotti del progetto “spesa solidale”Ore 21:00 Incontro di testimonianza

Domenica 18 AprileOre 8:30 Colazione, a seguire momento formativo e messaOre 12:30 PranzoOre 14:30 Sistemazione e chiusura campo di lavoro

NB. Per chi lo desidera c'è la possibilità di pernottamento al Patronato fino ad esauri-mento posti, basterà specificarlo durante l'iscrizione.

Per maggiori informazioni e per le iscrizioni al campo di lavoro: Don Alessandro Sesana: [email protected], 3408926053 Luca: [email protected]

· Caracol - Adozioni a distanza tra comunitàSiamo enormemente contenti del successo che il nostro progetto per l’adozione delle casette della Ciudad de los Niños sta incontrando. Approfittiamo di questo spazio per ringraziare nuovamente tutte le persone e i gruppi che stanno sostenendo questa iniziativa!Per maggiori informazioni: Emiliano · 346.3942256 · [email protected]

16 Compartir · Aprile 2010

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