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Pacini In evidenza: Rivista di D iritto T ributario Rivista bimestrale Vol. XXIX - Ottobre 2017 5 DIRETTA DA Mauro Beghin - Pietro Boria - Loredana Carpentieri (coordinamento di direzione) - Gaspare Falsitta - Augusto Fantozzi - Andrea Fedele - Guglielmo Fransoni - Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo - Roberto Schiavolin - Giuseppe Zizzo www.rivistadirittotributario.it Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016 ISSN 1121-4074 Spunti di riflessione in materia di processo tributario telematico Enrico Marello La tutela cautelare nel rimborso della imposta Mario Miscali La rinnovata disciplina del giudizio di ottemperanza non dipana tutti i dubbi ermeneutici in ordine all’esecuzione delle sentenze tributarie Marcella Martis Tra esterovestizione ed attività di direzione e coordinamento della capogruppo: la Corte d’Appello di Milano scrive l’epilogo della vicenda “Dolce & Gabbana” (nota a Corte App. Milano 440/2016) Andrea Perini I limiti costituzionali al dovere di ottemperanza alle sentenze interpretative della Corte di giustizia (nota a Corte Cost. 24/2017) Mario Esposito

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Pacini

In evidenza:

Rivista di

Diritto TributarioRivista bimestrale Vol. XXIX - Ottobre 2017

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2017

55DIRETTA DA

Mauro Beghin - Pietro Boria - Loredana Carpentieri (coordinamento di direzione) - Gaspare Falsitta - Augusto Fantozzi - Andrea Fedele - Guglielmo Fransoni - Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo - Roberto Schiavolin - Giuseppe Zizzo

www.rivistadirittotributario.it

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ISSN

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• Spunti di riflessione in materia di processo tributario telematicoEnrico Marello

• La tutela cautelare nel rimborso della imposta Mario Miscali

• La rinnovata disciplina del giudizio di ottemperanza non dipana tutti i dubbi ermeneutici in ordine all’esecuzione delle sentenze tributarieMarcella Martis

• Tra esterovestizione ed attività di direzione e coordinamento della capogruppo: la Corte d’Appello di Milano scrive l’epilogo della vicenda “Dolce & Gabbana” (nota a Corte App. Milano 440/2016)Andrea Perini

• I limiti costituzionali al dovere di ottemperanza alle sentenze interpretative della Corte di giustizia (nota a Corte Cost. 24/2017)Mario Esposito

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Indici

DOTTRINAMario EspositoI limiti costituzionali al dovere di ottemperanza alle sentenze interpretative della Corte di giustizia (nota a Corte Cost., n. 24/2017) ................................................... II, 281

Enrico MarelloSpunti di riflessione in materia di processo tributario telematico ............................ I, 535

Marcella MartisLa rinnovata disciplina del giudizio di ottemperanza non dipana tutti i dubbi er-meneutici in ordine all’esecuzione delle sentenze tributarie ................................... I, 613

Mario MiscaliLa tutela cautelare nel rimborso della imposta ......................................................... I, 569

Andrea PeriniTra esterovestizione ed attività di direzione e coordinamento della capogruppo: la Corte d’Appello di Milano scrive l’epilogo della vicenda “Dolce & Gabbana” (nota a Corte App. Milano, n. 440/2016) .................................................................. III, 92

Luca SabbiLa Corte di Cassazione illustra finalmente i criteri per la determinazione del regi-me applicabile alle operazioni di coassicurazione nell’imposta sul valore aggiun-to (nota a Cass., n. 22429/2016) ................................................................................ II, 308

Alessia SbroiavaccaIl sistema tributario tedesco quale sistema tributario “più progressivo” dell’eu-rozona: analisi e riflessioni sul modello tedesco di progressività cd. “lineare” dell’imposta sul reddito delle persone fisiche ........................................................... I, 647

Rubrica di diritto penale tributarioa cura di Ivo Caraccioli .............................................................................................. III, 81

Tutti i lavori presenti nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna.

INDICE ANALITICO

QUESTIONI GENERALI

CORTE COSTITUZIONALE Procedimento – Rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell’Unione europea

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indiciII

per l’interpretazione dell’art. 325, paragrafi 1 e 2, del TFUE, come interpretato dalla sentenza della Grande Sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea 8 settembre 2015 in causa C-105/14, Taricco (L. 2 agosto 2008, n. 130, art. 2) (Corte Cost., 23 novembre 2016 - 26 gennaio 2017, n. 24; con nota di Mario Esposito) ..................................................................................................................... II, 269

REATI TRIBUTARIOmessa dichiarazione – Art. 5, D.Lgs. n. 74/2000 – Gruppi di società – Luogo di residenza fiscale della società controllata – Esterovestizione – Società non co-stituente struttura di puro artificio – Rilevanza penale – Esclusione (Corte App. Milano, sez. III, 21 gennaio 2016 - 6 settembre 2016, n. 440; con nota di Andrea Perini) ......................................................................................................................... III, 81

IVA (Imposta sul valore aggiunto)

Operazioni esenti – Rapporti di coassicurazione – Operazioni di assicurazione – Natura giuridica delle prestazioni – Prestazioni unitarie, indipendenti o acces-sorie – Art. 10, comma 1, n. 2 e art. 12 del DPR n. 633/1972 – Regime di esen-zione – Inquadramento delle fattispecie (Cass., sez. trib., 4 novembre 2016 - 12 settembre 2016, n. 22429; con nota di Luca Sabbi) ................................................. II, 295

INDICE CRONOLOGICO

Corte Costituzionale23 novembre 2016 - 26 gennaio 2017, n. 24 ............................................................ II, 269

***

Cassazione, sez. trib.4 novembre 2016 - 12 settembre 2016, n. 22429 ..................................................... II, 295

***

Corte d’Appello di Milano, sez. III21 gennaio 2016 - 6 settembre 2016, n. 440 ............................................................. III, 81

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indici III

Elenco dei revisori esterni

Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Andrea Carinci - Al-fonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giando-menico Comporti - Angelo Contrino - Roberto Cordeiro Guerra - Marco De Cristofaro - Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso - Alessio Lanzi - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Valeria Mastroiacovo - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi - Franco Paparella - Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinel-li - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio

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Rubrica di diritto penale tributarioa cura di Ivo Caraccioli

Corte App. Milano, sez. III, 21 gennaio 2016 - 6 settembre 2016, n. 440; Pres. Orsini, Est. Gamacchio.

Reati tributari – Omessa dichiarazione – Art. 5, D.Lgs. n. 74/2000 – Gruppi di società – Luogo di residenza fiscale della società controllata – Esterovestizione – Società non costituente struttura di puro artificio – Rilevanza penale – Esclusione

La dimostrazione dell’esterovestizione funzionale alla violazione dell’articolo 5 Decreto Legislativo 74/2000 deve passare per l’ineffettività della gestione estera. Non costituisce illecito penale l’acquisizione da parte di un gruppo della titolarità di marchi in precedenza di proprietà di persone fisiche, accompagnata dalla scelta, sulla scorta del diritto di stabilimento, di insediare in Lussemburgo la società che quei marchi ha acquisito e che ha poi concretamente ed effettivamente esercitato la attività statutaria, valendosi di personale proprio e della collaborazione di società lussemburghesi di servizio per l’attività contabile ed amministrativa.

Motivi DElla DEcisionE

(Omissis).A seguito della progressiva erosione oggettiva e soggettiva della imputazione (il Gup

di Milano aveva dichiarato l’insussistenza della originaria imputazione di truffa e della contestazione elevata ai sensi dell’articolo 4 Decreto Legislativo 74/2000 nei confronti di DOLCE Domenico e GABBANA, il Tribunale di Milano aveva reiterato tale ultima valutazione assolvendo entrambi gli imputati per insussistenza del fatto, ed aveva altresì mandato assolta A. N. per difetto dell’elemento soggettivo, la Corte territoriale e la Corte Suprema avevano dichiarato l’estinzione di alcuni addebiti per intervenuta prescrizione con riferimento, rispettivamente all’evasione IVA 2004 e all’evasione IRES 2004 per tutti gli imputati quanto al giudizio di appello, e quanto all’evasione IVA 2005 con riferimento a DOLCE Alfonso quanto al giudizio di cassazione, la Corte Suprema altresì aveva assolto per insussistenza del fatto tutti i correi di DOLCE Alfonso nell’addebito di cui all’articolo 5 Decreto Legislativo 74/2000, eliminando tutte le statuizioni civili) oggetto del presente giudizio di rinvio residua una sola imputazione (violazione articolo 5 Decreto Legislativo 74/2000 per omessa dichiarazione ai fini IRES) ascritta al solo DOLCE Alfonso amministratore di GADO S.a.r.l.

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Parte terza82

La Corte di cassazione ha dettato con molta chiarezza il principio di diritto sulla base del quale doveva essere condotta verifica delle prove da parte del Giudice del rinvio: appartenendo al fatto ed essendo essenziale l’accertamento in ordine allo svolgimento effettivo e alla consistenza non artificiosa dell’insediamento estero (foglio 55 della sentenza di annullamento) il mandato riguardava esclusivamente l’accertamento circa il fatto se GADO S.a.r.l. operasse realmente in conformità esclusivamente al suo oggetto sociale (ibidem, foglio 93).

Ai fini di una corretta conduzione di tale accertamento – ammoniva la Corte Suprema in ciò ulteriormente vincolando il Giudice del rinvio, che, non seguendo tale indicazione, avrebbe ripetuto i vizi di motivazione rilevati in sede di giudizio rescindente: sul punto, espressamente Cassazione penale, sezione IV, 14 ottobre 2013, estensore Chiliberti – di nessuna utilità poteva essere il fatto che il personale dipendente da GADO S.a.r.1. continuasse ad avere rapporti con dirigenti o consulenti storici del gruppo nel quale la controllata estera era inserita: infatti erano risultate chiare la erroneità e la contraddittorietà della motivazione che non aveva tenuto conto che le mail in primo luogo riguardavano soprattutto l’anno 2004, non riguardavano affatto l’attività del legale rappresentante DOLCE Alfonso del quale non si affermava la etero direzione quale amministratore interposto, ed erano invece giustificate “alla luce del complesso intreccio organizzativo e funzionale che intercorre tra una controllata e la sua controllante capogruppo, che fisiologicamente si risolve in un rapporto fra uffici e personale dell’una e dell’altra (altro tema del tutto trascurato)” (foglio 93 della sentenza di annullamento).

Viceversa, non potevano essere estranee all’accertamento del Giudice del rinvio le “robuste ragioni extra fiscali ispiratrici della riorganizzazione del gruppo Dolce & Gabbana” la cui sussistenza era “incontestata”, eppure assolutamente ignorate dal Tribunale e dalla sentenza annullata della Corte territoriale.

Vittime e prigionieri di una endiadi che presiedeva l’intera impostazione accusatoria – apparente localizzazione della controllata in Lussemburgo, e gestione di fatto della medesima in Milano – i Giudici di merito avevano condotto un ragionamento la cui coerenza intrinseca era stata scardinata, ed aveva ignorato o contraddittoriamente risolto, i veri temi di fatto che la causa presentava: “la realtà dell’insediamento lussemburghese, l’effettività dell’attività ivi svolta, le ragioni stesse della scelta del Lussemburgo quale sede della nuova società” (sentenza di annullamento, foglio 92).

Eppure DOLCE aveva articolato ampiamente un tema difensivo al riguardo nell’atto di appello, sollecitando la Corte ad ascoltare i testi mai sentiti perché revocati dal Tribunale, tanto che i Supremi Giudici demandavano a questa Corte di valutare – alla luce del riesame dell’intero compendio probatorio da condurre in ossequio ai principi di diritto ampiamente enunciati nella sentenza di annullamento – la necessità dell’ulteriore “approfondimento istruttorio sollecitato da DOLCE Alfonso” (ibidem).

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RubRica di diRitto penale tRibutaRio 83

Deve osservare innanzi tutto la Corte come le ragioni extra fiscali della riorganizzazione del gruppo Dolce & Gabbana, nell’ ambito della quale va inserita la vicenda di GADO S.a.r.l. erano state convenientemente apprezzate dal Giudice per le Indagini Preliminari di Milano nella sentenza primo aprile 2011, citata: “la struttura societaria ... presentava tuttavia una significativa peculiarità, che si traduceva sostanzialmente in un elemento di debolezza costituito dal fatto che la proprietà dei marchi era esterna al gruppo e faceva capo ai due stilisti personalmente, i quali come persone fisiche possedevano i marchi in comunione tra loro al 50%. Sul punto può essere utile dare la parola ad una persona informata sui fatti ed ascoltata in sede di indagini difensive dalla difesa P.: si tratta di R. A., al tempo dei fatti dipendente dello studio associato di professionisti che ha poi lasciato nel 2007. All’interno dello studio associato, la professionista faceva parte del gruppo che sotto la responsabilità del dottor P. forniva consulenze in materia di acquisizione e riorganizzazione societaria, transfer pricing e contenzioso tributario. La teste ricorda che nella primavera del 2003 il direttore generale del gruppo Dolce & Gabbana, l’odierna imputata C. R. comunicava allo studio associato la decisione maturata all’interno del gruppo di procedere ad una ristrutturazione aziendale con cessione dei marchi ad una società del gruppo finalizzata essenzialmente a ricollocare i marchi all’interno del gruppo stesso e a ridefinire la partecipazione azionaria della famiglia DOLCE. Fu in quella occasione che il direttore generale riferì che la situazione di contitolarità dei marchi era giudicata un elemento di debolezza dal sistema bancario, che temeva le ripercussioni legate agli eventuali dissidi che sarebbero potuti insorgere tra i due stilisti. Inoltre, il gruppo mirava ad ampliare la propria posizione soprattutto sul mercato estero. Quanto alla decisione di costituire in Lussemburgo una società che avrebbe acquistato i marchi ed il cui capitale sarebbe stato interamente detenuto da un’altra società neo costituita, la Dolce & Gabbana Luxembourg S.a.r.l., a sua volta ovviamente controllata dalla holding italiana, era dettata da due ragioni: la prima risiede nella volontà di collocare i marchi su un mercato finanziario appetibile, in vista dell’eventuale quotazione in borsa di obbligazioni o azioni del gruppo; la seconda risponde all’obiettivo dell’ottimizzazione del posizionamento fiscale ... anche alla luce del principio comunitario della libertà di stabilimento per le imprese che trasferiscono la loro attività in uno Stato CE. La stessa motivazione è confermata e precisata dalla stessa imputata C. R., sentita in data 17/12/2008 dal suo stesso difensore, Avv. D., al quale ha dichiarato, tra l’altro, che la situazione di contitolarità al 50% sia dei marchi, sia delle azioni della holding, aveva destato preoccupazioni sempre crescenti: con il crescere delle dimensioni del gruppo, che oggi conta più di 3500 persone, cresceva anche la preoccupazione che un assetto azionario di tale genere potesse determinare, nel caso fossero insorti dei contrasti tra i due proprietari (come è notorio che effettivamente accadde, ndr Gup) una situazione di blocco nell’assumere le decisioni, con inevitabili ricadute nella gestione operativa della società. Per

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Parte terza84

quanto riguardava, invece, i marchi, a questa preoccupazione si aggiungeva il fatto che il sistema economico/bancario (fornitori, licenziatari, banche) non vedevano di buon occhio che l’asset più importante su cui si sviluppava l’intera attività fosse al di fuori dell’azienda, nell’assoluta disponibilità di persone fisiche, tra l’altro anche legate sentimentalmente. Inoltre l’attività di Dolce & Gabbana S.r.l. a quel tempo si limitava alla parte stilistico creativa e alla promozione – commercializzazione dei prodotti. L’attività di produzione era invece affidata ad alcuni licenziatari, il più importante dei quali la DOLCE Saverio S.r.l., licenziataria esclusiva dei capi di abbigliamento ed accessori di prima linea, il più alto livello di qualità. Tale società era di proprietà dei genitori e dei fratelli del signor Domenico DOLCE, oltre che dello stesso. Il signor Stefano GABBANA, invece, non deteneva alcuna quota di tale società. Molteplici erano gli aspetti operativi, gestionali, finanziari che conducevano a ritenere opportuna una concentrazione tra le realtà creative, comunicazioni e commerciali (Dolce & Gabbana) e quelle produttive - distributive (Dolce Saverio). Riservandosi valutazioni dettagliate nel prosieguo, si deve osservare sin d’ora che tali dichiarazioni, pur provenendo da un’imputata e dall’interno del gruppo (ma in modo conforme alle dichiarazioni di A. che è persona informata sui fatti) riferiscono dati obiettivi e sono dotate di una verosimiglianza e di una comprensibilità abbastanza elementari, sotto il profilo imprenditoriale che le rende particolarmente attendibili, soprattutto in considerazione della totale assenza di elementi che le possano confutare come tali. È appena il caso di ricordare che anche l’imputato M. ha reso dichiarazioni del tutto conformi in sede di indagini difensive. Di conseguenza, in data 4 marzo 2004 venivano costituite le società lussemburghesi Dolce Gabbana Luxembourg S.a.r.l. e GADO S.a.r.l., interamente partecipata dalla prima. Nello stesso mese, Domenico DOLCE e Stefano GABBANA cedevano la titolarità dei loro marchi alla società GADO S.a.r.l. per il corrispettivo pattuito di 360 milioni di euro. Come si sa, il prezzo di cessione dei marchi veniva stabilito dal gruppo sulla base di una valutazione commissionata alla nota società di consulenza Price Waterhouse Coopera, che stimava il valore dei marchi cedendi intorno a 355 milioni di euro. Con nuovi contratti i marchi venivano poi concessi in licenza dalla nuova proprietaria licenziante GADO S.a.r.l. in via esclusiva alla Dolce & Gabbana S.r.l. con la previsione del pagamento di royalties da determinarsi percentualmente sul fatturato nella misura compresa tra il 3 e 1’8%, secondo le linee di prodotto. In questo modo, le royalties venivano percepite non più dagli artisti personalmente, ma dalla società lussemburghese GADO S.a.r.l., che secondo il diritto fiscale di quel Paese aveva stipulato un accordo di negoziazione del livello impositivo (c.d. ruling) grazie al quale la misura delle imposte sui redditi veniva stabilita in modo individuale e fisso nella misura del 4% circa, con un vistoso vantaggio fiscale. La società lussemburghese veniva infine domiciliata presso una società specializzata in consulenza e domiciliazione denominata Alter Domus ed in Lussemburgo veniva trasferita M. G. B., la dipendente del gruppo che già si occupava dei marchi quando

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RubRica di diRitto penale tRibutaRio 85

questi erano posseduti personalmente dai due stilisti” (sentenza primo aprile 2011 Gup di Milano, fogli 6/8).

Su tale ultimo aspetto della ricostruzione effettuata dal Gup presso il Tribunale di Milano, nella quale il ruolo di GADO S.a.r.l. si inseriva armoniosamente (giusta rilievi poi ripresi anche dalla sentenza di annullamento) in un processo più vasto ed organico del quale venivano illustrate le ragioni, ritenute perfettamente credibili, la Corte tornerà.

A questo punto della disamina, invece, preme sottolineare come, in dibattimento e nel contraddittorio delle parti, R. A.’ – la cui credibilità come persona informata sui fatti veniva sottolineata dal Gup di Milano con la sottolineatura della circostanza per cui al momento in cui rendeva dichiarazioni in sede di indagini difensive non era più una collaboratrice dello studio associato nel quale lavorava nel gruppo coordinato dall’imputato P. all’epoca dei fatti per cui è causa – rendeva dichiarazioni del tutto conformi a quelle rese in indagini difensive.

Si vuol riferire la Corte alla deposizione resa al Tribunale di Milano all’udienza del 3 maggio 2013 (cfr. fogli 4/32 della relativa trascrizione).

Nell’occasione, la testimone, sia nel corso dell’esame della difesa P., che l’aveva indotta, sia nel corso del serrato controesame del pubblico ministero, sostenuto senza difficoltà, ribadiva integralmente la originaria ricostruzione dei fatti.

E dunque ricordava per il Tribunale R. A.: che a P. il gruppo Dolce & Gabbana aveva rappresentato la necessità del trasferimento dei marchi dalle persone fisiche dei due stilisti al gruppo, sia per evitare la paralisi in caso di dissidi fra i due proprietari sia per conferire più solidità al gruppo che era percepito come più debole senza la titolarità dei marchi stessi, anche in caso in cui si fosse deciso per la quotazione in borsa, ipotesi che all’epoca era al vaglio (ibidem, fogli 6/7); che nell’ambito di tale ristrutturazione doveva essere rivisto l’assetto societario, con particolare riferimento alla posizione della famiglia DOLCE (ibidem, foglio 7); che il progetto prevedeva il trasferimento dei marchi ad una società estera, che avrebbe svolto le attività strettamente legate alla titolarità dei marchi, e quindi relative “alla registrazione dei marchi, al rinnovo, a tutte le attività di difesa dei marchi” (ibidem, foglio 8); che in seguito ad una ricerca erano stati selezionati Paesi europei di standing finanziario elevato, quali Olanda e Lussemburgo, e che poi la scelta era caduta sul Lussemburgo, la cui legislazione prevedeva la possibilità che ci fossero accordi con la amministrazione fiscale locale “per una tassazione agevolata dei ricavi derivanti dall’utilizzo dei marchi” (ibidem, foglio 10); che la struttura della società lussemburghese era stata implementata con l’attività della dottoressa B. e che dal punto di vista amministrativo e contabile il gruppo Dolce & Gabbana si era rivolto, su suggerimento della Price Waterhouse Coopers, ad una società lussemburghese specializzata in questo tipo di servizi, l’Alter Domus (fogli 12 e seguente).

Anche l’imputata R. C. confermava le dichiarazioni rese in sede di indagini

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Parte terza86

difensive, ricordando le richieste di partners od eventuali futuri investitori, nonché, in via generalizzata, dei banchieri, affinché si ponesse mano alla razionalizzazione del gruppo: “me lo ha detto C., che era anche persona che abbiamo citato come teste, me lo disse M., me lo disse Deutsche Bank, me lo dissero tutti, P.I, cioè tutte le banche con cui noi avevamo a che fare quando si parlava di potere accedere ad un credito che non fosse ordinario, ma che fosse importante per dare possibilità all’azienda di svilupparsi e competere con lo scenario competitivo che c’era in quegli anni, dove le altre aziende erano molto più importanti, molto più forti di noi; ci dicevano: signori, noi saremmo anche disponibili, ma quando guardiamo il vostro bilancio vediamo nei costi royalties passive, che cosa sono? Eh, sono le royalties che noi paghiamo ai proprietari dei marchi. Ma perché i marchi non sono vostri? No, non sono nostri. Questo, signora, è un problema” (trascrizione udienza 19 aprile 2013, foglio 41).

Del tutto conformi alla ricostruzione di A. anche le dichiarazioni degli imputati M. e P.

Va da sé che, a fronte di un contesto probatorio di tal fatta, non risulta in alcun modo condivisibile la (immotivata) valutazione del primo Giudice secondo cui “rimane molto sfuggente ... la reale esigenza (anche solo concorrente al risparmio fiscale) sottesa alla scelta del Lussemburgo come sede effettiva della società titolare dei marchi” (sentenza Tribunale di Milano, foglio 17).

Eppure, era lo stesso Tribunale ad aver riconosciuto (a foglio 9) che il progetto proposto dal P. corrispondeva “esattamente alla struttura societaria” poi concretizzatasi, ed in effetti, per corrispondere alle reali e concrete esigenze che gli erano state prospettate, il professionista, nella nota esplicativa del 21 gennaio 2004 (versata in allegato 4 alla memoria ex articolo 121 del codice di rito depositata all’udienza del 14 giugno 2013), aveva individuato le seguenti operazioni da realizzare in vista del perseguimento del progetto di ristrutturazione del gruppo la cui necessità gli era stata rappresentata dal gruppo dirigente ed in particolare dal direttore generale R.: costituzione di una società holding di diritto lussemburghese, costituzione di una società di diritto lussemburghese destinata ad acquisire la titolarità dei marchi, negoziazione di un ruling con l’autorità fiscale lussemburghese finalizzato a disciplinare preventivamente il regime di tassazione applicabile alla società detentrice dei marchi, cessione attraverso atto di vendita dei marchi dagli stilisti alla società di diritto lussemburghese di nuova costituzione, conferimento alla holding del 100% della Dolce & Gabbana S.r.l.

La stessa accusa aveva dato atto nelle requisitorie finali del giudizio di primo grado che effettivamente lo scopo perseguito dal gruppo era quello di “inserire il marchio all’interno di una società del gruppo” (trascrizione udienza 29 maggio 2013, foglio 50).

Tuttavia, come ha adeguatamente rilevato la Corte di cassazione nella sentenza di annullamento, la dimostrazione dell’esterovestizione funzionale alla violazione

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RubRica di diRitto penale tRibutaRio 87

dell’articolo 5 Decreto Legislativo 74/2000 doveva passare per l’ineffettività della gestione estera mentre la censura rivolta dalla sentenza impugnata nei confronti degli imputati era che la decisione del gruppo di insediare GADO in Lussemburgo era ispirata esclusivamente dal fine di raggiungere un considerevole risparmio fiscale: dava atto il Tribunale di Milano che era incontestabile il diritto di stabilimento in Lussemburgo (foglio 28), ma dopo avere assunto che “la esterovestizione di GADO risulta pacificamente provata trattandosi di società allocata in Lussemburgo al solo fine di consentire la sottrazione di una ingente porzione di reddito imponibile – appunto le royalties prodotte in Italia dalle licenziatarie e sub licenziatarie – trasferendole in Lussemburgo dove le stesse venivano tassate applicando l’aliquota del 4%” (foglio 17).

Quanto a quest’ultimo dato, è stato lo stesso procuratore generale a rilevarne all’odierna udienza il carattere fuorviante, richiamando le conclusioni del perito di parte (cfr. al riguardo la consulenza D. e l’esame del consulente all’udienza del 17 aprile 2013, con particolare riferimento, rispetto al tema che ne occupa, ai fogli 113 e seguenti della relativa trascrizione).

Tuttavia, non deve la Corte abbandonare il sentiero argomentativo tracciato con il massimo rigore dalla sentenza rescindente.

Per l’atto costitutivo di GADO S.a.r.l. è necessario rinviare all’allegato 38 del processo verbale di contestazione 5 settembre 2007: acquisire partecipazioni e titolarità di marchi, curare l’amministrazione di marchi e concederli in licenza.

Dal punto di vista della gestione del marchio la ristrutturazione alla quale la dirigenza del gruppo si è determinata per corrispondere alle esigenze rappresentatele che costituiscono quelle robuste ragioni extra fiscali sulle quali ha diffusamente argomentato la sentenza rescindente nulla ha modificato rispetto alla situazione previgente, ove le attività di commercializzazione e sviluppo del marchio erano destinate alla licenziataria Dolce & Gabbana Srl, mentre le prerogative legate alla titolarità dei marchi erano di competenza delle persone fisiche di DOLCE Domenico e GABBANA Stefano che avevano affidato la attività di tutela dei marchi stessi ad un ufficio del quale nell’ultimo periodo era per l’appunto titolare quella dottoressa BERGOMI (cfr. deposizione teste F. foglio 6 e seguente della trascrizione dell’udienza del 17 aprile 2013) che avrebbe poi svolto le stesse funzioni in GADO S.a.r.l. nel primo periodo di attività di quest’ultima.

Anche dopo la ristrutturazione Dolce & Gabbana S.r.l. proseguiva nella attività di licenziataria.

È nello stesso processo verbale di contestazione del 24 settembre 2009 la attestazione secondo la quale “nel contratto di licenza stipulato tra GADO S.a.r.l. e la Dolce & Gabbana S.r.l. è previsto che la licenziataria ponga in essere l’attività promozionale e pubblicitaria e comunque quella utile ad incrementare la commercializzazione e gestione – realizzazione dei marchi, attività che svolgeva anche quando i marchi erano di proprietà delle persone fisiche”.

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Parte terza88

La scissione – vero oggetto della riorganizzazione – tra persone fisiche degli stilisti e proprietà dei marchi aveva come naturale conseguenza quella per la quale le royalties che prima della ristrutturazione erano corrisposte, come ha spiegato R. al Tribunale da Dolce & Gabbana alle persone fisiche di DOLCE Domenico e Gabbana Stefano successivamente alla istituzione di GADO S.a.r.l. erano viceversa corrisposte a quest’ultima.

Del tutto errata risulta dunque la conclusione assunta dal tribunale a foglio 29 della sentenza secondo la quale era “in pratica cambiato il rapporto tra i soggetti titolari di marchi (Domenico Dolce e Stefano Gabbana prima e GADO Sarl in seguito) e la società licenziataria (Dolce e Gabbana srl).

La testimone B. aveva a sua volta invero confermato al primo Giudice (foglio 242 della trascrizione dell’udienza 6 febbraio 2013) che “l’attività di valorizzazione dei prodotti, commercializzazione, promozione, valorizzazione, pubblicità, sviluppo era di esclusiva competenza della licenziataria”.

Si è già dato ampio conto delle severe critiche riservate dalla sentenza di annullamento con riferimento alla attività della stessa B. e della B. in favore di GADO S.a.r.l.

Orbene, al riguardo le dichiarazioni delle due testimoni, che, come molte delle difese hanno rilevato nei motivi di appello avverso la sentenza del Tribunale di Milano, erano ricomprese nella lista del pubblico ministero, risultano decisive per assolvere al compito che la Corte Suprema ha esplicitamente assegnato a questa Corte quale giudice del rinvio.

È bene ricordare, in primo luogo, che nella prima fase della attività di GADO S.a.r.l. distaccata presso la medesima era proprio la BERGOMI che aveva svolto la medesima attività quando proprietari dei marchi erano le persone fisiche di DOLCE Domenico e GABBANA Stefano.

Il dato non può non risultare assolutamente significativo per la risoluzione della questione di fatto che ne occupa.

Dunque la stessa persona che si occupava per DOLCE (Domenico) e per GABBANA della tutela dei marchi svolgeva gli stessi compiti per GADO S.a.r.l.

Naturalmente, tenuto conto delle competenze della B., la medesima venne affiancata, per le diverse attività di amministrazione e contabilità da una società specializzata, la Alter Domus che come risulta dalla richiamata deposizione della credibile teste A. era stata segnalata al gruppo di professionisti coordinati da P. e da PRICE WATERHOUSE COOPERS LUXEMBOURG tra le società lussemburghese del settore.

Risulta francamente incomprensibile come da questo elemento di fatto, e cioè dall’affidamento ad una società lussemburghese di funzioni amministrative la sentenza impugnata abbia tratto elementi per la tesi della esterovestizione quando l’incarico ad una società del luogo ove era stata insediata GADO S.a.r.l. deve far

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RubRica di diRitto penale tRibutaRio 89

propendere, semmai gli si voglia attribuire qualche valenza probatoria, per la non fittizietà dell’insediamento medesimo.

Impegnatasi a dire il vero B. ha poi riferito al Tribunale che la tutela del marchio era stata gestita da lei personalmente in Lussemburgo e con autonomia, essendo una attività di tipo tecnico (cfr. fogli 221- 224 della trascrizione dell’udienza 6 febbraio 2013): l’assunto veniva più volte ribadito dalla testimone (cfr. ibidem, foglio 148: “avevo assolutamente autonomia da questo punto di vista”).

L’autonomia della B. era confermata dal teste F., il quale ha dichiarato di avere rapporti con riferimento alla tutela dei marchi “solo con lei” (foglio 11 della trascrizione dell’udienza del 17 aprile 2013) e la collaboratrice del F., A. P.I ricordava la autonomia di spesa di B.: “aveva certamente una autonomia di spesa perché a livello appunto di interventi comunque tempestivi le istruzioni presupponevano affrontare determinate spese” (ibidem, foglio 39; ai fogli 45 - 47 della stessa trascrizione sono registrate le dichiarazioni della teste che ha riferito come i rapporti dello studio, per tutto il tempo nel quale B. si era occupata dell’ufficio marchi, anche dopo la costituzione di GADO erano stati intrattenuti esclusivamente con la stessa).

La deposizione F. – professionista esperto di marchi consulente del gruppo – non consente le conclusioni assunte dal Tribunale a foglio 30 che attribuiva proprio allo studio Guzzi e Ravizza di essere il vero nucleo pensante dell’attività anticontraffazione.

A prescindere dalle inequivoche affermazioni del testimone (che così identificava i termini del rapporto con B.; “il consulente, ne sono ben conscio, dà un consiglio, quindi propone al cliente determinate strategie, facendo vedere rischi e costi, dopodiché la decisione non può che essere presa dal cliente e avevo pronta risposta decisionale”) non motivava in alcun modo il primo Giudice rispetto ad eventuali cambiamenti del rapporto tra responsabile della tutela dei marchi e consulente prima e dopo il progetto di ristrutturazione.

Al riguardo, invero, il teste era stato nel corso della sua deposizione (consacrata ai fogli 4/34 della trascrizione dell’udienza 17 aprile 2013) del tutto preciso, avendo evidenziato come nell’ambito della consulenza resa dallo studio Guzzi e Ravizza con il gruppo Dolce & Gabbana la sua collaborazione per la tutela dei marchi era iniziata negli anni 1995 - 1996 con la dottoressa B. per poi continuare per l’appunto con la dottoressa B., la competenza della quale aveva consentito di continuare con professionalità la collaborazione (espressamente, ibidem, foglio 11).

È in questo contesto che si colloca la riferita affermazione del testimone secondo la quale si “interfacciava” con B. prima (ibidem, foglio 12) e dopo (ibidem, foglio 13) la costituzione di GADO S.a.r.l, continuità di competenze che, tenuto conto di quanto si è riferito circa la attività complessiva di B. suona per la assoluta capacità decisionale della stessa anche quando lavorava per GADO nella fase iniziale dell’insediamento lussemburghese.

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Parte terza90

Anche F. ricordava l’autonomia di spesa di B., a foglio 14 della trascrizione dell’udienza da ultimo citata.

All’esito dell’attività di insediamento e di start - up di GADO S.a.r.l. B. era rientrata in Italia ed era stata rimpiazzata da B., la quale era a sua volta (così come B. e B. prima di lei) una esperta del settore marchi: così di sé la testimone al Tribunale (a foglio 43 della trascrizione dell’udienza 6 marzo 2013): “sono laureata in giurisprudenza, dopodiché ho iniziato a fare il tirocinio, ho iniziato presso uno studio di avvocati, poi ho lavorato per la Iacobacci, che è uno studio di consulenza per la proprietà intellettuale, poi ho lavorato sempre per la gestione dei marchi, anticontraffazione per la società Richmond lnternational Limited a Londra, ho lavorato come gestione dei licenziatari per la Robe di Kappa, per la Gado Sarl che fa parte del Gruppo Dolce & Gabbana, ho lavorato attualmente per la Nestlè. Tutto il mio percorso professionale l’ho praticamente svolto occupandomi di gestione di marchi, di diritti di proprietà intellettuale”.

L’avvicendamento tra B. e B. è stato gestito in prima persona dal responsabile delle Risorse Umane del gruppo V., coadiuvato dalla sua collaboratrice M.

Sollecitato dalla stessa B., che era solo distaccata, V. aveva affidato ad una società lussemburghese del settore, la ROLANDS, l’attività di selezione, per poi incontrare i selezionati.

Alla fine la scelta era caduta sulla B., assunta direttamente da GADO S.a.r.l.La trafila era stata rievocata per il Tribunale da S. V. ai fogli 10 e seguenti della

trascrizione dell’udienza del 20 febbraio 2013.Ha spiegato convenientemente il teste la necessità di una assunzione diretta da

parte di GADO: “la prima era una start up, quindi avevamo bisogno di capire qual era la reale dimensione dell’attività, e la seconda considerazione è che avevamo una persona rispetto alla quale sapevamo già che poteva occuparsi con cognizione di quello avrebbe dovuto fare... inizialmente abbiamo mandato una persona che sapevamo potesse garantire questa attività di avviamento. Per definizione, è previsto dalla legge, il distacco è temporaneo, per cui una volta risolta questa temporaneità e a questo punto essendo GADO ed essendo quegli uffici in Lussemburgo una attività oramai strutturata ed organizzata, abbiamo assunto e inserito una persona direttamente in GADO” (ibidem, fogli 26 e seguente). Precisava il teste che vi era stato un periodo quadrimestrale di affiancamento della B. alla B..

Il teste V. aveva espressamente fatto riferimento, per la trafila che aveva condotto alla assunzione di B., ad una sollecitazione di B., la quale, a sua volta, nella deposizione del 6 febbraio 2013, aveva ricordato di avere acconsentito al distacco ma di aver preferito, al termine della start up, di rientrare in Italia, nonostante le fosse stato proposto di rimanere in Lussemburgo: “ho deciso di rientrare in Italia e quindi in quella occasione è stata assunta una persona, tra l’altro in merito alla cui selezione anche io ho partecipato, ed è stata assunta direttamente da GADO” (trascrizione udienza 6 febbraio 2013, foglio 218).

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Dal canto suo, P. avrebbe poi riferito, all’udienza del 17 aprile 2013, che nulla era cambiato in quanto la B. “svolgeva esattamente le stesse competenze della dottoressa B.” (foglio 4 della relativa trascrizione).

Ora, il buon governo delle regole di valutazione della prova impedisce nel modo più assoluto che la vicenda dell’avvicendamento tra B. e B. possa essere letto nel senso della fittizietà ed artificiosità del (legittimo) insediamento lussemburghese di GADO S.a.r.l.

Non resta che ricordare le dichiarazioni della B. che ha dichiarato (fogli 19 e 39 della trascrizione dell’udienza del 6 marzo 2013) di avere agito in piena autonomia in base alle strategie del gruppo nella gestione ordinaria dei marchi: ‘‘gestione ordinaria vuol dire, non so, si doveva depositare un marchio, rinnovare un marchio”, oppure ‘‘decidere se fare opposizione contro una parte terza o difendersi contro l’attacco di una parte terza” (ibidem, foglio 39).

Le censure delle difese – ivi compresa quella di DOLCE Alfonso (cfr, fogli 49 – 56 della memoria depositata a questa Corte ed oralmente illustrata all’odierna udienza) – rispetto alla valutazione del primo Giudice rispetto alla diversità tra il primo ed il secondo anno della attività di GADO, avendo il Tribunale posto sullo stesso piano ‘‘due annualità con caratteristiche differenti” (foglio 53 della memoria citata) colgono, davvero, nel segno.

Valendosi di una persona che si era già occupata della tutela dei marchi prima della costituzione, e poi di persona assunta in loco, GADO S.a.r.l. ha dunque convenientemente esercitato la attività statutaria.

La risposta al tema di indagine affidato dalla Suprema Corte riviene da una valutazione delle convergenti dichiarazioni dei testi di accusa e di difesa, professionisti di primo piano sulla veridicità delle dichiarazioni dei quali non è dato rinvenire alcun elemento agli atti del giudizio.

Per farsi carico di esigenze lungamente e diffusamente rappresentate (emerse agli atti, donde l’inutilità degli approfondimenti istruttori negati dai Giudici di merito) il gruppo DOLCE & GABBANA ha acquisito dalle persone fisiche di Domenico DOLCE e Stefano GABBANA la titolarità dei marchi, scegliendo legittimamente sulla scorta del diritto di stabilimento di insediare in Lussemburgo (anche, ma non solo, come ha spiegato la teste, credibile ed assolutamente indifferente – come già evidenziato oramai molti anni or sono dal GUP di Milano – per ragioni fiscali) la società che quei marchi aveva acquisito, che ha poi concretamente ed effettivamente esercitato la attività statutaria valendosi di personale proprio e della collaborazione di società lussemburghesi di servizio per l’attività contabile ed amministrativa.

Alfonso DOLCE va dunque assolto dalla residua imputazione ascrittagli perché il fatto non sussiste.

P.Q.M.Visto l’articolo 627 cppdecidendo in sede di rinvio

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Parte terza92

dalla Suprema Corte di cassazione 24.10.2014 in riforma della sentenza del Tribunale di Milano 19.6.2013 assolve l’appellante Dolce Alfonso dal reato ascrittogli perché il fatto non sussiste, ferme le statuizioni della Corte di Appello di Milano 30.4.2014 non soggette ad annullamento.

Tra esterovestizione ed attività di direzione e coordinamento della capogruppo: la Corte d’Appello di Milano scrive l’epilogo della vicenda “Dolce & Gabbana”.

Sommario: 1. Rilievi introduttivi: il fatto. – 2. L’iter processuale fino alla sentenza della Corte d’Appello di Milano. – 3. La rilevanza penale dell’esterovestizione: dalla truffa all’omessa dichiarazione. – 3.1. La rilevanza del “place of effective management”: profili generali. – 3.2. L’art. 73, co. 3, T.U.I.R.: elementi rivelatori del luogo di “effettiva” residenza dell’ente. – 4. “Place of effective management” ed attività di direzione e coordinamento della capogruppo: il quid novi della vicenda “Dolce & Gabbana”. – 5. Place of effective management e direzione unitaria della capogruppo: alla ricerca di una linea interpretativa capace di superare una pericolosa equazione. – 6. Rilievi conclusivi: dalla giurisprudenza una regola di condotta per la gestione dei gruppi multinazionali.

Nel porre fine alla complessa vicenda processuale che ha interessato i marchi Dolce & Gabbana, la Corte d’Appello di Milano ha affermato che non costituisce condotta di c.d. “esterovestizione” l’utilizzo di una società avente sede legale in Lussemburgo quando la gestione di tale società subisca l’influsso dell’attività di direzione e coordinamento esercitata dalla capogruppo italiana. Affinché sussista responsabilità penale ai sensi dell’art. 5, D.Lgs. n. 74/2000 occorre che la società estera sia una costruzione di puro artificio.

To put an end to the intricate court case that involved the Dolce & Gabbana brands, the Court of Appeal in Milan (Italy) has stated that the operations of a company having its registered office in Luxembourg do not represent a case of “corporate inversion” if the management of this company is affected by the coordination and management activities carried out by the Italian parent company. In order for the corporate criminal liability to exist, pursuant to Article 5 of Legislative Decree No. 74/2000, the foreign company shall have been established as a mere artifice.

1. Rilievi introduttivi: il fatto. – Alla fine, tutti assolti.La pronuncia in commento segna l’epilogo della vicenda che, nell’ulti-

mo lustro, più di ogni altra ha appassionato i cultori del diritto penale tribu-tario. La notorietà degli imputati ma, soprattutto, la delicatezza e, per certi

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versi, l’originalità del tema trattato, in uno con le ondivaghe pronunce che si sono succedute, costituiscono gli ingredienti ideali per fare di questo proces-so un autentico leading case, probabilmente capace persino di influire sulla recente riforma dell’abuso del diritto.

Il fatto, “sostanzialmente non controverso” (1), è ormai noto ma con-verrà comunque ripercorrerne -pur in estrema sintesi- gli snodi essenziali.

Nel marzo del 2004, la proprietà dei marchi riconducibili agli stilisti Dolce e Gabbana “faceva capo ai due stilisti personalmente, i quali come persone fisiche possedevano i marchi in comunione tra loro al 50%” (2), cui seguì la scelta di cedere i marchi ad una società di nuova costituzione e di diritto lussemburghese: la GADO s.a.r.l.

Tale società concedette i marchi in licenza ad una sub-holding italiana, a fronte di royalties comprese tra il 3% e l’8%, realizzando così redditi assog-gettati ad una tassazione particolarmente favorevole (4%) in Lussemburgo in virtù di un accordo di ruling intervenuto con le autorità tributarie del Granducato.

Due i profili di censura individuati dall’accusa. Il primo concerneva il prezzo pagato dalla GADO s.a.r.l. ai due stilisti

per acquistare i marchi in questione, ritenuto troppo esiguo: a fronte dei pat-tuiti 360 milioni di euro, infatti, l’Agenzia delle Entrate stimò in oltre 1.193 milioni di euro il “reale” valore di tali marchi. Di qui l’asserita infedeltà del-le dichiarazioni personali presentate dai due stilisti, considerati responsabili di aver occultato al fisco una (rilevante) parte del proprio reddito (quasi 417 milioni di euro a testa).

Il secondo profilo di censura, di maggiore interesse e destinato a so-pravvivere (almeno in parte) fino alla pronuncia in commento, concerne-va la residenza fiscale della GADO s.a.r.l., ritenuta – in realtà – società da sottoporre a tassazione in Italia siccome solo artificiosamente collocata in Lussemburgo.

Particolare fu, poi, il tentativo, da parte dell’accusa, di ricondurre tale articolata operazione non tanto alla fattispecie di omessa dichiarazione (art. 5, D.Lgs. n. 74/2000) – di norma chiamata in causa proprio per contrastare fenomeni quale quello ipotizzato – quanto al paradigma della truffa di cui al comma 2 dell’art. 640 c.p.

(1) Come notò già il giudice di prime cure: Trib. Milano, 29 aprile 2011, 5. (2) Così ancora Trib. Milano, 29 aprile 2011, 6.

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Parte terza94

Ma su tale aspetto occorrerà ritornare tra breve.

2. L’iter processuale fino alla sentenza della Corte d’Appello di Milano. – Altrettanto noto è l’iter processuale che ha caratterizzato la vicenda.

Con sentenza del 1° aprile (29 aprile) 2011, il Gip del Tribunale di Mila-no dichiarò il non luogo a procedere, ex art. 425 c.p.p., per tutti gli imputati e per tutti i reati ipotizzati dall’accusa.

Tale pronuncia venne ribaltata dalla II Sezione penale della Cassazione, che, con la sentenza 22 novembre 2011 / 28 febbraio 2012, n. 7739 (3), scrisse alcune delle pagine più criticate dalla dottrina penalistica degli ultimi anni (4), inaugurando – di fatto – la stagione della rilevanza penale dell’e-lusione fiscale (5) e, in particolare, delle riprese a tassazione compiute in applicazione dell’art. 37-bis, D.P.R. n. 600/1973.

(3) Cass., sez. II, 22 novembre 2011 (dep. 28 febbraio 2012), n. 7739, in Dir. prat. trib., 2012, II, 766, ma altresì in Riv. dir. trib., 2012, III, 61, con nota di caraccioli, “Imposta elusa” e reati tributari “di evasione” nell’impostazione della Cassazione, ivi, 86 ss.; nonché in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 442, con nota di GiacoMEtti, La problematica distinzione tra evasione, elusione fiscale e abuso del diritto, ivi, 451.

(4) Oltre ai lavori citati alla nota precedente, cfr. in argomento e, più in generale, sui profili penali dell’elusione fiscale, per tutti, consulich, La scriminante sfigurata. Il diritto soggettivo come fonte di incriminazione? Il caso dei reati fiscali, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2014, 1; Flick, Abuso del diritto ed elusione fiscale: quale rilevanza penale?, in Giur. comm., 2011, I, 485-486; Flora, Perché l’“elusione fiscale” non può costituire reato (a proposito del “caso Dolce & Gabbana”), in Riv. trim. dir. pen. ec., 2011, 873; Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, in Rass. trib., 2015, 1315; lanzi, alDrovanDi, Diritto penale tributario, Padova, 2017, 259 ss.; lunGhini, Elusione e principio di legalità: l’impossibile quadratura del cerchio?, in Riv. dir. trib., 2006, 659 ss.; MucciarElli, Abuso del diritto, elusione fiscale e fattispecie incriminatrici, in AA.VV., Elusione ed abuso del diritto tributario, Maisto (a cura di), Milano, 2009, 421 ss.; Musco, arDito, Diritto penale tributario, Bologna, 2016, 181 ss.

Sia altresì consentito fare rinvio a PErini, La tipicità inafferrabile, ovvero elusione fiscale, “abuso del diritto” e norme penali, in Riv. trim. dir. pen. ec., 2012, 731, ove ulteriori riferimenti all’imponente bibliografia che si è occupata del tema.

(5) Ma un’apertura verso l’attribuzione di rilevanza penale all’elusione fiscale era già rinvenibile in Cass., sez. III, 18 marzo 2011 (dep. 7 luglio 2011), n. 26723, in Riv. pen., 2012, 1309. Sempre sulla sentenza “Dolce & Gabbana”, cfr. Flora, op. cit., 865 ss.; vEnEziani, Commento, in Dir. pen. processo, 2012, 863. Successivamente, nella stessa direzione, cfr. Cass., sez. V, 23 maggio 2013 (dep. 9 settembre 2013), n. 36894, in Riv. dir. trib., 2013, III, 189, con nota di Di siEna, La criminalizzazione dell’elusione fiscale e la dissolvenza della fattispecie criminosa, ivi, 194; si veda altresì la nota a tale sentenza di FraschEtti, Brevi note sulla rilevanza penale dell’elusione fiscale, Cass. pen., 2014, 3411.

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In aderenza ai principi di diritto affermati da tale sentenza, il Tribu-nale di Milano prima (19 giugno 2013) e la Corte d’Appello meneghina poi (20 giugno 2014) affermarono la rilevanza penale dei fatti in questio-ne, salvo constatare l’intervenuta prescrizione di alcuni frammenti delle condotte censurate. Da rilevare, tuttavia, che la contestata truffa ex art. 640, co. 2, c.p., cedette il passo alla fattispecie di omessa dichiarazione di cui all’art. 5, D.Lgs. n. 74/2000, delitto per il quale furono condan-nati non solo l’amministratore della GADO s.a.r.l. (Alfonso Dolce), ma anche una serie di professionisti e consulenti, oltre allo stilista Stefano Gabbana, in quanto ritenuti concorrenti nella condotta omissiva dell’am-ministratore.

La sentenza della III Sezione della Cassazione, n. 43809, pronunciata il 24 ottobre 2014 con deposito della motivazione il 30 ottobre 2015 (6), segnò un ulteriore capovolgimento di fronte, all’esito del quale vennero tracciati solidi confini di contenimento al tema dell’esterovestizione, che condusse-ro all’annullamento della sentenza d’appello ed all’assoluzione per insussi-stenza del fatto di tutti i concorrenti nella fattispecie di omessa dichiarazio-ne, con la sola eccezione dell’amministratore della GADO s.a.r.l.

Dunque, a residuare fu una parte soltanto delle contestazioni mosse ex art. 5, D.Lgs. n. 74/2000, essendo per le altre intervenuta la prescrizione: relativamente ai fatti non ancora estinti ed alla sola posizione di Alfonso Dolce, quindi, la Corte di Cassazione investì nuovamente la Corte d’Appel-lo di Milano affinché facesse buon governo dei principi di diritto affermati in materia di esterovestizione e li applicasse alla condotta in concreto tenuta dall’imputato.

Si giunge così, finalmente, alla pronuncia in commento che, dopo aver diffusamente descritto il lungo percorso processuale che l’ha preceduta ed aver ricostruito i limiti che presenta il fenomeno dell’esterovestizione all’in-terno dei gruppi societari, così come enucleati dalla Cassazione, decide di assolvere per insussistenza del fatto anche l’ultimo imputato ancora a giu-dizio.

(6) Se ne vedano i commenti di vEnturato, Omessa dichiarazione. Note in tema di estero-vestizione e concorso eventuale nel reato omissivo proprio, in Giur. it., 2016, 971; toMassini, Esterovestizione irrilevante penalmente senza la prova della costruzione artificiosa, in Corr. trib., 2015, 4584; corso, “Ne bis in idem”, elusione fiscale e concorso nel reato secondo la sentenza “Dolce e Gabbana”, in Giur. trib., 2016, 66.

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3. La rilevanza penale dell’esterovestizione: dalla truffa all’omessa dichiarazione. – Questi, in sintesi estrema, i fatti e la lettura che agli stessi è stata data in ben sei gradi di giudizio.

Numerosi, ovviamente, sono gli spunti che la vicenda offre, così come molteplici sono le questioni affrontate dalle diverse sentenze citate. In que-sta sede, tuttavia, ci si soffermerà esclusivamente sugli snodi argomentativi che caratterizzano la pronuncia che qui si commenta, pur non potendo pre-scindere da talune indicazioni ermeneutiche che la Cassazione ha offerto alla Corte d’Appello e che quest’ultima ha applicato rigorosamente al caso di specie.

È così immediato constatare come, al centro del problema, si ponga la questione dell’individuazione del paese di residenza di una società, la GADO s.a.r.l., avente sede legale in Lussemburgo ma sospetta di essere ete-ro-diretta dall’Italia, dal quartier generale della nota maison di moda.

Il punto, già chiaro fin dall’avvio della vicenda processuale, non pare tuttavia essere stato sempre rappresentato con il necessario nitore, perlo-meno se si presta attenzione alle fattispecie penali alle quali è stato ricon-dotto.

Già si è osservato, infatti, come inizialmente fosse stata prospettata la sussistenza di un’ipotesi di truffa: la condotta particolarmente articolata, la costituzione di società ad hoc e la cessione dei marchi ad un prezzo ritenuto incongruo, devono essere apparsi come elementi di fatto non com-primibili nell’essenziale fattispecie omissiva tipizzata dall’art. 5, D.Lgs. n. 74/2000.

Difficile dire se una tale scelta sia stata motivata anche dall’astratta pos-sibilità, grazie alla fattispecie codicistica, di applicare pure la disciplina che governa la responsabilità degli enti, soluzione altrimenti preclusa al cospetto di fattispecie penali tributarie: sta di fatto che la prima delle sentenze ricor-date, quella del GIP di Milano del 2011, è stata pronunciata esclusivamente nei confronti di imputati persone fisiche.

Gli è che la via della truffa viene rapidamente abbandonata, complice anche lo sbarramento innalzato dalla nota sentenza delle Sezioni Unite pe-nali del 2010 (7), cosicché, il Tribunale di Milano prima (con la sentenza del 2013) e la Corte d’Appello poi (con la pronuncia del 2014) riportano al

(7) Cass., SS.UU., 28 ottobre 2010 (dep. 19 gennaio 2011), n. 1235. In argomento, per tutti, lanzi, alDrovanDi, op. cit., 299.

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centro della questione il delitto di omessa dichiarazione. L’oggetto del processo, quindi, viene così ricondotto nell’alveo di una

“classica” questione di esterovestizione, controvertendosi -sostanzialmente- intorno al ruolo svolto in concreto dalla società lussemburghese divenuta titolare dei marchi ed al luogo di formazione degli impulsi decisionali desti-nati ad indirizzarne la gestione.

Il tema è noto e, in questa sede, basterà rammentare che il fenomeno dell’esterovestizione riguarda la prassi – di certo non estranea all’esperien-za giurisprudenziale – di far apparire come contribuenti esteri, in quanto soggetti formalmente residenti all’estero, società che, in realtà, devono essere comunque ritenute assoggettate al sistema fiscale domestico (8). La questione si pone in quanto la residenza delle persone giuridiche, ai fini fiscali, è governata dal co. 3 dell’art. 73 T.U.I.R., il quale dispone che: “ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo d’imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato”.

In sostanza, come è stato osservato in dottrina (9), il legislatore indivi-dua tre criteri alternativi di attribuzione della residenza fiscale ad una so-cietà, cui viene aggiunto un quarto criterio di natura temporale, in virtù del quale la sussistenza di uno dei tre requisiti dianzi citati deve protrarsi tem-poralmente per la maggior parte del periodo d’imposta.

3.1. La rilevanza del “place of effective management”: profili generali. – Come osserva la stessa Amministrazione finanziaria (10),

(8) Per tutti, tra i penalisti, corucci, Il delitto di omessa dichiarazione, in AA.VV., La nuova giustizia penale tributaria, GiarDa, PErini, varraso (a cura di), Padova, 2016, 318; Musco, arDito, op. cit., 232; lanzi, alDrovanDi, op. cit., 263 s. e 369 s.; basso, viGlionE, I nuovi reati tributari, Torino, 2017, 215; Putinati, sub Art. 5, in AA.VV., La riforma dei reati tributari, a cura di nocErino, Putinati, Torino, 2015, 109.

(9) In argomento, per tutti, Garbarino, La residenza nel diritto tributario, Padova, 1999, passim, part. 104 ss.; baGarotto, La residenza delle società nelle imposte dirette alla luce della presunzione di “estero vestizione”, in Riv. dir. trib., 2008, I, 1156 ss.; corasaniti, DE’caPitani, La nuova presunzione di residenza fiscale dei soggetti Ires, in Dir. prat. trib., 2007, I, 97; Marino, La residenza, in AA.VV., Diritto tributario internazionale, uckMar (a cura di), Padova, 2005, 345 ss.; valEntE, Manuale di governance fiscale, Milano, 2011, passim, part. 735 ss. Ulteriori riferimenti nelle note successive.

(10) Circ. n. 28/E del 4 agosto 2006, § 8.

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“la sede legale si identifica con la sede sociale indicata nell’atto costitutivo o nello statuto e dà evidenza ad un elemento giuridico formale. Diversamente, la localizzazione dell’oggetto principale o l’esistenza della sede dell’amministrazione devono essere valutati in base ad elementi di effettività sostanziale e richiedono – talora – complessi accertamenti di fatto del reale rapporto della società o dell’ente con un determinato territorio, che può non corrispondere con quanto rappresentato nell’atto costitutivo o nello statuto”.

Ed infatti, il problema che non di rado si pone nella prassi attiene al veri-ficarsi di uno scollamento tra il paese nel quale viene indicata la sede legale della società/contribuente oggetto di analisi ed il paese nel quale, invece, di fatto operano coloro che gestiscono tale contribuente o nel quale ne viene perseguito l’oggetto principale.

La questione, com’è intuibile, è densa di ricadute applicative, atteso che affermare la residenza domestica di un contribuente significa, evidentemen-te, ritenere che questi sia soggetto alla normativa tributaria italiana e quindi, in primis, alla presentazione in Italia delle dichiarazioni fiscali obbligatorie, redatte in ossequio alla disciplina che, nel nostro Paese, governa la mate-ria impositiva. Di qui le ovvie conseguenze sanzionatorie in tutte quelle situazioni in cui una residenza estera solo apparente sia stata accompagnata, in realtà, da una “effettiva” residenza italiana cui, tuttavia, non abbia fatto seguito l’assolvimento degli obblighi fiscali previsti dalla disciplina dome-stica. E, tra le conseguenze sanzionatorie, vi sono naturalmente anche le ricadute di ordine penale previste dall’art. 5 D.Lgs. n. 74/2000 (11).

La materia appare alquanto delicata per le sue evidenti ricadute sovrana-zionali: l’individuazione dello Stato titolare del potere impositivo comporta, infatti, quantomeno l’opportunità – se non la necessità – di concordare a livello sovranazionale i criteri di assoggettamento ad imposizione e, in par-ticolare, di individuazione del paese di residenza ai fini fiscali.

Quella in esame, peraltro, è una questione alquanto risalente, soprattutto nel mondo anglosassone, in virtù delle esperienze coloniali vissute dal Re-

(11) Per tutti, valEntE, caraccioli, Ancora su residenza ed esterovestizione: ulteriori considerazioni sulle sentenza della Comm. trib. prov. di Belluno, in Riv. dir. trib., 2008, III, 124 ss.; caraccioli, Applicazioni giurisprudenziali tributarie dell’“esterovestizione”: preliminari considerazioni penalistiche a futura memoria, in Riv. dir. trib., III, 2008, 104 ss. Nella giurisprudenza, cfr. Cass., sez. III, 24 gennaio 2012 (dep. 23 gennaio 2012), n. 7080, CED, 2012.

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gno Unito: basti ricordare, in questa sede, il noto caso De Beers in cui, nel 1906, venne affrontato il problema di individuare lo Stato di effettiva resi-denza di una società operativamente collocata in Sud Africa ma governata da nove amministratori su dieci residenti nel Regno Unito. La soluzione fu nel senso di collocare la residenza laddove si era riscontrato esservi la “pre-valentemente gestionale” della società, ossia nel luogo dal quale partivano gli impulsi decisionali determinanti per il governo della stessa.

Non è questa (12), ovviamente, la sede per ripercorrere la giurispruden-za, spesso neppure italiana, dalla quale è scaturita quella che, nondimeno, rappresenta ancora oggi la vera pietra angolare per decidere del luogo di residenza di una società/contribuente: l’individuazione di quello che la ter-minologia anglosassone qualifica come “place of effective management”.

Ed infatti, come si accennava, la questione è stata affrontata anche a livello sovranazionale e, in particolare, in sede OCSE, ove l’art. 4 del Mo-dello OCSE prevede che la sede effettiva dell’amministrazione costituisce il criterio risolutivo (c.d. “tie-break rule”, sempre in ossequio alla termino-logia anglosassone che caratterizza la materia) dei conflitti di attribuzione della residenza fiscale tra Stati contraenti (13).

Più in particolare, il § 24.1 (14) del Commentario all’art. 4 della Con-venzione OCSE attribuisce rilevanza ai seguenti elementi fattuali, ritenuti indicativi del luogo nel quale avviene l’effettivo governo della società: – il luogo ove si svolgono le riunioni del consiglio di amministrazione;– il luogo in cui il C.E.O. usualmente svolge le sue funzioni;– il luogo nel quale si svolge l’amministrazione giornaliera della società (day-

to-day management);– il luogo in cui si trova “l’headquarter” della persona giuridica;– la legislazione applicabile alla persona giuridica;– il luogo in cui è tenuta la contabilità.

(12) Ma si veda, sul punto, MoschEtti, Origine storica, significato e limiti di utilizzo del place of effective management, quale criterio risolutivo dei casi di doppia residenza delle persone giuridiche, in Dir. prat. trib., I, 2010, 245 ss. Si veda altresì Marino, op. cit., 363.

(13) In argomento, si veda Assonime, circ. n. 67 del 31 ottobre 2007, § 2.1. (14) Pubblicato il 18 luglio 2008 con il titolo “The 2008 update to the OECD Model Tax

Convention (2008 Model)”: in argomento, cfr. valEntE, Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni, Milano, 2008; iD., Modifiche agli artt. 1-5 del modello e al Commentario, in Fisco, 2008, 32, 5782 ss.

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Si tratta, naturalmente, di una serie esemplificativa e non esaustiva di criteri (15) ma, come nota ancora l’Amministrazione finanziaria, è in que-sto quadro generale che devono essere inscritti i criteri domestici, previsti dall’art. 73 T.U.I.R., per individuare il luogo di effettiva residenza di un contribuente, tenuto conto che “in sede internazionale, ed in particolare nel-le «osservazioni» contenute nel Commentario all’art. 4 del Modello Ocse, l’Amministrazione finanziaria italiana si è – da sempre – preoccupata di salvaguardare i principi di effettività, richiamati nell’ordinamento domesti-co, ritenendo che la sede della «direzione effettiva» di un ente debba defi-nirsi non soltanto come il luogo di svolgimento della sua prevalente attività direttiva e amministrativa, ma anche come il luogo ove è esercitata l’attività principale”.

Dunque, rilevanza del luogo di origine degli impulsi volitivi attraverso i quali si estrinseca il governo dell’ente, ma rilevanza altresì del luogo ove viene esercitata la sua attività principale (16).

3.2. L’art. 73, co. 3, T.U.I.R.: elementi rivelatori del luogo di “effettiva” residenza dell’ente. – Come si è avuto modo di osservare, l’art. 73, co. 3, T.U.I.R. recepisce, accanto al dato formale della sede legale, il doppio criterio sostanzialistico della sede di direzione effettiva dell’impresa e della localizzazione dell’oggetto principale dell’attività, mentre – in sede penale – sono destinate a non dispiegare alcuna efficacia precettiva quelle

(15) valEntE, Modifiche agli artt. 1-5 del modello e al Commentario, cit., 5785. (16) Tale precisazione assume particolare rilevanza laddove si tenga presente la

peculiare sensibilità che il nostro Paese ha dimostrato proprio con riferimento al ruolo svolto dalla localizzazione dell’oggetto principale dell’attività. Infatti, il § 3 dell’art. 4 del Modello OCSE adotta, come criterio decisivo, il luogo di effettiva direzione dell’impresa ed il § 24 del Commentario, all’art. 4, enfatizza che la determinazione del luogo di direzione effettiva è questione di fatto nella quale occorre far prevalere la sostanza sulla forma. Tuttavia, con riferimento a tale precisazione del Commentario, l’Italia ha dichiarato di non aderire all’interpretazione data nel citato § 24 al concetto di direzione effettiva ritenendo che debba “essere preso in considerazione anche il luogo in cui si svolge la principale attività dell’ente” (si veda l’osservazione posta dall’Italia nel § 25 del Commentario. In argomento, per tutti, Piazza, Guida alla fiscalità internazionale, Milano, 2004, 127 ss., part. 140.

Per due particolari casi nei quali, in sede penale, è stata data rilevanza proprio al luogo ove viene esercitata l’attività principale dell’ente, cfr. Cass., sez. III, 30 ottobre 2013 (dep. 17 gennaio 2014), n. 1811 e Cass., sez. III, 27 febbraio 2014 (dep. 18 aprile 2014), n. 17299, ambedue in Riv. dir. trib., 2014, IV, 33 ss., con nota di Garbarini, L’oggetto principale dell’attività quale elemento per determinare la residenza delle persone giuridiche, ivi, 47.

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presunzioni legali relative previste, ad esempio, dal co. 5-bis dell’art. 73 T.U.I.R., la cui valenza rimane confinata alla sfera amministrativa (17).

Vero ciò, quindi, per individuare la reale “cittadinanza tributaria” di un contribuente/persona giuridica occorre domandarsi – sulla scorta del già ci-tato § 24.1 del Commentario all’art. 4 della Convenzione OCSE – quali siano gli elementi sintomatici rilevanti per fare luce su quale sia il luogo di effettiva residenza di un ente.

A tale riguardo, è bene avvertire che, ovviamente, non vi è un elenco tipico di fatti che, quasi ad assurgere a rango di prove legali, assumano na-tura dirimente onde applicare la suddetta tie-break rule e, quindi, decidere del luogo di effettiva residenza. Piuttosto, si tratterà di valutare, di volta in volta, ogni singolo caso concreto, al fine di verificare se ed in quale misura la sussistenza o addirittura il concorso di più elementi sintomatici possano consentire di pervenire ad una soluzione del problema che, in ambito pe-nale, dovrà evidentemente confrontarsi con l’ordinario canone probatorio “dell’oltre ogni ragionevole dubbio”.

È in questa prospettiva, quindi, che devono essere collocate quelle mol-teplici verifiche empiriche che la prassi, anche cristallizzata da Circolari

(17) Come esattamente avverte, ad esempio, caraccioli, Applicazioni giurisprudenziali tributarie dell’“esterovestizione”: preliminari considerazioni penalistiche a futura memoria, in Riv. dir. trib., III, 2008, 104.

Sempre riguardo al principio di “prevalenza della sostanza sulla forma” e, quindi, sulla valorizzazione del luogo nel quale l’impresa viene effettivamente diretta ed in cui assume “il rischio commerciale”, vale la pena citare un passo estrapolato dalla Comunicazione della Commissione al Consiglio, al Parlamento europeo e al Comitato economico e sociale europeo del 10 dicembre 2007, recante “l’applicazione di misure antiabuso nel settore dell’imposizione diretta – all’interno dell’UE e nei confronti dei paesi terzi” (4 e 5): “l’individuazione di una costruzione di puro artificio corrisponde quindi di fatto a un’analisi basata sul criterio della prevalenza della sostanza sulla forma (“substance over form”). L’applicazione delle prove pertinenti nel contesto delle libertà garantite dal trattato CE e delle direttive in materia di imposta sulle società richiede una valutazione dei loro obiettivi e finalità rispetto a quelli che sottendono alle transazioni effettuate dai futuri beneficiari (contribuenti). Nel contesto dell’insediamento di una società emergono inevitabilmente difficoltà nel determinare il livello di presenza economica e di commercialità delle transazioni. Fattori oggettivi per determinare se vi è una sostanza economica adeguata sono, fra l’altro, criteri verificabili come la sede di direzione effettiva e la presenza tangibile della società nonché il rischio commerciale effettivo da essa assunto. Tuttavia, non è per nulla certo come tali criteri si possano applicare, ad esempio, ai servizi finanziari intragruppo e alle società di partecipazione, le cui attività non richiedono generalmente una presenza fisica significativa”.

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ministeriali, ha elaborato per individuare il luogo di direzione effettiva di un ente.

In questa ottica, si è già osservato come lo stesso § 24.1 del Commenta-rio all’art. 4 della Convenzione OCSE attribuisca particolare rilevanza, ad esempio, all’individuazione del luogo ove si svolgono le riunioni del consi-glio di amministrazione che governa l’ente.

Il tema è ripreso anche dalla dottrina (18), la quale fa riferimento al luogo di svolgimento regolare della “attività del consiglio di amministra-zione” e delle “assemblee dei soci”. A tale riguardo, deve essere tenuta in debito conto l’effettività delle riunioni consiliari svolte presso la sede legale dell’ente, onde evitare che tali consessi vengano ridotti a simulacri in cui trovano replica decisioni assunte altrove (19). In particolare, altri osservano in modo speculare che non “dovrebbe rilevare il luogo in cui vengono poste in essere le attività di supporto amministrativo, quali la tenuta della conta-bilità e le altre attività meramente operative” (20).

Quindi, la valorizzazione dell’effettività delle riunioni consiliari è fun-zione del tasso di reale indipendenza riconosciuta agli eventuali professioni-sti locali investiti della carica di amministratori dell’ente non residente (21).

(18) Ad esempio, per tutti, valEntE, Residenza ed esterovestizione. Profili probatori e schema multi-test, in Fisco, 2008, 22, 3977, nonché 3980.

(19) Di decisioni che, “molto spesso, al di là del luogo in cui vengono formalizzate, promanano dal socio italiano di riferimento” parla anche stEvanato, Holdings statiche e accertamento della residenza fiscale italiana dell’ente estero, in Corr.trib., 2008, 12, 969. Osserva baGarotto, op. cit., 1158, che “la sede dell’amministrazione, dunque, si trova tendenzialmente nel luogo in cui si tengono i consigli di amministrazione delle società (a condizione che, come detto, in tale ambito vengano effettivamente assunte le decisioni di direzione e controllo)”. E ancora, Garbarino, Manuale di tassazione internazionale, Milano, 2005, 122, parla di decisioni assunte nel territorio estero che sono “di regola, non già l’espressione della loro volontà e capacità gestionale (degli amministratori residenti all’estero, n.d.s.), bensì la trasposizione della volontà dell’azionista, ad essi comunicata nelle forme più varie”.

Si vedano, al riguardo, sotto il profilo commercialistico, le osservazioni in materia di “cogestione diseguale” di PavonE la rosa, Gruppi finanziari e disciplina generale dei gruppi di società, in Riv. società, 1998, 1568.

(20) Garbarino, Manuale di tassazione internazionale, cit., 251; baGarotto, op. cit., 1158.

(21) Osserva Garbarino, La residenza nel diritto tributario, cit., 120-121: “sempre considerando come attività d’impulso dell’amministrazione concreta quella svolta dagli amministratori (anziché quella svolta dai soggetti preposti allo svolgimento dell’attività quotidiana della società), un ulteriore indizio nella determinazione del luogo dove è svolta tale attività potrebbe emergere ponendo in rilievo non tanto la residenza degli amministratori (che si presume essere, quantomeno in maggioranza, già all’estero), quanto la figura professionale

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D’altro canto, come nota ancora Garbarino (22), “nell’espressione sede è implicita la continuità dell’attività volitiva. Non è sufficiente la localizza-zione spaziale di un solo atto occasionalmente ivi riferibile, anche se pro-veniente dalle persone che concretamente amministrano”. Ecco, quindi, che è destinato ad essere irrilevante il singolo atto amministrativo occasional-mente compiuto in un luogo quando gli impulsi volitivi necessari al governo dell’ente provengano con continuità da altro e diverso luogo, da identificarsi – proprio per questo – con la sede dell’effettiva attività amministrativa.

Le osservazioni svolte in merito all’effettività delle riunioni consiliari riportano al vero nocciolo della questione, ossia alla ricerca di elementi con-creti in grado di disvelare, come recita sempre il § 24.1 del Commentario all’art. 4 della Convenzione OCSE: - il luogo nel quale si svolge l’amministrazione giornaliera della società (day-

to-day management);- il luogo in cui si trova “l’headquarter” della persona giuridica.

Il tema è ripreso anche da quella dottrina che fa riferimento a situazioni nelle quali “la maggioranza dei membri del consiglio di amministrazione è costituita da persone fisiche residenti in loco”, specificando poi – condivisibilmente – che deve trattarsi di membri “effettivamente coinvolti nella gestione sociale” (23): si torna, così, sempre alla regola del “place of effective management”.

Proprio in tale prospettiva, quindi, possono trovare valorizzazione circo-stanze fattuali quali il luogo di assunzione del personale, ove si tratti di im-

di chi riveste la carica di amministratore.Si fa riferimento a quella prassi, diffusa in special modo nei paradisi fiscali, e in generale in

quei Paesi i cui sistemi tributari favoriscono le attività finanziarie e mobiliari, secondo la quale amministratore, anche unico, della società o ente è nominato un professionista locale (avvocato o commercialista), ovvero una di quelle società (cc.dd. trust companies) che si occupano della domiciliazione e della amministrazione di altre società ed enti; tali professionisti o società locali, inoltre, provvedono, per il tramite di propri impiegati a ciò preposti, al compimento di quella attività amministrativa di «secondo grado» necessaria per il quotidiano svolgimento della vita sociale.

La peculiarità di tale situazione è nel fatto che le menzionate persone (fisiche o giuridiche) figurano essere contemporaneamente amministratori di una miriade di società ed enti, con riferimento a ciascuna delle quali partecipano concretamente ed effettivamente alla formazione degli atti (rectius, risoluzioni dell’amministratore unico o deliberazioni del consiglio di amministrazione) richiesti per il regolare svolgimento della vita sociale”.

(22) Garbarino, La residenza nel diritto tributario, cit., 109. (23) Ancora valEntE, Residenza ed esterovestizione. Profili probatori e schema multi-

test, cit., 3977, nonché 3980. Dello stesso Autore, cfr. altresì Esterovestizione e residenza, Milano, 2008, 147 ss.

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prese non residenti dotate di una significativa operatività. O, ancora, appare meritevole di attenzione il luogo in cui vengono accesi conti bancari, po-tendo assumere una intuibile valenza indicativa la presenza di conti bancari accesi in filiali di banche diverse da quelle operanti nello Stato di residenza, magari collocate a grande distanza dalla sede legale dell’ente.

È alla luce di questi principi generali e di questo strumentario ermeneuti-co, pertanto, che occorre vagliare i singoli casi concreti onde verificare dove sia effettivamente radicata la “catena di comando” che governa l’attività di una persona giuridica avente sede legale all’estero, ben sapendo che, lad-dove gli impulsi volitivi che ne determinano la gestione siano provenienti dal territorio italiano, allora quella persona giuridica deve essere comunque assoggettata alla normativa fiscale italiana. In caso contrario, il mancato adempimento ai conseguenti obblighi fiscali e, in primis, a quello di di-chiarazione, sarà suscettibile di assumere rilevanza penale proprio ai sensi dell’art. 5 D.Lgs. n. 74/2000.

4. “Place of effective management” ed attività di direzione e coordinamento della capogruppo: il quid novi della vicenda “Dolce & Gabbana”. – In quest’ampia cornice generale si inserisce perfettamente la vicenda processuale in esame e, a ben vedere, tutte le diverse sentenze che ne hanno scandito il percorso convengono sulla solidità dei principi fin qui citati, sul ruolo cardine assolto dal comma 3 dell’art. 73 T.U.I.R. e sull’individuazione del “place of effective management” quale chiave di lettura per una corretta applicazione di tale regola. Basta leggere i §§ da 16.4 a 16.27 della pronuncia della Cassazione del 2014 per trovare piena adesione ad un approccio ricostruttivo ormai consolidatosi nella giurisprudenza e fatto proprio, infine, anche dalla Corte d’Appello di Milano nella sentenza in commento.

Tuttavia, la ricerca del luogo dal quale muove la catena di comando al fine di individuare il paese di residenza fiscale rappresenta un approccio metodologico particolarmente calzante ed efficace allorquando sospetta di esterovestizione sia una società capogruppo o, quantomeno, una sub-hol-ding fisiologicamente dedita a coagulare l’attività decisionale dei vertici di governo del gruppo e, quindi, ad orientare l’attività imprenditoriale dell’in-sieme di società, attraverso direttive, indicazioni, politiche di gestione stra-tegica di flussi finanziari, ecc.

Il modello, nondimeno, entra vistosamente in crisi quando ad essere col-locata all’estero sia una società controllata da altra società residente che,

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svolgendo la funzione di capogruppo, eserciti in modo del tutto fisiologico un’attività di direzione e coordinamento nei confronti delle altre società del gruppo, tra le quali – ovviamente – vi sono anche quelle collocate all’estero. Come distinguere, in siffatti casi, l’ordinaria attività di direzione e coordi-namento da quella penetrante ingerenza capace di far ritenere esterovestita una società controllata collocata all’estero?

Se per un verso, infatti, la patologica eterodirezione di una società deter-mina lo spostamento della sua residenza fiscale nel paese dal quale questa viene in concreto governata, sotto altro profilo non vi è dubbio che l’attività di direzione e coordinamento esercitata da una capogruppo rappresenti una modalità di esercizio dell’impresa del tutto ortodossa: non occorrono molte riflessioni, infatti, per comprendere come un conglomerato di imprese non possa certo operare efficacemente se le politiche di gestione di ciascuna unità non sono indirizzate ad obiettivi comuni ed il loro agire non risulta in qualche misura armonizzato.

Tutto ciò trova esplicito riconoscimento, a tacer d’altro, nel Capo IX del Titolo V, del Codice Civile, espressamente dedicato proprio alla “Di-rezione e coordinamento di società”, ma pone una delicata questione di individuazione del confine che separa una canonica gestione di gruppo, irrilevante sotto il profilo (penale) tributario, dalla concreta traslazione dell’attività di governo societario, suscettibile di innescare ricadute di na-tura penale.

Il tema è posto con molta lucidità dalla sentenza della Cassazione del 2014, allorquando rileva (tra l’altro) che “in caso di società con sede lega-le estera controllata ai sensi dell’art. 2359, co. 1, c.c., non può costituire criterio esclusivo di accertamento della sede della direzione effettiva l’indi-viduazione del luogo dal quale partono gli impulsi gestionali o le direttive amministrative ove esso si identifichi con la sede (legale o amministrativa) della società controllante italiana”. Aggiungendo altresì che “in tal caso è necessario accertare anche che la società controllata estera non sia una costruzione di puro artificio, ma corrisponda ad un’entità reale che svolge effettivamente la propria attività in conformità al proprio atto costitutivo o allo statuto” (§ 16.86).

È interessante notare, sul punto, come la Cassazione faccia ricorso ai pa-rametri normativi previsti per tracciare i confini della stabile organizzazione (art. 162 T.U.I.R.) per affermare, in buona sintesi, che laddove tali parametri siano rispettati non potrà sussistere una “costruzione di puro artificio” e, quindi, un fenomeno di esterovestizione. È questa una lettura della Cassa-

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zione che, motivata sul piano della sistematica, ha comunque dato luogo a qualche perplessità nei primi commenti a tale pronuncia (24). Ma, senza vo-ler approfondire una questione che solo in parte trova eco nella decisione in commento, pur essendone l’antecedente logico, vale la pena sottolineare – in ogni caso – il non banale salto di qualità che compie la Cassazione, passando da “società eterodiretta” a “costruzione di puro artificio”, per individuare il tasso di consistenza di una struttura societaria suscettibile di innescare un fenomeno di evasione rilevante penalmente.

Ciò, si badi bene, sempre a patto che oggetto di analisi sia una società (non posta al vertice ma) collocata alla periferia del gruppo o, quantomeno, soggetta al controllo di altra società residente, dimodoché possa pienamente esplicarsi quell’attività di direzione e coordinamento che diviene l’unità di misura con cui valutare il grado di penetrazione nella gestione della control-lata.

5. Place of effective management e direzione unitaria della capogruppo: alla ricerca di una linea interpretativa capace di superare una pericolosa equazione. – Giungiamo così allo snodo probabilmente più rilevante della sentenza che si annota, punto di arrivo del tortuoso percorso processuale tratteggiato e fedele interprete dei principi di diritto tracciati dalla Cassazione, qui applicati al caso concreto.

Per comprenderne appieno la portata, tuttavia, occorre fare un piccolo passo indietro e ritornare alla precedente decisione della Corte d’Appello di Milano, resa nel 2014 e poi annullata dalla Cassazione. In tale pronuncia, infatti, si censurava che “il luogo ove veniva esercitata l’attività principale per la realizzazione degli scopi primari di GADO andava sempre indivi-duato in Italia” (pp. 26 ss. della motivazione). Deponevano verso questa conclusione, ad esempio, il fatto che la sede legale della GADO fosse stata collocata presso “una società che forniva servizi per l’amministrazione di società e di fondi”; che per circa un anno la società lussemburghese non avesse avuto dipendenti; che questa facesse ricorso ad attività di consulen-za, avente ad oggetto i marchi, resa da consulenti di Milano, ecc. Di qui la conclusione cui giunse la Corte d’Appello nel 2014: in territorio lussembur-ghese “le pratiche smaltite erano sostanzialmente di tipo amministrativo e

(24) Si vedano le riflessioni di DoriGo, voce Reati tributari, in Digesto discipline privatistiche, vol. Aggiornamento VIII, Torino, 2017, 394.

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non comportavano scelte d’indirizzo, aspetto che era gestito costantemente dall’Italia” (p. 28).

Come si è detto, la Cassazione ha annullato, nel 2014, tale sentenza, valorizzando l’attività di direzione e coordinamento tipicamente esercitata dalla capogruppo e ha investito un’altra Sezione della Corte d’Appello di Milano del compito di valutare, nel caso concreto, se le sovrapposizioni tra scelte decisionali del gruppo ed attività di governo della GADO s.a.r.l. siano state tali da aver svuotato di contenuto la società estera al punto da renderla un mero simulacro o, per usare le parole della Cassazione, una “costruzione di puro artificio”.

Nel negare la natura artificiosa della GADO s.a.r.l., la sentenza in esame offre all’interprete un prezioso inventario di elementi che in apparenza po-trebbero essere ritenuti sintomatici di eterodirezione, ma che la Corte ritiene del tutto fallaci, valorizzando invece le ragioni extra-fiscali che avrebbero ispirato l’intera riorganizzazione del gruppo, nell’ambito del quale la con-trollata lussemburghese sarebbe stata solo parte di un più ampio disegno sorretto da robuste ragioni imprenditoriali.

Osserva la Corte, ad esempio, come “di nessuna utilità poteva essere il fatto che il personale dipendente da GADO s.a.r.1. continuasse ad ave-re rapporti con dirigenti o consulenti storici del gruppo nel quale la con-trollata estera era inserita: infatti erano risultate chiare la erroneità e la contraddittorietà della motivazione che non aveva tenuto conto che le mail in primo luogo riguardavano soprattutto l’anno 2004, non riguardavano affatto l’attività del legale rappresentante DOLCE Alfonso del quale non si affermava la etero direzione quale amministratore interposto, ed erano invece giustificate alla luce del complesso intreccio organizzativo e funzio-nale che intercorre tra una controllata e la sua controllante capogruppo, che fisiologicamente si risolve in un rapporto fra uffici e personale dell’una e dell’altra”.

Quanto al reale obiettivo perseguito dall’operazione, la Corte riprende le osservazioni già svolte dal Gip di Milano nel 2011, rilevando che “le ragioni extra fiscali della riorganizzazione del gruppo Dolce & Gabbana, nell’ambito della quale va inserita la vicenda di GADO s.a.r.l. erano state convenientemente apprezzate dal Giudice per le Indagini Preliminari di Milano nella sentenza primo aprile 2011, citata: la struttura societaria ... presentava tuttavia una significativa peculiarità, che si traduceva sostan-zialmente in un elemento di debolezza costituito dal fatto che la proprietà dei marchi era esterna al gruppo e faceva capo ai due stilisti personal-

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mente, i quali come persone fisiche possedevano i marchi in comunione tra loro al 50%”.

Dunque, la proprietà personale dei marchi come elemento di diffidenza, da parte del sistema bancario, e di potenziale destabilizzazione del grup-po, in considerazione degli effetti che eventuali dissidi tra i due proprietari avrebbero potuto cagionare, in primis la paralisi della gestione dei marchi stessi.

Tutto ciò, evidentemente, non poteva che azzoppare le prospettive di internazionalizzazione del gruppo e, quindi, le chances di ampliarne la po-sizione sui mercati esteri. In una tale cornice, ben si colloca, pertanto, anche la scelta del Lussemburgo quale “mercato finanziario appetibile”, nonché indubbiamente vantaggioso sotto il profilo fiscale.

Né si poteva trascurare l’importanza di ricondurre la proprietà dei mar-chi all’interno del gruppo stesso, in luogo che alle persone fisiche dei due stilisti, circostanza che avrebbe mantenuto in seno al gruppo le royalties pagate per lo sfruttamento dei marchi e sarebbe stata in grado di incidere significativamente su un futuribile progetto di quotazione.

Vero ciò, solo “l’ineffettività della gestione estera”, in aderenza all’in-segnamento della pronuncia di annullamento della Cassazione, avrebbe po-tuto scardinare un tale disegno imprenditoriale, degradandolo ad esterove-stizione della controllata lussemburghese. Ed è in tale contesto che la Corte rovescia uno degli argomenti apparentemente più solidi spesi dall’accusa: l’assenza di mutamenti nelle modalità di gestione dei marchi anche a seguito della cessione degli stessi.

Osserva infatti la Corte: “è bene ricordare, in primo luogo, che nella prima fase della attività di GADO s.a.r.l. distaccata presso la medesima era proprio la BERGOMI che aveva svolto la medesima attività quando pro-prietari dei marchi erano le persone fisiche di DOLCE Domenico e GAB-BANA Stefano.

Il dato non può non risultare assolutamente significativo per la risolu-zione della questione di fatto che ne occupa.

Dunque la stessa persona che si occupava per DOLCE (Domenico) e per GABBANA della tutela dei marchi svolgeva gli stessi compiti per GADO s.a.r.l.”.

Ciò induce la Corte a concludere che “valendosi di una persona che si era già occupata della tutela dei marchi prima della costituzione, e poi di persona assunta in loco, GADO s.a.r.l. ha dunque convenientemente eserci-tato la attività statutaria”.

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6. Rilievi conclusivi: dalla giurisprudenza una regola di condotta per la gestione dei gruppi multinazionali. – Cercando, in sintesi davvero estrema, di tirare le fila di una vicenda così complessa, crediamo che la pronuncia in esame, in uno con la dotta sentenza resa in precedenza dalla Cassazione, consegni ai gruppi multinazionali che ancora mantengono in Italia il proprio “headquarter” un’importante – ed assai ragionevole, ci permettiamo di aggiungere- regola di condotta: se le società collocate all’estero non saranno “costruzioni di puro artificio” ma saranno reali terminali imprenditoriali di una complessiva attività orchestrata dalla capogruppo, allora il giudice penale non avrà ragione di censurare quella che altro non è se non una fisiologica modalità di esercizio dell’impresa.

Ciò consente, ad esempio e volendo rimanere nel campo della moda, di decidere a Milano quali modelli di giacche vendere nel negozio di Dubai ge-stito da una società ivi residente, di valutare da Milano i prezzi da applicare, le modalità di riassortimento del magazzino e financo, riterremmo, le regole di esposizione dei capi in vetrina e di arredamento del punto vendita. Questo non significa privare la società estera della propria autonomia di governo, ma semplicemente gestire in modo coordinato un insieme di società che non possono procedere “in ordine sparso”, vendendo beni non omogenei ai mar-chi che utilizzano o a prezzi non coerenti o, ancora, presentati alla platea dei consumatori in modo estemporaneo o stravagante.

Tutto questo non dà luogo, ad avviso della giurisprudenza più recen-te, alla costituzione di un contribuente italiano solo fittiziamente collocato all’estero ma, piuttosto, ad una canonica modalità di gestione di un gruppo.

Certo, laddove il soggetto estero non avesse la consistenza adeguata per svolgere una tale attività – pur coordinata – ma fosse unicamente un simula-cro, l’anta di un armadio in una struttura di domiciliazione di società volta a captare benefici fiscali, allora davvero non si sarebbe al cospetto di una strut-tura imprenditoriale ma di un mero artificio (25), questo sì suscettibile di dar luogo al delitto di omessa dichiarazione di redditi che non avrebbero nessuna ragione – economica prima che normativa– di essere collocati all’estero.

Nell’apprezzare una tale, netta, presa di posizione della giurisprudenza, restano sullo sfondo una considerazione ed un auspicio.

(25) E si vedano, sulla “costruzione artificiosa”, le riflessioni di tiEGhi, nanEtti, Dalla “residenza fiscale” alla “libertà di stabilimento”: spunti in tema di “delocalizzazione societaria” ed “estero-vestizione”, in Riv. dir. trib., 2015, V, 103 s.

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La considerazione vede identificare sempre più chiaramente l’esterove-stizione con una forma di vera e propria evasione fiscale (26), che nulla ha a che vedere con l’elusione. È questa una constatazione forse non scontata laddove si consideri come, nelle varie pronunce che hanno segnato la vicen-da in esame, si sia spesso trattato dell’elusione fiscale e financo, espressa-mente, dell’art. 37-bis, D.P.R. 600/1973.

Piuttosto, l’esterovestizione, comportando la violazione del comma 3 dell’art. 73, T.U.I.R., assume a pieno titolo i connotati dell’evasione fiscale, fuori dalla sfera applicativa dell’attuale disciplina dell’abuso del diritto che, tra l’altro, prevede la possibilità di contestare la sussistenza di tale fattispe-cie solo “se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie” (art. 10-bis, co. 12, L. 27 luglio 2000, n. 212) (27).

Quanto all’auspicio, questo non può che essere quello di vedere conso-lidarsi l’orientamento espresso dalla sentenza in commento, capace – per così dire – di discernere il grano dalla crusca con modalità obiettivamente riconoscibili dall’interprete e tali da colpire solamente i casi connotati da effettivo disvalore, in coerenza anche con il pregnante elemento soggettivo previsto dalla fattispecie penale tributaria.

È poi evidente che l’applicazione dell’art. 5. D.Lgs. n. 74/2000 a casi di sostanziale inesistenza del soggetto estero schiude le porte a delicate que-stioni di potenziale inesistenza soggettiva delle operazioni che vedono in tale soggetto una delle controparti di scambi commerciali. Ed allora, non è difficile immaginare, in siffatti contesti, profili di sovrapposizione tra l’area

(26) Analoga conclusione in DoriGo, op. cit., 395. E si vedano altresì i rilievi di Falsitta, Note critiche intorno al concetto di abuso del diritto nella recentissima codificazione, in Riv. dir. trib., I, 2016, 727 e s.; contrino, La trama dei rapporti tra abuso del diritto, evasione fiscale e lecito risparmio d’imposta, in Dir. prat. trib., 2016, 1415 ss.

(27) Sulle ricadute penalistiche della nuova disciplina dell’abuso del diritto, cfr. FonDaroli, Osservazioni in merito alla rilevanza penale dell’elusione fiscale, in Arch. pen., 2017, 131; Gallo, L’abuso del diritto in materia tributaria tra sanzione amministrativa e repressione penale, in Giur. comm., 2017, I, 177; inGrassia, La rilevanza penale dell’elusione: nuovi capitoli di una “saga (forse non) infinita”, in Le società, 2016, 491. Si vedano, nella giurisprudenza post riforma del 2015, Cass., 1 ottobre 2017 (dep. 7 ottobre 2015), n. 40272, in Cass. pen., 2016, 927, sulla quale urbani, Elusione fiscale alla luce del nuovo art. 10-bis: qualche margine residuo di rilevanza penale?, in Cass. pen., 2016, 941; Cass., sez. III, 20 novembre 2015 (dep. 5 ottobre 2016), n. 41755, in Dir. prat. trib., 2017, II, 1123, con nota di Di GiacoMo, L’eterno ritorno dell’uguale: la Suprema Corte torna a confondere abuso del diritto e simulazione, ivi, 1127.

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applicativa del delitto di omessa dichiarazione e le fattispecie di cui agli artt. 2 ed 8 del medesimo Decreto.

Ma questa, come si suol dire, è un’altra storia.

anDrEa PErini