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Il trapianto da una civiltà ad un'altra è la prova più terribile che possa affrontare l'uomo Giuseppe Prezzolini La transplantation d'une civilisation à une autre est l'épreuve la plus terrible que puisse rencontrer l' être humain

Il trapianto da una civiltà ad un'altra La ... - Esteri

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Il trapianto da una civiltà ad un'altraè la prova più terribile che possa

affrontare l'uomoGiuseppe Prezzolini

La transplantation d'une civilisationà une autre est l'épreuve la plus

terrible que puisse rencontrerl' être humain

Foto in copertina:Anni ’60, i bambini del collegio vanno a scuola

ImpaginazioneMaria Bucci

ilmiolibro.it - Gruppo Editoriale L’Espresso

Barbara BertoliniE qui, almeno, posso parlare?Storia dell'emigrazione italiana a GinevraI figli degli emigrati ospitidel “Regina Margherita” al Grand-Saconnex

~Et ici, au moins, je peux parler?Histoire de l'émigration italienne à GenèveLes enfants des émigrés du “Regina Margherita”au Grand-Saconnex

© Copyright, luglio 2011

Tutti i diritti riservati ai sensi di legge.Sono vietate la riproduzione, totale o parziale,e la diffusione, in qualsiasi forma e con qualsiasi mezzo,di questo volume senza il consenso scritto degli aventi diritto.

Barbara Bertolini

E qui, almeno, posso parlare?Storia dell’emigrazione italiana a Ginevra

I figli degli emigrati ospiti

del “Regina Margherita” al Grand-Saconnex

~Et ici, au moins, je peux parler?

Histoire de l’émigration italienne à Genève

Les enfants des émigrés

du “Regina Margherita” au Grand-Saconnex

Italiano - Français

ilmiolibro.it - Gruppo Editoriale L'Espresso

E qui, almeno, posso parlare?

Introduzione

C’era una volta una piccola enclave italiana tra l’aeroporto diGinevra e il comune del Grand-Saconnex brulicante di bambini che inquell’universo avevano ricostituito l’Unità d’Italia: dalla Sicilia allaVenezia Giulia, dalla Puglia al Piemonte, ogni bambino rappresentavadegnamente la propria regione.

Chi aveva confinato quei bambini italiani proprio lì, in Svizzera, eperché?

È di questa storia, fuori dall’ordinario, che voglio raccontare.Una storia che si intreccia con quella della Congregazione delle

Suore missionarie francescane di Susa che proprio nel 2005 hannofesteggiato i 100 anni del loro arrivo in una Ginevra profondamentecalvinista, contraria ad accettare qualsiasi altra religione sul proprioterritorio.

Per mettere a fuoco i vari aspetti di questa storia, cominciando daquella degli italiani a Ginevra, ho intrapreso una vera e propria ricercacercando di interrogare gli ex bambini, e chi li aveva in carica. Ho ten-tato di indagare su un periodo dell’emigrazione italiana che va daglianni ’50 fino alla fine degli anni ’70. Ma soprattutto ho provato a par-lare dell’istituzione dell'Orphelinat “Regina Margherita” del Grand-Saconnex, dove hanno transitato tantissimi ragazzi italiani.

Com’è nata questa ricerca?Nel 2004 l’Istituto “Regina Margherita”, dopo anni di infaticabile

attività verso il ceto più debole, ha chiuso i battenti per mancanza dimateria prima. Il glorioso “Orphelinat”, che aveva visto passare nellasua struttura centinaia di bambini dai 3 al 14 anni, sarebbe stato abbat-tuto e al suo posto sarebbe sorto un EMS, ovvero una casa per anzianidi cui la società ginevrina ha gran bisogno.

Due ex del collegio, Marianna Lalicata e Jean-Marc Vuillet,hanno lanciato un appello sulla stampa locale invitando, per l’ulti-mo saluto, coloro che avevano sostato in quella struttura durante laloro infanzia e adolescenza. I nostri hanno fatto le cose in grande,poiché sono riusciti a coinvolgere anche il Comune del Grand-

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Saconnex, il Consolato italiano e, beninteso, le suore e la Missionecattolica italiana.

Nel 2004 ci siamo ritrovati nel vecchio Istituto, noi, gli ex delGrand-Saconnex, a 40-50 anni di distanza.

Intanto, in Italia, dove ormai vivo felicemente da più di trent’anni,si dibatteva il problema scuola-immigrati. Avevo letto sul “Corrieredella Sera” un interessante articolo di Gian Antonio Stella che parlavadel problema dei figli degli emigrati italiani in Svizzera cui era statonegato il diritto di rimanere con i propri genitori. Ed è lì che è scocca-ta la scintilla: anch’io avevo vissuto la stessa esperienza e potevo rac-contarla in prima persona. Anzi, a rifletterci meglio, potevo coinvolge-re gli ex del “Regina Margherita”, perché la nostra vicenda non è statamai raccontata da nessuno: “on a fait que passer, nous n’avons pas faitl’histoire!”.

Noi eravamo i figli del silenzio, quelli che non potevano parlare,quelli a cui si diceva: «Zitti, non vi fate notare!». Il titolo del libro:

E qui, almeno, posso parlare? è una frase pronunciata da mio fra-tello, fuori dalla porta dell'alloggio ginevrino, dopo che i miei genitorigli avevano insistentemente ripetuto di stare zitto, perché il padronedella stanza non scoprisse la sua presenza.

E qui, almeno, posso parlare? è anche l'occasione per poter rac-contare la nostra storia, la storia di figli di emigrati italiani.

Durante l’incontro del 2004, infatti, avevo già cercato di raccoglie-re le testimonianze di chi mi era accanto. Avevo avuto così la possibi-lità di realizzare un giornaletto dal titolo “Le voci del silenzio”, convari articoli, alcuni dei quali furono ripresi dalla rivista del Centenariodelle Suore francescane di Ginevra.

Quella non fu una ricerca vera e propria. Questa volta, invece, ho man-dato un questionario agli indirizzi che mi sono stati forniti da MariannaLalicata, che aveva avuto la presenza di spirito di raccoglierli durante l’ul-timo incontro. Poche sono state le risposte, quelle giunte, però, sono abba-stanza significative e concordanti su alcuni punti, permettendomi di met-tere a fuoco quel periodo dell’emigrazione italiana a Ginevra a cavallodegli anni ’50-’70. Dei collegiali, solo Donato Di Donato, che ha vissutoquattro anni al Grand-Saconnex, ha scritto la sua storia completa.

La narrazione si pone, a mio avviso, tra cronaca e storia, dal momen-

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to che non sono riportate solo testimonianze dirette, ma anche la storiasintetizzata dell’emigrazione italiana a Ginevra dal Medioevo sino aigiorni nostri e, quelle, delle Suore francescane di Susa e del Collegio“Regina Margherita” del Grand- Saconnex. L’indagine, altresì, docu-menta l’impatto dei figli di emigrati italiani con la scuola elementareAffinché tutte le persone interessate possano leggerlo, ho deciso, di scri-vere il testo nelle due lingue utilizzate dagli ex convittori: italiano efrancese.

Credo di poter offrire, quindi, un’opera di consultazione chiara e difacile lettura, accessibile a tutti, ma anche un lavoro documentato perchi fa ricerca sull’emigrazione.

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Si sono ritrovati quarant’anni dopo i figlidi emigrati per riconciliarsi con il proprio passato

Articolo pubblicato nel 2004 dopo l’incontro organizzato dagli ex con-vittori del Grand-Saconnex per la demolizione definitiva della struttura.

Si sono ritrovati dopo più di quarant’anni i figli degli emigrati ita-liani che erano stati ospiti dell’Istituto “Regina Margherita” del Grand-Saconnex di Ginevra, gestito dalle Suore francescane di Susa.

Sono venuti numerosi sul luogo della loro sofferta infanzia, allaricerca del passato, ma anche per dimostrare che ce l’hanno fatta, chemalgrado i mille ostacoli posti sul loro cammino hanno saputo costruir-si un dignitoso avvenire.

A confinarli in un collegio erano state le rigide leggi svizzere chenon consentivano agli emigrati di tenere i figli con sé, perché era impe-dito loro di affittare un appartamento. Essi potevano vivere solo incamerette ammobiliate dove era impossibile tenere la prole.

Per poter locare un appartamento bisognava essere, infatti, in pos-sesso del permesso di soggiorno “B”, rilasciato solo al lavoratore stra-niero che viveva in Svizzera da almeno 5 anni.

Grazie agli sforzi della Missione cattolica italiana di Ginevra che riu-scì ad istituire prima un orfanotrofio, trasformato quindi in collegio neglianni ’50, i figli degli emigrati italiani poterono ricongiungersi con i lorogenitori, dimorando in questo istituto e raggiungendoli solo la domenica.Senza il collegio del Grand- Saconnex, la maggior parte di loro sarebbedovuta restare in Italia a carico dei nonni o di altri familiari.

L’emigrazione a Ginevra ha interessato tutte le regioni italiane daNord a Sud e, molto spesso, i bambini al loro arrivo parlavano unica-mente il loro dialetto. L’Istituto, infatti, era una piccola Torre di Babele,una specie di Italia in miniatura dove vicentini, toscani, emiliani, mar-chigiani, pugliesi, padovani, napoletani o siciliani si amalgamavanoignari dei luoghi di provenienza dei loro nuovi compagni, perché trop-po piccoli per conoscere i confini geografici del Bel Paese. L’italiano(solo orale) finivano per impararlo lì.

Ma poiché frequentavano anche le scuole pubbliche del luogo,

dovevano contemporaneamente imparare anche il francese: un caoslinguistico per loro!

Il sostegno delle Missioni cattoliche nel mondo è stato spesso l’uni-co appoggio che l’emigrato ha trovato nel nuovo paese. Infatti, le isti-tuzioni italiane sono state quasi sempre latitanti, soprattutto inSvizzera: difficilmente i consolati sono stati all’altezza del loro compi-to. Il personale, spesso arrogante con l’emigrato, non attuava nessunapolitica di aiuto nei suoi confronti. Per i lavoratori italiani il consolatoera solo un luogo dove la burocrazia interponeva ostacoli alle varie pro-cedure. Da quello che ha scritto di recente Beppe Severgnini sul“Corriere della Sera”, le cose non sembrano migliorate neanche oggi.

Le suore dell’Istituto “Regina Margherita” del Grand-Saconnex diGinevra, invece, sono state veramente grandi. Erano in sette ad occu-parsi di 120 bambini di tutte le età di cui una in cucina e una in lavan-deria. Tolta la Madre superiora, ne restavano solo quattro che riusciva-no a far funzionare a meraviglia tutta la struttura. Ogni ragazzino eraimpegnato nell’aiutare le suore, secondo le proprie possibilità, inqua-drato in una rigida disciplina che non applicava punizioni corporali.

Se si pensa che nel lontano 1905, quando arrivarono a Ginevra perla prima volta, chiamate da don Adolfo Dosio che aveva bisogno delloro aiuto per assistere gli ammalati e i poveri di Carouge (dove vive-va la maggior parte degli emigrati a Ginevra), le suore italiane dovet-tero svestirsi dell’abito religioso e passare per dame caritatevoli, per-ché in quella città, cuore del Calvinismo, le altre religioni non eranoben tollerate (l’ecumenismo era, infatti, ancora lontano da venire).

Da allora, indossando o no l’abito religioso, le Suore francescane diSusa hanno lavorato per il bene della comunità ginevrina senza chiede-re nulla in cambio. E gli ex emigrati devono loro davvero tanto. Senzale suore la permanenza in terra straniera sarebbe stata molto più dura.

Barbara Bertolini

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2004. Gli ex collegiali

-I-

Storia dell’emigrazione italiana a Ginevra

MedioevoLa storia dell’emigrazione italiana in Svizzera affonda le radici

nel Medioevo, quando l’Italia e la Svizzera non sono ancora nazio-ni. Ad arrivare a Ginevra sono soprattutto mercanti di moneta lom-bardi e banchieri fiorentini1. Tra il XII e il XIII secolo, infatti, lacittà di Ginevra, per la sua posizione strategica nel congiungimentodi strade nei quattro punti cardinali, vive un grande momento di svi-luppo commerciale divenendo un centro di fiere e mercati e rappre-sentando un richiamo per i mercanti dell’Italia settentrionale e cen-trale. Insieme ai commercianti che portano merce di produzione ita-liana o importate dall’Oriente, arrivano anche i mercanti di moneta(manieurs d’argent)2.

Da piccoli cambisti e usurai essi diventano ben presto veri e propribanchieri che cambiano denaro e lo prestano contro interesse. Il primodocumento ufficiale attestante l’attività bancaria dei “lombardi” (cosìvenivano chiamati all’epoca tutti gli abitanti del Nord d’Italia) è del1267-68 e riguarda un tributo versato al conte di Savoia.

Sono, perciò, gli abitanti della penisola a creare a Ginevra le primebanche. Dice, infatti, il banchiere ginevrino Louis H. Mottet, membrodella direzione generale della Société de Banque Suisse, che «l’artvéritable de la banque nous est venu à cette époque du Midi ou plusexactement des villes italiennes, Venise, Gênes, Florence, Sienne,Lucques, Pise, Pistoia notamment, dont les citoyens avaient su tirerprofit du développement des relations humaines et commerciales quimarquent les XIIe et XIIIe siècles»3.

Un fiorente mercato che si blocca solo quando il duca di Savoia,Amedeo IX, che mira a conquistare la città sul Lemano, convince LuigiXI di Francia, suo cognato, a boicottare le fiere ginevrine proibendo aisuoi sudditi di frequentarle e indirizzandoli verso quelle di Lione4.

Tra il 1460 e il 1470 la maggior parte dei banchieri italiani lasciaGinevra per stabilirsi nella città francese.

È sorprendente per gli emigrati di oggi scoprire che nel regno delle

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banche sono stati proprio gli italiani a realizzare il primo embrione diquesti istituti a Ginevra, tanto più se si considera il ruolo fondamenta-le che tali istituti hanno svolto nei secoli successivi divenendo forzieridei ricchi abitanti dei paesi europei e permettendo, tra l’altro, allaConfederazione Elvetica di rimanere neutrale nella Seconda guerramondiale, malgrado le mire espansionistiche di Hitler.

Un’altra curiosità della storia svizzera-italiana è la città di Carouge.Tra le tradizioni più sentite dagli scolari del Cantone di Ginevra vi è ilfesteggiamento dell’“Escalade”5, che rimanda a un grande atto dicoraggio compiuto dai ginevrini. Costoro, infatti, nella notte tra l’11 eil 12 dicembre 1602, riescono a resistere a Carlo Emanuele I di Savoiacon una forma di difesa davvero singolare. Nell’ultimo tentativo di sal-vare la città, essi rovesciano marmitte piene di minestra bollente sugliassalitori che cercano di scalare le mura di cinta. Nel trattato che segue(Saint-Julien) si stabiliscono i confini – tra Ginevra e l’allora Ducato diSavoia, divenuto poi Regno di Sardegna –, alla congiunzione dei duefiumi Arve e Rodano.

Carouge, piccolissimo e povero borgo savoiardo a due passi dallacittà di Calvino, ha tutte le caratteristiche per diventare la città rivale diGinevra. Così pensa Casa Savoia, che la fa ampliare, chiamando variarchitetti italiani, i quali provvedono a delinearne l’urbanistica e a rea-lizzare numerosi edifici, esistenti ancora oggi nella Carouge antica,suddividendo i fabbricati in isolati regolari, gravitanti intorno alla rueAncienne e alla Place du Marché.

Grazie all’intraprendenza del duca Vittorio Amedeo III di Savoia, apartire dal 1773, Carouge diventa un centro importante di fiere e mer-cati e nel 1786 viene elevata a capoluogo di provincia del Regno diSardegna. Nella città, in quel periodo, vi sono 3.188 abitanti di cui 839piemontesi e 31 provenienti da altre regioni italiane.

Bisogna aspettare, però, il 1816, prima che la storia di Carouge sisaldi definitivamente con quella del Cantone di Ginevra appenacostituito, grazie ai trattati di Parigi6 e Torino7, condotti abilmentecon il Regno di Sardegna dal diplomatico e uomo politico ginevrinoCharles Pictet de Rochemont.

Riforma protestanteUn altro grande flusso di forestieri inglesi, francesi, ma anche italia-

ni arriva a Ginevra fra il 1550 e il 1576. In quegli anni la città sul

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Lemano diventa, grazie a Guillaume Farel e Jean Calvin, uno dei cen-tri principali della Riforma e molti perseguitati religiosi, abbandonan-do i paesi di origine, vi chiedono asilo politico. Tra questi, in partico-lare, famiglie provenienti da Lucca, che svolgeranno un ruolo fonda-mentale nell’industrializzazione di Ginevra. I forestieri sono ben accol-ti, perché la disciplina severa imposta da Calvino sia a livello religiosoche civile e il timore di persecuzioni spingono molti ginevrini, rimastifedeli al cattolicesimo, ad abbandonare la città.

Determinante per lo sviluppo economico della città sul Lemano, comegià detto, è l’apporto dei lucchesi dato alla produzione di tessuti pregia-ti: a costoro e in primo luogo a Francesco Turrettini (1547-1628) va ilmerito di aver introdotto a Ginevra l’industria della seta8.

Turrettini, mecenate e filantropo, crea la “Grande Boutique”, unaspecie di consorzio che «Prêtant aux aisés, secourant les pauvres, géné-reux et entreprenants, [ces exilés] vivent un capitalisme qui n’a qu’une

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Veduta di Ginevra nell’Ottocento

lointaine parenté avec celui que devaient pratiquer plus tard les calvi-nistes puritains»9.

Il Consorzio raggiunge nel 1608 un tale sviluppo che occupa 8.000dei 15.000 abitanti di Ginevra. Turrettini accumula un’immensa fortu-na e diviene il banchiere del governo cittadino con il compito di riscuo-tere tasse ed imposte. La Famiglia Turrettini10 lascerà un’improntamolto liberale nella Ginevra industriale finanziaria e politica11.

Metà OttocentoPer ritornare all’emigrazione italiana verso la Confederazione

Elvetica, essa si sviluppa essenzialmente nella seconda metàdell’Ottocento e costituisce una delle mete preferite, dopo gli StatiUniti e l’Australia. Si calcola che la Svizzera accoglie in 150 anni(1850-2000) oltre quattro milioni di italiani12, di cui una gran parterimpatria dopo 5-10 anni di lavoro.

Sono fondamentalmente quattro le tappe di tale flusso migratorio: laprima che va dalla metà dell’Ottocento fino alla Prima guerra mondia-le ed è caratterizzata da una libertà assoluta di movimento da parte dellavoratore straniero. Questo è infatti il periodo dell’industrializzazionedel paese, con grandi cantieri per costruire la rete viaria e ferroviaria, el’emigrato è indispensabile per i lavori pesanti.

La Svizzera, invece, nel secondo periodo, quello fra le due guerre(1915-1943), attraversa una grave crisi: i disoccupati elvetici nel 1936superano gli occupati stranieri, in gran parte italiani. Questa situazionecostringe il Consiglio federale ad emanare la prima ordinanza sul con-trollo del numero degli stranieri.

Il terzo periodo è quello del dopoguerra fino agli anni ’70.L’aumento della manodopera straniera è molto forte dalla fine deglianni ’50, tanto che in breve si passa dal 6,1% al 13,9% del 196413.

Questi sono anni in cui il Governo Elvetico mette a punto una poli-tica restrittiva nei confronti degli immigrati. Essi devono solo colmarela mancanza di manodopera locale durante alcuni periodi, finiti i qualidevono rientrare nei loro paesi d’origine.

L’ultimo periodo è quello che va dal 1975 al 2000 ed è denso di cambia-menti sociali, culturali e politici sia in Svizzera che nel mondo. L’emigra-zione cambia totalmente immagine poiché, con la caduta del Muro diBerlino, arrivano in massa nella Confederazione lavoratori dai paesidell’Est; ben pochi sono, invece, gli italiani che vi giungono in quegli anni.

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C’è una considerazione da fare: prima della massiccia emigrazione,all’inizio dell’Ottocento, sulle rive del Lemano giungono, come rifu-giati politici, molti italiani. Ginevra, infatti, diventa rifugio di esulirisorgimentali e centro del liberalismo internazionale del XIX secolo.Fra gli esuli, il giurista ed economista toscano Pellegrino Rossi14, illodigiano Filippo Camperio15, il genovese Giuseppe Mazzini, chedurante il suo esilio si ferma anche a Ginevra, arrivando la prima voltanel 1831. Anche Camillo Benso, conte di Cavour, nella città di Calvinoè di casa, poiché la mamma è l’aristocratica ginevrina Adèle de Sellon,il cui fratello Jean-Jacques16 è un famoso liberale.

Perfino Garibaldi arriva a Ginevra nel 1867 per il CongressoInternazionale della Pace. E, fatto inusuale per una popolazione cosìriservata, viene accolto e acclamato da 50 mila cittadini in festa chesventolano fazzoletti e si affacciano ai balconi per vederlo passare17.

Tra i letterati, va segnalata la presenza di Alessandro Manzoni, unodei più grandi scrittori italiani che nel 1808 sposa la ginevrina Louise-Henriette Blondel, figlia del banchiere protestante Louis-François: ladonna assumerà una grande importanza nella maturazione e formazio-ne spirituale dello scrittore18.

La miseria della fine Ottocento spinge a cercare lavoro a Ginevrasempre più italiani: già nel 1900 sono 10.000, che arrivano a circa20.000 nel 1914, quasi tutti operai in prevalenza sterratori e muratori,di cui molti piemontesi.

Contrariamente agli esuli risorgimentali che avevano potuto contaresull’appoggio di altri esuli e di intellettuali ginevrini, gli ultimi arriva-ti, spesso analfabeti, non possono fare assegnamento su nessuno. E’proprio la necessità di colmare questa lacuna che fa nascere varie orga-nizzazioni: tra le prime la Società di Mutuo Soccorso, la Colonia italia-na di Ginevra, l’Opera Bonomelli, e in seguito la Missione cattolica ita-liana, di cui don Dosio aveva costituito anche un Segretariat, e laColonia estiva di Saint-Cergues19. Anche un’istituzione culturale comela Dante Alighieri avrà un ruolo fondamentale nella realizzazioni discuole italiane nella Confederazione; non sarà da meno l’Unione deisocialisti italiani in Svizzera.

Prima guerra mondialeE’ la Prima guerra mondiale a cambiare completamente il quadro eco-

nomico del Cantone di Ginevra. Dei circa 21 mila emigrati italiani che vi

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risiedono, più di tremila partono per l’Italia, richiamati in guerra. Lacolonia italiana risente di questa partenza, perché molti lasciano mogliee figli sul posto. Ginevra allora viene colpita da una forte crisi occupa-zionale e i primi a farne le spese sono gli emigrati, abbandonati pure dalleautorità consolari italiane. Anche il ritorno dei reduci, nel 1919, non cam-bia molto la situazione. In particolare le vedove vivono nella miseria piùtotale fino al 1922, quando arrivano le prime pensioni di guerra.

Uno dei più attivi, in quel periodo, verso questa umanità sofferenteè senz’altro Don Alfonso Dosio, che aveva costituito il Segretariatodella Missione cattolica italiana e la Société de la Chapelle Italienne.Grazie agli aiuti raccolti, egli riesce a realizzare un orfanatrofio peraccogliere i bambini italiani rimasti senza genitori che non possonoandare in quelli svizzeri, perché non ne hanno la nazionalità, ma nonpossono essere accolti nemmeno in quelli italiani, perché nati all’este-ro. Il missionario potenzia anche la crèche (asilo-nido), già realizzatanel 1905 per aiutare le mamme lavoratrici, e crea molte altre iniziativevolte a portare un po’ di sollievo agli emigrati. Non bisogna dimentica-re, tuttavia, che sarà l’assistenza delle Suore missionarie di Susa a per-mettere a tutte le strutture religiose di funzionare e di svolgere almeglio la loro missione: sono loro a portare un aiuto concreto, a “farsistraniere con gli stranieri” per meglio servirli20.

Nell’immediato dopoguerra a Ginevra nascono anche due associa-zioni d’ispirazione socialista: La Lega proletaria, mutilati e reduci diguerra, istituita per tutelare gli interessi degli smobilitati e la filodram-matica La Seminatrice, formata da gruppi dell’ala rivoluzionaria delpartito socialista italiano in Svizzera e da anarchici21.

Da notare che proprio il Partito socialista italiano di Ginevra acco-glierà il futuro duce. Benito Mussolini, infatti, vi arriva la prima voltanel 1904. Ha un bel titolo di studio in tasca come maestro elementareche non può sfruttare in Italia, perché accompagnato da una pessimafama di accanito giocatore di carte, nonché di “coureur de femmes”22.

Precedentemente, però, Mussolini aveva cercato di lavorare comemanovale in una fabbrica di Orbe nella Svizzera francese23. Come rac-conta lui stesso, non resiste più di una settimana a svolgere quel lavo-ro massacrante. La professione di agitatore politico, invece, gli riescepiuttosto bene. A Ginevra vi dimora solo cinque settimane.L’esperienza di sindacalista rivoluzionario maturata sia a Ginevra chea Losanna, dove è arrestato anche per vagabondaggio, sarà di grande

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aiuto al futuro duce che in quegli anni ha ancora idee confuse sul “suo”socialismo24.

Il crollo della borsa di Wall Street nel 1929 ha senza dubbio effettidevastanti che si fanno sentire anche in Svizzera. Si chiudono fabbri-che e uffici, aumentano i disoccupati che scendono in piazza e creanotensione nel paese. In quel periodo la presenza italiana cala notevol-mente, tanto che restano nel Cantone solo 12.700 emigrati dei circa 20mila di prima25.

Il vento del fascismo finisce per soffiare anche sulla comunità italia-na. Nel 1923 viene fondato il Fascio ginevrino “Tito Michetti”, che dal1925 comincia a svolgere azioni di disturbo ai danni della associazionidemocratiche. Georges Oltremare, discendente da una famiglia di ori-gine ligure e simpatizzante di Mussolini, costituisce nel 1932 l’Unionnationale, un movimento d’ispirazione nazionalista e antisemita cheraccoglie il 10% dei consensi tra la popolazione e che trova il sostegnoanche di artisti e intellettuali.

Le varie fazioni italiane di sinistra e di destra si scontrano aperta-mente, come nel 1926, quando 48 fascisti tentano di disturbare unamanifestazione democratica unitaria nella Salle de Plampalais, percommemorare la morte di Giacomo Matteotti26.

Quella che subisce il maggior danno da tali attacchi è la “DanteAlighieri” di Ginevra, che era riuscita a creare rinomate scuole italia-ne, grazie al finanziamento e al sostegno di facoltosi imprenditori ita-liani e, fino all’avvento del fascismo, dello Stato italiano27.

Le autorità governative fasciste italiane cercano in tutti i modi di assog-gettare queste scuole. Egidio Reale, allora presidente della DanteAlighieri, visti inutili i tentativi per arrivare a un compromesso con ilConsolato italiano, rinuncia ai finanziamenti e, con l’aiuto delle forzeantifasciste italiane e locali, salva in parte l’attività didattica delle scuoleda lui gestite. Il Consolato italiano, allora, crea una propria scuola dando-le la stessa denominazione di quelle libere28, non senza suscitare, però,confusione tra gli emigrati e le autorità cantonali. La manovra e la man-canza di sostegno economico da parte dell’Italia fanno perdere molti alun-ni alle scuole istituite dalla Dante Alighieri. Bisognerà aspettare la cadutadel Fascismo prima che le attività didattiche riprendano regolarmente.

Una parentesi felice per Ginevra arriva fra le due guerre, quandodiventa sede delle Nazioni Unite, istituzione che darà un impulsoall’economia, in particolare edilizia e alberghiera. Infatti, riuniti a

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Versailles in Francia per concludere i trattati di pace (1919-1920), legrandi potenze decidono di fondare un organismo sopranazionale perrisolvere i conflitti a tavolino, piuttosto che passare subito alle armi, estabiliscono anche di istituire una cooperazione economica, sociale eculturale tra le nazioni. Ginevra ha tutte le carte in regola per ospitarequesto organismo, poiché si trova in un paese neutrale nel cuoredell’Europa, già sede della Croce Rossa Internazionale, che nell’ultimaguerra mondiale ha svolto un lavoro umanitario ammirevole. E’ lo stes-so presidente degli Stati Uniti, il calvinista Woodrow Wilson, a caldeg-giare la candidatura. La prima Assemblea Generale della Società delleNazioni si svolge il 15 novembre del 1920 nella “Salle de laRéformation”. Ci vorranno altri 17 anni prima della realizzazione dellasede definitiva. L’istituzione darà una boccata d’ossigeno anche agliemigrati italiani impegnati soprattutto nell’edilizia. Il “Palais desNations” verrà inaugurato, infatti, nel 193729.

Seconda guerra mondialeAnche nella Seconda guerra mondiale gli emigrati italiani ricevono

l’ordine di rimpatriare e di presentarsi nelle caserme assegnate. Tra il1939 e il 1940 la stessa Svizzera vive nel timore che le forze dell’Asse,malgrado la sua neutralità, vogliano invaderla. Per difendere le frontie-re mobilita i suoi cittadini. Gli italiani di Ginevra, come i cittadini elve-tici, partecipano alla solidarietà verso i richiamati.

Come avvenuto nel primo conflitto, molti italiani partono in guerralasciando in Svizzera le famiglie prive di sostegno. Vari comitati si orga-nizzano intorno alle Colonie libere o alla Missione per soccorrere gliindigenti: essi dovranno far fronte, sia durante che dopo la Secondaguerra mondiale, a necessità di ogni genere. Tra le strutture di sostegno,vanno segnalate, in primo luogo, l’opera sociale della Missione con IlSegretariato, la Cucina popolare, l’Asilo, l’Orfanotrofio e la Casa diriposo per anziani30, ma anche le attività laiche come la Colonia diSaint-Cergues, che ospiterà centinaia di orfani di guerra di varie nazio-nalità, e le Scuole, che organizzano corsi destinati ai figli dei profughi31.

Tra gli italiani, nella città di Calvino – terra di accoglienza –, vi sog-giornano, in quel periodo, molti uomini politici e di cultura che vihanno trovato rifugio politico. Essi si impegnano per realizzare qualco-sa di concreto permettendo ai rifugiati militari italiani di continuare glistudi. Su proposta di André de Blonay, segretario del Fond européen de

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secours aux étudiants, viene creato un Campus universitario. Il Campoginevrino si realizza in poco tempo, grazie all’impulso dato da profes-sori di origine italiana come Aldo Franceschetti e Maurice Battelli, pre-side della Facoltà di giurisprudenza, dove sarà creata anche una sezio-ne di “Diritto in lingua italiana”, che funzionerà fino al 1945. Tra inomi più illustri che hanno dispensato lezioni in quell’Universitàdurante il loro esilio ginevrino: Luigi Einaudi, Amintore Fanfani,Gustavo del Vecchio, Mario Donati e Luigi Sandro Sillani.

Sono stati circa 200 gli studenti italiani che hanno frequentato dainternati il Campo tra il 1941 e il 1945. Tra loro, Giorgio Strehler che,nel discorso tenuto in occasione della cerimonia conclusiva di questafelice esperienza (18 maggio 1945), precisa:

«Elèves parmi vos élèves, au-delà de toutes frontières, avec la mêmefraternité, celle qui unit les hommes dans le travail, nous avons cher-ché de la suivre honnêtement. C’est à nous, avec nos œuvres de demain,de démontrer que nous avons su en profiter»32.

DopoguerraNell’immediato dopoguerra la neutrale Svizzera, rispetto agli altri

paesi europei le cui fabbriche sono state danneggiate o distrutte daibombardamenti, parte in pole position: le sue industrie sono intatte egirano a pieno regime, il “segreto bancario” e la stabilità politica atti-rano capitali. Ecco perché ha bisogno urgente di mano d’opera immi-grata. Negli anni ’50 l’Italia, invece, ha troppi lavoratori (Mussolininel ventennio fascista aveva incentivato la natalità) e la guerra l’halasciata in ginocchio, per cui vive un periodo di grande miseria, in par-ticolare nelle campagne e nelle piccole città. Gli emigrati che partonoa cercar lavoro altrove diventano, per la loro patria, una risorsa per leloro rimesse e una valvola di sfogo per disinnescare gli inevitabili con-flitti sociali.

In trent’anni partono dall’Italia 5.109.869 connazionali a cercarlavoro in Europa (un totale di 7.447.175 in tutto il mondo)33.

Nella Confederazione Elvetica fra il 1950 e il 1970 arrivano fra i 3e i 4 milioni di italiani: il gruppo più numeroso di immigrati34.

L’emigrazione che va dal 1946 al 1958 ha molti vantaggi economi-ci per la Svizzera: i circa 500 mila lavoratori presenti sul suo territorio,in maggioranza stagionali, producono molto più di quanto consumano,

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contribuiscono al gigantesco incremento delle esportazioni, non porta-no la famiglia e, in più, non esigono speciali infrastrutture come scuo-le, ospedali e servizi vari35. Le rigorose leggi svizzere definisconochiaramente lo statuto del lavoratore stagionale che lo ingabbia in unavita fatta solo di duro lavoro, senza consentirgli nessuna possibilità disviluppo professionale o personale né alcuna chance di affermazionenella società svizzera, perché il lavoratore stagionale:

- non può cambiare datore di lavoro per circa cinque anni dopo l’as-sunzione;

- non può cambiare lavoro per altri dieci anni;- non può portare con sé moglie e figli;- non può parlare in pubblico o protestare36;- non può ammalarsi, perché al momento del rinnovo del contratto,

se non è in grado di lavorare, perde la possibilità di ottenere il permes-so annuale e deve ricominciare daccapo37.

Il lavoratore straniero, tra l’altro, è spiato da un servizio di “intel-ligence” efficientissimo, in grado di tenere sotto controllo più di 300mila italiani.

Bisognerà aspettare il 2000 prima che questo statuto venga abolitograzie ad accordi bilaterali tra la Svizzera e l’Unione Europea38.

La mano d’opera specializzata sul posto ha, tuttavia, una sua preca-rietà. Molti operai stagionali spesso rimpatriano in quanto apprezzatiormai anche dall’industria italiana ed i patron svizzeri si trovano adover coprire i posti vacanti con lavoratori senza nessuna qualifica pro-fessionale e provenienti da regioni sempre più lontane. Questa “rota-zione” di lavoratori finisce per comportare anche gravi conseguenzeeconomiche e sociali, come il calo della produttività e la difficoltà diinserimento dei nuovi emigrati.

Ecco perché il Consiglio federale decide di avviare una politica ten-dente alla stabilizzazione dei lavoratori stranieri. Nel 1964, infatti, laSvizzera conclude con l’Italia, che lo sollecitava da tempo, un accordobilaterale atto a incoraggiare il ricongiungimento familiare. L’accordoprevede il rilascio di permessi di soggiorno annuali per i lavoratori sta-gionali dopo cinque anni, così come la possibilità di cambiare luogo dilavoro, sempre dopo cinque anni, mentre il tempo di attesa per unarichiesta di ricongiungimento familiare si abbassa da 36 a 18 mesi39.

Dovrebbe essere questo un buon passo avanti per gli emigrati italia-ni, che potrebbero iniziare a rosicchiare dalla mela di Guglielmo Tell un

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po’ di serenità. Invece non è così, perché l’iniziativa scatena una reazio-ne violenta dei partiti xenofobi, in particolare della Svizzera tedesca,che accusano il Governo Elvetico di sottostare ai voleri dell’Italia.

Effettivamente in quegli anni vi è un massiccio arrivo di lavoratoriitaliani in Svizzera: se nel 1960 gli italiani residenti nellaConfederazione sono 316.028 (su 584.736 stranieri), dieci anni doposalgono a 536.203 (su 1.080.076)40. L’arrivo imponente di stranieriproduce un effetto “paura”: paura dell’inforestieramento da parte degliSvizzeri e paura di essere cacciati da parte degli emigrati.

Molti autoctoni considerano i lavoratori italiani intrusi che mangia-no il loro pane. Non solo temono la loro concorrenza sul posto di lavo-ro, ma anche quella dei loro figli che, più scolarizzati, non si ac-contentano dei lavori umili dei loro genitori e mirano a professioni qua-lificate e remunerative.

Da parte degli emigrati, invece, c’è una forte sudditanza dovuta alfatto di essere e, soprattutto, di sentirsi stranieri. Tale stato d’animo creala loro emarginazione e rafforza la volontà di rimpatriare. RainerCremonte scrive a questo proposito: «non è escluso che talvolta si trat-tasse di autoemarginazione»41. Come emigrata, posso affermare che“era” autoemarginazione, perché il terrore di poter essere cacciati inqualsiasi momento ci rendeva molto vulnerabili, disadattati, insicuri.Secondo il cineasta Alvaro Bizzari, emigrato in Svizzera con la famiglianegli anni ’50, le autorità elvetiche con i loro tre statuti: gli emigrati sta-bili (C), gli annuali (B) e i più sfruttati, gli stagionali (A), avevano fattodi tutto per disunire e seminare la discordia tra gli emigrati42.

Il Governo svizzero è preso tra due fuochi: la necessità di una poli-tica di assimilazione o inserimento della seconda generazione di emi-grati e le richieste pressanti della popolazione elvetica di mettere unplafond rigido alle immigrazioni per non compromettere l’identitànazionale.

Referendum SchwarzenbachA raccogliere il malcontento degli svizzeri è il Partito democratico

zurichese che lancia la prima iniziativa popolare contro l’inforestie-ramento il 30 giugno del 1965. Essa raccoglie ben 59.164 firme vali-de43. Il Consiglio federale invita il popolo e i Cantoni a respingerla,ma verrà ritirata dal suo promotore.

Non passano nemmeno due anni ed è la volta di “Schwarzenbach”

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che propone un referendum. James Schwarzenbach non può esseredefinito un razzista rozzo e ignorante, anzi, come scrivono GianAntonio Stella e Emilio Franzina nella Storia dell’emigrazione italia-na44: «è un intellettuale che ha raccolto, riordinato e “ripulito” un seco-lo di xenofobia svizzera contro gli italiani». Nato in una famiglia dellaborghesia zurichese, il nostro, dopo aver conseguito la laurea in Storia,collabora a vari giornali e scrive opere storiche e biografiche. Comeeditore, dirige le edizioni Thomas di Zurigo45. Schwarzenbach diverràil più acerrimo nemico degli emigrati italiani che vogliono stabilirsi inSvizzera.

Eletto consigliere nazionale del partito dell’estrema destra xenofoba“L’Action Nationale”, nel 1968, con forti toni discriminatori contro gliimmigrati italiani lancia, infatti, una serie d’iniziative per ridurre al10% il tasso di stranieri in Svizzera. In uno degli articoli da lui pubbli-cati contro il ricongiungimento familiare, scrive a proposito dellemoglie e dei figli degli emigrati italiani:

«Sono braccia morte che pesano sulle nostre spalle. Che minaccia-no nello spettro d’una congiuntura lo stesso benessere dei cittadinisvizzeri. Dobbiamo liberarci del fardello. Dobbiamo, soprattutto,respingere dalla nostra comunità quegli immigrati che abbiamo chia-mato per i lavori più umili e che nel giro di pochi anni, o di una gene-razione, dopo il primo smarrimento, si guardano attorno e miglioranola loro posizione sociale. Scalano i posti più comodi, studiano, s’inge-gnano: mettono addirittura in crisi la tranquillità dell’operario svizzeromedio, che resta inchiodato al suo sgabello con davanti, magari in pol-trona, l’ex guitto italiano»46.

Per lui il lavoratore emigrato, di cui la Svizzera ha gran bisogno,deve essere solo ed unicamente lo stagionale. Questa mano d’opera èla benvenuta per il suo carattere transitorio, reversibile e che non pro-duce costi sociali.

Schwarzenbach per il primo referendum riesce a raccogliere ben70.292 firme e a presentare la seconda iniziativa legislativa “Contrel’emprise étrangère” il 20 maggio del 1969. Il Consiglio nazionale ladiscute a dicembre dello stesso anno e decide, con 136 voti contro uno(quello di Schwarzenbach), di raccomandare alla popolazione direspingerla. Se dovesse passare il referendum, sarebbero migliaia ilavoratori stranieri a dover lasciare la Confederazione Elvetica: un ter-remoto che si ripercuoterebbe anche sull’economia svizzera. In effetti,

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il 26% della manodopera attiva nella Confederazione è straniera e, con-siderando i settori specifici, l’impiego dei lavoratori stranieri raggiun-ge il 60% nell’edilizia, il 57% nelle calzature e abbigliamento, il 46%nell’agricoltura, il 45% nella tessitura, il 33% nella lavorazione dellegno e il 36% nella metallurgia47.

Il referendum, svoltosi il 7 giugno del 1970, sarà respinto con654.588 no (cioè il 55% dei votanti) e 557.714 sì (ovvero il 44,5%).

Il Cantone di Ginevra non accoglie la proposta con il 65% dei votinegativi (31.907 no contro 20.983 sì)48.

Per Schwarzenbach questo risultato è più una vittoria che unasconfitta, poiché vede ben 8 Cantoni su 25 favorevoli alla sua propo-sta49, tanto più che il referendum ha contro tutti i partiti50, tutte leassociazioni imprenditoriali e sindacali, gli intellettuali, il clero.

Questo 44,5% a favore della sua iniziativa sarà la base su cui il po-litico zurichese costruirà il futuro trionfo alle politiche del 1971 in cuiprenderà 110.000 voti personali.

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Cartina della Svizzera, referendum Schwarzenbach

Saranno successivamente presentati da lui altri due referendum,entrambi respinti.

Ancora prima di questo risultato, il Consiglio federale non era statoa guardare e il 16 marzo 1970 aveva emanato un decreto firmato dal-l’allora presidente della Confederazione, Tschudi, che aveva per scopodi limitare l’effettivo degli stranieri esercitanti un’attività lucrativa.

Anni ’70-90 Per gli italiani un altro brutto momento arriva alla metà degli anni

Settanta: una grave crisi occupazionale taglia 200 mila posti di lavoro,costringendo molti emigrati al ritorno in patria.

Dal 1975 al 1985 sono ben 160 mila gli italiani che lasciano laSvizzera.

Proprio quando la comunità italiana comincia ad integrarsi e adessere apprezzata dagli autoctoni, la sua popolazione si riduce progres-sivamente, sostituita da altri lavoratori provenienti in buona parte,prima dalla Spagna, poi dal Portogallo e dai paesi dell’Est europeo.

Ormai figli e nipoti di emigrati arrivati negli anni ’50 si sono scola-rizzati, hanno raggiunto benessere economico e cominciano a svolgereun ruolo sociale e culturale all’interno della società Svizzera.

La lenta, ma importante ascesa sociale si evidenzia anche nell’asso-ciazionismo. Molti pittori, ricercatori, scienziati, scrittori fondano nel1991 l’ASIS (Associazione degli Scrittori Italiani in Svizzera).

Dice la studiosa Giovanna Meyer Sabino: «Nello spazio di trent’an-ni di emigrazione, gli italiani passano da una situazione di emargina-zione – spesso accompagnata da gravi disturbi psichici nella prima fased’inserimento – a condizioni di benessere e di piena accettazione daparte dell’ambiente di accoglienza, che spesso assorbirà gusti e abitu-dini degli immigrati stessi»51.

Nel 1992 viene emanata una delle leggi più gradite agli emigrati ita-liani: quella della doppia cittadinanza, che concede a questa umanitàondivaga di poter essere quello che molti di loro si sono sempre senti-ti: italiani e svizzeri nello stesso tempo.Legge sulla doppia nazionalità

Grazie all’emanazione della legge sulla doppia nazionalità52, tantiemigrati, dopo 40-50 anni di permanenza sul suolo elvetico, possonoacquisire finalmente le due identità etniche.

Quello della domanda di naturalizzazione è un iter burocratico che,

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soprattutto nel passato, richiedeva impegno e denaro. Alcuni cantoni,come quello di Ginevra, erano più cari di altri: in questi occorrevanoall’incirca 15 mila franchi svizzeri, mentre ne servivano circa 10 milain quello di Vaud; praticamente la paga di un anno di attività lavorati-va dell’emigrato. Ora, con la doppia nazionalità, la somma si è drasti-camente ridotta.

Per poter ottenere la naturalizzazione bisogna totalizzare 12 anni dipermanenza in Svizzera (per una naturalizzazione ordinaria). Per chi viha soggiornato dall’età di 10 anni ne bastano sei. La naturalizzazionenon viene estesa automaticamente all’altro coniuge, che deve, invece,possedere requisiti specifici.

Il primo passo è quello di presentare domanda al Servizio Cantonaledelle Naturalizzazioni di Ginevra e pagare la tassa. I vari uffici controlla-no i documenti e solo dopo accurata verifica vengono svolte una indagi-ne amministrativa e una inchiesta dal servizio “Visite/audizioni”. Se tuttoprocede bene, il dossier è inviato contemporaneamente a Berna, alConsiglio federale e al Comune. Il Consiglio municipale deve esprimereil proprio parere al Consiglio di Stato, cui spetta la decisione finale. A que-sto punto, se il dossier è accettato, l’emigrato può prestare giuramento.

E’ interessante vedere le condizioni richieste all’emigrato per natu-ralizzarsi a Ginevra:

- il candidato deve avere con il cantone dei legami che testimonianol’adattamento al modo di vita ginevrino;

- non deve essere stato condannato (una condanna mostrerebbedisprezzo verso le leggi svizzere);

- deve godere di una buona reputazione; - deve avere una situazione economica che gli permette di provve-

dere ai propri bisogni e a quelli della propria famiglia; - non deve essere, per colpa o per abuso, a carico degli organismi

responsabili dell’assistenza pubblica; - deve essersi integrato nella comunità ginevrina; - deve rispettare la dichiarazione dei diritti individuali fissati nella

Costituzione del 14 maggio 184753.Una domanda, insomma, che viene analizzata nei minimi dettagli

anche se si abita in Svizzera da tantissimi anni, come testimonia ilsindacalista Claude Cantini, arrivato clandestino in Svizzera nel1953, che dopo aver fatto la domanda di naturalizzazione se la vedebocciare, perché protestante. L’ufficiale che aveva esaminato il suo

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dossier non ammetteva che un italiano potesse essere di una religio-ne diversa da quella cattolica. Nel 1967 Cantini si ripropone e, que-sta volta, trova un funzionario ben disposto nei suoi riguardi che scri-ve nel suo rapporto: «Il Signor Claude Cantini è un candidato moltoserio e degno del passaporto svizzero. E’ stato nominato dallo Statodi Vaud come infermiere all’Ospedale di Cery. Sua moglie è svizze-ra. E nel cantone di Vaud si ha il diritto di essere protestanti!»54.

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-II-

Storia del collegio “Regina Margherita”del Grand-Saconnex

A partire dal Novecento, dovunque gli emigrati italiani siano arriva-ti in massa, hanno trovato aiuto ed assistenza presso le istituzioni dellaChiesa cattolica. Questa è una incontrovertibile verità, anche se altrereligioni come quella protestante, valdese, ebrea, ecc… hanno fatto laloro parte nell’aiutare gli emigrati delle loro fedi.

Non sempre, però, è stato così, perché all’inizio dell’emigrazione ilclero italiano, in particolare, era riluttante ad occuparsi degli emigrati,non considerando questo compito di sua competenza55.

Tuttavia, quello che non è stato detto abbastanza è che le strutture diassistenza messe in piedi dal clero cattolico nel tempo, senza l’apportodelle religiose italiane, si sarebbero infrante contro un muro di belleintenzioni.

Anche l’Orfanotrofio “Regina Margherita” del Grand-Saconnex nonsarebbe potuto esistere senza l’instancabile attività misconosciuta delleSuore francescane missionarie di Susa in Piemonte. Ecco perché, perraccontare la storia dei piccoli italiani affidati alle loro cure, è dovero-so partire dall’arrivo delle suore in Svizzera.

Arrivo delle suore a GinevraSiamo nel 1900 e nel Cantone di Ginevra ci sono ben 12 mila emi-

grati italiani che aumentano a ritmo continuo. I grandi lavori dellacostruzione ferroviaria del Gottardo e delle infrastrutture hanno attira-to molti lavoratori italiani in Svizzera, quasi tutti provenienti dal NordItalia. A Ginevra sono in prevalenza i piemontesi che sono accorsi trala fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento in quello che ritenevanoil nuovo eldorado56.

Per la loro assistenza, in quell’anno, viene fondata da Mons.Geremia Bonomelli57, vescovo di Cremona, a Carouge, il sobborgo più

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povero di Ginevra e più popolato di operai italiani, “l’Opera di assi-stenza agli operai italiani emigrati in Europa e nel Levante”.

Nel 1905, quando a dirigere l’Opera c’è don Luigi Motti, affiancatoda don Alfonso Dosio58, perché i due sacerdoti potessero avere aiutonel sostegno materiale e spirituale alle numerose famiglie italiane, sonochiamate le suore della Congregazione francescana missionaria diSusa. Le prime due, suor M. Rinalda Bernardelli e suor BenignaChartier, partono da Susa il 31 luglio del 190559. A Ginevra devonospogliarsi del loro abito religioso, proibito nella città di Calvino, e pas-sare per dame di carità.

Ad attenderle un lavoro immane: bambini abbandonati a se stessi,pratiche da compilare per gli analfabeti, madri prive di assistenza,uomini che si dibattono nella miseria più nera.

Devono fronteggiare anche la grande animosità verso tutti i religio-si italiani. Anarchici, massoni, agitatori socialisti, sbarcati dall’Italia,hanno un vero e proprio covo proprio nella città sul Lemano. Essi arri-vano al punto di disturbare le funzioni religiose. Infatti: «Quasi tutte lesettimane erano indette a Carouge conferenze tenute dai corifei del-l’anarchismo socialista che avevano come luoghi di convegno i localidella filatura e il Caffè dello Stand60».Un’avversione forte, nata dalfatto che solo nel 1870 lo Stato Pontificio era stato conquistato dal-l’esercito italiano e che, a trent’anni di distanza, le forze politiche anti-clericali italiane continuavano ancora a ritenere la Chiesa un nemico dacombattere. Gli stessi cattolici avevano mantenuto a lungo una posizio-ne ostile verso lo Stato italiano.

Le suore incontrano anche l’avversione di appartenenti ad altre reli-gioni quali i pastori evangelici e protestanti, che vedono nella Missionecattolica italiana la longa manus del Vaticano in Svizzera e che cerca-no in tutti i modi di contrastarle, facendo proseliti presso gli stessi ope-rai emigrati e disturbando spesso le funzioni religiose.

Racconta una delle religiose nel Diario delle Suore Francescane,alla data del 30 luglio 1905, giorno della partenza dal Piemonte61:

«Siamo partite da Susa per venire a Ginevra a prestare la nostrapovera opera specialmente per i poveri Italiani. D. Dosio era venuto aSusa a domandare delle Suore per la sua Missione. Ed i nostri Rdi

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Superiori hanno accettato la sua domanda. In seguito fu destinata MariaRinalda e Maria Benigna […]. Alla sera del 30 luglio dopo la preghie-ra della sera, uscendo dalla Chiesa abbiamo salutato le nostre careSorelle e dato il bacio della pace. Un po’ più tardi ci siamo messe incammino. Abbiamo avuto la fortuna d’aver in nostra compagnia lanostra buona Rda Madre Suor Maria Carmela, e il Canonico Calabrese,fino a Modane. E siccome non eravamo pratiche di viaggiare in questipaesi, il buon Canonico, gentilmente ha telegrafato a un suo zio che sitrovava a Aix-les bains, di volere accompagnarci fino a Ginevra. Alnostro arrivo il Missionario D. Dosio ci aspettava. Indi siamo andate alSegretariato Italiano in Ginevra, e dopo ci hanno accompagnate aCarouge dove eravamo destinate di venire a lavorare. Così siamo giun-ti alla nostra destinazione il 31 luglio giorno di Santo IgnazioLoyola»62.

Nelle loro memorie esse spiegano bene le difficoltà incontrate:

«I primi tempi era ben duro non si conosceva la gente, trovarsi in

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L'Orphelinat quando viene acquistato

paesi stranieri. Sul principio si doveva andare a trovare le famiglie edassistere gli ammalati specialmente poveri. Alle volte si doveva andaremolto lontano e a piedi sovente per non spendere troppo denaro. […]Oltre alla Maternità abbiamo anche la visita agli ammalatidell’Ospedale che anche questo è diretto dai protestanti […]. Ogni duemesi il Cappellano ci fa una conferenza a tale scopo, e molto istruttivainsegnandoci il modo di trattare cogli ammalati. Si deve avere moltaprudenza perché si deve trattare senza distinguere con ogni sorta di per-sone. Tanto più che la direzione è protestante bisogna andare con moltacautela. Ciò che è molto consolante grazie al buon Dio, che la più granparte dei Cattolici ricevono ben volentieri i santi Sacramenti prima dimorire. La Società63 ci dà un tanto al mese per poter portare qualchecosa a questi poveri sofferenti. Tanto più che alle volte ce ne sono diquelli che vengono da lontano e perciò hanno raramente qualche visi-ta, oppure altri che si trovano piuttosto nella miseria. E allora questisanno ancor molto di più apprezzare la visita d’una persona che s’inte-ressa a loro e prende parte alle loro pene e afflizioni64».

Apertura dell’Asilo-nido a CarougeMalgrado tanti problemi, spalleggiato dall’Abate Ruche, il piemon-

tese don Dosio, che sa parlare lo stesso linguaggio delle sue pecorellee sa come raggiungere i loro cuori, già nel 1908, grazie anche all’infa-ticabile lavoro delle suore che hanno dovuto muoversi in punta di piedie con tutto il tatto possibile andando di casa in casa per assistere le per-sone bisognose, riesce ad aprire il primo asilo nido per bambini italia-ni. La crèche, però, sarà aperta anche a quelli svizzeri, poiché essa èl’unica esistente nella periferia ginevrina.

La chiesa cattolica riceve, intanto, l’aiuto delle “Dame di carità”come la signora Ponti-Borgnis. La famiglia di orefici Ponti, sarà infat-ti, insieme alle famiglie Zoppino e Tedeschi, una delle più attive aGinevra nelle attività filantropiche a favore degli emigrati italiani.

Le suore non si risparmiano e, per venire incontro alle esigenzedelle mamme lavoratrici, non esitano ad aprire la crèche per 13 ore,ovvero dalle 6,30 alle 19,30, fornendo quattro pasti al giorno per lamodica somma di 20 lire a bambino. Così facendo, le religiose finisco-no per condividere appieno i problemi degli stessi emigrati. Dal 1908

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al 1911 nell’asilo-nido passano ben 282 bambini65.È lo stesso vescovo Geremia Bonomelli, dopo aver visitato l’asilo di

Carouge, che scrive nel suo diario di viaggio in Svizzera:

«L’assistenza e l’istituzione della crèche è affidata alle Suore. Macome? direte, se di Suore a Ginevra non ve ne sono? Suore ad unmodo, o ad un altro, voi ne troverete dovunque: dovunque c’è un’ope-ra di carità vedrete comparire le Suore: non avranno l’abito e la divi-sa delle Suore, ma hanno il cuore ed è questo, che si domanda. LeSuore, che assistono e istruiscono i bambini dei nostri operai aGinevra sono vestite da signore laiche: che male c’è? Ciò che sidomanda è l’opera, non l’abito, e quella c’è tutta. Sta di fatto che aGinevra nessun prete, nessun straniero, dopo due settimane, credo,non può vestire l’abito dell’ordine a cui appartiene. È la negazioned’una libertà direte voi. Lo so. Che importa; preti e frati e suore vigodono la più ampia libertà […]66».

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1913. Le suore della Provvidenza di Carouge con i bambini e don Dosio

In una relazione del maggio 1911, Don Dosio, in qualità di Direttoredel Segretariato, si lamenta che:

«Lo Stato si trova per ora nell’impossibilità di provvedere agliinnumerevoli bisogni dei nostri emigrati: crea, moltiplica bensì i suoiistituti all’estero; coordina, sancisce leggi del tutto urgenti, ma è pursempre vero che soventissimo il nostro operaio all’estero si dibattenella miseria. Pei 200.000 italiani residente in Isvizzera quante sono leistituzioni destinate all’assistenza immediata dei nostri emigrati?Dando uno sguardo all’ultimo Bollettino ufficiale, con dolore noi dob-biamo constatare che le istituzioni private di assistenza si riducono aben poche. A parte l’Opera di assistenza di Mons. Bonomelli e l’ospe-dale italiano di Lugano e quello di Zurigo, quasi tutte le altre istituzio-ni italiane sono limitate all’assistenza mutua fra i loro soci. Quindi neipiù popolati centri operai della Svizzera, come Ginevra, Zurigo, S.Gallo, Basilea ecc., noi vediamo che molti dei nostri emigrati sonoobbligati a ricorrere alle istituzioni indigene per trovar assistenza nelleloro necessità più urgenti, e continuo è il lamento da parte di similiistituti che la maggior parte dei loro fondi devono erogarsi per l’assi-stenza degli italiani67».

Don Dosio, ben presto, si rende conto dell’indispensabilità di unorfanotrofio per accogliere i piccoli italiani e nel 1911 riesce, con ilricavato di una festa di beneficenza, a finanziarlo68.

Il 20 novembre del 1912 viene aperto l’orfanotrofio di Hermance,vicino alla frontiera francese, dove vi si trasferiscono una quindicina dibambini con due suore.

La chiamata alle armi di molti emigrati durante il conflitto del ’15-18 peggiora la situazione, poiché sono tanti a lasciare moglie e figli inSvizzera: dei 70 ospiti di quegli anni, 58 sono figli di italiani mobilita-ti e 12 orfani di guerra.

Nascita dell’Orphelinat al Grand-SaconnexNel 1916 il piemontese don Dosio è ormai conosciuto e riscuote la

fama di instancabile promotore e ideatore di opere assistenziali nonsolo presso la comunità italiana, ma anche quella ginevrina, che

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apprezzano in lui il carattere schietto, operoso, caritatevole, poco incli-ne a perdersi nelle parole.

L’orfanotrofio di Hermance è diventato troppo piccolo e troppo lon-tano da Ginevra, urge una struttura più grande. Il missionario adocchianella località “Pommier”, nel comune del Grand-Saconnex, una bellacasa che potrebbe essere perfetta come nuovo orfanotrofio. Ubicato suun terreno di circa 3.000 mq, in piena campagna, il caseggiato ha tuttele caratteristiche per ospitare gli orfanelli, poiché è vasto, arioso e prov-visto di ogni confort del tempo, con la possibilità di poter sistemare unasessantina di letti. Il sacerdote piemontese decide, quindi, per l’acqui-sto dell’immobile, di lanciare una sottoscrizione ad un ristretto nume-ro di facoltosi amici-estimatori della colonia italiana. La sottoscrizionefrutterà 8.000 franchi69.

Altro denaro verrà anche dalle conferenze tenute dal rinomato ora-tore Padre Semeria, che stima molto don Dosio e che conierà il motto

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Una parte del Cantone di Ginevra

del futuro rifugio per orfani, preso da una massima di DanteAlighieri70:

“Nostra carità non serra porta”

L’orfanotrofio sarà inaugurato il primo aprile del 1916 alla presenzadi tutte le autorità e dei benefattori e sarà dedicato alla ReginaMargherita di Savoia71, la prima sovrana d’Italia, la quale, grandeammiratrice di Monsignor Bonomelli, acconsente con gioia che il rifu-gio per gli orfani dei lavoratori italiani porti il suo nome.

Per la gestione dell’orfanotrofio, il Comitato si costituisce in socie-tà legale, con diritti equivalenti a quelli degli enti morali in Italia.

Mentre, per far funzionare la struttura, don Dosio fa affidamentoincondizionato sulle suore. Nel realizzare i numerosi complessi, il pie-montese non pensa nemmeno per un attimo che le religiose possanodire: «No, è troppo!». E d’altro canto, le suore, che non hanno esitatoad abbandonare famiglia, paese, congregazione per gettarsi sulla stradadell’emigrazione, non si tirano indietro.

Come si fa a restare indifferenti quando un bambino, che ha finito dipiangere tutte le sue lacrime, ti guarda con i suoi occhioni che nonsanno più chiedere? Come si fa a non sentire le sue angosce di esseri-no appena nato cui tutto è crollato addosso, perché ha perso i genitoriche avrebbero dovuto traghettarlo verso la vita adulta?

Allora vanno avanti e perseguono con abnegazione, tenacia, corag-gio e amore la loro opera misericordiosa verso l’umanità sofferente,senza chiedere nulla in cambio. Sono così prese dalla quotidianità diun’esistenza trascorsa tra lavoro e preghiera che non si pongono doman-de: «Quello vuole il Signore, la divina Provvidenza ci accompagnerà».

Al Grand-Saconnex saranno gli orfani di guerra ad avere la prece-denza. Dopo la Prima guerra mondiale il loro numero è di 50 ospiti pro-venienti non solo dal Cantone di Ginevra, ma anche da altri dellaSvizzera Romanda.

All’ingresso dell’Istituto ben due lapidi erano poste per commemo-rare il nome degli emigrati caduti in quel conflitto. Poiché questo luogoera off limit per noi ragazzini del collegio, siamo in pochi a ricordaretali testimonianze. Nel corridoio di entrata, in effetti, si affacciavano sial’ufficio della Madre superiora che una stanzetta dove poteva dormire

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il missionario in visita al Grand-Saconnex. Noi ragazzini, non solo nonosavamo mai aprire quelle stanze, ma nemmeno far rumore nelle vici-nanze, soprattutto quando il sacerdote era presente. Ed è un peccato….Diversamente avremmo potuto conoscere una parte della storiadell’Orfanotrofio, segnata dalle targhe commemorative della ReginaMargherita di Savoia e di quella di Mons. Bonomelli.

Quando viene realizzato l’Orphelinat nessuno pensa che l’arrivoimprovviso di tanti bambini in età scolare possa destabilizzare ilComune del Grand-Saconnex, un bucolico paesino agricolo delCantone di Ginevra. Gli amministratori locali, infatti, s’interroganoimmediatamente sul da farsi. Nel Processo verbale del 18 aprile 1916,precisano:

«Un orfanotrofio, precedentemente situato a Hermance, si è stabi-lito sul territorio del Comune del Grand-Saconnex. Ne risulta unaumento di 17 alunni chiamati a frequentare le scuole primarie e infan-tili», segue un elenco delle misure prese dal vice sindaco MonsieurWolf per far fronte alla nuova situazione. Sono chiamati due ispettoriche danno il loro beneplacito, preso in accordo con il Dipartimentodell’Istruzione Pubblica. Un altro rendiconto del 18 maggio del 1917,presentato al Consiglio municipale da John Wolf, diventato sindaconel frattempo, ritorna sull’argomento: «L’arrivo imprevistodell’Orfanotrofio italiano “Regina Margherita” nel nostro comune,che porta con sé una trentina di bambini che dovranno frequentare lescuole elementari e quelle dell’infanzia, ha sconvolto questa dolcequiete nella quale ci lasciavamo cullare da qualche anno»72.

Le misure da prendere non sono poche: si dovrà trasformare ilComune in classi e trasferire la sede dello stesso Comune in una stan-za del secondo piano, si dovrebbe anche trasformare in cortile unaparte del giardino di proprietà di Pernin, il quale ha pretese esose checostringono l’amministrazione comunale a soprassedere73. Questo adimostrazione di quanto l’impatto dell’orfanotrofio sia stato rilevanteper la scuola del Grand-Saconnex.

L’Orfanotrofio fra le due guerreL’Orfanotrofio si ingrandisce quasi subito con l’acquisto di un ter-

reno confinante che permetterà di realizzare un orto e una stalla:

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l’area arriverà a 10.000 mq. Successivamente, nel 1917, saranno ilocali del sottosuolo ad essere ristrutturati con una cappella provviso-ria, il refettorio, la cucina, la sala di ricreazione, i luoghi più frequen-tati dai bambini.

In seguito, un’altra costruzione verrà affiancata a quella presentedove potranno essere collocati altri 18 letti e la nuova cappella.

Saranno sempre le elargizioni dei benefattori a poter permetterel’avanzamento dei lavori74. E saranno sempre loro a consentireall’Orphelinat di svolgere la sua funzione di accoglienza, perché fra ledue guerre gli ospiti di questo istituto, come il resto della comunità ita-liana ginevrina, conosceranno la fame, quella vera.

Di questo periodo una testimonianza molto commovente l’ha lascia-ta lo svizzero Jean-Marc Lecoultre, rimasto orfano e raccolto con il suogemello Xavier dalle suore italiane in condizioni quasi disperate75.

Egli racconta come, per poter sfamare le varie bocche nei momentipiù duri, le suore uscivano al mattino presto con un bambino per manoe arrivavano in città bussando alle porte nella speranza di poter racco-gliere qualcosa. La divina Provvidenza, come la chiamavano loro, erasempre all’appuntamento e a mezzogiorno erano già rientrate all’orfa-notrofio, pronte a mettere in tavola il ricavato.

Ecco il racconto dal titolo evocativo, Mon paradis à l’orphelinatitalien:

«Dobbiamo molto, mio fratello gemello Xavier ed io a tutte le suoreche ci hanno amati, curati e sfamati malgrado la mancanza di mezzi.Questo succedeva nel 1932.

Sì, siamo stati accolti, in stato di denutrizione, a 14 mesi. Al nostroarrivo le suore ci hanno subito presi in carica con grande amore. Poichéavevamo una salute molto cagionevole, per essere meglio seguiti,ognuno dormiva nella camera di una religiosa che ci sorvegliava. Unavolta rimessi in buone condizioni fisiche fummo trasferiti nel dormito-rio dei bambini.

Gli anni passarono in un clima di felicità, di amore e gentilezza.Nel 1939 feci la mia prima comunione e, in seguito a questo avve-

nimento (mi ricordo di essere stato molto fiero di ciò), siamo diven-tati chierichetti alla Chiesa del Grand-Saconnex. Era il curato Duprésche ufficiava la messa.

Sui 10 anni, mi alzavo presto, alle cinque, per recarmi in Chiesa e

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suonare le campane per la messa delle sei. Una volta terminata lamessa, andavamo nella curia che si trovava di fronte alla scuola e ilSignor curato mi preparava una bella fetta di pane con marmellata.

La strada che separava l’orfanatrofio dal paese e che percorrevo inqualsiasi condizione di tempo, per un bambino di 9 anni era abbastan-za lunga, soprattutto in inverno o quando pioveva. Ma ero felice di ser-vire nostro Signore Dio.

Il secondo ricordo che voglio raccontare, mi ha molto marcato, poi-ché il coraggio di tutte queste suore è restato sempre impresso in me.Credo fosse durante la settimana di vacanze d’autunno. Molte suorepartivano il mattino verso le otto con un bambino che indossava ungrembiule nero e un colletto bianco. Era l’uniforme che portavamo perandare a scuola. Ogni suora aveva un quartiere di Ginevra da visitareper raccogliere fondi per poterci nutrire decentemente, poiché l’orfano-trofio non riceveva niente dallo Stato di Ginevra (eppure c’erano anchebambini di origine svizzera). Era Roma cha mandava fondi per tutti.

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1920. I piccoli orfani con le suore, don Dosio e il cav. Ponti

Per terminare, tengo a dire che la mia infanzia l’ho passata grazie aDio e alla brave suore in paradiso e che non dimenticherò mail’Orfanotrofio italiano “Regina Margherita”».

Jean-Marc Lecoultre

Fino alla fine della guerra l’orfanotrofio fa del suo meglio per poterdare il pane quotidiano a tutti i bambini, malgrado la Missione cattoli-ca italiana sia in piena emergenza per far fronte alle numerose famigliebisognose dei richiamati. Vengono costituiti due comitati: uno femmi-nile presieduto dalla Signora Ponti-Perrier e un Comitato Notabilitàdella Colonia. Le suore, comunque, sono e saranno sempre in primalinea nell’aiuto materiale e morale76.

Nel 1942, improvvisamente, viene a mancare don Dosio, un missio-nario «au coeur d’or et à la piété d’enfant qui fit peu de bruit mais beau-coup de bien», come ha ben scritto il Courrier de Genève nell’articoloche ne annuncia la morte77. Il missionario, «cuore di apostolo e tempradi costruttore», è morto senza un soldo di suo, perché tutto quello cheaveva lo ha dato ai suoi protetti.

Quello che non sapevamo noi ragazzini è che lasciò detto che sefosse morto a Ginevra voleva essere sepolto nel cimitero situato tra lesue due realizzazioni più importanti: l’Orfanotrofio del Grand-Saconnex e l’Ospizio del Petit-Saconnex.

La cosa curiosa è che molti di noi la domenica, quando ritornavamoin collegio tra le sei e le sette di sera dopo essere stati con i nostri geni-tori, dovevamo percorrere da soli la strada che rasentava il cimitero doveera sepolto il nostro benefattore. Ciò ci spaventava molto, soprattuttodurante l’inverno quando il buio l’avvolgeva completamente, costrin-gendoci a fare di corsa quel tratto di strada. Se, invece, avessimo saputoche in quel luogo che vedevamo minaccioso c’era un grande missiona-rio che ci sorvegliava e ci proteggeva, forse, non avremmo avuto nessu-na paura e avremmo percorso quel tratto di strada tranquillamente.

A guerra finita, l’appellativo di Orphelinat (orfanotrofio) rimarràper sempre nella mente degli abitanti del Grand-Saconnex, anche sepoi, nel dopoguerra, diverrà un Collegio (Internat), dove i bambini nonsaranno più figli di nessuno, ma figli di emigrati che vi transitano in

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attesa che i loro genitori possano acquisire un permesso di soggiorno,che dia loro il diritto di poter affittare una casa, senza dover più viverein una piccola stanza ammobiliata dove i bambini non possono essereaccolti.

Un appellativo, quello di Orphelinat, che finirà per umiliare ancoradi più noi bambini emigrati di fronte agli scolari autoctoni del Comune.

Nell’incontro del 2004, mi è stato ricordato da Marianna Lalicatache, tra i benefattori del “Regina Margherita”, ricevevamo ogni anno lavisita della marchesa Rossi Longhi che aveva perso il figlio Roberto inun incidente. Ebbene, la Marchesa, insieme alla nuora, per ricordare lafigura del caro congiunto, aveva deciso di istituire ogni anno due borsedi studio, una di mille e l'altra di millecinquecento franchi, con lo scopodi aiutare un ospite dell’istituto orfano o di famiglia povera e un allie-vo distintosi particolarmente negli studi. I candidati venivano selezio-nati dalle suore e da padre Angeli. Le somme venivano versate su unlibretto che i collegiali prescelti potevano ritirare alla loro maggioreetà, recandosi presso la Missione cattolica italiana. Una bella cifra,senza la quale molti non sarebbero riusciti a portare a termine studiimportanti. Per la chiusura del collegio nel 2004, Marianna è riuscita acontattare la Marchesa che vive ora a New York, ma è stato impossibi-le per lei partecipare. Possiamo ricordare qui la sua generosa offerta etributarle la riconoscenza che merita.

Nel 1984 le autorità del comune del Grand-Saconnex conferisconoa suor Scolastica Pilloni, Madre superiora dell’Istituto “ReginaMargherita”, la distinzione al merito del comune saconnésien, per lasua dedizione esemplare, per tutto l’amore dato ai bambini dell’Istitutoitaliano e per l’abnegazione dimostrata durante la lunga vita consacra-ta al prossimo. A consegnarle l’onorificenza è l’allora sindaco HenriStengel, che ha avuto modo di apprezzare la piccola suora durante lasua attività di insegnante e dirigente della scuola.

Egli, nel discorso, rivolgendosi a suor Scolastica, dichiara:

«Lei ha consacrato la sua vita agli altri, particolarmente ai bambinipiù svantaggiati e continua, giorno dopo giorno, il suo lavoro che è veravocazione. Nessuna pensione l’aspetta. Lei continuerà a dedicarsi aglialtri fino alla fine della sua esistenza. Quando si parla con lei si perce-

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pisce questa fede meravigliosa che la anima…. Quando le ho chiestoqual era stato il ricordo più bello della sua vita religiosa, mi ha rispo-sto: “La soddisfazione di poter aiutare»78.

Ben inteso, questo omaggio rivolto alla Madre superiora, precisaStengel, ricade su tutte le suore dell’istituto e del personale e sull’ope-ra sociale della Missione cattolica italiana a Ginevra.

Demolizione dell’OrphelinatNegli anni ’80 il collegio, che ospitava ormai pochi figli di emigra-

ti, è chiuso e trasformato in asilo-nido, aperto alla popolazione locale.Le suore francescane lasciano definitivamente l’Istituto “ReginaMargherita” nel 1995. Ad assumere la guida dell’asilo-nido sarà SandraOlivet. Nel 2000 subentreranno le suore Orsoline di Verona.

Quattro anni dopo l’asilo è momentaneamente trasferito altrove,perché l’edificio è destinato ad essere demolito per costruirvi una casa

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Demolizione del “Regina Margherita” nell'autunno del 2004

di riposo (EMS), inaugurata nel 2009 con il nome “Les Pins”.Nell’EMS, ora, è ospite anche qualche genitore degli ex collegiali,

diventato ormai anziano, proprio come avevamo previsto durante ilnostro incontro nel 2004 quando ci siamo detti: “Prima ci hanno messoloro in collegio ed ora siamo noi ad accompagnarli!”.

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-III-

Dagli anni ’50 in poie i figli degli italiani al “Regina Margherita”

Arrivo della nuova emigrazione italianaE adesso entriamo in scena noi, quelli del “Regina Margherita” del

Grand-Saconnex, un paese che confina con l’aeroporto di Ginevra.D’ora in poi è la nostra storia, ovvero la vicenda di tanti ragazzi arriva-ti da tutta la penisola italiana, parcheggiati lì solo per aspettare di poterandare a vivere con i propri genitori.

Dall’indagine fino ad ora effettuata emerge che il lavoratore italia-no ogni volta che va in Svizzera deve assoggettarsi a rigide leggi peravere il diritto di lavorarci e di viverci. La Svizzera, in effetti, è ilpaese europeo che registra più manodopera straniera sul proprio terri-torio, toccando anche, in certe attività, negli anni ’50-60, punte del50% di lavorati richiamati dai paesi confinanti. Per arginare i flussi diemigrazione, le autorità della Confederazione Elvetica mettono deipaletti fin dagli anni ’30 dello scorso secolo. Tra questi paletti vi sonoi famosi “permessi di soggiorno” rilasciati ai lavoratori stranieri, inmaggioranza italiani.

I nostri genitori, quasi tutti, cominciano come lavoratori stagionali(dopo nove mesi ritorno in Italia). La trafila è quasi sempre la stessa inogni regione d’Italia: c’è un pioniere che parte dal proprio paesello perl’estero, all’inizio magari come turista o, spesso, come in Francia, perraccogliere le barbabietole, riesce poi a trovare un lavoro fisso e, se ilpatron ha apprezzato la sua laboriosità, gli chiede se ha conoscenti inItalia che vogliono lavorare per lui… e il gioco è fatto. È così che, pocoa poco, interi borghi si svuotano di lavoratori pronti a raggiungere ipaesani all’estero.

Per ottenere il permesso di lavoro annuale, i nostri genitori devonolavorare per più di quattro o cinque anni in Svizzera con lo stesso dato-re di lavoro che, grazie alla legge sui famigerati permessi di soggiorno,ha in mano uno strumento di ricatto temibile contro il lavoratore, di cuiusa e abusa a piacimento.

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Alcuni lavoratori, tuttavia, almeno nel cantone di Ginevra, possonoottenere immediatamente il permesso di soggiorno annuale: è il caso diquelli che svolgono l’attività nelle Tuileries di Bardonnex. Poiché illavoro è continuativo, anche con turni notturni, non avrebbe sensointerrompere il rapporto di lavoro dopo nove mesi.

Spesso, anche se ottiene il permesso annuale, l’emigrato continua anon poter affittare un appartamento, deve accontentarsi di stanzetteammobiliate per due persone, che non consentono di tenere i bambiniin casa; cosa, per altro stabilita da leggi ben chiare. In tal modo è pra-ticamente impossibile il ricongiungimento familiare.

Che fare, allora, dei figli? Molti italiani, specialmente nei cantoni tedeschi, non avendo la pos-

sibilità di tenere i figli in Italia presso nonni e zii, li nascondono in casa,con conseguenze nefaste per il futuro dei bambini che, oltre al traumapatito per una vita segregata, non possono inserirsi bene nella società,perché poco scolarizzati. A Ginevra c’è, per fortuna, l’Orphelinat ita-liano del Grand-Saconnex!

Maria Frigerio e Simone Burgherr nel loro libro Versteckte Kinder:Zwischen Illegalität und Tremmimg. Saisonnierkinder und ihre Elternerzählen79 raccolgono testimonianze dirette dei bambini nascosti e deiloro genitori nella Svizzera tedesca dove, ancora nel 1990, nella mag-gior parte dei cantoni, i bambini che vivono nell’illegalità non hanno ildiritto di frequentare la scuola, malgrado il diritto universale del fan-ciullo all’educazione. Ginevra è il primo cantone svizzero a riconosce-re tale diritto nel 199180.

È emblematica, a questo proposito, la testimonianza di Catia Porrinella trasmissione tv Polenta e Maccheroni81. Arrivata a 12 anni nellaSvizzera tedesca, soffre una serie di costrizioni: i genitori, per esempio,le impediscono persino di scendere dal letto quando sono assenti perlavoro. Ricorda che in casa non poteva fare il minimo rumore altrimen-ti i vicini l’avrebbero denunciata. Il pavimento a parquet, infatti, scric-chiolava e i passi avrebbero svelato la sua presenza.

I genitori che hanno figli “nascosti” sono obbligati a riportarli in Italiase scoperti, e tanti, nella situazione appena accennata, sono costretti alasciarli subito dopo la frontiera, a Domodossola, raggiungibile facil-mente dalla Svizzera, dove esiste un collegio di religiose. I bambini par-cheggiati in quell’istituto saranno chiamati “orfani di frontiera”.

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Gli esperti mettono in evidenza come a scuola i bambini vissutisegregati mostrano grandi angosce. Angoscia che si traduce in genera-le con un comportamento apatico e asociale. Parlano poco e non osanoquasi muoversi. Effettivamente temono di farsi notare e, soprattutto, ibambini vissuti nella penombra non hanno fiducia in se stessi e nelleloro capacità.

Le conseguenze della legge restrittiva sul ricongiungimento familia-re adottata dalla Svizzera è davvero deleteria non solo per il bambino,ma anche per l’intero nucleo familiare.

Insomma, quando lo scrittore svizzero Max Frisch conia quella fraseormai abusata: “Abbiamo chiamato braccia ed arrivarono uomini edonne”82, questa volta, quell’umanità che arriva siamo noi! I nostrigenitori cercano solo “pane” e non sanno che in quella ricerca spasmo-dica potrebbero anche destabilizzare una nazione.

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Una storia e la vita dei bambini italiani al collegio

Arriviamo al Grand-Saconnex un fresco pomeriggio di agosto del1959, una giornata che ha tutte le caratteristiche di fine estate,

perché l’estate del solleone, delle vacanze, della spensieratezza, l’ab-biamo lasciata in Italia. Probabilmente siamo partiti da PlaceClaparède, nelle cui vicinanze i miei vivono in una stanzetta ammobi-liata e siamo giunti al Petit-Saconnex con l’autobus n.23. Abbiamofatto un lungo tratto di strada a piedi, fiancheggiando il cimitero e cisiamo inoltrati per una viuzza sinuosa, quieta, dove si affacciano ognitanto ville silenziose. L’edificio del collegio è armonioso, circondato daalti fusti. Saliamo pochi gradini e suoniamo il campanello. Aspettiamoqualche minuto, poi, una suora di nero vestita con un bavero bianco beninamidato che spicca sul petto, minuta, sopracciglia folte e occhi neri,mobili, penetranti, ci fa cenno di entrare. D’ora in poi, mio fratello edio dobbiamo restare qui. La nostra venuta in Svizzera non è altro cheuna nuova separazione dai nostri genitori.

Veniamo accompagnati in un grande salone dove molti bambinistanno giocando rumorosamente. Alcuni parlano dialetti che non cono-sciamo. Ci sediamo saggiamente sulle panche e aspettiamo. Mio fratel-lo, cinque anni, non riesce ancora a mettere a fuoco la nuova situazio-ne. Rimane zitto vicino a me. La sua disperazione esplode nel momen-to di andare a dormire, lui nella camerata dei bambini ed io in quelladelle bambine. Né suor Amelia né io riusciamo a fargli capire che devedormire con gli altri bambini. Il suo è un pianto pieno d’angoscia, chenon vuol sentire ragione, che non si ferma e che, anzi, aumenta di inten-sità quando la suora, brusca, tenta di staccarlo da me. Per quella notte,per non infastidire tutti gli altri, la monaca si arrende e mi permette didormire con lui in una stanzetta separata.

Siamo appena giunti dall’Italia e abbiamo già capito che la Svizzeranon è solo la deliziosa cioccolata che i genitori ci portavano ogni voltache ritornavano al paese.

Il distacco dai nostri affetti consolidati era già stato doloroso. Dapiù di due anni i miei, trasferitisi in Svizzera per lavoro, ci avevanolasciato alle cure dei nonni materni. Successivamente, per alleggerireil carico dei loro familiari già molto impegnati nel lavoro agricolo, miavevano messo, perché più grande di mio fratello, in un collegio disuore nelle vicinanze di Reggio Emilia.

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Come me, molti altri bambini arrivati al Grand-Saconnex, avevanola stessa esperienza alle spalle e avevano fatto la medesima trafila: alcu-ni lasciati in Italia da zii, da nonni o in collegio, altri, meno fortunati,da amici. Quegli anni li abbiamo vissuti nella nostra patria metà orfani,con la visita dei genitori una, massimo due volte all’anno: una punizio-ne che colpiva bambini anche di due-tre anni, come mio fratello.

La sorte dei nostri genitori è anche più dolorosa. In Svizzera trova-no discriminazioni (ancora oggi all’estero c’è chi pensa Italia = mafio-si), durezza e sfruttamento del lavoro, un misero alloggio, la difficoltàdella lingua, la problematicità per la propria ignoranza, la mancanza deifigli, l’inesistenza di un qualsiasi sostegno sociale83 e via di seguito.Ma essi, che hanno lasciato in Italia gli affetti più cari, la terra delle lororadici, le loro abitudini, tutto quello che aveva valore per loro, vannoavanti con caparbia tenacia nella speranza di raggiungere, con le pro-prie forze, il benessere per tutta la famiglia. I nostri genitori capisconoche solo con il duro lavoro e la ferrea volontà possono riuscire ad emer-gere, ad avere una paga decente che consentirà loro una vita dignitosae assicurerà il futuro dei propri figli. È impensabile per questi lavora-tori della terra affidarsi alla carità: sono troppo orgogliosi per accettarel’assistenza sociale quando hanno braccia forti per lavorare.

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1960. I maschietti con suor Lucina

Al mio arrivo al “Regina Margherita” ci sono circa 120 bambini ditutta Italia, venuti dai più sperduti paesini del Bel Paese. Quelli nonscolarizzati, sotto i sei anni, parlano solo il loro dialetto e non sonoquindi in grado di parlare l’italiano, figuriamoci il francese!

In quel collegio si è costituita una vera “Unità d’Italia”, un’entitàche non distingue nord e sud della penisola, semmai la divisione avvie-ne per categoria linguistica, ovvero il vernacolo che ognuno sa parlare.Infatti, ci sono i vicentini, i friulani, i marchigiani, i pugliesi, i pisani,ecc… e, molti di noi, l’italiano, e non il francese, ci prepariamo a impa-rarlo proprio lì.

In tutto, solo sette religiose italiane, più quattro aiutanti, si occupa-no dei bambini, che sono dai 3 ai 12 anni i maschi e fino a 14 le fem-mine. Bambini abituati ad obbedire, senza pretese, senza capricci.

Ad assisterci sono le Suore francescane missionarie la cuiCongregazione aveva la Casa madre a Susa in provincia di Torino:donne dai modi schietti, avvezze a trattare con i ragazzini. La Madresuperiora, suor Scolastica, è una piccolissima sarda dalle maniere gen-tili, ma con carattere d’acciaio che dimostra in varie occasioni, comequando va a perorare la causa dei bimbi più piccoli, che una nuovainsegnante non vuole ammettere nelle classi “enfantines”.

Poiché il “Regina Margherita” è un istituto religioso, la domenica ei giorni comandati arriva un sacerdote italiano per officiare la messa econfessarci. Questo prete si fa vedere di tanto in tanto, perché probabil-mente segue l’amministrazione del collegio. Un’amministrazione chegestisce in piena fiducia suor Scolastica, molto preparata nella contabi-lità, in quanto, secondo il racconto di una consorella, prima di prende-re i voti, aveva diretto un ufficio postale. Anche per questo, la Madresuperiora gode della stima totale del clero e del “Comitato” che si ècostituito per permettere al Collegio di funzionare. Oltre alla gestionedel “Regina Margherita”, segue gli adempimenti nei confronti dell’am-ministrazione del Cantone di Ginevra delle tasse sulle misere pagheelargite alle suore per la loro attività.

Mio fratello, appassionato di statistica, avrebbe voluto svolgereun’indagine sui “libroni” che le suore conservavano con le annotazio-ni delle entrate e delle uscite dei collegiali, ma purtroppo, con l’ultimotrasloco, sono andati perduti.

Se c’è una pecca avvertita da molti ospiti del collegio, a distanza ditempo, è quella di “troppa” religione all’interno di questo istituto.

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Catechismo, preghiere, rosari, messe, processioni, funzioni religiosedelle festività, cadenzate dal ricco calendario religioso e, persino, quan-do si riesce a vedere un film all’interno dell’Istituto – cosa piuttostorara – è quasi sempre sulla vita di un Santo! Questo è comunque il prez-zo da pagare, poiché le suore si occupano di noi e, per loro, la contro-partita è appunto la nostra salvezza.

Vige anche una grande disciplina notata dallo stesso maestro princi-pale Henri Stengel, senza la quale è impossibile gestire 120 bambini.

Per far fronte alle esigenze di tutte le età (3-14 anni) ci vuole vera-mente un’ottima organizzazione, tanto più che le monache, come si èvisto, non sono numerose.

I bambini in età scolare devono frequentare la scuola elementare delcomune del Grand-Saconnex che dista più di un chilometro e che finoal 1964 ingloba anche due classi, la sesta e la settima, che in Italia chia-miamo prima e seconda media. Le giornate, perciò, sono scandite daorari ben precisi, come raccontano nelle loro testimonianze gli ex col-legiali.

La prima regola da rispettare è che i grandi devono aiutare i picco-li. La seconda, che ognuno è chiamato a svolgere qualche servizio peril buon andamento della struttura. Per non creare gelosie, lo si deve farea turno. Sotto, sotto, queste attività sono anche un modo per tenerciimpegnati.

Non è certo una novità per noi che siamo stati abituati, dai sette anniin poi, ad aiutare in casa e non ce ne possiamo lagnare con i nostri geni-tori che lo ritengono più che normale. Infatti, se con le suore tutto hafunzionato quasi sempre a meraviglia, è dovuto al fatto che siamoavvezzi non solo ad ubbidire, ma anche a dare una mano molto impor-tante sia in casa che nei campi, poiché molti di noi provengono daambiente rurale.

Un’altra regola, questa volta imposta ai nostri genitori, è che nonpossono farci visita durante la settimana, perché la presenza di uno diloro potrebbe creare aspettative e risentimenti negli altri bambini.

Le sbavature, come per esempio racconta Tina nel successivo que-stionario, sono dovute a comportamenti di singole suore, anche loroportatrici del proprio vissuto. Certo in queste strutture le ingiustiziesono sempre state inevitabili, poiché si uniscono insieme tanti fattori e,tra i più importanti, quelli caratteriali. I bambini più vivaci fanno piùfacilmente breccia nei vari cuori; mentre quelli riservati possono otte-

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nere due risultati opposti: o considerazione o indifferenza. Anche labellezza ha il suo peso. Un bambino o una bambina belli hanno piùchance per essere presi in considerazione rispetto agli altri. Comunque,è vero, non avevamo una grande cuoca, poiché ricordo anch’io, chesono di bocca buona, la colazione poco piacevole raccontata da Tina eDomenico (ma cosa mettevano nel latte?) e certe sbobbe….

All’interno di questo collegio siamo suddivisi in cinque gruppi: duemaschili e tre femminili.

Il primo gruppo di maschietti va fino a 6 anni, il secondo da 6 a 11-12 anni. Le femminucce, invece, sono così organizzate: il primo grup-po va fino a 6 anni, il secondo da 6 a 10 ed il terzo da 10 anni in poi ecomprende anche le ragazze più grandi. I maschi occupano il primopiano, mentre le femmine il secondo. Una sola scala separa i due pianied è proibita ai maschi grandi. Nessuno di loro ha la possibilità di sali-re quella scala, pena l’esclusione dal collegio. Su questo le suore nontransigono.

Quando ci siamo ritrovati quarant’anni dopo, tra le prime cose chehanno voluto fare gli ex maschietti è stato salire quella scala proibitaper vedere il tesoro che nascondeva. Stanzoni nei quali dormivamo noi,le ragazze grandi e quelle più piccole, i bagni, le docce, il guardaroba:tutto lì, nessuna enigmaticità.

A distanza di tempo, comunque, ci si chiede cosa animasse le suorea trascorrere tutta la loro esistenza occupandosi di ragazzini che poisparivano dalla loro vita senza lasciare traccia? Una risposta l’ho tro-vata sul sito web della loro Congregazione fondata dal vescovo di Susa,il Beato Rosaz (1830-1903): «La religiosa voluta da Rosaz è prima ditutto mamma, cioè colei che deve esprimere, con la sua consacrazione,la ricchezza della maternità umana e spirituale verso tutti coloro che ilSignore le affida».

Si può tranquillamente affermare che le missionarie hanno raggiun-to in pieno il loro obiettivo, dal momento che hanno curato, amato eseguito tantissimi bambini passati per il loro Istituto.

Tenuto conto, però, di quanto hanno fatto e quanto hanno dato ovun-que siano andate, non si riesce a capire perché la Chiesa fatichi a dareloro il giusto riconoscimento. Sarebbe, infatti, ora di rivalutare il ruolodi chi, per un misero stipendio, ha svolto un lavoro egregio senza ilquale le missioni non sarebbero esistite e che hanno contribuito ancheal finanziamento degli stessi centri di accoglienza. La vita parca delle

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sante donne ha permesso loro di fare donazione degli stessi guadagni,senza nulla tenere per se stesse. Tanti ignorano, infatti, che parte delloro stipendio, tolte le spese, era devoluto alla Casa madre di Susa perconsentire alla Congregazione di aprire altre Missioni nel mondo.

Le suore erano e sono davvero povere fino alla fine della loro esi-stenza e la pensione che ricevono dopo una lunga vita di lavoro è dav-vero minima.

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-IV-

Scuola elementare del Grand-Saconnexe i bambini italiani del collegio

L’impatto con la scuola francese

Rivivo in flashback i primi giorni di scuola. A due per due, manonella mano, stiamo percorrendo una lunga strada che sfiora un

prato maestoso. Pacifici ruminanti pascolano, guardandoci passare eabbassando di tanto in tanto la testa per strappare un ciuffo d’erba. Ilcorteo di bambini lungo e vociante non ci fa caso, è ormai abituato aquesto bucolico spettacolo. Il prato è delimitato da un filo che mi arri-va al ginocchio. Mi chiedo a cosa serva e per curiosità lo tocco, ma unascossa improvvisa mi fa fare un salto all’indietro. Scatta una risata col-lettiva e la mia compagna mi spiega che è un filo elettrico per impedi-re alle mucche di allontanarsi dal campo.

Arriviamo a scuola ed ogni insegnate chiama i suoi alunni. Il mionome è pronunciato da un giovane dai lineamenti regolari, alto non piùdi m. 1,70, nota particolare: non sorride, si vede che è alla sua primaesperienza. Sono una delle più grandi e per questo sono in fondo allaclasse. Mi sento inadeguata e in imbarazzo perché, contrariamente a me,i bambini svizzeri sono carini, ben vestiti. Il maestro scrive alla lavagna,spiega, ma non interagisce con quelli che non sanno il francese. Non liconsidera. Quando il suo sguardo cade per caso su di noi, nei suoi occhicala un velo che copre qualsiasi emozione. Passo la giornata a tracciarecon precisione millimetrica i margini dei quaderni che non ne hanno, eche mi sono stati forniti dall’amministrazione scolastica. Non capiscouna parola di tutto quello che viene detto tra l’insegnante e gli alunni.Con i miei compagni di collegio ci guardiamo, ma non osiamo parlare,contiamo i secondi che ci salvano da questo calvario. Suona la campa-na, infine la ricreazione. Ed ecco dieci minuti liberi per correre nelpréau, che è definito per eccellenza il luogo più importante per l’inte-grazione. Ma noi non possiamo integrarci, perché nel cortile troviamo inostri compagni del collegio ed è con loro che giochiamo.

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Il nodo allo stomaco, che molti di noi si portano dentro quando var-cano la porta della scuola, continua a tormentarmi anche il secondoanno di scuola. Madame Goy84, una bella donna dai modi signorili, checonosce anche un po’ d’italiano, è la mia seconda insegnante svizzera.Capisce la mia angoscia e cerca di darmi delle spiegazioni personali.

Ci sono tante chiavi che possono aprire la mente di un bambino e unbuon educatore non è quello che sa tutto sulla sua materia, ma quelloche sa trovare questa chiave. Devo ammettere che non era facile per gliistitutori scoprirla.

Io sono, in quel momento, impermeabile a ricevere qualsiasi nozio-ne, paralizzata dalla paura, perché ho troppe lacune da colmare. Nellematerie orali sono brava, perché mi applico, ma in quelle astratte no. Lemie difficoltà sono nate già nei banchi della scuola elementare italianaquando ho incontrato le pluriclassi, ma esse derivavano soprattutto dalfatto che anche in Italia ero stata messa in un collegio, cosa che miaveva destabilizzata. Ora, ritrovarmi in un ambiente totalmente diver-so, mi pone problemi insormontabili. Anche se Madame Goy si prendela briga di fermarsi un attimo per cercare d’insegnarmi qualcosa, la suaattenzione mi emoziona e mi blocca, mi sento terribilmente in imbaraz-zo e non so renderle ciò che spera. Ella, con tutta la sua buona volon-tà, non può decifrare le mie paure.

Ci vorranno i tre fatidici anni in Svizzera perché, una volta fuori dalcollegio, mi sia liberata da quest’angoscia e riesca infine ad apprezza-re la scuola e a ricevere perfino l’attestato di prima della classe!

Di quei primi anni si affastellano ancora nella mia mente, a distan-za di più di cinquant’anni, le favole di Jean de la Fontaine imparate amemoria: «Maître corbeau sur un arbre perché tenait dans son bec unfromage….», la regina delle favole per eccellenza. Chissà perché pro-prio quella è la più conosciuta quando, invece, ci sono peccati moltopiù brutti della vanità, o forse no. Nella patria di Calvino proprio lavanità è intollerabile: «Tu es gonflé!» È una delle accuse più frequenti.Non bisogna apparire, non bisogna vantarsi: Tais-toi!, Parle douce-ment!, Ne gesticule pas! (Taci!, Parla piano!, Non gesticolare!).

Una materia davvero importante per noi bambini emigrati è il canto,perché attraverso quelle parole ripetute tante volte impariamo il francese.Conosco molte più canzoni del folclore svizzero-francese io di quante nepossano conoscere le mie nipoti, nate sulle rive del Lemano e, anchequelle, sono rimaste incancellabili e posso ripeterle ora alle pronipoti!

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Le materie più belle per noi italiani, oltre al canto, sono la ginnasti-ca e il disegno. Discipline che non richiedono la conoscenza della lin-gua. Molti di noi si sono fatti conoscere grazie al disegno, come ilpugliese Michele Tavaglione, divenuto un pittore rinomato, nonchéarchitetto.

Scuola e problemi connessiAltra lingua, altre abitudini, ma soprattutto un sentimento d’inferio-

rità, di inadeguatezza, che mi accompagnerà a lungo, così come accom-pagnerà tutti i bambini che hanno fatto lo stesso mio percorso.

Abbiamo già visto che per noi il francese è la terza lingua; la primaè il nostro dialetto, la seconda l’italiano imparato a scuola, se abbiamofrequentato qualche classe in Italia o se l’abbiamo appreso dalle suore,e la terza è il francese che parliamo unicamente a scuola, poiché tra noila lingua franca è l’italiano e le suore non conoscono molto bene ilfrancese. Forse solo suor Lucina e la Madre superiora se la cavano nellalingua orale, ma non scritta.

La scuola per molti di noi, soprattutto quelli arrivati in Svizzera piùgrandicelli, almeno i primi anni, è una grande sofferenza: un’angosciache ti prende le viscere appena entri in classe – come racconta Mario –,

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Primi anni ’60. Le bambine vanno a scuola accompagnate da suor Lucina.

perché magari non abbiamo fatto i compiti, facendo finta di scaraboc-chiare qualcosa sul nostro quaderno il pomeriggio durante l’ora obbli-gatoria, mentre una suora ci sorvegliava, e cercando disperatamente diconcentrarci, senza essere in grado di eseguire il lavoro scolastico.

Un metodo matematico per sapere se il francese ci è entrato in testasono i dettati che ci vengono fatti in classe. Nella lingua italiana il det-tato si fa specialmente nelle prime due classi elementari; in francese,invece, è una cosa fondamentale, perché in questo idioma, come dicel’amica Rita, insegnante di questa materia in Italia, ci sono più eccezio-ni che regole. Non per niente esiste il campionato internazionale del-l’ortografia francese. Con il dettato c’è, appunto, il confronto rigoroso,in quanto bisogna scrivere ciò che si capisce: «Quanti errori hai fatto?»,«Io 32 e tu?». Insomma riusciamo a riempire di segni rossi tutta la pagi-netta; a poco a poco, però, li riduciamo e, quando arriviamo massimo acinque errori, allora sì che possiamo dire di essere diventati bravi.

Ogni volta che a scuola non si sa la lezione, c’è una nota dell’inse-gnante su una specie di carnet: “une leçon non sue”, che dobbiamoconsegnare alle suore per la firma, le quali devono far seguire anche larelativa punizione. Tra incomprensioni e leçons non sues, la nostra vitadi scolari va avanti e sono i momenti di ricreazione quelli più belli,dove diventiamo bambini come tutti gli altri.

Gli insegnanti del Gran-SaconnexSe i problemi linguistici sono difficili per noi, la stessa difficoltà

incontrano i nostri insegnanti dell’Ecole Place. Nel 1916 il Comune del Grand-Saconnex si deve adeguare per l’ar-

rivo dei piccoli italiani. Nel dopoguerra l’affluenza è anche superiore:più di un’ottantina di ragazzini in età scolare, dall’école enfantine (pri-mina) alla settima classe, bussano alle porte della scuola.

Un terremoto per questo paesone agricolo che, a causa della vicinan-za dell’aeroporto, si sta urbanizzando sempre più. Le classi aumentanoe i bambini frequentano la scuola della Place e poiché non basta più,l’amministrazione realizza anche quella della Tour. Dice il maestroprincipale di allora, Henri Stengel, che a un certo momento si sono for-mate due classi enfantine, frequentate unicamente da bambinidell’Istituto italiano.

Come amalgamare questi ragazzini che non conoscono la lingua congli autoctoni? Come insegnare contemporaneamente a bambini che ti

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capiscono e a quelli che non afferrano nulla di quello che dici? Questoè il principale problema incontrato dai nostri ex insegnanti e che cerca-no di affrontare in vari modi.

Infatti, prima gli alunni sono messi in classi miste (autoctoni e ita-liani), poi è creata una sperimentazione di classi di soli alunni italiani,per il fatto che sono presenti in numero considerevole bambini senzanessuna base della lingua. La sperimentazione dura dal 1961 al 1974 e,a detta di tanti, è un fallimento. Secondo le testimonianze dirette diDomenico, Mario e Carmine, invece, queste classi sono state importan-ti e provano comunque la ricerca di soluzioni da partedell’Amministrazione scolastica che si ritrova improvvisamente condecine di ragazzini italiani, senza riuscire a raggiungere alcuna certez-za sulla loro integrazione scolastica.

Ogni anno nel collegio c’è un turnover dovuto al fatto che appena igenitori sono in grado di sistemarsi con l’alloggio, richiamano i figli,mentre altri bambini arrivano dall’Italia. Nel comune esiste solo lascuola fino alla 7a classe e, per proseguire gli studi, bisogna andare incittà85. Purtroppo quasi tutti i ragazzini del collegio sono ripetenti,

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I libri che ci davano a scuola

almeno quelli che hanno già fatto qualche classe in Italia, per cui viarrivano a 12-13 anni e più. La scuola dell’obbligo in Svizzera, altempo della nostra esperienza, si fermava a 16 anni, per nostra fortuna,altrimenti, saremmo rimasti fuori dai circuiti dell’insegnamento profes-sionale o superiore.

Suor Scolastica, intanto, va a scuola ogni volta che arriva un nuovoalunno per iscriverlo. È il Sig. Stengel a ricordalo. È lei che ha voce incapitolo con la scuola. I bambini più fortunati sono quelli che comin-ciano la prima o la primina, perché imparano da subito il francese.Quelli che hanno già fatto qualche classe in Italia ripetono l’ultimoanno.

Una decisione nefasta che non fa che aggravare la situazione scola-stica dell’alunno, poiché la mancata conoscenza della lingua e la fortedemotivazione per l’incomprensione totale dell’insegnante portano allabocciatura sicura. Lo scolaro che ha fatto, per esempio, la quarta inItalia, deve rifarla due volte in Svizzera. Inutile dire che questa sceltanon è saggia, perché il ragazzino ripetente due volte si ritrova compa-gni molto più piccoli di lui e nell’adolescenza, in particolare, diventadavvero imbarazzante e accentua maggiormente il senso d’inferiorità.

Le scuole italiane, rispetto a quelle svizzere, allora, erano moltopiù avanzate nei programmi scolastici. Fino al 1960, anno dell’istitu-zione della scuola media, la quinta elementare, ultima dell’obbligoscolastico, era davvero formativa e gli insegnanti cercavano di dareun certo bagaglio culturale ai propri alunni. I figli di emigrati eranoanche più avanti degli autoctoni negli studi, ma ricordo che non con-tava molto.

Un’altra conseguenza non da poco per noi è che ci si poteva iscri-vere all’Università solo dopo aver frequentato determinate scuolesuperiori. Se non si riportavano voti buoni già alle scuole corrispon-denti alla nostra prima media, non si veniva ammessi al proseguimen-to degli studi superiori e il percorso universitario era bloccato. Non siaveva diritto all’errore, al ripensamento, alla “maturità” di giudizio cheavviene quasi sempre dopo il periodo delicato dell’adolescenza. Eccoperché ci sono pochi laureati tra noi. Avevano una chance solo quelliche non avevano frequentato scuole in Italia ed entravano a scuoladalle primissime classi francesi imparando direttamente la lingua comegli autoctoni. Giocava un fattore negativo anche l’ignoranza dei geni-tori, che non erano in grado né di aiutare nei compiti i propri figli né

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di indirizzarli verso gli studi superiori, una volta adolescenti. Solo l’in-tervento di padre Angeli e delle suore presso il padre di MariannaLalicata, per esempio, aveva permesso alla ragazza di continuare glistudi fino alla laurea. Per un operaio veder scegliere dal figlio una pro-fessione come elettricista, meccanico o contabile era il massimo dellesue aspirazioni!

Per le generazioni che si trovavano ad affrontare la scuola superioretra gli anni ’50 e ’60 era anche peggio, come racconta Maria. Eraimpossibile per lei, che aveva fatto l’Istituto femminile, iscriversi a unafiliera professionale diversa da quelle consentite dal suo percorso sco-lastico, percorso che le era stato imposto. Avrebbe preferito svolgere laprofessione di fotografa, ma non le era stato accordato.

Comunque, va detto che la scuola del Grand-Saconnex, come tuttequelle del Cantone di Ginevra, ci riforniva di tutto: penne, matite, qua-derni, libri. E perfino, ricordo, un ¼ di latte freddo dentro un berlin-got (i primi Domopak), il pomeriggio quando si rimaneva a scuoladopo le cinque. È il Département de l’Instruction publique du Cantonde Genève a concedere questo privilegio fino alla scuola dell’obbligo.

Il cantone di Ginevra tra l’altro è il primo in Svizzera ad affermarenel 1991 che tutti i bambini stabilitisi sul suo suolo devono essere sco-larizzati senza distinzione del loro stato legale, per cui, anche i clande-stini, ora, hanno il diritto all’istruzione.

Il sistema scolastico svizzero è fortemente decentrato, federale: ognicantone può stabilire proprie linee direttive. Le scuole primarie esecondarie sono gestite dai cantoni e da questi proviene la maggiorparte dei finanziamenti. Non esiste in Svizzera un ministero della pub-blica istruzione come in Italia, anche se alcuni aspetti amministratividell’educazione pubblica, come l’obbligatorietà della scuola, la duratadell’anno scolastico e il numero di anni di scuola dell’obbligo, sonocomuni in tutto il paese e vengono gestiti secondo le linee guida dellaConferenza Svizzera dei Direttori Cantonali della PubblicaEducazione86.

Come si vede, se da un verso la scuola svizzera, qualche decennioaddietro, si apriva ai più sfortunati, dall’altro si chiudeva a quellimomentaneamente svantaggiati dalla lingua come gli italiani, soprat-tutto nelle professioni di élite. Occupandomi di emigrazione inCanada, ho potuto costatare come gli italiani della prima generazionedi emigrati in Québec siano riusciti ad emergere accedendo a profes-

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sioni di prestigio e ciò malgrado uno sforzo maggiore per imparare ledue lingue ufficiali: il francese e l’inglese. È solo, quindi, una que-stione di chance offerte. In Svizzera, nel passato, si sono adottatedelle regole che hanno finito per bloccare la crescita intellettuale eculturale degli alunni stranieri.

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1965. La classe del maestro Henri Stengel

-V-

Il dopo collegio

La nostra nuova dimora

Aguardarla dall’esterno è una bella casa con il suo fienile e lestalle, un grande orto circondato da un alto muro e un magnifi-

co ippocastano che ombreggia l’ampio cortile dove si affacciano dueabitazioni. Un antico glicine, sapientemente distribuito, decora il murodi questa vecchia abitazione contadina la cui proprietaria ormai haabbondantemente superato l’ottantina. Una bella piazzetta, dove zam-pilla una fontana, ci separa dalla scuola, l’unico luogo di aggregazionedi questo piccolo comune che confina con la Francia. Ma a Perly lapiazza è sempre vuota, i pochi abitanti sempre indaffarati e siamo lon-tani anni luce dalla socialità che regna nei nostri paesini dove la gentescambia opinioni e sa sempre tutto di tutti.

Perly è la nostra nuova dimora. Una casa non più contadina, che lavecchietta ha affittato ai miei genitori. Un collega di mio padre, desti-natario di questa casa, vi ha rinunciato perché non ha nessun confort:non c’è il riscaldamento, non c’è il bagno e, nel retro, una bella conci-maia fa da raccoglitrice della spazzatura domestica. Non differiscemolto dalla casa abitata in Italia. Ma i miei ritengono un colpo di for-tuna averla avuta, perché la famiglia, dopo cinque anni, può infine riu-nirsi. Il caseggiato è molto vasto e altre due stanze vengono subaffitta-te a due coppie senza figli.

È qui che inizia la nostra nuova vita dopo il collegio. Grazie allascuola, mio fratello, un bel bambino sorridente e solare, non ha dif-ficoltà a farsi degli amici, i bambini del vicinato lo chiamano pergiocare, ma soprattutto per vedere la televisione che noi non abbia-mo. Solo quando devo cercarlo per farlo ritornare a casa inizia il miotormento. Afflitta da un timidezza che sfiora l’assurdità e che fa direalle persone “che imbranata!”, devo bussare alle varie porte, senzaosare. Allora lo chiamo da fuori, ma lui non sente e passa almenomezz’ora prima che mi decida a fare il fatidico passo e vederlo com-parire. Sono momenti in cui lo strozzerei, ma il giorno dopo rico-

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mincia: gli amici e la televisione sono troppo tentatori. Io, invece, devo andare a scuola in città. Bisogna alzarsi presto, per-

ché Perly è uno dei paesi più distanti da Ginevra e c’è un solo bus concorse limitate. Ed è proprio sull’autobus che, dopo un anno, riesco aconoscere due ragazze svizzere del posto, ma ci vediamo quasi esclu-sivamente su quel mezzo. Non ho una casa degna per riceverle, manemmeno loro conoscono la convivialità.

Anche in questo agglomerato di Perly, dove vi abitano cinque fami-glie emigrate, finiamo per ricostituire una minuscola Italia fatta di mar-chigiani, emiliani, avellinesi. I bambini di una giovane coppia emigra-ta sono troppo piccoli per giocare con mio fratello che preferisce lacompagnia di Xavier, Philippe o Laurent.

Il collegio me lo sono lasciato alle spalle e per me è ormai una paren-tesi chiusa. Un’altra nuova vita comincia. In questa zona non ci sonoamici del Grand-Saconnex e nemmeno nella scuola che frequento.

Ma che fine hanno fatto i compagni del collegio?Come ci siamo trovati dopo il Grand-Saconnex? Ognuno ha segui-

to la propria strada. Molte nostre famiglie si sono sparse per i varipaesini dell’entroterra ginevrino, dove è più facile trovare case adaffitto moderato. L’unico luogo dove possiamo ritrovarci è laMissione cattolica italiana presso cui, oltre a seguire le funzioni reli-giose, possiamo vedere qualche film, in quanto c’è un cinema. Lenostre visite, però, si diradano man mano che cresciamo.

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2011. La vecchia casa di Perly

Per noi ragazzi quegli anni sono di scelte molto importanti per il futu-ro. Bisogna terminare le scuole e acquisire una professione. Ormai abbia-mo imparata la lingua e parliamo il francese con accento ginevrino eabbiamo assorbito le usanze locali. E’ solo il cognome a svelare la nostraidentità. Almeno per mio fratello e me, poiché i miei genitori inconsape-volmente ci hanno dato due nomi internazionali: Oscar e Barbara.Tuttavia l’handicap permane, perché i genitori, come già accennato, nonsono in grado di aiutarci nella scelta della futura professione. Gli inse-gnanti non mettono lingua e raramente li vedono a colloquio.

Per fortuna Ginevra è una grande divoratrice di manodopera: servonooperai specializzati, venditori, impiegati, professionisti di alto livello perle sue industrie, per il turismo, per gli organismi internazionali che vihanno sede e, in teoria, abbiamo una vasta gamma di scelte. Ma solo inteoria, perché noi non le conosciamo e nessuno intorno a noi è in gradodi darci consigli. Come dice Domenico nella sua storia, è approdato aduna professione interessante, di cui non conosceva l’esistenza, cercandotra gli annunci quello che lui sapeva fare meglio: il disegno!

Esiste, è vero, un ufficio per orientare i giovani. Vi sono andata e mihanno fatto fare dei quiz. Causa timidezza e causa quiz mai fatti, credodi essermi ritrovata con un quoziente intellettivo da “deficit mentale”.Non mi ero trovata mai davanti a prove con quiz e non sono stata ingrado di rispondere adeguatamente, sebbene ricordo di aver trovatorisposte logiche che, però, non erano previste dal formulario. Ho impa-rato sempre tutto da sola e sono abituata ad osservare bene prima di farele cose. Anzi, penso che questo spirito di osservazione ossessivo mi siaderivato dalla mia condizione di “emigrata”, perché, specialmente aimiei tempi, se si sbagliava, si era giudicati male e subito etichettati.Spero, per il bene degli studenti, che i quiz attuali siano stati modificati!

Intanto, per definire il loro futuro, molti di noi scelgono l’appren-distato o la scuola professionale che porta ad un mestiere, consigliatidai genitori che vedono in un’attività tecnica la massima aspirazioneper i propri figli. Pochi, per l’handicap iniziale, possono scegliere ilicei, così come pochi entrano direttamente in una attività lavorativa.Ognuno, tuttavia, fa la sua strada, all’inizio molto difficile, poi, conil tempo, è possibile dimostrare la propria bravura, la grande adatta-bilità, la voglia di crescere, tipica dei figli dell’emigrazione. E nessu-no ha avuto più nulla da ridire. Nel corso della vita qualcuno comeCarmine, Oscar, Angela e chissà quanti altri, che hanno capito diavere grandi capacità, hanno cambiato attività lavorando e studiando

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contemporaneamente, raggiungendo quella posizione che, se fosseronati in famiglie autoctone, avrebbero ottenuto da subito.

Dal “Regina Margherita”, come è messo in evidenza dai maschi, cisiamo portati dietro la socializzazione, la buona educazione, la capaci-tà di vedere le ragioni degli altri, l’empatia, quindi, difficilmente cisiamo scontrati con i colleghi senza validi motivi. Ricordo che a unodei miei primi impieghi fui preferita ad altri candidati più preparati,perché il direttore del personale, infastidito dall’atmosfera da far-westche si respirava in ufficio, cercava una persona conciliante e malleabi-le ed io rispondevo in pieno a questi requisiti.

Il peggio ce lo siamo lasciato alle spalle. Solo all’inizio degli anni’70 l’iniziativa Schwarsenbach, il “ruscello nero” – così significa intedesco la parola Schwarzenbach – cola su di noi, ripiombandoci nellanostra condizione di emigrati. La reazione del marito di Irma, che lacostringe a prendere la nazionalità svizzera, è illuminante a proposito.A causa della xenofobia dilagante di quegli anni, tanti connazionalidecidono il ritorno in Italia che, nel frattempo, si era evoluta e stavaattraversando la fase felice del suo boom economico.

Mia madre mi disse tempo fa:

«Quando in Svizzera finalmente ero riuscita ad ottenere tutto quelloche desideravo: un bell’appartamento con tutti i confort, compreso iltelefono, l’auto, il cinema la domenica, mi sono accorta che alla finedel mese della mia paga non restava nulla. E’ allora che ho deciso diritornare in Italia».

Quelli che sono rimasti ora sono perfettamente integrati, hanno figlie nipotini “svizzeri” che, seguiti e spinti dai loro genitori, hanno fre-quentato scuole giuste per diventare professionisti di alto livello. Dopol’entrata in vigore della legge sulla doppia cittadinanza, molti italiani,per sentirsi cittadini a tutti gli effetti del luogo in cui vivevano, hannopresentato la domanda di naturalizzazione alle autorità elvetiche.

La comunità italiana è sostituita oggi da quella spagnola e da quellaportoghese, sopraggiunta successivamente; attualmente altre etnie siaffacciano sul suolo elvetico, perché la Svizzera continua ad averebisogno, per le sue industrie e il terziario, di manodopera, che non puòsfruttare più con il famigerato permesso stagionale. La sua “mezza”entrata nella Comunità Europea la obbliga al rispetto di leggi comuni ead accettare lavoratori proveniente dalla UE.

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Testimonianze

Rapporto scuola-collegio:ricordi del Maestro principale e della Madre superiora

Scuola: testimonianza di Monsieur Henri Stengel sugli alunni italiani L’ex Maestro principale della Scuola del Grand-Saconnex, cono-

sciuto da quasi tutti i ragazzi che hanno transitato nel collegio, perchéha iniziato l’insegnamento nel 1959, ha accettato subito di rispondere,con grande cortesia e precisione, alle mie domande sui bambini italia-ni che hanno frequentato la sua scuola. Henri Stengel, all’Ecole delGrand-Saconnex, ha insegnato per vent’anni prima di diventare vice-direttore dell’insegnamento primario della Pubblica Istruzione delCantone di Ginevra. Egli è stato anche sindaco di questo Comune e,attualmente in pensione, si occupa, insieme a Jacky Cretton, della“Memoria” del Grand-Saconnex, un’associazione culturale molto atti-va nella ricerca storica della propria zona. Ha svolto in proprio un’in-dagine interessante sull’Istituto “Regina Margherita” dal titolo:L’Institut italien Regina Margherita. Un EMS à la place d’un internat. Scrive Henri Stengel:

«Per quel che riguarda i bambini italiani che hanno frequentato leclassi delle scuole del Comune, ho cercato le persone che hanno diret-to queste classi:

- dagli anni 1961-1962 e fino al 1964-1965, c’era una classe di bam-bini italiani tenuta da Madame Adert con alunni di seconda infantile eprima. L’effettivo delle classi era tra 21 e 27 alunni;

- nell’anno 1965-1966 Madame Adert reggeva una classe di secon-da infantile e prima; Madame Cartier aveva una classe di seconda e unadi terza;

- dagli anni 1973-1974 e fino al 1976-1977, Madame Adert dirige-va una classe di bambini stranieri di prima infantile. I bambini eranoitaliani, spagnoli, tedeschi e anche qualcuno di altra nazionalità.

A partire da quegli anni il numero di bambini italiani che frequenta-vano le classi al Grand-Saconnex è stato molto meno importante e i

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bambini italiani erano integrati in tutte le classi di tutti i gradi.Quando le classi erano formate unicamente da bambini italiani era

perché troppi di loro non parlavano per niente il francese.Il 1° marzo del 1980 ho lasciato la mia funzione di maestro princi-

pale per assumere quella di vice-direttore dell’insegnamento primarioginevrino. Sono trascorsi ormai 29 anni. Inutile dire che i miei ricordisono poco numerosi, ma ho ancora nella mente la visione dei bambiniitaliani che frequentavano le classi e che camminavano lungo il cheminSarasin, inquadrati dalle suore dell’orfanotrofio, in un ordine impecca-bile e con grande disciplina.

Ho avuto anche l’occasione di visitare l’orfanotrofio italiano e hopotuto osservare la disciplina che vi regnava: nessun rumore, nessunaparola. Una disciplina come non si trova ormai da molto tempo.

Penso che la creazione di classi unicamente di bambini italiani erauna necessità assoluta. Da una parte perché i bambini parlavano pocoo per nulla il francese, dall’altra per permettere agli insegnanti di com-pletare il programma dei vari gradi.

Quando i bambini italiani avevano frequentato per due anni le clas-si delle Signore Adert e Agostinetti erano perfettamente integrati; lamaggioranza di loro parlava e scriveva il francese quasi altrettanto benedei bambini svizzeri e stranieri.

Personalmente, quando ho tenuto una classe di sesta, ho avuto moltospesso bambini italiani, soprattutto ragazze. Questi bambini eranoaffettuosi e seguivano le lezioni con molta attenzione e interesse. Eraun piacere annoverarli tra i miei alunni».

Grand-Saconnex 30 marzo 2009

Henri Stengel

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Intervista a suor Scolastica sul rapporto scuola pubblica-collegioLa Madre superiora del "Regina Margherita" ha voluto rispondere

alle mie domande incentrate sul rapporto scuola comunale del Grand-Saconnex e allievi del suo Istituto. La religiosa, dopo una vita dedica-ta ai bambini, è stata richiamata alla Casa madre, a Susa, nel 2005.

Questa intervista mi è stata rilasciata, per iscritto, alla fine del 2008:La prima cosa che mi piacerebbe sapere sono i suoi rapporti con lascuola pubblica. Perché andò da André Chavanne, il responsabiledell’Istruzione pubblica del Cantone di Ginevra, per l’asilo o ancheper le scuole elementari che dovevano frequentare i bambini delcollegio?

Andai da M. Chavanne per i bambini delle infantili che una inse-gnante, nuova arrivata, voleva scartare dalla frequenza della scuolapubblica cui avevamo diritto.Come l’accolse?

Mi accolse molto gentilmente.Come vi siete lasciati?

Ci siamo lasciati bene al punto che i bambini dell’Istituto della scuo-la infantile (4 o 5anni) all’indomani stesso di questo colloquio furonochiamati a scuola.Se lo ricorda a partire da quale anno i bambini italiani hanno potu-to poi frequentare la scuola del Grand-Saconnex?

I bambini dell’Istituto frequentarono la scuola del Grand-Saconnexanche quando era arrivata suor Lucina nel 1947. Le infantili erano ini-ziate forse nel 1960.Quanti erano approssimativamente i bambini italiani che ognianno entravano nella scuola del Grand-Saconnex?

Non posso precisare il numero delle entrate annuali. Siamo arrivatia 90 bambini che frequentavano la scuola pubblica tra elementari einfantili.Chi le ha messo più ostacoli?

L’ostacolo è stato quando hanno istituito le prescolari che al Grand-Saconnex ancora non esistevano. Chi l’ha aiutata di più?

Mi ha aiutato tanto Monsieur Stengel, al punto che l’anno che avevalui la classe dei grandi li teneva finché non avevano finito i compiti, poili riaccompagnava fino alla stradetta che portava all’Istituto.

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Di che cosa si lamentavano con lei gli insegnanti del Grand-Saconnex o il sindaco?

Il Sindaco non si è mai lamentato, le insegnanti sì, perché i nostrinon conoscevano la lingua e intralciavano lo svolgimento delle lezioni.C’erano dei divieti imposti a lei per gli scolari italiani che andava-no a scuola?

Nessun divieto mi era mai stato imposto.Per il fatto che i bambini italiani non sapessero il francese, le è statoofferta la possibilità di fare dei corsi privatamente o inviare deivolontari per istruire i bambini?

Per un breve periodo qualche volontaria si è offerta per aiutarli asvolgere i compiti.Seguivate i risultati scolastici dei bambini ospiti?

I risultati scolastici erano sempre controllati per conoscere doveavevano bisogno di aiuto.I bambini italiani, loro, si lamentavano della scuola svizzera e, se sì,di che cosa in particolare?

Non ricordo che si lamentassero o che fossero meno considerati.E i genitori avanzavano qualche problema, qualche remora sullascuola dei loro figli?

I genitori non potevano tanto lamentarsi, perché non capivano finoin fondo il lavoro scolastico.Ricordo che nelle scuole svizzere c’erano anche classi speciali dovevenivano messi alunni con grave ritardo. Per noi, quelle classierano la bestia nera dove non avremmo mai voluto andare, perchésignificava essere proprio “asini”. Prima di inserire un alunno inquella classe vi chiedevano il vostro parere?

C’erano le scuole speciali, a qualcuno l’avevano iscritto nel dubbio,quando non era il caso gli facevano seguire le classi normali.

Ricordo di un caso, una bambina molto viva di sei anni, quindi dellaprima elementare. Dopo un mese che frequentava la scuola, non distin-gueva ancora le vocali. Per me era impossibile, la presi con me in uffi-cio, capii che la causa era perché non ci vedeva bene. Ne parlai conl’infermiera della scuola, le fecero fare la visita oculistica, ebbe gliocchiali, alla fine dell’anno fu la prima della classe.

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Suor Scolastica Pilloni e Monsieur Henri Stengel durante la consegna del premio delcomune del Grand-Saconnex.

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Questionario d’indagine sul collegioe la scuola compilato dagli ex convittori

Significato del questionarioPer capire cosa è stato l’Orpehlinat “Regina Margherita” del Grand

Saconnex per molti nuclei familiari emigrati, ho inviato un questiona-rio agli ex collegiali che vi hanno vissuto fra gli anni Cinquanta e lafine degli anni Sessanta. Il loro indirizzo mi è stato fornito da MariannaLalicata. Molte lettere sono tornate indietro, perché nel frattempo idestinatari avevano cambiato domicilio, ma molti di loro non hannorisposto. Non è stato facile, infatti, avere le storie dei figli di emigratiinternati all’Orpehlinat. Tanti si sono ormai lasciati alle spalle un perio-do della loro infanzia che non vogliono più rivangare, perché troppodoloroso: tirer un trait et ne plus penser à cette époque, è la frase chehanno usato.

Mi hanno risposto soprattutto quelli che sapevano utilizzare internet,quelli che erano orgogliosi del cammino intrapreso, malgrado l’handi-cap iniziale, quelli che avevano un conto da regolare, un’ingiustizia daappianare, come Mario Ionta che, espulso dal collegio perché gli erastato trovato nelle tasche un bigliettino indirizzato ad una ragazzina, acinquant’anni di distanza, vuole una riabilitazione totale: quel messag-gio non l’aveva scritto lui, ma un suo compagno che glielo aveva affi-dato prima di andarsene dal collegio per consegnarlo all’innamorata.Una decisione, quella delle suore, che lo ha fatto molto soffrire.

Alcuni di noi erano troppo piccoli per ricordare e hanno flashbackconfusi del loro arrivo a Ginevra e della vita in collegio.

Solo un ex collegiale, Donato De Donato, mi ha fornito la sua storiaintegrale che troverete di seguito. Un racconto tenero che mette in lucele tappe della sua vita con ironia e che ci fa rivivere il cammino di unfiglio di emigrante dalla nascita al paesello, dove accanto al suo letto viera la mangiatoia del vitellino, alla tappa fondamentale della sceltadella futura professione in Svizzera.

Intanto, ecco le risposte dei pochi coraggiosi che hanno deciso di

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mettere a nudo un periodo della loro emigrazione e di quella dei lorogenitori e che ci permette di capire il fenomeno migratorio a Ginevrache va dagli anni Cinquanta ai Settanta del secolo appena trascorso. Iquestionari, ricevuti in italiano o in francese, mi sono giunti entrogennaio 2010.

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1961. Le bambine nel cortile

Questionario:

1. In quale paese o città abitavi prima di andare a Ginevra?Irma e Silvana: Coltano, provincia di PisaTina e Carmine: Provincia di SalernoGiuseppina: Apice, provincia di BeneventoOscar e Barbara: Provincia di Reggio EmiliaAngela: PalermoMarianna: Mineo, CataniaBetty e Maria: Provincia di VicenzaGianna: SiciliaMario: Sessa Aurunca, provincia di CasertaDomenico: Provincia di AvellinoGabriella: Provincia di Belluno

2. Sei emigrato insieme ai tuoi genitori o li hai raggiunti? (Specificase ad emigrare per primo è stato solo tuo padre o tua madre o i dueinsieme)

Irma, Barbara, Oscar, Silvana, Giuseppina e Mario: parte il padre,raggiunto poi dalla madre e poi dai figli.

Tina e Carmine: partono tutti e due i genitori per la Svizzera, rag-giunti poi dai figli.

Angela e Gianna: emigrano insieme alla mamma.Marianna e Gabriella: hanno raggiunto il padre in Svizzera insieme

alla mamma.Maria e Betty: l’emigrazione si svolge in due tappe, nella prima a

partire è la mamma, raggiunta dopo pochi mesi dal padre e, dopo unanno, dalle figlie.

Domenico: il papà emigra molte volte prima di stabilirsi definitiva-mente a Ginevra e chiamare moglie e figlio.

3. Se li hai raggiunti dopo, con chi sei stato mentre loro lavoravanoin Svizzera?

Mario: In attesa di raggiungere i genitori sono stato messo in colle-gio in Italia per un anno.

Gianna: Sono stata messa in un orfanatrofio siciliano con miasorella per due anni.

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Carmine e Tina: Siamo stati per sei mesi dai nonni paterni.Betty e Maria: Siamo restate un anno in Italia con i nonni. Marianna: Sono venuta con la mamma e sono stata subito sistema-

ta al Grand-Saconnex.Silvana e Irma: Ho raggiunto mio padre insieme a mia madre, siamo

tornati poi al paese e, dopo, siamo tornati di nuovo in Svizzera.Angela e la sorella: Dopo la morte di mio padre, la mamma ha preso

la decisione di raggiungere i suoi fratelli emigrati a Ginevra. La condi-zione di vedova con figli era difficile nella Sicilia dell’epoca.

Oscar: Sono rimasto dai nonni materni per due anni, mia sorella,invece, è rimasta con loro un anno, poi è stata messa in un collegio disuore in un paese vicino.

Giuseppina: Sono rimasta per un anno dagli zii.Domenico: Sono partito con mia mamma che ha messo come condi-

zione a mio padre, per raggiungerlo in Svizzera, di portarmi con sé.

4. Puoi raccontare brevemente la storia della loro emigrazione?Carmine: Mio padre era il secondo figlio di una famiglia numerosa. Perprovvedere ai loro bisogni, lavorava con mio nonno, che era proprieta-rio di carrette trainate da cavalli. Faceva qualsiasi tipo di trasporto,sopratutto verso Napoli e Salerno. Questa piccola impresa era situata aCava dei Tirreni, dove viveva. Sfortunatamente, però, si sono prestofatti sorprendere dalla tecnologia (trasporto con camion). Hanno avutosempre meno lavoro e un giorno hanno dovuto chiudere e trovare altreoccupazioni. Purtroppo, in questa parte d’Italia, il tasso di disoccupa-zione era molto elevato e non era quindi facile per tutti i fratelli trova-re alti lavori. Ad un certo momento un cugino di mio padre, che era giàin Svizzera, l’ha contattato inviatandolo a lavorare lì. In un primomomento mio padre non era d’accordo. Ciò che gli ha fatto cambiareidea è che all’epoca, in certi piccoli commerci di quartiere, il titolaresciveva la somma da pagare in un libretto di debito che si saldava a finemese. I miei genitori, purtroppo, avevano cumulato una somma tale chenon erano più in grado di onorare. Si sono visti costretti, così, a segui-re i consigli del cugino (pioniere) e si sono recati in Svizzera. La primaidea era quella di rimborsare il debito, in seguito, di mettere da parteuna discreta somma per assicurasi l’avvenire, e rietrare il più presto inItalia. Il tempo, però, è passato e sono restati in Svizzera fino al 1987.Quando il collocamento in pensione, ben meritato, è giunto, hanno

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preso la decisione di lasciare la Svizzera per ritornare definitivamentein Italia, non più al Sud ma al Nord, a Broni, in provincia di Pavia.Volevano restare vicino a noi (3 ore e mezzo di tragitto, passando dalMonte Bianco).

Irma e Silvana: Papà era già vissuto a Bologna e poi a Parigi primadi andare a lavorare a Ginevra.

Tina: Mio padre faceva il lavapiatti all’Hôtel du Rhône, mia madrelavorava come cameriera ai tavoli del ristorante “Café des Artisans”, àla Grande-Rue nella vecchia città, frequentato all’epoca da tutti quelliche lavoravano nello Stato di Ginevra. Grazie a queste conoscenze, ildatore di lavoro di mia madre era riuscito ad ottenere l’autorizzazioneper portarci qui. Mia madre all’epoca guadagnava 5 franchi al giorno,mentre la sistemazione mia e di mio fratello in collegio le costava 480franchi al mese.

Giuseppina: Un fratello di mio padre era già venuto a Ginevra, lavo-rava all’albergo Beau Rivage e aveva trovato del lavoro nei campi permio padre, più esattamente in una fattoria del Lignon che all’epoca eratutta campagna. Successivamente, mio zio trovò lavoro anche per miamadre, nella lavanderia del suo stesso albergo.

Oscar: In Italia sia mio padre che mia madre facevano tutti i lavo-ri che capitavano, ma il guadagno non bastava per vivere. Allora, tra-mite suo cugino Alessandro, che vi lavorava già, mio padre è andatoalla Tuileries di Bardonnex, ottenendo subito il permesso annuale enon stagionale. Due anni dopo, ha trovato il lavoro alla moglie inuna sartoria come donna tuttofare.

Marianna: Mio padre è venuto in Svizzera in seguito a due o tre annidi raccolti scarsi. Non avendo abbastanza per la famiglia, si è deciso alasciare l’Italia. In Svizzera c’era già un fratello di mia madre, che gliha trovato un lavoro, ma solo per un anno! Dopo un anno, le economieerano state mangiate ed è dovuto ripartire, e così l’anno successivo.Dopo tre anni, ha deciso che se si ha una famiglia è per stare insieme eci ha portato con lui a Ginevra (che fortuna!). Ogni anno papà emamma dicevano: «Alla fine dell’anno torniamo in Sicilia», ma i soldinon bastavano mai. Hanno comprato un terreno per coltivarlo, poi unpiccolo appartamento che non è mai piaciuto a nessuno e che hannorivenduto. Fino ai miei quindici anni, ho seguito in parallelo la scuolasvizzera e quella italiana, conseguendo la licenza media. Al liceo, holasciato la scuola italiana, perché era a Losanna e, quindi, troppo lon-

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tano. Ho fatto dunque la maturità al liceo svizzero. Ed è solo quandoho iniziato gli studi all’Università che i miei genitori hanno comincia-to a realizzare che non sarebbero più tornati in Sicilia, ma la scelta èstata davvero definitiva quando sono arrivati i nipotini.

Maria e Betty: I nostri hanno lavorato tutti e due a Sézenove vici-no a Ginevra, in una fattoria durante la settimana, e nel caffè delpaese la domenica. Siamo rimaste insieme con i nostri genitori unanno in quel villaggio, poi ci hanno messe in collegio al Grand-Saconnex. La Signora Maurice ha capito molto bene che i soldi chemamma guadagnava da lei non bastavano a pagare il collegio. E poi-ché anche loro non erano poi tanto ricchi e non potevano pagarla dipiù, ha cercato di trovare un lavoro remunerativo a mia mamma incittà. I Signori Maurice erano persone squisite, che ci hanno trattatocon grande umanità. Siamo rimaste in contatto fino alla loro scompar-sa, cercando di rendere servizio nella misura dei nostri mezzi e dellanostra situazione. Rendiamo qui omaggio alla loro memoria. Mammaha lavorato successivamente per una ricca signora che è stata moltogentile e ci ha ricolmato di regali (non ne avevamo mai avuto primadi allora). Mio padre se n’è andato da Sézenove per lavorare in unvivaio, dopodiché ha voluto ritornare assolutamente in Italia e, poi-ché era il capofamiglia, l’abbiamo tutte dovute seguire al suo paesenatale che, durante la nostra assenza, non si era per nulla evoluto,anzi. Dopo qualche settimana mamma non ce l’ha fatta più ed è volu-ta ritornare in Svizzera. Mamma è rimasta a Ginevra, dove ha termi-nato il suo percorso professionale da Rolex, nel quartiere degliAcacias. Alla sua pensione abbiamo fatto del nostro meglio per col-marla di attenzioni. È deceduta nel 2003, papà è scomparso al suopaese nel 1984.

Giovanna: Rimasta vedova da qualche anno, mia mamma, cercandodi migliorare le nostre modestissime condizioni, ha deciso di raggiun-gere un’amica che lavorava già in Svizzera da sei mesi.

Mario: Mio padre era un giornaliero della terra che non aveva abba-stanza lavoro tutti i giorni, non c’erano soldi a sufficienza per campare.

Domenico: Dopo sei anni di su e giù per la Svizzera, mio padre, cheaveva ottenuto il permesso “B” , decise di far trasferire mia mamma eme, perché il suo datore di lavoro gli aveva affittato anche una casa.

Gabriella: Nell’immediato dopoguerra, mio padre, senza avvenire inItalia, è andato a lavorare in Svizzera. Dopo un anno, è ritornato dicendo

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a mia madre che non voleva rimanere più da solo e le ha chiesto di emi-grare con lui.

5. Che cosa ti ha colpito di più al tuo arrivo a Ginevra?Domenico: Sono arrivato col treno a Ginevra nel marzo del 1962. Ai

lati delle strade c’erano muri di neve: non ne avevo mai vista tanta!All’arrivo in Chemin des Verjus, ho visto che in casa c’era una speciedi tubo di circa 80 centimetri con una pentola sopra e ho chiestocos’era, mi hanno risposto: «La stufa», serviva a riscaldare la cucina,l’ho toccato e mi sono bruciato: bell’arrivo!

Irma: Mi hanno colpito la città molto grande, l’orologio a fiori e ilgetto d’acqua. Mi faceva paura non capire la lingua. Ma la villa in rivaal lago, dove abbiamo abitato, era molto bella; i miei genitori lavorava-no in effetti per un ricco proprietario. Abbiamo fatto delle gite in moto-scafo: era fantastico! Mia mamma una volta ha avuto il “mal del lago”e siamo dovuti rientrare d’urgenza e fare il percorso in macchina, per-ché si sentiva davvero male.

Tina: Arrivando a Ginevra, a parte il freddo, mi hanno colpitosoprattutto la neve che non avevo mai visto, la freddezza e il razzismodegli svizzeri.

Giuseppina: Quello che mi ha colpito di più al mio arrivo sono statil’ordine e la pulizia.

Angela: Mi hanno colpito la mancanza di rumori, gli sguardi freddie diffidenti della gente, lo spazio, la pulizia. La prima parola d’ordinericevuta da nostro zio – mia sorella 7 anni ed io 11 – è stata: «Non faterumore, parlate piano, non disturbate i vicini!».

Silvana: La casa era bella in riva al lago, bel giardino, i cani, masoprattutto la “televisione”, per me è stato bellissimo, credevo che ipersonaggi uscissero dallo schermo e ciò mi preoccupava (mamma epapà erano a servizio in questa stupenda casa).

Marianna: Mi ha colpito di non capire cosa diceva la gente e la tantaluce di sera, al paese era invece sempre buio.

Betty: Sono rimasta impressionata dal lago, dai cigni, dal getto d’ac-qua, dalle prime feste di Ginevra alle quali ho assistito. Tutto questo erafavoloso.

Maria: Arrivando alla stazione Cornavin, dopo un lungo viaggio,abbiamo preso il tram fino al quai de la Poste, per prenderne un altroin direzione di Bernex. Tutto questo era completamente nuovo per noi.

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Siamo state ricevute con estrema gentilezza dai padroni dei nostri geni-tori e non dimenticherò mai le deliziose tartine che ci preparavano amerenda. Certo, abitare dagli altri non era sempre facile.

Mario: Mi ha colpito la pulizia.Carmine: Non ho avuto molto tempo per realizzare, perché sono

arrivato un venerdì e il lunedì seguente i miei genitori mi hanno porta-to all’Orphelinat. Ciò che più mi ha colpito è il sentimento di abbando-no da parte dei miei genitori. In appena sei mesi, per la seconda volta,mi hanno lasciato presso qualcun altro. A quell’età si fa fatica a capire:ecco perché avevo continuamente delle crisi. Andavo a nascondermisotto i banchi situati all’ingresso della sala di accoglienza a piano terra.La sola idea che avrei dovuto trascorrere la maggior parte del tempo inquell’istituto mi stressava molto. Per consolarmi, i miei genitori midicevano che mio zio – il pioniere – abitava vicino e che di tanto intanto sarebbe venuto a trovarmi: non è stato assolutamente vero.

Gianna: Sono stati esattamente cinquant’anni il 10 dicembre 2009che sono sbarcata in questa città. La cosa che mi ha colpito di più appe-na uscita dalla stazione ferroviaria sono state le illuminazioni bellissi-me de la rue du Mont-Blanc.

Gabriella: Non ricordo cosa mi ha colpito, so solo che avevo uncarattere chiuso e non sapevo esprimermi.

Barbara: Quando sono uscita dalla stazione Cornavin aveva appenasmesso di piovere e l’asfalto luccicava come un fiume d’acqua. Nelmio paese le strade erano ancora di ghiaia: una bella differenza!

6. Puoi raccontare dove abitavano i tuoi genitori e perché ti hannomesso al Grand-Saconnex?

Gianna: Mia mamma dormiva a casa del suo datore di lavoro, poiha trovato una stanza per lei e per mia sorella, che aveva già 15 anni, eio sono andata al Grand-Saconnex nel gennaio 1960.

Carmine: Mio padre era cameriere al ristorante dell’Hotel du Rhônea Ginevra. Mia madre era cameriera in un ristorante situato nella vec-chia città. Queste attività erano aperte dal lunedì al sabato, chiuse ladomenica. Qualche volta per un matrimonio, per esempio, poteva esse-re richiesta la presenza del personale di servizio anche la domenica epurtroppo succedeva spesso, i miei non potevano rifiutare perché alloranon avevano scelta. La prima ragione del nostro internamento era chenon avevano il tempo di occuparsi di noi. La seconda era che il datore

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di lavoro di mia madre le aveva messo a disposizione due piccole stan-ze ammobiliate, situate al secondo piano del ristorante, con un angoloper dormire, nella stessa stanza, un lavabo senza acqua calda (le toilet-tes erano sul pianerottolo), e per cucinare due piccoli fornelli a gas.Ambiente molto vetusto, ma sufficiente per loro che non avevano inten-zione di rimanere in Svizzera a lungo. Non si poteva vivere decentemen-te a quattro in questo luogo. I miei genitori alla fine della settimana siarrangiavano e facevano in modo che il cugino di mio padre ci venissea prendere il sabato nella tarda mattinata e ci tenesse con lui fino a quan-do si liberavano. In effetti passavamo con loro solo una notte, poiché ilgiorno dopo ci riportavano in collegio nel tardo pomeriggio.

Mario: I miei genitori lavoravano a Choully nel comune di Satigny,mio padre come operaio agricolo e mia mamma donna tuttofare. Eranoalloggiati presso i loro padroni. All’epoca i padroni non accettavano ibambini.

Marianna: I miei hanno affittato una camera da due vecchietti cheavevano un appartamento con due stanze e un salotto. I vecchi occupa-vano il salotto ed affittavano le due stanze, una ai miei che avevano lapossibilità di cucinare, dopo che i vecchi avevano finito, e la secondaad un’altra coppia o a una persona sola, che non aveva l’accesso allacucina. Non c’era posto per i bambini e, dunque, la soluzione è stata ilcollegio. Quando ho dovuto lasciare il Grand-Saconnex a 12 anni (lesuore non volevano la responsabilità delle signorine: non si sa mai...),i miei genitori hanno chiesto di poter affittare la seconda stanza per me,e così non hanno dovuto traslocare! Nel 1968 il vecchietto è morto, lasignora era morta nel 1964, proprio nel momento in cui mio padreaveva ottenuto il permesso di residenza, così ha potuto affittare l’appar-tamento a nome suo e gli è venuto a costare il 50% in meno, perchéaffittava le camere ammobiliate. I miei hanno vissuto nello stessoappartamento dal 1960, mia madre fino ad oggi e mio padre fino al2003, anno in cui è morto.

Silvana e Irma: Poiché i nostri genitori erano a servizio, non pote-vano tenerci con loro, per cui ci hanno messe in collegio.

Angela: Abitavamo insieme a nostro zio, ma i vicini si sono lagnatiper l’arrivo delle due bambine. Le autorità volevano che ritornassimoin Italia. Mamma ha ottenuto, tramite un avvocato, che restassimo sulterritorio, a condizione però di essere messe al Grand-Saconnex.

Oscar: I miei hanno affittato una piccolissima stanza da un vecchiet-

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to che possedeva tre stanze e una cucina, più il bagno. Due stanze leaffittava, i suoi affittuari, però, non avevano accesso alla cucina, che siera interamente riservato e, quindi, teoricamente, non avrebbero potu-to cucinare. In effetti gli affittuari avevano acquistato un fornellino agas e con quello preparavano i pasti. Guai a me e mia sorella fare ilminimo rumore il sabato che ritornavamo, perché non avevamo il dirit-to di stare in quella stanza. Una volta, dopo tanti: «Zitto! Zitto!», appe-na fuori dall’appartamento, sul pianerottolo, ho urlato a mia madre: «Equi, almeno, posso parlare?».

Giuseppina: Mio padre aveva una camera alla fattoria insieme ad unaltro, e mia madre divideva la stanza, vicino all’albergo, compresanello stipendio, con un’altra donna che lavorava con lei.

Domenico: Io potevo restare con i miei genitori, perché mio padreaveva ormai il permesso annuale. Ma mia madre lavorava e lui dovevaportarci tutti i giorni in bicicletta – lei al lavoro, io alla Provvidenza diCarouge – una faticaccia! Le suore della Provvidenza hanno riferito delcollegio del Grand-Saconnex ai miei e così sono stato messo lì.

Gabriella: Mio padre abitava vicino a Vernier, l’alloggio lo avevaavuto dai datori di lavoro della fabbrica di cemento dove lavorava.Erano vecchie baracche di legno senza confort. Poiché la divideva conaltri tre compagni, mia mamma a sua volta viveva in una stanza ammo-biliata con un’altra ragazza, a Carouge, dove lavorava come camerierain un caffè. Mio padre mi veniva a prendere la domenica con una vespa,mi portava a Vernier aspettando che la mamma finisse il suo turno dilavoro, per cui ci vedevamo davvero poche ore.

7. In che anno sei arrivato al Grand-Saconnex? Che lingua o dia-letto parlavi?

Domenico: Sono arrivato nel marzo del 1962, parlavo senz’altro ildialetto napoletano.

Irma: Sono arrivata nell’ottobre 1959 e parlavo italiano.Tina: Sono arrivata a gennaio 1961. Parlavo italiano, perché avevo

fatto fino alla quinta elementare.Giuseppina: Sono arrivata nel 1958, avevo 9 anni.Oscar: Sono arrivato nel 1959 e parlavo solo il dialetto emiliano,

avevo 5 anni.Angela: Sono arrivata nel 1961, parlavo il siciliano e l’italiano con

forte accento siciliano; avevo 12 anni.

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Silvana: Sono arrivata nell’ottobre del 1959, parlavo italiano conaccento toscano; avevo 9 anni.

Marianna: Sono arrivata nel marzo del 1960, parlavo il siciliano eper primo ho dovuto imparare l’italiano; poi, a settembre, a scuola, hodovuto imparare il francese. Avevo 5 anni e 9 mesi.

Maria: Sono arrivata al Grand-Saconnex nel 1949-1950, poichéavevo già fatto un anno alla scuola di Bernex, parlavo bene il francese,così come l’italiano e, anche se ho vissuto in Italia, non ho mai parlatoil dialetto veneto.

Betty: Sono arrivata tra il 1949-1950, avevo circa 8 anni.Mario: Sono arrivato a maggio del 1957 e parlavo il napoletano,

avevo 9 anni e mezzo.Carmine: Sono arrivato al Grand-Saconnex nel 1961 e la sola lingua

che conoscevo erano balbettamenti di napoletano (verace!), avevoappena 5 anni.

Gianna: Sono arrivata nel gennaio 1960, parlavo l’italo-siculo, sup-pongo; avevo appena 9 anni.

Gabriella: Sono venuta una prima volta per circa tre mesi. Poi sonoritornata l’anno seguente, doveva essere il 1953.

8. In che classe sei stato messo? Ti ricordi in particolare di un inse-

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1960. Classe di Madame Goy

gnante e se sì, specifica questo ricordo.Domenico: Sono stato in classe con Madame Adert, ed è stato bello.

Lei e Madame Cartier ci hanno aiutato veramente nell’apprendimentodella lingua.

Irma: Sono stata messa nella sesta (prima media) che ho fatto conuna maestra che parlava un po’ d’italiano, era molto gentile. In settimaavevo Monsieur Stengel, mi impressionava per la sua statura e la suarigidezza.

Tina: Ricominciai la quinta elementare al Grand-Saconnex.Naturalmente con capivo un’acca e quindi a settembre del 1961 dovet-ti rifarla. Sono stata promossa a pieni voti a giugno del 1962.

Giuseppina: Sono stata messa in terza elementare, classe che hodovuto poi ripetere.

Oscar: Compivo 5 anni il 12 settembre, mentre la scuola svizzerainiziava il primo settembre. Per quei dodici giorni non mi hanno accet-tato nella classe “enfantine” ed ho così perso un anno.

Angela: Mi ricordo di un’insegnante che era molto fiera di parlareitaliano e, quindi, mi parlava solo nella mia lingua.

Marianna: Ho cominciato la prima elementare a settembre. Miricordo di tutti gli insegnanti che ho avuto durante i sei anni della scuo-la elementare. Un ricordo carino dell’insegnante di 3a elementare:organizzava sempre una festicciola per ogni alunno il giorno del com-pleanno ed offriva un regalino a ciascuno e per tutti uguale: per leragazze un piccolo nécessaire per cucire con aghi, filo, forbici, ditale,ecc., per i ragazzi, non ricordo. L’insegnante di 5a era molto nervosa ecattiva, dava delle sberle e tirava le orecchie. Oggi non potrebbe piùstare nella scuola.

Betty: Ho fatto un passaggio nella classe della Sig.na Anzoli, inseguito, in quella della Sig.na Cesta e poi ho terminato la scuola con ilSig. Goy. Ho adorato questo maestro che era un innovatore. Invece difar lezioni a scuola, ci ha portato una settimana in Campo studi.Alloggiavamo allo Chalet del Grütli alla Givrine. Per me resta un’espe-rienza indimenticabile, malgrado la nebbia e la pioggia. Facevamodelle escursioni con la bussola ed andavamo alla scoperta della flora.Ricordi meravigliosi grazie anche alla gentilezza delle persone accom-pagnatrici. A parte questo, non ho ricordi particolari, l’unica cosa cheho constatato è che mentre il maestro di Vicenza faceva la scuola in dia-letto, qui si svolgeva solo in francese.

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Maria: Ero nella classe del maestro principale Harm. Non facevanessuna differenza tra i ragazzini di nazionalità svizzera e noi. Ha fattotutto il possibile, perché avevo un po’ di problemi.

Mario: Sono stato messo in 4a. Mi ricordo di un’insegnante,Bonifas, che faceva della ceramica.

Carmine: Alla scuola del Grand-Saconnex, chemin Edouard-Sarasin51, mi hanno messo nella classe dei piccoli per socializzare, ci occupa-vano con diversi lavori, non sono stato messo subito in prima a causadella lingua.

Gianna: Sono stata messa in terza con Madame Dubois, che ricor-derò fino alla fine dei miei giorni: era abbastanza cattiva e dura, forseperché aveva troppi italiani nella sua classe.

Gabriella: A sei anni, quando sono venuta per tre mesi in Svizzera,ho conosciuto dei bambini che parlavano solo il francese e, in quei tremesi, ho imparato abbastanza bene la lingua. In Italia ho fatto la prima.Quando sono andata al Grand-Saconnex non ho avuto molti problemiper il francese, grazie a quell’esperienza estiva. Penso mi abbianomesso subito in seconda. Non ho ricordi precisi di quel primo periodo.

9. Qual è stato l’impatto con la scuola svizzera? Avevi già fattoqualche classe in Italia? Se sì, hai trovato una differenza? Quale?

Maria: Arrivata in Svizzera a giugno, non ho avuto problemi, per-ché Madame Maurice, la padrona di mia madre e mia mamma si sonoprese l’incarico di insegnarci il francese, per cui quando sono arriva-ta in classe capivo già quasi tutto.

Gianna: L’impatto è stato duro a causa della lingua.Carmine: Una parola ha marcato il mio spirito di bambino: «sale

Rital!», che non amavo assolutamente, e le eterne azzuffate senza fineche ne seguivano. La scuola svizzera è stata la mia prima scuola.Comunque prima di allora non sapevo il francese.

Mario: Impatto terribile, ogni mattina avevo come una palla nellostomaco, perché sapevo che non sarei stato capace di rispondere alledomande. Temevo che gli altri bambini mi prendessero in giro. Ho fattofino alla terza in Italia. La differenza della lingua era difficile, non ave-vamo contatti con i bambini svizzeri, a parte la scuola. Dopo l’istituto,quando sono andato a vivere con i miei genitori, tutto è diventato nor-male e non c’è più stata la barriera della lingua.

Maria: Non ho ricordi particolari, a scuola e in collegio mi sono

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integrata bene. Non ho ricordi dolorosi, suor Lucina mi chiamava “ilmio braccio destro”.

Betty: La fortuna ha voluto che abitassi con Madame Maurice, laquale si era presa cura di insegnare il francese a me e a mia sorella. Cidava un libro e dovevamo leggere una pagina senza sbagliare, altri-menti ci toccava ricominciare fino a quando la leggevamo perfetta-mente. In pochi mesi ho imparto il francese e senza inflessioni, crede-temi.

Marianna: L’impatto duro è stato a causa della lingua, ma anche seil ricordo è di una grande difficoltà a capire e comunicare, per un perio-do che sembrava un’eternità, ricordo che a Natale, dunque solo dopo 4mesi, parlavo già il francese. In Italia ero solo andata all’asilo e non hopotuto fare paragoni.

Irma: In Italia frequentavo già le scuole professionali, ma non hofinito l’anno per venire in Svizzera. L’ortografia era la materia più dif-ficile, per il resto i programmi italiani erano molto più avanzati di quel-li svizzeri.

Silvana: In Italia avevo fatto la terza elementare, devo essermiritrovata in terza con la scuola svizzera. Ricordo solo che la lingua, lagrammatica, il vocabolario erano molto difficili.

Tina: I miei cinque anni di studi in Italia mi hanno permesso diessere forte in tutte le materie, una differenza enorme rispetto ai pro-grammi svizzeri. Ero molto più avanzata nella conoscenza dellamatematica, della geometria, avevo già fatto tutta la storia, la geogra-fia mondiale, mentre qui si stava facendo ancora la storia e la geogra-fia della piccola Svizzera….

Barbara: L’impatto è stato traumatico, troppo timida, troppa pauradegli insegnanti, troppo complessata, perché ci mettevano nella stessaclasse che avevamo già fatto in Italia e che finivamo per ripetere dalmomento che non conoscevamo la lingua. Avevamo, perciò, compagnidi classe svizzeri molto più piccoli di noi e nell’adolescenza la diffe-renza è enorme. L’anno dopo il mio arrivo, mi sono fratturata unagamba durante le vacanze in Italia. Sono ritornata con l’arto ingessatoe poiché il medico dell’ospedale italiano non mi aveva rilasciato nes-suna prescrizione (i miei erano già in Svizzera), le suore hanno volutosapere da me quando dovevo togliere il gesso. Ebbene, mi sono tenutaquell’arto ingessato per più di due mesi per non andare a scuola, men-tre avrei dovuto levarlo solo 15 giorni dopo il mio arrivo. Quando me

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l’hanno rimosso la mia gamba era diventata la metà dell’altra!

10. Nella scuola del Grand-Saconnex quali sono state le cose piùdifficili per te?

Giuseppina: E’ stato difficile essere accettata come straniera.Irma: Sono state problematiche le lingue, per il resto ero molto più

avanzata negli studi.Angela: E’ stato difficoltoso stabilire il contatto con gli altri. Sentivo

la differenza. Avevo la sensazione che nella scuola fossimo ragazzinispeciali.

Marianna: E’ stato doloroso essere messa da parte, perché venivodall’Orphelinat e perché italiana. Ma poiché eravamo in tantinell’Orfanatrofio, avevamo lo stesso amici e abbiamo fatto a menodegli svizzeri. Nel 2003 ho rivisto alunni della mia classe (una mia ini-ziativa, chissà perché, e non andrò dallo psicanalista per saperlo) e, amia grande sorpresa, mi hanno detto che erano certi che fossimo tuttiorfani e qualcuno mi ha chiesto se a quell’epoca erano razzisti.Evidentemente quelli che l’hanno chiesto non lo erano. Comunque unepisodio non troppo bello mi è capitato in 3a elementare. I percorsi da

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“Carnet” con note

scuola al collegio si facevano con una suora e di solito non succedevaniente, ma quell’anno sono andata alla petite école du village, vicinoalla Salle communale e le suore non venivano fin là. Dunque è succes-so che tornavo sola con un’amica e un giorno d’inverno due ragazzi cihanno tirato delle palle di neve, dopo qualche tempo, al posto dellaneve sono arrivati i sassi. Ricordo della mia reazione tra collera e sensod’ingiustizia e probabilmente lo abbiamo detto alle suore, ma nonricordo se è stato fatto qualcosa dagli adulti.

Mario: Le cose difficili sono state la lingua francese e apprendere ilbuon italiano.

Carmine: Le suore non ci aiutavano abbastanza nello svolgimentodei compiti, è stato un grande handicap. Molti problemi di ortografia edi matematica, che metto sul conto di una mancanza di concentrazione,la mia testa era sempre in Italia. Il resto, lo ammetto, veniva dal miocomportamento bellicoso, tipico dei napoletani.

Tina: Mi sono dovuta difendere e ho difeso mio fratello dal razzi-smo dei ragazzini svizzeri, ma anche in collegio, perché mio fratel-lo parlava solo il napoletano.

Barbara: E’ stato difficile il contatto con gli insegnanti. Mi sembravadi far parte di una sottoclasse. Inoltre, il francese delle suore non era per-fetto, per cui anche loro non potevano aiutarci e penso che il loro abbi-gliamento giocasse un fattore negativo nei riguardi degli altri bambinidella scuola. Io stessa facevo fatica ad accettare il loro abito religioso.

Gianna: Il contatto con gli altri a causa della lingua è stata la mag-giore difficoltà.

Gabriella: Non ricordo nessun tipo di problema tanto più che erotimida, ma molto studiosa.

11. Sei stato per caso in una classe di alunni solo italiani con le inse-gnanti Signore Adert, Cartier, Piaggi o Agostinetti? E se sei statoin queste classi, mi dovresti dire se effettivamente ciò ti ha aiutato.

Carmine: Effettivamente sono stato nella classe di Madame Adert.Da quale anno a quale anno non ricordo. Ho fatto qualche ricerca suinternet riguardo al passato di quella scuola, un sito esiste, ma non vi sipuò accedere, perché protetto. In fondo è vero che ci si sentiva protetti.

Mario: Quando ho dovuto ripetere la quarta elementare sono stato inuna classe di soli italiani e devo dire che ciò mi ha molto aiutato.

Domenico: Ho fatto la terza con Madame Cartier, una classe un po’

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particolare, perché era divisa in due classi: la seconda e la terza tutti delcollegio. Mi ricordo di Carmelo che disturbava spesso e della maestrache per farlo star tranquillo l’ha anche legato alla sedia, ma siccomepoteva ancora parlare e disturbare, gli ha messo dello scotch sullabocca. Una volta sono stato punito da Monsieur Stengel: Copia 50 volte“je ne dois pas sortir du préau à la récréation” e ho dovuto farlo fir-mare dalle suore che dovevano seguire tutte le nostre punizioni. L’annoseguente, in quarta, sono di nuovo ritornato in una classe mista (sviz-zeri-italiani), dove ricordo di aver conosciuto François Sarasin e unacerta Susanne di cui sono diventato amico.

Tina: Penso di essere stata nella classe di Madame Adert. Sta di fattoche l’anno seguente avevo ottenuto ottimi voti.

12. Sentivi una differenza con i ragazzini svizzeri della scuola?Se sì, quale?

Giuseppina: Sì, perché non li capivo e mi sentivo inferiore.Angela: Era un altro mondo. Una volta adulta, anni fa, incontrai

Danielle, che era stata alla scuola del Grand-Saconnex. Lei mi ha rico-nosciuto subito e in seguito siamo diventate amiche. Ebbene mi ha rac-contato che i suoi genitori, gente benestante, le avevano dato l’ordinedi non frequentare gli orfanelli italiani e nemmeno di fare la strada conloro. Successivamente, però, le cose sono cambiate e la sorellina di seianni più piccola è stata affidata dalla mamma alle suore per fare il per-corso insieme con i bambini del collegio.

Silvana: Ero troppo timida e quindi il contatto era difficile.Marianna: Gli svizzeri mi sembravano più spensierati e che si diver-

tivano più di noi.Barbara: Tra gli svizzeri e noi c’era un ostacolo incolmabile: la

comunicazione! Solo a partire dal secondo anno ho conosciuto qualcu-no, perché mi piaceva giocare molto. Mi ricordo di una bella ragazzinadanese, figlia di un diplomatico, ero stupita che mi rivolgesse la paro-la. Credo che parlasse con me, perché anche lei straniera.

Mario: Si avvertiva questa differenza con i bambini svizzeri, all’ini-zio spesso ci ignoravano a causa della lingua, poiché non parlavamo ilfrancese e l’italiano, cosa che all’epoca non era considerata bene.

Carmine: Sì, si sentiva la differenza nel loro comportamento, poichéalcuni sapevano che vivevamo in orfanotrofio. Durante la ricreazione ibambini svizzeri non ci chiamavano per giocare con loro.

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13. Come ti trattavano gli insegnanti? Come hai finito per impara-re la lingua francese?

Irma: Gli insegnanti mi trattavano bene, perché ero un’alunna moltoapplicata.

Giuseppina: Gli insegnanti saranno stati gentili, perché non ho nes-sun brutto ricordo. Ho imparato la lingua con altri bambini, in partico-lare con quelli dove lavorava mio padre.

Silvana: Non ricordo maltrattamenti. In classe cercavo di ascoltaree capire. Ho imparato come tutti, con l’ascolto.

Barbara: Ricordo molta indifferenza, a parte quella di un’insegnan-te (forse Madame Goy). Il francese è entrato poco a poco.

Marianna: Avendo la fortuna di avere molta facilità a scuola, gliinsegnanti mi trattavano di solito bene. Ho un brutto ricordo dell’inse-gnate di 5a elementare – di cui ho parlato prima – in seguito a un lungosoggiorno in Italia dovuto alla malattia di mia nonna, periodo in cui hoanche frequentato la scuola italiana. Dopo il mio rientro in Svizzera, ilprimo giorno in classe, la maestra ci ha fatto fare un dettato e mi sem-brava di non sapere più scrivere il francese. Quando ci ha dato i risul-tati, mi ha consegnato il foglio con un sorriso sadico dicendo: «Patate!»(che voleva dire zero). Era la prima volta e l’ultima per fortuna in vitamia, e non capivo perché la maestra era così cattiva....

Betty: Ero una bambina molto studiosa ed applicata, non penso diessere stata più dotata di altri, ma estremamente perseverante e deter-minata a riuscire a tutti i costi.

Maria: Gli insegnanti ci trattavano in modo imparziale. Per la linguanessun problema, solo qualche lacuna in ortografia.

Mario: Ci trattavano bene, ho imparato la lingua francese a scuola.Ora lo parlo senza inflessioni e la gente me lo fa notare.

Carmine: Posso dire di essere stato trattato bene dagli insegnanti. Misono sentito a mio agio nella lingua francese solo dopo il terzo anno.Avevo molte difficoltà, poiché i miei genitori non mi aiutavano: essistessi avevano fatto poche classi (la scuola per i miei nonni all’epocanon era una priorità a causa della povertà). Durante tutto il periodo incui siamo stati in collegio non avevamo nessuna occasione per parlareun “francese sostenuto”, ho praticato questa lingua solo quando sonouscito dal collegio e ho cominciato la 6a, ho dovuto, d’altronde, rad-doppiare la 4a. Mi classifico tra gli autodidatti anche se, senza falsamodestia, me la sono cavata bene e oggi posso dirmi soddisfatto.

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Tina: Con gli insegnanti il rapporto è stato ottimo. Volevo imparareil più presto possibile, anche perché il datore di lavoro di mamma, unasignora svizzera tedesca sposata con un ticinese, la domenica, quandoandavo a casa, mi parlava sempre in francese e mi diceva: «Devirispondermi in francese, se non impari subito non farai mai niente diimportante nella vita». Io testarda non le rispondevo, parlava da sola.Mi ricorderò sempre che durante le vacanze del 1962 la padrona, cheancora non mi aveva sentito parlare in francese, mi disse: «Alors Tina,tu ne parles toujours pas le français? Si tu veux, je peux te donner desleçons ou ma fille Monique peux t’en donner (Monique aveva due annipiù di me)». Io le risposi: «Je n’ai pas besoin ni de tes leçons ni de cel-les de ta fille, si tu veux je lui donne des cours de grammaire françai-se et d’orthographe!». Rimase a bocca aperta e, da quel giorno, furispettosissima nei miei confronti.

Gianna: Tranne Madame Dubois che mi chiamava “trombonne”, acausa della mia voce un po’ grave, forse, non ricordo trattamenti parti-colari di altri insegnanti.

14. Descrivi in breve la vita che facevi in collegio (le cose che ti pia-cevano e quelle che non ti piacevano), basta anche un solo episodioche ti ha colpito.

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Carmine Siani aiuta i compagni

Gianna: Non mi piacevano soprattutto i lavori di pulizie che dove-vamo fare a turno.

Carmine: Non mi piacevano certi cibi, ad esempio, i carciofi cheaccompagnavano con una salsa fatta di sale, olio e aceto, invece, mipiacevano molto le uova in padella e mi piaceva asciugare i piatti. A uncerto punto ero stato nominato responsabile della presentazione vesti-mentare (modo di vestire) e taglio dei capelli dei miei compagni, lesuore non trascuravano niente. Mi vengono in mente altri ricordi, comequando si faceva teatro o danza. Non mi piacevano il catechismo e leore trascorse in chiesa. Un giorno con altri due amichetti siamo fuggi-ti dal collegio uscendo da scuola, ci siamo ritrovati ognuno a casa pro-pria senza sapere come. Infatti, ci siamo fatti il percorso a piedi, perchénon avevamo soldi per comperare il ticket dell’autobus. Tutti e tre abi-tavamo al centro della città. Le suore, molto preoccupate, avevano lan-ciato un avviso di ricerca, non c’erano cellulari all’epoca per comuni-care. Ancora ora mi chiedo come abbiamo fatto a ritrovare la casa, poi-ché non sapevamo come dirigerci verso la città (il Grand-Saconnex èun paese che dista una decina di km dalla città). Il peggio fu che piove-va a dirotto e non avevamo nemmeno un ombrello, ci siamo bagnatifino alle ossa. Vi lascio immaginare la faccia dei nostri rispettivi geni-tori – che d’altronde ci hanno accolto molto bene – quando ci hannoaperto la porta! Erano dovuti andare al posto di Polizia più vicino, poi,grazie al telefono, la polizia si è messa in contatto con la Madre supe-riora. Ci sono state spiegazioni tra genitori e suor Scolastica: a questoriguardo le suore pensavano di non aver nessuna colpa, “ben inteso”.Fu un avvenimento indimenticabile, poiché il week-end seguente l’ab-biamo trascorso in collegio a letto, avevamo tutti e tre un’influenza ter-ribile, ma non ci ha impedito di giocare come dei matti, poiché duran-te il week-end la sorveglianza era ridotta al minimo.

Mario: Al mio arrivo, ciò che mi ha colpito è che mi sembrava distare in un pensionato dove c’erano religiose che avevano molta auto-rità ed erano molto severe.

Maria: In collegio quello che mi ha infastidito, ed è forse moltoumano, è che certe suore facevano grandi sorrisi e grandi reverenzeai genitori che, per la loro posizione, potevano esserle d’aiuto, comeper esempio trasportarle, mentre altri erano totalmente ignorati.Questa ipocrisia mi ha spesso sconcertata. I bambini percepiscono talicomportamenti come ingiusti.

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Betty: La mia vita in collegio mi ha lasciato qualche ricordo. Devoprecisare che ero una bambina estremamente timida e di salute delica-ta. All’epoca, prima di andare a scuola, dovevamo assistere alla messatutti i primi venerdì del mese, d’inverno in una chiesa glaciale doveva-mo sentire la predica di padre Enrico e ciò, con lo stomaco vuoto, causacomunione. Dunque mi succedeva di svenire. Suor Lucina, paceall’anima sua, mi aveva soprannominato “gatta morta”. Questo nomi-gnolo risuona ancora nelle mie orecchie, perché si compiaceva di que-sto soprannome con i miei compagni e io la trovavo odiosa. Ho avutomodo di ricordarglielo durante l’incontro organizzato da MariannaLalicata nel maggio del 2004. Le ho detto ciò che poteva sentire unabambina davanti a questo comportamento traumatizzante e di una cat-tiveria gratuita. Mi ha risposto: «Erano altri tempi!». Ma da parte mianon potrò mai dimenticare. Per me c’erano anche troppe messe, troppepreghiere, troppi vespri, troppo catechismo per dei bambini. Almenoquesto è il mio ricordo e questo il mio parere.

Marianna: Sveglia alle sette, la colazione non mi è mai piaciuta. Lepreghiere prima di ogni pasto, prima di andare a scuola, prima di anda-re a letto…. I pasti in silenzio mi sembravano una cosa assurda (ades-so penso alle orecchie delle povere suore). Ognuno aveva dei compitisettimanali (vedi l’articolo di Marianna Lalicata “A qui les corvées”apparso su “Le voci del silenzio” realizzato da Barbara Bertolini nelmaggio 2004). Mi piaceva essere nella stanza chiamata “studio”, dovesi facevano i compiti: c’era la biblioteca e ho letto tutti i libri che con-teneva. Ma quel che mi piaceva di più era il periodo delle vacanze, per-ché eravamo in pochi rimasti dalle suore, e si tiravano fuori i giochipreziosi: c’erano i “Lego” e si poteva leggere “Tintin”!

Barbara: Nel collegio c’erano troppi obblighi religiosi. Ed io, inparticolare, non amavo confessarmi, allora ho detto alle suore che nonavevo fatto la prima comunione, mentre l’avevo già fatta l’anno prima.Suor Scolastica ha chiesto a mia madre il permesso di prepararmi: «Macome?», ha risposto lei, «l’ha già fatta in Italia!». E lì non ho avutoscampo, mi sono dovuta piegare ed affrontare il confessore non sapen-do mai cosa raccontargli. Le cose belle del collegio per me erano due:quando si andava nel giardino, quello in fondo, rimasto un po’ selvag-gio, che mi dava l’impressione di ritornare nella campagna emiliana ele letture che le suore ci facevano certe sere. Ricordo di aver bagnatodi lacrime tutta la spalla di suor Lucina mentre ci leggeva il libro

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“Cuore”. E’ così che ho imparato l’amore per la lettura, io che nonavevo visto circolare un solo libro di narrativa durante gli anni trascor-si nel paesino natale.

Silvana: Ricordo che ci svegliavano presto, toilette, colazione concaffè e latte nella grande sala con i tavoli lunghissimi. Tanto rumore,malgrado la sorveglianza delle suore, poi dovevamo lavare le scodel-le e via, la strada per la scuola era lunghissima e noi cantavamodurante il percorso. Al collegio ricordo i giochi in cortile, soprattuttocon la musica ad alto volume, ricordo la canzone di “Marina”, c’erauna bambina che portava questo nome. Le recite, i canti, i balletti cheimparavamo per i vari spettacoli alla Salle communale de Plampalais.Ricordo pure le domeniche sere, ci ritrovavamo sotto un letto eBrigida (Brigitte Bardot), una ragazza fortunata, ci raccontava i filmproibiti che guardava il sabato sera. Ovviamente tutto ciò una voltache suor Lucina era passata per il controllo luci spente.

Angela: In generale mi sono trovata bene, eccetto il lato autoritarioche mi pesava, la critica sul nostro accento siciliano ed una mancanzadi riferimenti precisi.

Giuseppina: Ero brava a recitare le poesie. Una volta, all’improvvi-so, ne ho dovuto imparare una in pochissimo tempo per qualcuno diimportante che veniva al collegio. L’ho appresa rapidamente, ma almomento di recitarla davanti a questa persona (non ricordo che bene-fattore fosse), il vuoto! Mi sono così vergognata che lo ricordo ancora.

Tina: In collegio il rapporto con le suore è stato bruttissimo. Ricordouna mattina a colazione un ragazzino calabrese, credo di sette-ottoanni, appena arrivato, si chiamava Tonino, non voleva mangiare quellatte e caffè schifosi che ci davano. Suor Domenica lo prese, gli misele due mani dietro la schiena, lo alzò, riempì il lavandino della sala dapranzo e gli ficcò la testa sott’acqua, finché il bimbo non disse cheavrebbe mangiato. Tutto questo mentre noi eravamo a tavola a guarda-re. Un giorno mi ribellai a questa suora, che mi corse dietro, ma io riu-scii a rifugiarmi in camera chiudendo a chiave la porta, mentre lei fuoridi sé mi gridava: «Apri questa porta, che tu sia dannata, devi bruciarenelle fiamme dell’inferno!». Aprii dopo questa sua esclamazione, allo-ra mi bloccò sotto le docce e mi picchiò con una scopa rinchiudendo-mi in camera senza cena. All’ora del rosario in chiesa, situata propriosotto la camerata, mi misi ad alzare i letti uno alla volta sbattendoli conviolenza per terra, così le suore vennero a liberarmi e potei cenare.

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Irma: La vita in collegio mi è piaciuta, solo che noi grandi doveva-mo fare le pulizie di tutti i luoghi, a turno. Allora, quando c’erano dafare i gabinetti… non gradivo troppo. Ma quando andavamo a coglierele prugne nell’orto era simpatico, poi mangiavamo la marmellata, lacomposta e i dolci alle prugne. Mi ricordo anche del teatro che faceva-mo e le danze: queste attività mi piacevano molto.

Domenico: Il ritorno dalla scuola era tutto programmato dalle suore:merenda, compiti, catechismo. Se avevamo qualche punizione da fareper la scuola, dovevamo dirlo alla Madre superiora che, gentilmente,chiedeva: «Con quale mano scrivi?», «Con la destra», «Allora dammila mano sinistra!». Ed il suo mazzo di chiavi si abbatteva sulla manoper tante volte quanto dovevamo riscrivere la frase…, mentre per impa-rare il catechismo, che per la verità non voleva entrarci in testa, ci veni-vano fatte delle promesse: «Se sapete il vostro catechismo, staseravedrete un film». Noi sotto a imparare a memoria, bene o male qualco-sa sapevamo, ma alla fine o la cinepresa non andava o il film era rotto.Mi sa che in tutto il tempo che sono stato in collegio avrò visto per inte-ro un solo film (furbe, eh!). Però, così, abbiamo imparato a leggerel’italiano.

Gabriella: Ero una bambina graziosa e ricordo che ogni volta chec’era da organizzare balletti, io ero sempre dentro. Questi spettacoli mipiacevano tantissimo. Però, alla fine della festa, invece di essere con-tenta, ero sempre triste. Quello che non mi piaceva erano tutte le pre-ghiere che dovevamo fare, in particolare la mattina, dieci minuti primadella colazione.

15. Che rapporto avevi con gli altri bambini italiani? Stavi conquelli della tua regione o avevi familiarizzato con tutti?

Domenico: Ho fatto presto a farmi degli amichetti, Nuccio, Pietro,Luciano, Luciana, Sandro ecc., ma soprattutto i fratelli Coco,Carmela, Maria e Nuccio, il più piccolo, che è diventato la mascottedel collegio.

Irma: Ero assai timida, non andavo con tutti, ricordo, però, che lamia vicina di camera mi ha fatto imparare la poesia “La cicala e la for-mica”, la sera a letto, me la faceva ripetere sottovoce e l’ho imparata alsuono, senza sapere come si scrivevano le parole…

Giuseppina: Ricordo che stavo con tutti.Angela: Il ricordo è piuttosto buono.

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Silvana: Il rapporto era ottimo e familiare con tutti, ancora oggi sonoin contatto con Giuseppina, Gianna, Rosanna, anche un po’ con Brigidae Giuliana, che purtroppo è deceduta.

Marianna: Avevo buoni rapporti con tutti; mi sembra che i rapporticon i ragazzi del mio paese fossero più "stretti", perché i genitori siconoscevano e ci si vedeva anche fuori dal collegio.

Betty: I rapporti con gli altri bambini erano tutti uguali, perché eromolto timida e sognatrice.

Maria: A causa del mio carattere socievole familiarizzavo con tutti,compresi quelli della scuola del Grand-Saconnex.

Mario: Stavo bene con tutti.Carmine: Ero apprezzato dagli altri bambini, perché li difendevo

spesso quando c’erano delle litigate, anche se preferivo trascorrere lamaggior parte del mio tempo con gli amici della mia regione.

Gianna: Avevo rapporti buoni che continuo a mantenere con moltidi loro.

Barbara: Avevo ottimi rapporti con tutti, basta che ci fosse da gio-care, io ero sempre pronta! Della mia regione c’era una sola bambinache si chiamava come me, Barbara, ed era molto vezzeggiata dallesuore, perché bellissima. Poiché all’anagrafe l’ostetrica che mi avevadichiarato aveva storpiato il mio nome, quando ho detto che mi chia-mavo Barbara (nome di mia nonna), suor Flaminia ha sentenziato chementivo e non ha permesso a nessuno di chiamarmi con quel nome.Avrei rovinato quello della sua preferita!

Gabriella: Ho avuto ottimi rapporti con tutti, ma la mia amica delcuore era Marilena Zaia di Conegliano Veneto.

16. Come giudicavi il rapporto con le suore?Gabriella: Con le suore ho avuto un ottimo rapporto. Mi volevano

bene. L’unico problema grave l’ho avuto nel 1957/1958, a causa diuna suora ammalata di tubercolosi che, purtroppo, l’ha trasmessa aduna trentina di bambini (più femmine che maschi), tra cui c’eroanch’io. All’improvviso siamo diventati tutti appestati. Siamo staticostretti ad andare un mese in una clinica a Ginevra e, poi, nove mesia Montana Crans, una stazione rinomata per l’aria buona e dovec’erano dei Sanatori e Preventori per curare la tubercolosi. Al nostroritorno ogni mese dovevamo fare le radiografie per controllare se era-vamo effettivamente guariti.

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Gianna: Il rapporto con le suore per me è stato buono, soprattuttocon suor Lucina.

Carmine: Avevo un rapporto abbastanza buono con le suore esoprattutto un gran rispetto per quello che rappresentavano, non dimen-tico i preti e i sorveglianti.

Mario: Ricordo che le suore erano molto severe. Per esempio,durante i pasti non bisognava mettere i gomiti sulla tavola e dopo duerichiami il pasto veniva ritirato. Spesso si andava a letto senza mangia-re a causa delle punizioni.

Maria: Il rapporto con le suore è stato senza problemi.Betty: Il rapporto con le suore è stato senza troppi problemi, anche

se alcune avrebbero dovuto avere un po’ più di psicologia. Avevamodei compiti da svolgere, ciò era normale, ma quando dovevo lavorarein cucina ero terrorizzata da suor Palmira: era incapace di parlare senzaurlare e senza dare schiaffi: un vero incubo!

Barbara: Non erano più severe di mia madre. Ero affezionata a suorLucina, le altre le sentivo distanti.

Marianna: C’è stata una suora che è rimasta solo un anno, che eraparticolarmente violenta. Fatta quest’eccezione, ho avuto buoni rappor-ti con loro, anche se certe volte le giudicavo troppo severe, anche inu-tilmente. A distanza, capisco che erano troppo poche: 7 suore per 120ragazzini e 4 signorine per aiutare.

Silvana: Le suore erano troppo severe, ma era il loro compito e nonposso giudicare.

Angela: All’inizio le suore mi facevano paura, avevo l’impressionedi vederle apparire dappertutto, dopo era divertente.

Giuseppina: Le trovavo severe, ma ho un buonissimo ricordo.Irma: Erano molto gentili, ciascuna a suo modo; mi ricordo di una

suora che sorrideva sempre e ci raccontava delle belle storielline.Domenico: Il mio rapporto con le suore è stato buono, certamente

con le punizioni quando le meritavo, ma capitava raramente e ognitanto mi davano anche del “bravo”.

17. Quando te ne sei andato dal collegio e perché?Gabriella: Me ne sono andata quando sono tornata dal Preventorio di

Montana Crans. Avevo raggiunto il limite di età e probabilmente i mieihanno preferito rimandarmi in Italia per la brutta esperienza vissuta.

Irma: Ho lasciato il collegio quando sono potuta andare a vivere con

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i genitori. Poi mi sono iscritta alla scuola superiore.Giuseppina: Sono partita quando i miei genitori hanno avuto la pos-

sibilità di avermi con loro, questo dopo tre anni.Oscar: Me ne sono andato dopo tre anni, quando i miei hanno avuto

una casa.Angela: Poiché ero spesso punita, trascorrevo la serata nella cappel-

la a pregare con le suore. Avevo detto a mia madre che questo mi pia-ceva molto. Penso che abbia avuto paura e allora ha deciso di tirarmifuori di lì.

Silvana: Sono andata via quando mamma e papà hanno trovato l’ap-partamento che ci permetteva di stare con loro. Fu dato dalle personepresso cui lavoravano a Vesnaz, dopo circa due anni.

Marianna: Sono rimasta fino a 12 anni, perché era il limite d’età.Betty: Ho lasciato il collegio quando mamma ha trovato una came-

ra in città e sono andata alla scuola di Rive. E’ in quel periodo chesiamo dovute ripartire per il Veneto, poiché papà aveva deciso di ritor-nare al suo paesello. Un trauma supplementare per noi, in quanto eratutto cambiato, ma in peggio, la gente partiva per avvicinarsi al luogodi lavoro. Mamma, mia sorella ed io abbiamo preferito bene o maleritornare in Svizzera.

Maria: Ho lasciato il collegio per andare all’ “école ménagère”. Inpiù mamma aveva trovato una camera in città dove potevo abitare conlei. Dopo avrei voluto fare un apprendistato nella fotografia. Un padro-ne ha fatto tutte le pratiche fino a Berna, ma ciò è stato rifiutato. Eroautorizzata a fare solo l’apprendistato “ménager”. Sono dunque partitaper l’Inghilterra per imparare l’inglese.

Mario: I ragazzi all’età di 12 anni se ne dovevano andare. Alla suauscita un ragazzo mi aveva dato un foglietto da consegnare a una ragaz-za del collegio. La sera si dovevano dare i nostri abiti da lavare edavevo dimenticato di dare il foglietto che è restato nella mia tasca. Lasuora, nel togliere tutto dalle tasche, ha trovato il bigliettino. La Madresuperiora ha convocato i miei genitori per informarli che ero stato io ascrivere il biglietto. Sono stato allontanato dall’Istituto. Questa storia,per il fatto che non ero colpevole, mi ha molto ferito. Avevo 11 anni emezzo. Ancora oggi odio quel luogo.

Carmine: Ho dovuto lasciare il collegio all’età di 11 anni. Avreidovuto andarmene prima. Normalmente non tenevano i bambini arriva-ti ad una certa età, ma la situazione dei miei genitori non era migliora-

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ta, avevano chiesto una proroga che era stata accordata. Non ero il soload aver avuto diritto a questa proroga. In seguito la situazione si è evo-luta e mi hanno preso con loro. La scuola più vicina al nostro domici-lio nella Vieille Ville era allora la Ferdinand Hodler. È lì che ho termi-nato la scuola obbligatoria, cioè la 6a.

Gianna: Sono andata via nel 1964 a 14 anni circa, quando mia sorel-la si è sposata e c’era in casa il posto per me.

Domenico: Nel 1966 sono andato a vivere con i miei genitori a Onex,in una vecchissima casa. Non ho mai capito perché me ne sono dovutoandare, dal momento che la situazione familiare non era mutata.

Tina: Ho lasciato il collegio a 15 anni. Dopo le scuole elementari hofrequentato quelle al Petit-Saconnex. A 17 anni sono partita perl’Inghilterra per studiare.

18. Come ti sei trovato nella vita dopo il collegio? Ti è rimasto qual-che gioia o qualche rancore da questa esperienza del Grand-Saconnex?

Gianna: Mi sono rimaste tante amiche che conservo ancora.Carmine: Mi sono sempre dovuto confrontare con certe difficoltà a

livello comportamentale, poiché siamo stati educati in un modo troppodiverso rispetto agli altri bambini. Vivere sempre tra preti, suore o sor-veglianti, ci aveva forgiato un carattere in controtendenza rispetto aglialtri della stessa generazione. Ciò si è ripercosso sul mio comportamen-to con le persone che ho conosciuto in seguito. Sono ancora oggi moltoriservato, amabile, conciliante, sempre attento e disposto all’ascolto percercar di aiutare il prossimo, finite le scazzottate, pronto a rendere ser-vizio alle persone che me ne fanno richiesta. D’altronde, non per nientemi sento perfettamente a mio agio nel mestiere che svolgo attualmente.Osservando oggi il comportamento delle nuove generazioni, resto con-vinto che gli anni trascorsi in questo Istituto ci hanno fatto meglio capi-re il vero senso della vita in comune, socialmente parlando. Penso che amolti giovani si dovrebbe imporre una prova come la nostra, perché pos-sano prendere coscienza di certi valori fondamentali della vita.

Mario: Dopo l’Istituto, ho continuato le scuole primarie che sonostate difficili. Ho fatto, in seguito, un apprendistato di pittore carrozzie-re che mi ha molto soddisfatto.

Maria: Non mi è rimasto alcun rancore, è stato un passaggio dellamia esistenza.

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Betty: A 16 anni ho fatto la scuola di commercio.Marianna: All’inizio mi sono sentita un po’ persa ed isolata: avevo

molte amiche che avevano il ruolo delle sorelle e all’improvviso mi sonoritrovata figlia unica. Non ho nessun rancore, anzi sono grata alle suoree soprattutto a padre Angeli, perché hanno convinto i miei a lasciarmicontinuare gli studi. Non era abituale in quegli anni andare all’Universitàper una figlia di manovale. Ma ho avuto dal collegio anche una fortunainaspettata. Una benefattrice, la marchesa Rossi Longhi, per commemo-rare il figlio scomparso, aveva istituito una borsa di studio per i più meri-tevoli e le suore e padre Angeli me l’avevano attribuita. Così, quandosono andata all’Università, è stata una sorpresa bellissima scoprire cheero beneficiaria di un conto in banca, che mi ha permesso di studiaresenza chiedere nulla ai miei genitori. Sono riconoscente alla Marchesa,perché la sua elargizione mi è stata davvero preziosa.

Silvana: Mi sono trovata bene, ho conosciuto altri amici a scuola.Non provo alcun rancore, i miei non avevano scelta e siamo rimasteben poco. Gioia è una bella parola, la mamma mi dice spesso chequando veniva a prenderci la domenica per passarla con loro, le chie-devo: «Ma che fai qui? Vai via che devo giocare!». Quindi credo cheper me sia stato un periodo piacevole.

Angela: E’ molto impreciso quello che provavo.Barbara: Per me è stata una parentesi che ho cancellato subito. Né

bene, né male, la vita continuava e basta. Poco a poco, come tutti, hotrovato la mia strada.

Giuseppina: Mi sono trovata bene. Bei ricordi e nessun rancore.Irma: Nessun rancore dei ricordi della vita del collegio, anche se era

meglio fuori, comunque avevo finito il ciclo elementare e non potevopiù restare.

Domenico: Nel collegio devo dire che mi sono trovato bene. Per unfiglio unico è stato importante imparare a vivere con gli altri. Abbiamoricevuto un’educazione che forse neanche i nostri genitori potevanodarci e il punto positivo è stato che abbiamo imparato a leggere e scri-vere in italiano, ciò che ci ha aiutati negli anni seguenti.

Gabriella: Non provo alcun rancore, perché con le suore sono stataabbastanza bene.

Tina: Mi sono trovata bene, della vita del collegio mi sono rimastisia gioia che rancore. Però sono felice di aver fatto questa esperienza divita che mi ha insegnato molto.

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19. Hai conservato dei contatti con gli amici del collegio o con lesuore?

Irma: No, non sono troppo socievole e non ho conservato contatticon gli amici del Grand-Saconnex, poi ho conosciuto mio marito che èsvizzero e ho avuto altre amicizie.

Giuseppina: Ho due amiche con cui sono rimasta in stretto contattoe ogni tanto ho notizie di qualcun altro.

Angela: Nessun contatto seguito, ma incontri dovuti al caso.Silvana: Sì, ci siamo ritrovati in gran numero per il Giubileo del

2000 al Grand-Saconnex ed è stato bellissimo.Marianna: Sì, rivedo di tanto in tanto un’amica o un’altra del colle-

gio. Ho perfino ricevuto recentemente un messaggio su facebook diuna ragazza che era al Grand-Saconnex con me.

Betty: Vedevo regolarmente Anne-Marie Toffolon. Uscivamo insiemeed è durante una di queste uscite che ha incontrato il futuro marito. Poici siamo perse di vista. Avevo notizie da sua madre che abitava nel quar-tiere dove lavoravo. Con le suore non ho conservato nessun contatto.

Barbara: All’inizio ho frequentato Angela, ma abitavamo troppolontane e ci siamo perse di vista. Poi ho ritrovato Franca e con lei il rap-porto dura ancora.

Mario: Ognuno ha preso la sua strada.Carmine: 4-5 anni fa una ragazza che si chiamava Raymonde, con

l’aiuto di altri ex del collegio, è riuscita ad organizzare una giornata. Cisiamo ritrovati per una messa e un pasto in comune. Una giornata tra-scorsa troppo in fretta, poiché avevamo tante cose da raccontarci. Eccoun piccolo aneddoto per quanto riguarda questa occasione: all’epoca,quando facevo l’elettricista, ci siamo visti per 15 anni con un carissimocompagno che si chiamava Giovanni Confortini, ma non sapevo cheaveva trascorso anche lui un certo periodo in questo collegio, l’ho sapu-to solo quel giorno (il mondo è veramente piccolo!). Con le suore abbia-mo avuto molte occasioni per rivederci, poiché di tanto in tanto andava-mo nella chiesa che faceva parte della società della “Cappella italiana”.Una delle cappelle è situata nel quartiere Eaux Vives e l’altra, laProvvidenza, nel comune di Carouge. La maggior parte dei bambini del-l’ex collegio sono stati battezzati o hanno fatto la prima comunione inqueste due cappelle. A questo riguardo, non so se vi ricordate della“Cappella italiana” situata a Eaux Vives? Ebbene, 25 anni fa l’hannodemolita e rifatta più moderna. Ho avuto l’onore di rifare tutta l’instal-

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lazione elettrica e, in quell’occasione, ho potuto frequentare i preti e ditanto in tanto le suore. Mi dicevano sempre che ci sono dei nomi che siricordano tutta l’esistenza, il mio e quello di mia sorella, per esempio,ne facevano parte. Tutte si ricordavano delle stupidaggini che facevamoe che diventavano matte a causa del nostro comportamento da monelli.Avevano perfino in memoria il mio nomignolo, Nuccio. Giusto 20 annifa ho cambiato lavoro per una carriera di specialista in telecomunicazio-ni, il mio datore di lavoro ora è Swisscom. L’ultima volta che ho rivistole suore è stato durante la messa in servizio di una centrale telefonica,circa 18 anni fa, poiché La Provvidenza aveva trovato fondi per farrimodernare l’edificio e accogliere, a pagamento, persone anziane,offrendo loro cure. Le suore hanno allora eletto un amministratore,assunto personale di cucina e infermieristico che, con il tempo, si sonooccupati anche di loro. L’avevano ben meritato, vista l’età, ma eranosempre meno numerose, poiché molte suore, che avevo conosciuto alcollegio, erano già andate in pensione e tornate alla Casa madre in Italia.

Gabriella: Nessun contatto con nessuno, perché dopo il “prevento-rio” sono tornata in Italia e vi sono rimasta con la nonna. Vedevo i mieisolo l’estate e a Natale. A 15 anni li ho raggiunti. Ho lavorato inSvizzera senza essere dichiarata fino a 18 anni, quando ho potuto otte-nere il passaporto. A 22 anni mi sono sposata con un emiliano cono-sciuto al lavoro.

Tina: Sì, ho conservato i contatti con le suore che sono qui e anchecon gli amici.

20. Secondo te l’esperienza vissuta al Grand-Saconnex è stata posi-tiva o negativa e in che cosa?

Irma: L’esperienza è stata positiva, ho imparato bene il francese,ricordo che alla fine della 7a ho ricevuto un premio. Non potevo averegrandi ricompense, perché non conoscevo ancora bene la lingua, maMonsieur Stengel mi ha dato il premio di “consolazione” per le mieattitudini.

Giuseppina: L’esperienza è stata positiva. Ho visto un altro modo divivere e mi piaceva essere con tutti i bambini.

Angela: Esperienza positiva, perché penso mi abbia permesso dicapire quello che non volevo.

Silvana: Esperienza positiva. In negativo avevo solo il fatto che,purtroppo, bagnavo il letto e mi vergognavo molto. Allora la mattina

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coprivo con il lenzuolo, ma le lenzuola si cambiavano e… ahimè!!!Marianna: Per me il soggiorno è stato molto positivo. Ho imparato

a vivere in comunità (con tutto quel che sottintende la convivenza) e,soprattutto, ho imparato a farmi la mia personale opinione. Gli adultierano suddivisi in tre gruppi: i genitori, le suore e i maestri. Strano,dicevano tutti cose diverse sugli stessi argomenti. Sono stata costrettaa farmi le mie opinioni e a riflettere in modo indipendente. E poi, per-sonalmente, avendo una madre tirannica, quei 6 anni sono serviti adallontanarmi da lei e in qualche modo mi hanno sottratto alla suainfluenza, ed è stato benefico.

Betty: Non so cosa dire. Per tanti anni ho pensato che ero andataabbastanza in Chiesa. Adesso faccio parte di una corale e cantiamodurante le messe e le feste religiose.

Maria: Quello al collegio è stato un periodo della mia infanzia, nien-te più.

Mario: L’esperienza è stata positiva per l’educazione. Le suore mihanno insegnato le regole dell’educazione e a essere tollerante. Ma

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1962. Prima comunione con padre Angeli

verso di loro ho un po’ di rancore, vista la severità. Inoltre, è statomolto duro per me non vedere i miei genitori. Venivano a trovarmi incollegio, la domenica e andavo nella cameretta dove alloggiavano soloa Pasqua e a Natale.

Gianna: L’esperienza è stata positiva forse perché ha permesso amia mamma di lavorare più tranquillamente.

Carmine: Per me dico che, malgrado tutto, è stata un’esperienzapositiva. Mi sono spesso posto questa domanda: «Cosa saremmodiventati se i nostri genitori non avessero avuto la fortuna di affidarci aquesto genere di istituto che ci prendeva in carica durante tutta la setti-mana?». Con il senno di poi, mi rendo conto che i miei genitori hannofatto un enorme sacrificio, poiché avevano piccoli stipendi. Non biso-gna dimenticare che gli italiani erano molto sfruttati a quell’epoca, perme e mia sorella dovevano versare 480 franchi al mese e questa sommarappresentava un terzo di due salari cumulati. È un’esperienza cheparagono oggi alla trasmissione italiana di Canale 5 Grande Fratello.Quando racconto come è trascorsa la mia infanzia, le persone ascolta-no, ma non si rendono veramente conto di ciò che ha rappresentato ilfatto di essere rinchiusi in un ambiente ecclesiastico per tutta l’infan-zia. Sì, siamo stati allevati bene, ci hanno inculcato valori veri. I bam-bini usciti dal Grand-Saconnex sapevano come comportarsi in società.In sintesi posso dire che oggi il Grand-Saconnex si merita, ma sfortu-natamente c’è anche il rovescio della medaglia, almeno per quel che miriguarda, ed è che a partire dai cinque anni si ricercano delle attenzio-ni che questo genere d’istituzione non può offrire; è questo che ci èmancato!

Tina: Esperienza sia positiva che negativa. Ho imparato a lottarenella vita.

Gabriella: Esperienza positiva poiché mi ha permesso di vivere conmolti bambini. È mia madre che ha sofferto perché ogni volta che veni-va a trovarmi le facevo il muso. Probabilmente le rimproveravo l’ab-bandono settimanale.

21. Sei soddisfatto della tua vita attuale? Quale mestiere hai svoltoo svolgi?

Irma: Sì, tanto. Sono sposata da 42 anni e molto felice. Ho avuto unavita professionale riempita e interessante e dal 2004 siamo andati inpensione. Ora abbiamo molte attività che ci appassionano. Sono legata

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ai miei nipoti che mi danno molte soddisfazioni.Giuseppina: Sì, sono soddisfatta.Oscar: Certo che sono contento della mia vita attuale: ho un bel

lavoro, due belle figlie e due nipotine che vivono tutte a Ginevra! Dalpunto di vista professionale, venticinque anni fa circa, dopo aver svol-to per 15 anni l’attività di elettricista, ho deciso di migliorare e mi sonoiscritto a l’Ecole d’ingénieur (lavorando e studiando contemporanea-mente), che ho terminato in 5 anni. Ora ho un ottimo lavoro presso loStato, nella mia città di adozione.

Angela: Sì, sono soddisfatta. Ho cominciato come contabile in unapiccolissima ditta e ho terminato in una banca come capo servizio, conun diploma di quadro.

Silvana: Sì, molto contenta. Sono ritornata in Italia, vicino a me c’èmia madre, papà purtroppo è mancato nel 2007. Sono rimasta vedovanel 1991, i miei due figli sono residenti a Ginevra, hanno una bellasistemazione, non sono ancora nonna, ma spero di esserlo presto. Vivoin Italia con il mio nuovo compagno e faccio volontariato.

Marianna: Direi di sì, sono contenta. Sento, però, che il vissuto del-l’emigrato ti lascia un’insicurezza legata all’età e al momento dell’ar-rivo. All’inizio sei in posizione d’inferiorità. Non sei a casa tua, nonparli la lingua, non sei vestito come gli altri, non hai la stessa religio-ne, ecc… e alla fine ti rimane, come una seconda natura, un’insicurez-za quasi costituzionale. Ti trovi sempre a relativizzare e ad argomenta-re…. Vedo che i miei cugini rimasti al paese sono molto più categori-ci di me. E non penso che sia solo una questione di carattere. Dopol’Università ho svolto la professione di medico. Dai miei pazienti horicevuto vari attestati di stima.

Betty: Sono molto soddisfatta della vita attuale, ne apprezzo ogniistante e tutte le mattine ringrazio il cielo di aver una casa tutta mia,avendo conosciuto l’insicurezza, in particolare le andate e ritorno,senza mai sapere cosa sarebbe potuto accadere. Dopo aver vissuto incamerette, con tutti gli inconvenienti che ciò comporta e abitare a casad’altri, avere infine una casa propria è un bene prezioso. Inoltre, hosposato un uomo di una gentilezza estrema, che ha circondato la miafamiglia del suo affetto ed è sempre stato cordiale con tutti. Per quelche riguarda il mio percorso professionale, dopo aver terminato lascuola di commercio, la direttrice mi ha raccomandato al padrone diuna società ginevrina, che si è impegnato ad occuparsi di tutte le pra-

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tiche per farmi ottenere il permesso di lavoro (un vero percorso a osta-coli). Ho lavorato in questa società in qualità di segretaria-contabiledal 15 giugno 1957 al 30 giugno 1973. Avendo poi ottenuto la nazio-nalità svizzera, sono stata assunta dallo Stato di Ginevra, dove ho con-tinuato e terminato la mia carriera professionale. Ho avuto il privile-gio di occupare un posto interessante. Ho amato il mio lavoro e sonoandata a lavorare ogni giorno con entusiasmo e gioia.

Maria: Sì, sono soddisfatta. Al mio ritorno dall’Inghilterra ho avutola fortuna di essere assunta all’aeroporto di Ginevra. Ho lavorato 44anni a contatto con il pubblico. Ho amato questo lavoro. Credo di esse-re stata apprezzata, perché raggiunta l’età della pensione, la Direzionemi ha pregato di continuare. Ho fatto due anni supplementari e ho ter-minato a tempo parziale. Ho molto viaggiato, visitato tutti i continentied ho continuato anche in pensione. Adesso ho un po’ di problemi acamminare. Ma come dice il proverbio: “quello che non ha nulla nonha che da aspettare”, sfortunatamente.

Mario: Sì, sono contento di ciò che ho realizzato.Gianna: Risultato positivo. Certo si può fare meglio, ma anche peg-

gio. Ora sono funzionaria.Carmine: Sì. In conclusione sono abbastanza soddisfatto della mia

vita attuale. Mia moglie, di origine siciliana, ha trascorso anche lei unanno in questo collegio. Ci siamo solo incrociati: io uscivo e lei entra-va. Ci siamo voluti sposare nella chiesetta del Grand-Saconnex. All’etàdi 31 anni, il mestiere di elettricista che praticavo dai 17 anni non miha più interessato. Ho stoppato per seguire una formazione di due annicome specialista in telecomunicazioni. Ho avanzato di vari gradi primadi raggiungere quello attuale, sempre in seno a questa società. Faccioparte di un team che ha come compito principale quello di aiutare i tec-nici (Helpdesk) quando si hanno grossi problemi sulle centrali telefo-niche presso clienti come le grandi banche che posseggono fino a10.000 numeri interni. Facciamo anche formazione sui nuovi prodottiche escono sul mercato e, a questo proposito, il mio italiano è moltoapprezzato dai colleghi ticinesi. Sono, tra l’altro, anche responsabiledel prodotto DECT (telefonini utilizzati dalle grandi società), responsa-bilità che condivido con un collega nella Svizzera tedesca che si occu-pa dei problemi delle persone che parlano tedesco ed io di quelle cheparlano italiano e francese, questo per tutto il territorio svizzero.

Gabriella: Sono soddisfatta a metà, perché ho fatto solo la casalin-

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ga. Mi sono sposata con un uomo che, partito dal nulla, è riuscito acreare una propria impresa. Però ho potuto allevare tre bellissimi figli(due femmine e un maschio) che mi hanno dato quattro nipotini. Nonsi può avere tutto dalla vita.

Barbara: Molto contenta. Ho lavorato in un ufficio internazionale aGinevra prima di trasferirmi definitivamente in Italia. Poi per un’altramultinazionale francese a Milano e a Roma. Successivamente mi sonosposata con un molisano e sono andata a vivere in provincia, in unacittà del centro dove mi trovo bene e dove ho svolto varie professionicome quella di traduttrice ed insegnante prima di fare quella di giorna-lista per varie testate, in particolare per l’Agenzia ANSA, l’agenzia distampa più importante d’Italia. A Campobasso sono perfettamente inte-grata nel tessuto sociale e culturale della città.

Tina: Sì, sono molto soddisfatta della mia vita attuale. Ho lavoratocome segretaria ed ora ho smesso per libera scelta.

22. Hai preso la nazionalità svizzera? Se sì, quando e perché?Irma: Sì, ho preso la nazionalità svizzera quando mi sono sposata

nel 1967, perché mio marito aveva tanta paura che se avessi tenuto lanazionalità italiana un giorno avrei potuto essere obbligata a ritornarein Italia. A quei tempi con gli emigrati c’erano tante polemiche (leggeSchwarzenbach).

Oscar: Ho preso la nazionalità svizzera, perché è il miglior modod’integrarsi. Ma la cosa più importante è che non capivo per qualemotivo non avevo diritto di decidere come cittadino, mentre ero inSvizzera dall’età di cinque anni e pagavo le mie tasse come tutti. Perme è l’unico modo per esistere. Ora abbiamo accordato il diritto di votoagli stranieri residenti, e mi sembra perfetto così. Inoltre la legge sulladoppia nazionalità è stata una cosa davvero importante che ci ha per-messo di non “tradire” la nostra origine.

Betty: Appena ho potuto, ho ripreso la mia nazionalità italiana, poi-ché in fondo ho conservato una tempra che vibra quando sento o leggocerte cose.

Maria: Sì, ho preso la nazionalità svizzera per non avere più proble-mi burocratici. Ho potuto così viaggiare, partire, ritornare a mio gradi-mento e avere un porto d’attracco.

Marianna: Dopo aver sofferto la xenofobia degli anni ’60, mi sem-brava illogico “passare dall’altra parte”. Ci sono volute le riunioni con

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i vecchi compagni di scuola del 2004, di cui sono stata una delle orga-nizzatrici, ed una presa di coscienza per fare il passo. Sono svizzera dalsettembre 2007! Dunque, dopo 47 anni che sono in questo paese. Vabene che ho sposato uno straniero (un danese), che non può avere duecittadinanze e che vuole mantenere la propria nazionalità a cui è lega-to. Ho comunque dovuto aspettare che la legge svizzera permettessel’acquisizione individuale della cittadinanza ai membri di una famiglia(prima era impossibile perché l’acquisizione di una cittadinanza riguar-dava l’intera famiglia). L’avrei fatto prima?

Mario: Sì, ho preso la cittadinanza nel 1974, era per l’avvenire deimiei figli e per il lavoro.

Gianna: Ho preso la cittadinanza a trent’anni per cause familiari.Carmine: Mia moglie è nata in Svizzera ed anche lei ha genitori

emigrati e, dopo lunga riflessione, nel 2005 abbiamo avviato la proce-dura per la naturalizzazione. A questo proposito, senza trattamenti par-ticolari, l’abbiamo ottenuta nel 2007. Per certi lavori “chiave” inSvizzera assumono solo personale svizzero. Quando mi hanno ingag-giato, l’impresa attuale era statale e il 90% delle persone che vi lavora-vano erano svizzere, la società era la PTT (poste e telegrafi). Dal 2000c’è stata la liberalizzazione e la PTT ha cambiato statuto divenendo unaimpresa privata. Sono passato da un lavoro di “funzionario di stato” aquello privato. Quando all’epoca ho proposto la mia candidatura alposto di specialista, per semplificare la formazione, la società cercavadegli elettricisti con CFC (Certificat fédéral de capacité). Riempivoperfettamente le condizioni e sono stato assunto malgrado il mio per-messo di soggiorno “C”. Continuavo, quindi, a pensare che non c’eraurgenza di naturalizzarmi. In fondo, quello che ci ha fatto cambiareidea è che dobbiamo quasi tutto alla Svizzera. Non ho fatto il militarein Italia, e questo è il caso di molti miei compatrioti (poiché figli diresidenti all’estero), né in Svizzera, perché nel 1974 ero ancora italia-no. Non abbiamo mai partecipato a livello politico agli affari italiani,eravamo più sensibili ai problemi svizzeri e, dunque, più all’ascolto. Èla Svizzera che ci ha dato il lavoro, poiché l’Italia non ha recuperato gliimmigrati (vedi le generazioni seguenti). Oggi non avremmo nessunvantaggio a vivere in Italia, anche a livello sociale. Mio padre è dece-duto all’età di 81 anni, la Svizzera con gli accordi bilaterali ha accetta-to il ritorno di nostra madre sul proprio territorio (rassemblement fami-lial). Le nostre madri rispettive sono in Svizzera, tocca a noi ora occu-

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parcene come loro hanno fatto con noi. Praticamente tutti i membridella mia famiglia attualmente in Svizzera sono naturalizzati, a parte lemamme, ben inteso. Per cui, per non perdere i nostri diritti, questa èstata la grande decisione.

Gabriella: No, non ho preso la cittadinanza, perché dopo 29 anni dilavoro in Svizzera, abbiamo deciso di ritornare in Italia, il sogno di miomarito che vedeva l’Emilia, la sua regione, diventare sempre più ricca.Anche i miei figli, nati in Svizzera, erano contenti di ritornare in Italia.Stavamo costruendo una bellissima casa a Scandiano e a Ginevra piùnulla mi tratteneva, dal momento che anche i miei genitori erano giàrimpatriati da qualche anno. Una scelta di cui nessuno di noi si è pen-tito, sia mio marito che i miei figli si sono potuti realizzare, anche se ilprimo anno non ho fatto che piangere in quanto mi sentivo sola. Inseguito anch’io ho potuto assaporare il buon vivere italiano.

Tina: Ho preso la nazionalità svizzera quando ho smesso di lavora-re, ma non per necessità.

23. Al giorno d’oggi si discute in Italia se inserire i bambini di emi-grati che non conoscono la lingua italiana in una classe speciale peruna durata limitata al fine di insegnare bene la lingua prima diintrodurli in una classe normale. Che ne pensi?

Irma: Non c’è la necessità, i bambini si adattano e imparano in fretta.Giuseppina: Mi sembra giusto il passaggio in classi speciali, perché

è difficile per tutta la classe quando non si parla la lingua.Oscar: Il miglior modo di integrare i genitori è quello d’integrare i

figli. Essi sono capaci di imparare le lingue rapidamente. Inoltre i bam-bini autoctoni si abituano agli stranieri e finiscono per capirli meglio,se non è subito, è più tardi. In qualche modo, ognuno fa un passo versol’altro, c’è uno scambio win-win, come si dice qui.

Angela: Non penso che la classe speciale sia la soluzione per unabuona integrazione, piuttosto corsi di lingue per i bambini stranierinelle scuole normali e superiori.

Silvana: Penso che i bambini imparino e si adattino in fretta, quin-di, niente classe speciale. Sono i genitori che dovrebbero imparare lalingua, è il modo migliore di adattarsi alle nuove abitudini.

Marianna: E’ stato tentato al Grand-Saconnex. Hanno fatto unaclasse dove c’erano solo italiani. È stato un fiasco e l’esperienza è dura-ta poco. Penso che un ragazzo impara di più e più facilmente se si sente

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in obbligo di adattarsi ai ragazzi che gli stanno intorno e lo stimolo èpiù forte se si sente solo o in minoranza. Se si fanno dei "ghetti" conclassi di 15-20 alunni, tutti della stessa nazionalità, questi non avrannonessuno stimolo per imparare la lingua del nuovo paese e può ancheessere sgradevole se non pericoloso per un professore che non conoscela lingua d’origine dei ragazzi. L’immersione è il miglior modo secon-do la mia esperienza, ma è vero che richiede un po’ più disponibilità daparte dei maestri e dei coetanei della classe.

Betty: Non ho pareri al riguardo, ma constato che i genitori pensanoche è la società che si deve far carico dell’educazione dei loro figli,quando loro stessi, spesso, fanno ben poco, benché abbiano sia il tempoche i mezzi.

Maria: Non ho un’opinione al riguardo della classe speciale. Invecetrovo che gli stranieri in Svizzera, adesso, hanno tutti i diritti: mendici-tà, traffico di droga, delitti di tutti i generi. Alla nostra epoca, invece,“lavorare e tacere, non farsi notare”, era il nostro credo. Attraverso la tve i giornali vedo che anche l’Italia si trova in una situazione difficile.

Mario: Penso che la classe speciale vada bene.Gianna: Non sono d’accordo, gli immigrati si sentirebbero discrimi-

nati fin dall’inizio.Gabriella: Non sarebbe sbagliato metterli in una classe speciale.Carmine: Sono d’accordo, quella della classe speciale è una saggia

decisione a condizione che i ragazzi siano seguiti da professori che par-lano la loro lingua e che sono già ben integrati in Italia. Ma per favore,non con le suore, non ho nulla contro di loro, ma se deve essere conloro, queste devono aver seguito una formazione pedagogica.

Tina: Penso sia una buona cosa la classe speciale. In questo momen-to, però, ci sono troppi problemi con gli emigrati in Italia. Non tutti rie-scono ad integrarsi come abbiamo fatto noi in Svizzera.

Domenico: A questo riguardo, rispondo così: mia moglie è venutatardi in Svizzera e l’hanno messa in una classe normale. Poiché viveva incampagna, ha dovuto sbrogliarsela da sola. Suo fratello è venuto tre oquattro anni dopo, l’hanno messo in classe d’accoglienza con quelli chenon parlavano il francese e ha avuto la possibilità d’integrarsi bene, perpoi iniziare un interessante apprendistato. Il colmo è stata mia figlia.Infatti, fin da piccola, insieme ai componenti della famiglia, le abbiamovoluto sempre parlare sia in italiano che in dialetto. Alla prima infantilela maestra disse: «Holala, bisogna metterla in una classe di francese!».

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Ed è così che ha imparato immediatamente due lingue. Per cui, secondome, bisogna mettere i figli di emigrati in classi speciali il tempo necessa-rio per imparare bene la lingua, non è una questione di razzismo, ma diintegrazione. E magari in Italia, qualche italiano potrà dire ad un extra-comunitario: «Gli ignoranti sono i nostri figli che parlano una sola lin-gua, non come i vostri che ne parlano minimo due». Questa frase me l’hadetta un collega di lavoro e sono abbastanza fiero di quello che ho fattoper non perdere la lingua italiana e tramandarla ai miei figli.

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Commenti sul questionarioA questo punto, vorrei ritornare su quanto è emerso dal questionario.Le risposte sono uno spaccato della vita che facevamo in collegio:

disciplina, religiosità, orari rigidi, ma anche socialità, giochi ed il saba-to, per i più, un salto a casa per ritornare infine bambini come tutti glialtri… o quasi, perché comunque anche lì potevamo solo sussurrare. Letestimonianze fanno anche capire gli adulti che siamo diventati. Sono,per esempio, d’accordo con Carmine quando dice che in collegio abbia-mo acquisito la capacità di essere sempre attenti ai problemi di quelliche ci circondano, amabili e concilianti. Tanti sono gli elementi positiviemersi, anche se ce n’è uno negativo che accomuna quasi tutti: l’insi-curezza. Sono molti, infatti, quelli che, malgrado mille prove dimostra-te delle loro capacità, continuano a ritenersi inadeguati, forse a causaanche di una problematica integrazione scolastica. Al riguardo, va rico-nosciuto il merito di Madame Adert e Madame Cartier. E’ difficile dire,però, se l’integrazione sia avvenuta solo grazie alla bravura di questemaestre o anche al traghettamento della lingua attraverso una classe spe-ciale composta da soli alunni italiani. Il maestro Stengel precisa chequeste classi sono state costituite, perché non si aveva altra scelta.

Il rapporto con le suore, come si vede, nell’insieme, è stato buono;certo, qualche sbavatura non è mancata. L’imparzialità non era il loroforte. Ciò era dovuto principalmente alla compatibilità caratteriale diogni singolo individuo, come nel caso delle sorelle Covolo: suor Lucinaritiene Maria “il suo braccio destro”, mentre offende Betty chiamando-la “gatta morta”. Anche la storia di Mario è esemplare, poiché vieneespulso per un fatto banale – che oltretutto non ha commesso – ma cherappresenta, agli occhi delle suore, un peccato gravissimo. Eloquente èanche la storia di Tina che racconta del bambino che non voleva bere illatte. C’è indubbiamente, da parte delle monache, l’evidente difficoltànel gestire tanti bambini messi insieme e, dettaglio non da poco, il con-dizionamento dovuto alla mentalità dell’epoca. Non bisogna dimentica-re il motto che regnava sovrano in quasi tutte le nostre famiglie: “omangi questa ministra o salti dalla finestra!”.

Dal questionario è risultato anche che i figli unici come Giuseppina,Domenico o Marianna hanno accettato meglio degli altri la vita in col-legio, perché nei tanti ragazzini hanno trovato amicizia e solidarietà. Misembra poi di cogliere anche una differenza tra maschi e femmineriguardo alla disciplina: le suore erano molto più severe con i primi,forse perché le femminucce erano più ubbidienti?

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Una cosa sorprendente, che non avevo mai valutato, è che molti bam-bini, che non avevano frequentato le scuole in Italia e che non conosce-vano la loro lingua madre, grazie al catechismo, hanno imparato a scri-vere e a leggere l’italiano proprio in collegio!

Il fatto più spiacevole accaduto al “Regina Margherita” è senz’altrola contaminazione da tubercolosi di una trentina di ragazzini a causa diuna suora infetta. Era il ’56-57, come ha raccontato Gabriella.Purtroppo erano anche anni in cui imperava una grande ignoranza equesto fatto è da mettere sul conto della sprovvedutezza delle suoreche, pur sapendo della consorella ammalata, non furono in grado diprevedere l’ampiezza del contagio e di immaginarne le conseguenze.Questo fatto è stato loro rimproverato da ex collegiali contagiati anchedurante l’incontro del 2004. Torno a ripetere, però, che le suore hannoavuto un grande merito che va loro riconosciuto.

Non posso trascurare ancora di valutare il modo che ognuno di noi hadi vedere le cose e le reazioni all’incoraggiamento. Il datore di lavorodella mamma di Tina, per esempio, con la sua petulanza, le ha permes-so di convogliare tutta la sua energia sull’apprendimento della lingua.Mentre Betty e Maria sono state stimolate all’apprendimento del france-se dalla grande disponibilità di Madame Maurice.

È importante ricordare che i ragazzini del collegio si sono guada-gnati, nel tempo, presso la popolazione locale, la reputazione di bam-bini diligenti, ubbidienti, educati, rispettosi delle regole, confermataanche dal maestro principale Stengel, che sembra ammirare questocomportamento e che non ha quindi nulla da rimproverare agli scolariitaliani. Lo dimostra anche la reazione della mamma di Danielle, l’ami-ca di Angela, che abitava in una bella villa nelle vicinanze del collegio.Mentre in un primo momento le proibisce di frequentare i bambini ita-liani, perché pensa siano piccoli delinquenti, finisce poi per ricredersied affidare la bambina più piccola proprio alle suore per farle fare il tra-gitto della scuola insieme ai loro convittori.

Il tema del guadagno, toccato sia da Tina che da Carmine, è certa-mente interessante. Una paga di 5 franchi al giorno e, quindi, di poco piùdi 150 al mese era davvero misera. Tuttavia, i nostri genitori in Italia nonavrebbero guadagnato tanto anche perché, in Svizzera, il lavoro c’eraper entrambi: al loro paese no. Molti emigrati svolgevano anche trelavori alla settimana contemporaneamente (12-13 ore di lavoro al gior-no), in modo da poter raggranellare una somma apprezzabile. Circa 240franchi al mese era anche il costo sostenuto per ognuno di noi nel colle-

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gio. Erano pochi? Erano tanti? Per l’impegno profuso dalle suore nonerano tanti, ma per le tasche dei nostri genitori, sì!

Per quel che riguarda l’acquisizione della nazionalità svizzera, vadetto che offriva indubbiamente vantaggi importanti. Da quel che èdocumentato, si capisce quanto fosse grande l’attaccamento al paesed’origine dell’emigrato che, malgrado in Svizzera avesse costituito lasua nuova famiglia con la nascita dei figli e vi lavorasse da decine dianni, non si decideva a fare questo passo, perché non riusciva a recide-re le sue radici, tanto più che al nuovo cittadino elvetico era richiesta larestituzione del passaporto italiano. Una grave umiliazione per lui chesentiva montare un sentimento di tradimento verso la patria che gliaveva dato i natali. Al riguardo sono emblematiche le riflessioni diMarianna e Carmine.

La doppia nazionalità ha senz’altro favorito l’acquisizione di quellaelvetica da parte degli emigrati rendendoli partecipi della vita sociale,culturale e civile del paese.

A questo punto si potrebbe parafrasare quanto ha detto Annie Cordy,una celebre cantante belga che vive e ha fatto fortuna in Francia: «Monpays est la France, ma patrie la Belgique, je ne pourrais jamais renier mapatrie!» (il mio paese è la Francia, la mia patria è il Belgio, non potreimai rinnegare la mia patria).

Che differenza passa tra gli emigrati di allora e quelli di adesso? Ipunti in comune ci sono: le stesse tribolazioni per il lavoro, il dolorosodistacco dalla famiglia e dalle abitudini, lo stesso amore per la patriaabbandonata. A questi punti convergenti, però, si aggiungono grandi dif-ferenze, essenzialmente di mentalità e di “tempi”: la nostra emigrazioneera “silenziosa”, non conosceva minimamente i propri diritti. Noi italia-ni facevamo sforzi enormi per integrarci, per capire le regole ed adeguar-ci, per far dimenticare agli autoctoni di essere stranieri. Non avevamo iltelefono in casa, non leggevamo i giornali e, per risparmiare, andavamosolo una-due volte all’anno in Italia, anche se era relativamente vicina.

Ora – come commentano in molti – si ha l’impressione che una partedi questi nuovi emigrati, senz’altro scolarizzati e medializzati e, dunque,informati delle leggi, diversamente da noi, conoscano di più i propridiritti che i doveri. Grazie al telefonino sono sempre in contatto con iloro cari e l’aereo low cost permette loro di ritornare al proprio paesecon facilità. Da quando, poi, l’Unione Europea si è costituita, si sonoaperte anche le frontiere mentali: le nuove generazioni non si sentonopiù straniere da nessuna parte.

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-VIII-

Storie di vita

Domenico Donato De Donato

Mi chiamo Domenico Donato de Donato, ma per i miei genito-ri sono Minguccio, per mia moglie e i miei figli Mick, per il

mio miglior amico DeDon, per certi amici svizzeri Donald e per lesuore e gli amici italiani Donato. Dunque tutti i nomi vanno bene.

Sono nato nel marzo 1956 a Masciano, una frazione del comune diAriano Irpino nella provincia di Avellino.

Questa contrada è situata sul dorso di una collina, una sola stradal’attraversa e non ha sbocchi, le case erano e sono costruite da una partee dall’altra, ci abitano una quarantina di famiglie.

Le loro risorse sono sempre state il lavoro della terra con buoi e muliper arare, semina e raccolto del grano a mano. L’unico mezzo meccani-co era la trebbiatrice che veniva da un vicino paese dopo la mietitura.

Spesso le coppie si formavano con i giovani dei dintorni. E così fuper i miei genitori. Per poco tempo hanno lavorato la campagna perquasi niente, poi mio padre è partito per il servizio militare, assegnatoad Alessandria.

Dal quel momento mia madre è rimasta insieme ai miei nonni e lecognate. Non so come abbiano fatto, probabilmente durante un permes-so, sta di fatto che sono nato mentre mio padre era a servire la nazione,un avvenimento che gli ha permesso di accorciare il servizio di leva,perché aveva famiglia a carico.

Al suo ritorno, ha provato a continuare il lavoro della campagna equalche lavoretto qua e là, ma per mantenere una famiglia non basta-vano le poche lire che guadagnava. Inoltre aveva comperato, malgra-do non avesse denaro, un po’ di terra da una zia emigrata in Argentinae aveva fatto qualche debito, debiti che doveva onorare. Così ha presola decisione di emigrare in Svizzera. Vi erano già paesani e non è

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stato difficile ottenere un contratto di lavoro. Le sue prime mansioni, come stagionale, si sono svolte presso con-

tadini nelle campagne Vodesi (Vaud) e Friburgo. Tornava per tre mesia casa, con la speranza che il padrone lo richiamasse per la stagionesuccessiva.

In quel periodo, per lavorare in Svizzera, bisognava passare unavisita medica a Briga e, buon per lui, godeva di buona salute.

Di questo tempo non ricordo gran che, solo che tra le mie occupa-zioni c’era quella di andare a prendere l’acqua con l’asino Peppino,perché in casa non c’era, così come non avevamo la luce.

Con mio cugino andavamo a pascolare le pecore: quando una peco-ra scappava e lui riusciva a prenderla, le morsicava le orecchie fino atagliargliele. Non voleva che le bestie scappassero, ma la sua rabbia nonserviva a nulla perché, il giorno dopo le pecore erano di nuovo in fuga.

Un gioco che facevamo spesso era di prendere Bobbi il mio cane emetterlo nella carriola costruita da mio padre. Però il cane saltava giù,allora ricominciavamo per ore e ore. Tra gli animali c’era ancheBianchina, la nostra mucca da lavoro, con Limoncino il suo vitellino.

Quando mia madre non poteva portarmi con sé, mi lasciava da unsuo zio in fondo al vallo, e lì mi sembrava di stare come in una favola,in una casetta, con il cortile in pietre e, nel bel mezzo, una pozzanghe-ra con l’acqua dove le galline andavano a bere. Mentre sotto un’acaciagli uomini di famiglia, seduti su un banco, affilavano la falce e accudi-vano gli attrezzi da lavoro.

Ogni tanto qualcuno mi portava a scuola, non per imparare, ma perpassare il tempo, perché non avevo l’età scolare e tutti dicevano chedovevo diventare uno “scrivano”, perché avevo sempre in mano unostecchino di paglia e facevo finta di scrivere.

Tra i ricordi più vivi c’è quello di un’automobile regalata da una miazia. Ero davvero contento, perché a Masciano l’unico mezzo di traspor-to era l’asino, l’unica auto vera l’aveva un vicino di casa, così io avevola seconda del paese. Dalla contentezza, mi sono seduto sopra e la mac-chinina ha fatto scrasch: durata 10 minuti! Me la ricordo tanto bene, erauna ”DS” rossa.

In sintesi la nostra situazione era questa: vivevamo in una casa com-posta da due stanze, di cui una inglobava cucina, camera da letto, salot-to, deposito di patate sotto il letto, la cuccia di Bobbi, e di lato, il parco

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giochi di Limoncino appena nato. L’altra era arredata con la mangiatoiadi Peppino e Bianchina, che ogni mattina passavano in mezzo alla stan-za principale per iniziare i lavori nei campi. La casa era compostaanche da un camino per riscaldarci e, come arredamento, avevamo unbipigas a due fornelli per cucinare, un buffet e un letto.

Tutto sommato la nostra ricchezza si chiamava “miseria”, e si capi-sce quindi che mio padre cercasse il meglio e, in quel periodo, il meglioper lui era l’estero.

Sono passati sei anni con le andate e ritorno di mio padre, che nelfrattempo aveva ricevuto il permesso di lavoro “B” (annuale) e si eratrasferito a Ginevra. Un lavoro l’aveva e il suo datore gli aveva ancheaffittato la casa, e così propose a mia madre di emigrare a Ginevra. Leiacconsentì ma solo per qualche mese, e a condizione di portarmi consé. Non voleva lasciarmi dai nonni, come faceva la maggior parte deglialtri emigrati.

La partenzaA decisione presa, ci sono volute all’incirca due settimane per ven-

dere quello che si poteva vendere. Mi ricordo che Peppino è stato datoallo zio che mi guardava ogni tanto, Bobbi è rimasto con i nonni eBianchina e Limoncino venduti.

A pochi giorni dal mio sesto compleanno si è partiti da Mascianocon un’auto in direzione di Foggia per prendere il treno che ci portavaa Ginevra.

Non avevo mai visto un treno ed ero impressionato, comunquepenso che si sia viaggiato bene fino a Milano, e lì mi sono preso laprima paura: eravamo nel nostro scompartimento, mio padre ancoragiù, quando il treno di fianco si muove e mi ha dato l’impressione cheera il mio a muoversi…. Ci siamo poi fermati a Briga per la famosavisita medica.

L’arrivoUn compagno di lavoro di mio padre è venuto a prenderci alla sta-

zione di Ginevra con la macchina - ed era nel marzo 1962 - per portar-ci in una casa al “Chemin des Verjus”.

Si vedeva che la casa era vecchia e umida. Comodità non cen’erano (come da noi): delle buone coperte, belle doppie e pesanti ci

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riscaldavano la notte. Però quest’abitazione aveva una specie diprato abbastanza grande dove poter giocare, da solo.

Lo scopo dell’emigrazione dei miei genitori fu di fare qualcheannetto di sacrifici e tornare al paese, e così subito, d’impegno, miamadre ha trovato un lavoro alla Migros come operaia, e lì certamentesi è posto il problema del figlio che non sapevano a chi lasciare. Poi,per facilitare le cose, è uscito fuori che le leggi svizzere non consenti-vano di tenermi con loro: dovevo tornare in Italia oppure in collegio inFrancia.

Per mia madre non era il caso di mandarmi lontano e, secondo i cal-coli fatti da mio padre, aveva lavorato il tempo necessario come lavo-ratore annuale per potermi tenere. Era quindi solo un problema ammi-nistrativo. Passato quest’episodio si è saputo della “Provvidenza” aCarouge, così mi hanno messo lì di giorno per 2 o 3 mesi, e l’unica cosache mi ricordo è che un certo Pippo mi ha dato una rigata in testa men-tre si faceva la siesta (Pippo lo vedo ancora ogni tanto ma si è dimen-ticato dell’episodio).

La mattina per mio padre era un sacrificio enorme portare meall’asilo e mamma al lavoro con una vecchia bicicletta di recupero.Sicuramente non capivo gran che della situazione, ma per me andavabene così, perché quando tornavo a casa avevo un triciclo, una macchi-na a pedali, il cyclorameur (bicicletta), tutti vecchi ma funzionanti, chemio padre aveva recuperato nella demolizione auto dove lavorava.Dovevano certamente mancarmi Peppino, Bobbi, Bianchina eLimoncino, forse il più duro è stato di sentirmi rinchiuso in quel corti-le, rispetto a tutto Masciano a mia disposizione.

Non era nel programma che mia madre restasse a casa per badare aifigli, ha solo me, ma aveva anche tanto lavoro, perché doveva occupar-si delle pulizie e dei pasti per gli altri familiari scapoli (così si faceva).

Tempo passando, un bel giorno le suore della “Provvidenza” parla-rono del collegio “Regina Margherita” del Grand-Saconnex, dove sonostato ammesso sei mesi dopo il mio arrivo. Nell’agosto del 1962 c`èstato il terremoto in Irpinia ed io, per fortuna, o per destino, non l’hovissuto.

Il collegioNei miei primi sei mesi a Ginevra non ho avuto nessuno amichet-

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to, a parte quelli che vedevo di giorno alla Provvidenza, ma non eranoné vicini di casa, né paesani e tanto meno familiari.

Una domenica sera, dopo tutte le spiegazioni, i miei mi hanno por-tato al Grand-Saconnex: non avevo mai visto tanti bambini insieme! Daagosto fino all’inizio della scuola avevo preso il ritmo normale. Il saba-to mio padre veniva a prendermi in bicicletta, poi mi riportava la dome-nica sera. Inizio tranquillo, non so come parlavo, certamente il dialettonapoletano (più o meno).

Bene, bene, le cose serie cominciarono a settembre, all’inizio dellascuola con Madame Adert, classe italianissima, tutti del collegio. Mihanno messo in prima infantile. Già qualche amico me l’ero fatto:Nuccio, Pietro, Luciano, Luciana, Sandro ecc... non posso ricordarlitutti.

Giornata tipica- In piedi verso le sette.- Fare il letto, vestirsi e lavarsi i denti.- Preghiera, colazione (eterno caffelatte con il pane dentro).- Giacca, cappotto, pèlerine, in fila per due e si partiva per la

scuola, si scendeva “le chemin de l’Erse”, poi si attraversava la grandestrada e noi bravi bravi occupavamo tutto il marciapiede (per i piccoliera così).

- Arrivo nel cortile con qualche sguardo di traverso agli svizzeri.- Poi rientro in classe.

Il particolare della giornata tipica della scuola era che a ogni ricrea-zione noi maschietti facevamo a botte con gli svizzeri e anche le ragaz-zine ci aiutavano: nella scuola eravamo molti bambini del collegio.

In classe con Madame Adert è stato bello, ancora oggi non ricordose sapevo o no parlare il francese; per l’italiano le suore si occupavanobene di noi, insegnandocelo attraverso il catechismo e le preghiere.

Il mio primo anno è passato senza troppi imprevisti, mio padre veni-va a prendermi in bicicletta il sabato dopo scuola e mi portava a casa,passavo il resto giocando con i giochi recuperati.

Un sabato si è presa un’altra direzione per andare a casa e così hoscoperto la nuova abitazione. Siamo andati ad abitare ad Onex in unfabbricato ancora più vecchio del “Verjus”. Questa casa la chiamava-mo “la Carolina”, perché era situata vicino al Chemin de la Caroline.

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La cantina era piena d’acqua su un’altezza di 30 o 40 centimetri. Maper noi non era grave, perché abitavamo al primo piano. Uno zio con lasua famiglia alloggiava al piano terra, così come altre persone dellaprovincia di Benevento. Nella casa a fianco abitava una famiglia mar-chigiana con tre ragazzi un po’ più grandi di me che avevano la fortu-na di restare con la famiglia tutta la settimana. Con loro, durante il wee-kend, si facevano le carrozze e le capanne sugli alberi.

Alla “Carolina” c’era sempre gente e il posto per giocare e, spesso evolentieri, gli uomini passavano le giornate a giocare a carte o a bocce,se non avevano qualche impegno di lavoro.

Ogni domenica sera, io pronto con il bagnetto fatto in un grosso cati-no, due uova a occhio di bue mangiate, e il richiamo di mia madre amio padre: «Porta Minguccio al collegio!». Ma la partita di bocce nonterminava mai. Infine, dopo una vittoria o una sconfitta, mio padre,sulla sua vecchia bicicletta ed io sul seggiolino davanti, via per unadecina o forse più chilometri, per arrivare alle sette e mezzo dallenostre brave suore quando il tempo era bello, ma se era brutto, il filo-bus n. 22 ci portava a Place Bel Air, poi la linea 33 al Grand-Saconnexe uno o due chilometri a piedi. Con tempo cattivo mi si accorciava ilfine settimana perché ci volevano circa due ore per arrivare. Poi le cosesono andate meglio, mio zio aveva preso la patente di guida e ancheacquistato la macchina, le partite duravano allora più a lungo, perchéera lui che mi riportava in collegio con tempo bello o brutto.

Il primo anno è trascorso senza vacanze, ma abbastanza tranquillo,bene integrato nel collegio. A scuola la giornata tipica era sempre lastessa: imparare durante le lezioni, botte durante le ricreazione, e ognitanto le punizioni delle suore, in seguito a quelle subite a scuola. Al col-legio, compiti, preghiere, catechismo.

Quell’anno ho conosciuto molti amichetti, le sorelle Agri, iMugnaio, Sandro, Pietro, Cesare, Paolo, Luciano e Luciana, Maria,Nuccio (Carmine), Francesco, Murè, Barbara (dalla macchiolina dicaffè sul naso, la cocca delle suore) e una ragazzina che si chiamavaNerina: mai avuto notizie.

L’anno successivo, mi hanno messo di nuovo nella classe diMadame Adert, in prima elementare.

Siamo arrivati all’estate 1963 e lì, dopo più di un anno, finalmente leferie, il viaggio si è fatto in treno, ci abbiamo messo 24 ore per arriva-

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re. Si abitava dai nonni, e le cose non erano cambiate, ci dovevamo adat-tare con quello che c’era, i giochi con mio cugino erano sempre gli stes-si, ma senza Bobbi, altri ragazzini non ce n’erano, comunque una noia.

Al ritorno dalle ferie ho trovato al collegio tre fratellini venuti dallaSicilia, i Coco, Carmelo il grande, Maria e Nuccio che aveva circa 3anni, e subito è diventato la “mascotte” di tutti. Quando padre Angeliveniva a servire la messa, se lo sedeva sul palmo della mano. Quandogiocavamo a calcio nel cortile e il pallone lo mandavamo fuori, Nuccioandava a prenderlo, perché era tanto piccolo da passare tra i montantidel cancello, e le suore non lo sgridavano.

Carmelo ed io siamo coetanei e ci hanno messo nella stessa classecon Madame Adert. Siamo diventati subito amici. Carmelo era unragazzino che non poteva stare fermo, sempre in movimento e semprebla bla...., l’unico momento di tranquillità con lui era l’arrivo dell’eter-no caffelatte con il pane. Lo guardavo, e vedevo la sua guancia gonfiar-si. «Carmelo che c’è?», «..Humm humm», «Mah».

In fila per due, Carmelo alla mia destra contro la siepe, e appenapoteva, svuotava quello che aveva in bocca. Dal quel momentoCarmelo più nessuno lo teneva tranquillo, in classe era quasi semprepunito.

Arrivati all’estate 1964, siamo andati in vacanze con la macchinadello zio, una “Dauphine”. Partendo di notte, non abbiamo mai trovatoil Monte Bianco e così siamo stati costretti a tornare indietro e prende-re la direzione del Sempione. Si viaggiava abbastanza bene quando lamacchina teneva la strada, ma se c’era un po’ di vento se ne andava diqua e di là. Verso sera siamo arrivati a Firenze e, stranamente, le lucinon si accendevano: abbiamo dovuto passare la notte su una piazzoladi sosta. L’indomani si è ripartiti, ma non ricordo se la dinamo dell’au-to era stata cambiata. Poi fino a Masciano tutto ok. Nel periodo di treb-biatura, spesso capitava che arrivati a 300 metri da casa non si potevapassare, perché trovavamo la trebbiatrice che stava lavorando nel belmezzo dell’unica strada del paese! Ogni viaggio che si faceva in que-gli anni era come partire in spedizione per l’ignoto.

La terza elementare l’ho fatta con Madame Cartier e con il turbo-lento Carmelo, come detto nel questionario. In quarta è stato l’annodella classe mista con gli svizzeri, e lì ho fatto amicizia con qualcheragazzino svizzero.

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Qualche altro ricordoUn cambiamento c’è stato nella giornata tipica; noi maschietti dove-

vamo lavare i piatti dopo pranzo, perché se lo facevano le femminuccearrivavamo sempre in ritardo a scuola. Eravamo veloci e organizzati,perché a noi restava anche il tempo per giocare a pallone.

I nostri genitori dovevano venire a prenderci la domenica dopo lamessa e così, prima delle 10.30, non si era a casa, e si stava poco conloro. Fortunatamente anche i miei genitori avevano comperato l’auto ecosì perdevo meno tempo nei tragitti.

Non conoscevo niente di Ginevra, a parte la strada per andare ascuola, e le linea del bus 22 e 33 per venire dalle suore, e un bel gior-no, stavo poco bene e suor Lucina non mi ha mandato a scuola. Poichéil mio male non era così grave, mi ha portato con sé dal dentista. E lapovera suora dopo le cure non c’era più con l’orientamento, e mi disse«Donato, andiamo a prendere il bus!». «Mah, quale bus?». «Che ti hoportato a fare!». Nemmeno io sapevo dov’ero. Per finire siamo ritorna-ti in taxi, il primo preso a Ginevra.

Tra gli amici ricordoSandro, che anche di notte andava nell’armadio delle medicine del

refettorio e beveva le bottiglie di sciroppo per la gola “Sanasol” e man-giava quelle specie di vitamine a forma di cioccolatini, perché eranobuoni.

Nuccio (Carmine tutti pensavano che fossimo fratelli) ed io che cilasciavamo una fetta di pane per tre giorni nella cartella, perché man-giato secco era più buono.

Francesco che mi ha morsicato, e l’ho fatto dormire per mezza gior-nata dalle botte che gli ho dato, ma devo dire che poi suor Lucina e suorAmelia mi hanno tirato le orecchie ed i capelli e, appena mi toccavano,facevo finta di piangere.

La cena speciale: «Chi mangia i carciofi?». Io che non sapevo cosafossero non li ho presi. A fianco a me c’era Nuccio che me li ha fattiassaggiare ed erano buoni. Ho chiesto se potevo averne uno: «Ci pen-savi prima...». Mi son detto che li avrei mangiati la volta seguente, mai carciofi non sono più arrivati.

Ricordo anche Cesare che aveva problemi di incontinenza, e spessobagnava il letto. Per punirlo le suore gli mettevano in testa il lenzuolo

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bagnato per tutta la durata del canto del giovedì mattina. Non era certocosì che poteva guarire se era un problema di salute. All’agitatoCarmelo, che per più di 4 anni ha dovuto bere l’eterno caffelatte con ilpane, il suo problema non era il pane, ma il latte che non sopportava.Potevano sostituirlo con il tè.

Era nel 1966 quando sono partito dal Grand-Saconnex, potevo resta-re ancora un po’, ma il motivo perché non mi hanno tenuto non l’homai saputo, poiché la situazione familiare non era cambiata, a partel’automobile. La casa era sempre “la Carolina” con la sua gente e leloro abitudini. Tornando a casa, quello che cambiava, è che ero piùgrande e potevo spostarmi da solo.

Riassumendo il periodo al collegio, posso dire che mi son trovatobene, per un figlio unico. Questa esperienza è stata importante perimparare a vivere con altra gente. Abbiamo ricevuto un’educazione cheforse neanche i nostri genitori potevano darci, e il punto più positivo èche abbiamo imparato a leggere e scrivere l’italiano e certamente ci haaiutato negli anni seguenti.

La mia fortuna è stata che l’insegnamento scolastico me l’hannodato Mesdames Adert e Cartier che hanno fatto sì che l’ apprendimen-to del francese sia stato più facile, senza niente togliere alle suore peril loro aiuto nei compiti. D’altronde il rapporto con queste ultime èstato buono, certamente con le punizione quando le meritavo, ma capi-tava raramente, ogni tanto mi davano anche del bravo.

Nella scuola non sentivo differenza, forse la differenza la facevamonoi dal fatto di essere parecchi e, per la verità, un po’ di “casino” lofacevamo.

Infine c’è stato l’anno in cui ho fatto la comunione e la cresima auna settimana di distanza. Al termine dell’anno scolastico sono tornatoa casa con i miei, alla Carolina.

L’integrazioneEravamo venuti per tre o quattro mesi e invece sono passati quattro

anni e mezzo ed era l’anno 1967. Alla ripresa della scuola ormai ero inquinta, il francese lo avevo imparato, e sono andato all’“Ecole de laCaroline”. Grazie al fatto che c’erano pochi italiani, di cui nessuno delcollegio, ho avuto qualche amico svizzero, ma pochi, perché le nostrecondizione di alloggio non erano cambiate e riceverli a casa non era

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possibile, anche perché entrambi i genitori non volevano. Gli uniciamici che avevo rimanevano i tre ragazzi marchigiani e i nostri giochierano i soliti.

Quell’anno ho perso tutti i contatti con i ragazzi del Grand-Saconnex: qualcuno l’ho rivisto in occasione delle feste di beneficenzache la Capella Italiana organizzava.

Da settembre a febbraio del 1967/68 è andato tutto bene, e non sonostato lasciato a me stesso, la scuola stava vicina, a pranzo c’era semprequalcuno che mi faceva compagnia.

Mia madre ha cambiato lavoro passando alla “Budelleria diGinevra”. Successivamente il padrone di mio padre è fallito, e così haperso il lavoro e la casa. Abbiamo trovato alloggio nelle baracche perstagionali del Pont rouge e ci siamo trasferiti nel mese di gennaio.

Per fortuna ci siamo stati solo tre mesi. C’era un unico vano: unastanza per tre persone compresa la cucina, il bagno in comune ed erauna baracca molto umida, poiché i vestiti che indossavamo, la mattinali trovavamo bagnati. La scelta di trasferirci al Pont Rouge è stata sem-plice da fare, non ero troppo lontano dalla scuola, circa 4-5 km da farea piedi 4 volte al giorno.

Fin dal nostro arrivo, i miei hanno cercato di trovare una casa piùdecente. Dopo tante iscrizioni alle Régie, finalmente gli hanno asse-gnato un appartamento a l’Etoile des Palettes.

L’appartamento de l’Etoile era piccolino con 3 vani, per paura chece ne dessero uno più grande e quindi più costoso, mio padre non l’hanemmeno richiesto. Dalla nuova casa c’erano sempre 4 o 5 km da farea piedi 4 volte al giorno, e anche lì non ho conosciuto quasi nessuno,né avuto compagni.

Anche la quinta è passata e alla fine dell’anno scolastico dovevorestare un mese a casa solo, non potevo andare dai nonni, perché eranoormai anziani e avevano il loro lavoro da svolgere. I miei genitori perstare tranquilli, mi hanno mandato in colonia alla Coudre per tre setti-mane. Ho fatto altre conoscenze di ragazzi svizzeri ed è stata una bellaesperienza. Quello stesso anno ho avuto un’altra bella esperienza: pernon trovarmi svantaggiato di fronte agli altri alunni, i miei mi hannomandato in classe bianca e così ho imparato a sciare.

Nel frattempo, mio padre aveva trovato il lavoro come livreur, ma èstata una brutta esperienza, perché la salute ne è stata toccata: dopo la

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sua convalescenza per un intervento chirurgico, si è messo d’impegnoper tornare a fare il lavoro che gli piaceva, il muratore!

L’anno della stabilità 1968/69Nel cortile dell’ “Ecole des Palettes”, un uomo lungo due metri,

magro come uno stuzzicadenti fa l’appello dei suoi alunni… Tra di medicevo: «Non voglio andare nella sua classe...», quando, invece, chia-ma proprio il mio nome. Rientrando in classe ho rivisto parecchi com-pagni della colonia, mentre nel cortile della scuola ho ritrovato final-mente l’amico Coco del Grand-Saconnex. Era anche vicino di casa e,da quel giorno, sono diventato il suo fan, perché giocava a calcio e,quando potevo, andavo a vederlo alle partite. Per me le cose erano unpo’ diverse, perché il Consolato organizzava corsi d’italiano il giovedìe i miei mi hanno iscritto con la speranza di prendere la licenza di terzamedia, che poteva essere utile in caso di rientro in Italia. Mi hannoanche iscritto a scuola di musica (ma sono una frana) e così non mirimaneva tempo per lo sport.

Per noi ragazzi la nostra integrazione non era più un problema, era-vamo in classi miste, i nostri amici erano multinazionali e nel quartie-re des Palettes le nazionalità non mancavano.

Del tempo che mi rimaneva del mio giovedì, si andava sulla Plate-forme (uno spazio-giochi in catrame) tra i palazzi dove si giocava a cal-cio, spesso rientravamo con le ginocchia scorticate. Non si capiva per-ché l’amico Coco, giocatore di calcio all’ala sinistra e anche bravo, ilgiovedì doveva essere portiere sull’asfalto! Ad un tratto diceva: «Jedois rentrer...» e scappava via e, guardando dietro di noi, vedevamo uncane avanzare piano piano. Aveva una fifa nera dei cani! C’è voluto unpo’ di tempo per scoprire la sua paura.

Cycle d’orientation (C.O.)Con l’entrata alle scuole medie si entra nell’adolescenza e avremmo

dovuto diventare più seri, perché si doveva cominciare a pensareall’avvenire. Con due o tre scuole di C.O. vicino, mi hanno messo aCayla (St-Jean), noto per accogliere ragazzi non troppo raccomandabi-li. Ho frequentata la sezione “Generale” G, e la mia professoressa eraanziana ma simpatica, e quello che ricordo è che per farci entrare intesta il + e – in algebra a ogni lezione faceva forse un chilometro di

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marcia andando avanti o indietro secondo i numeri da sottrarre e daaggiungere.

Con l’amico Coco quell’anno non abbiamo frequentato lo stessoistituto, l’hanno mandato a l’ex Necker, una scuola per i ragazzi chenon avevano tanta voglia di studiare, ma che erano portati per le attivi-tà manuali. Poiché era un amico della Plate-forme, lo vedevo spesso lì.

Frequentavo i corsi d’italiano e così avevo amici per tutta Ginevra,ma ci vedevamo soltanto in classe.

Il mio professore d’italiano era Crivelli, e quell’anno ho conosciutodue ragazzi della provincia di Avellino, ovviamente parlavamo il dia-letto e durante la ricreazione giocavamo a carte. Il professore si inner-vosiva un po’, ma capiva anche che per noi era una noia andare ai corsi,poi l’unico pomeriggio libero da scuola. Comunque l’anno scolastico siè concluso con la promozione alla 8ème Generale del C.O. des Voiretse promosso anche in seconda media.

8ème GeneraleFinalmente andavo a scuola vicino casa, il professore Signor Butty,

era una brava persona, ma spesso chiamava mio padre per dirgli chenon andavo tanto bene, che i miei voti scendevano sempre verso ilbasso. Sapeva che frequentavo i corsi d’italiano, e così ogni brutto votoin francese era colpa dell`italiano e ha consigliato a mio padre di farmismettere. Ma non era il caso di smettere, dovevo solo impegnarmi dipiù per fare tutte e due le cose, senza contare la musica che prendevaanche lei tempo.

Per superare le difficoltà scolastiche, i miei genitori non avevanoabbastanza conoscenze per aiutarmi, però mio padre mi faceva ripete-re il “tedesco”, lui che a malapena sapeva leggere l’italiano. Smettere icorsi d’italiano quell’anno sarebbe stato un gravissimo errore; andava-mo in città al “College Calvin” anche di sera, la mia professoressa erala signorina Ucelli, una brava donna, capiva al volo le nostre intenzio-ni: in classe eravamo 40 alunni. Poiché diventava difficile gestire laclasse, decise di farne due: una di 10 e una di 30 allievi. La spiegazio-ne è stata questa: 10 somari (e ne facevo parte), e 30 che avevano inve-ce intenzione di studiare un po’.

I corsi li ho frequentati quasi tutto l’anno, ma i libri sono rimastichiusi. A due settimane dall’esame non sapevo se presentarmi o meno,

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ma non volevo nemmeno che i miei genitori sapessero che non avevofatto gran che. Che faccio?

La signorina Ucelli mi chiese:«Allora Donato che facciamo?».«Non so se mi presento all’esame».«Fai quello che vuoi, ma se ti presenti e sei promosso vuol dire

che i corsi si possono fare in due settimane».Mi sono messo d’impegno, ho aperto i libri e mi sono preparato

benino su un solo argomento di ogni materia di cui si doveva passarel’esame.

Al momento dell’interrogatorio, davanti a tre professori arriva iltema dell’argomento:

«Allora, Donato, parlami dell’America».«Mah, l’America non è tanto il mio ramo, parliamo piuttosto

dell’Africa, conosco molte più cose!».«Va bene!».E così per tutte le materie.

Il giorno dei risultati ci chiamarono tutti a Carouge, se ricordo bene,ed io in fondo alla sala a fare lo scemo con altri sei o sette compagnidella famosa classe somara, quando ad un tratto sento il mio nome. Ciho messo un po’ per arrivare sul palco a ritirare la pagella.

La signorina Ucelli: «Non ci credevi!», io «Sì sì, signorina, i corsi sipossono fare in due settimane». Senz’altro mi ha dato una buona manoper promuovermi, lo considero un bell’anno, ho avuto altri compagni.

Malgrado i diversi richiami del Sig. Butty, anche al C.O. sono statopromosso in 9ème Generale.

La 9ème, l’anno della serietàQuell‘anno l’insegnante di classe era giovane. Anche il professore di

matematica era giovane e divertente; la sua prima presentazione: «Jem’appelle Martinoli», facile da ritenere: «Martin au lit» (Martino aletto). «Non l’ho inventato, l’ha detto veramente lui». Il professore didisegno, Lucky Luke, era pelato e aveva una mèche di capelli lunghi dauna parte sola e se la faceva passare dall’altra parte, da lì il soprannome.

Questi erano gli ingredienti per passare un buon anno e cominciarea pensare seriamente a quello che volevamo fare del nostro avvenire.

Del tempo passato con la maestra di classe non c’è stato niente di

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particolare e ricordo che, poverina, attraversando la strada, si è fattamettere sotto da un’auto ed è stata assente per un bel po’ di tempo.

Il nostro Martinoli, ha avuto la pazienza di spiegare sempre duevolte le cose, se non tre: mezza classe faceva casino e l’altra bene omale ascoltava e alla domanda: «Vous avez compris?», «Non rien dutout». E così la spiegazione ripartiva con il solito casino durato tuttol’anno. Ero abbastanza bravo alle lezione di disegno, è stata l’unicamaterie dove i voti si avvicinavano al sei (il voto più alto nel Cantonedi Ginevra).

La Scelta professionaleÈ l’anno della scelta per l’avvenire: studio o apprendistato?Debbo dire che il Cycle d’orientation non mi ha orientato troppo,

certamente non avevo i voti abbastanza alti per studiare, ma non sape-vo proprio cosa scegliere delle scuole seguenti: Collège, Ecole demécanique, Ecole des arts et métiers, ecc.... Nemmeno i miei genitoriavevano le informazioni per consigliarmi.

Per fortuna mia, da quando ho avuto una matita in mano per dise-gnare, mi sono sentito a mio agio e, durante i diversi stage che ho fattol’ultimo anno, ero attirato dal mestiere di disegnatore, ....ma di che?Mio padre ha imparato a fare il mestiere di muratore sul terreno, senzaandare a scuola e sapevo che avevano i disegni per costruire le case. Poisapevo anche che in Italia il geometra misurava i terreni e costruivaanche le case, ho imparato questo perché dal terremoto nell’Irpinia del1962 parecchie case le ha costruite “Gigino lu geometra”. Ho fattoqualche stage in uffici tecnici della ventilazione, edilizia e disegnatoredi mobili (ensemblier).

Avevo scelto: dessinateur en bâtiments, era questo il mestiere checorrispondeva di più a quello che volevo fare e, se rientravamo in BassaItalia, potevo svolgerlo anche lì. Mi sono messo d’impegno per trovar-mi un padrone per settembre, sono stato fortunato, il padrone l’avevoed anche vicino casa, ma c’erano degli esami di ammissione.

Eravamo 80 ragazzi a passare gli esami per tre corpi di mestieri didisegnatori: Edilizia, Genio civile, e Geometra. Risultato dell’esame: nonidoneo per la professione. Perso anche il padrone, e adesso che faccio?

La formazione professionale non mi ha aiutato molto, non mi ha tro-vato niente di niente. Leggendo i giornali tutti i giorni ho visto un

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annuncio: “Cherche apprentis dessinateur en machines”, «Che sarà?»,mi sono detto. Ho telefonato, preso l’appuntamento, visitato la fabbri-ca, e ho visto delle macchine industriali per l’imballaggio di formaggi“La Vache qui rit”, le leve che si muovevano, il formaggio che colava,s’impachettava.... Un bel mestiere, un mestiere dove bisogna averemolta immaginazione e la visione in 3 D, mi avevano detto. Potevaandare bene, ma mi hanno anche annunciato che c’era l’esame da pas-sare .... Ancora! Per fortuna però eravamo solo due e mi è andata bene.

Frequentando il CEPTA (centro professionale), ho saputo che misono trovato nel mestiere più difficile da imparare facendo l’apprendi-stato, ed è un mestiere che si posiziona tra il meccanico di precisione(manuale) e l’ingegnere meccanico (intellettuale). In caso di rientro inBassa Italia avrei dovuto cambiare professione.

Ho terminato in cinque anni, di cui un anno pensavo più alle ragaz-zine che alla resistenza dei materiali.

Spesso penso che se mi avessero dato la possibilità di lavorare nelramo edilizia, mi sarei sentito più a mio agio, perché corrisponde di piùal mio carattere, oggi magari avrei un’altra posizione professionale,perché le scalate gerarchiche sono più facili.

La conclusione di questo capitolo è che il bambino di 6 anni con lostecchino di paglia secca che doveva fare “lo scrivano”, si è ritrovatocon una matita in mano per tutta la vita, in una professione che nonsapeva nemmeno che esistesse.

I vent’anni e piùOrmai si era quasi capito, in Italia non si tornava più. Una professione

l’avevo imparata e gli amici me li ero fatti. Come tutti gli altri ragazzi,non vedevo l’ora di arrivare ai 18/20 anni per comprarmi la macchina. Siva in città, gli amici cambiano, si conoscono altre persone, ma chissà per-ché si è formata una cerchia di italiani, quelli come noi venuti bambini equelli venuti a Ginevra quasi adulti. Il nostro incontro avveniva al PraterBar, La Crémière ...poi si andava a ballare a l’Hit Club a Losanna, allaVoile d’Or e, la domenica pomeriggio, al Milord. Con tanti amici, delGrand-Saconnex ne sono rimasti pochi, come se non avessimo più lega-mi, più niente in comune, e poi ognuno stava facendo la propria strada.

Una domenica pomeriggio al Milord incontro una ragazza, carina,ma seduta, visto la mia statura (160 cm) ho aspettato che si alzasse per

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controllare la sua: era più piccola di me, allora l’ho invitata a ballare.Le ho fatto la corte e proposto di uscire insieme, ma la risposta è statano. Siamo rimasti amici, ma non ci vedevamo spesso. Nell’anno 1979-80 ci frequentavamo di più, perché si era creato un gruppetto di ragaz-zi che si incontravano e che avevano gli stessi interessi.

Una sera di gennaio 1980, c’era la neve e questo gruppetto stava incittà, Maria (la ragazza seduta), aveva un problema di catene da neveper la sua auto: le ho proposto le mie e le ho proposto anche di crearequalcosa di serio tra di noi. Mi ha risposto: «Proviamo».

La provaLa nostra prova dura da 29 anni, abbiamo due figli, Deborah e Dario

e, da buoni italiani, li abbiamo mandati alla Provvidenza per il catechi-smo, per conservare la lingua dei loro antenati. Ormai i corsi d’italianoerano integrati alla scuola svizzera e, sempre per il motivo di conserva-re la lingua, li hanno frequentati lì, con la differenza che i professoridicevano: «Bravi, le lingue sono importanti».

Noi italiani della seconda generazione abbiamo potuto indirizzare,consigliare e aiutare i nostri figli nelle loro scelte professionali e, debbodire, che per Deborah l’italiano le è stato utile per i suoi studi, perchéle ha permesso di accedere alla maturità moderna più facilmente.

Nel frattempo, i miei genitori hanno comprato un appartamento inpaese, a Ariano Irpino, dopo il terremoto dell’80. L’appartamento èstato venduto e si è iniziato a costruire una grande casa per tre famigliein periferia del paese, con la speranza che un giorno ci fosse il rientroin Italia. La casa non è mai stata finita.

Avanzando con gli anni, quando si andava in Italia, si andava solo alavorare per via della casa, più gli anni passavano, più il ritorno era lon-tano, si è cominciato a vendere i terreni di Masciano, qualche annodopo una piccola casa.

Non ho mai pensato di prendere la nazionalità svizzera per via delservizio militare e nemmeno i miei genitori vi hanno provato a causa diSchwarzenbach. Anche mio figlio, Dario, non l’ha presa, sempre per ilmotivo del militare, solo Deborah si è decisa, lei è un po’ più viaggia-trice e ha voluto assicurarsi il ritorno in caso di partenza.La decisone

L’ultimo pezzettino d’Italia è stato venduto nel 2007, ormai le spese

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annue c’erano, i genitori, in pensione, non sono persone che possonorestare 4-5 mesi in Italia con il figlio ed i nipoti a Ginevra. Per i figlil’Italia è bella per le ferie, quasi tutti gli anni siamo andati giù e hannovisto il tipo di vita che fanno i loro coetanei, e non è loro piaciuta.Ancora oggi c’è poco avvenire per i giovani nella zona, eccetto che perragioniere o geometra. E anche ai diplomati in questi campi, per lavo-rare, occorre la raccomandazione.

Nel frattempo abbiamo comprato un appartamento, sia io che i mieigenitori, ma si sa che in Svizzera la casa non è mai tua. Ci sono voluti48 anni per capire che non si ritornava alle origine. Una scelta senz’al-tro all’inizio difficile per i genitori, perché la scritta sui cartelli deiristoranti “Chien et Rital interdit” (proibito ai cani e agli italiani) erarivolta a loro, ma hanno capito che la nostra patria non poteva accon-tentare tutti e che il nostro avvenire era qui.

Della vita attuale sono soddisfattissimo, ho una bella famiglia, pro-blemi di lavoro fino ad oggi non ne ho avuto e svolgo sempre lo stessomestiere, a parte che la matita é stata sostituita dal mouse. Maria lavo-ra per conto proprio come parrucchiera, Dario è venditore di automo-bili, dopo aver fatto il mestiere di meccanico, e Deborah si è trasferitaa Berna per svolgere il suo mestiere di ingegnere paesaggistico.

Attualmente comincio a pensare di prendere la nazionalità svizzera,ma non per nazionalismo, più per convenienza per il nostro avvenireprossimo, la pensione, che magari potremo passarla in Italia, con lapossibilità di ritornare in caso di problemi.

Un’esperienza mi mancherà professionalmente: avrei voluto tantolavorare con qualche ditta italiana, ma purtroppo non è stato possibile.

L’amicoL’unico contatto del Grand-Saconnex che mi è rimasto è l’amico

Coco. Si è calmato un bel po’ e non ha più paura dei cani: ha avutoun pastore tedesco di pura razza, era la razza canina che gli mettevapaura da piccolo. Anche lui ha trovato la sua strada, è carrozziere elavora per conto proprio, ha una bella famiglia con due ragazzi, unfiglio e una figlia, e una sera, mentre scrivevo questa storia, ho rice-vuto un SMS che mi annunciava che era nonno.

Da quando sono nati i bambini, quasi ogni anno andiamo a riposar-ci a Riccione per qualche giorno e ogni tanto ci facciamo passare qual-

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che divertimento, come andare al Gran Premio di F1 o di moto GP. Inostri figli non hanno le stesse frequentazioni, ma quando si vedono sirispettano, finiscono anche le serate insieme qualche volta.

E concludo con una riflessione della figlia di Coco: «Non arrivo acapire come mai da più di 40 anni siete amici e non ci sono mai statestorie tra di voi». E una di mio figlio: «Se siamo qua dobbiamo ringra-ziare nonno».

Marzo 2010

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Da sinistra: Nuccio, Donato e Francesco

Storia di una madre emigrata: Armentina Bonini

Sono arrivata in Svizzera nel 1957 per raggiungere mio maritoche vi lavorava già da un anno. Aveva trovato per me un posto

di lavoro in un atelier di “couture”. Un posto a metà giornata dove pra-ticamente facevo di tutto: dalle pulizie alla cucitura di capi, alle conse-gne. Per fortuna la “padrona” era italiana, mentre il marito era svizze-ro tedesco. La prima consegna dovetti farla solo dopo una settimana dalmio arrivo. Mi diedero una bicicletta, mi spiegarono il percorso, e via.Non sapevo nemmeno leggere le targhe delle strade, i passanti a cuichiedevo non capivano. Poi, per fortuna, trovai un italiano che mi indi-cò meglio la strada e così riuscii a fare la consegna del mio primopacco.

Una volta, a forza di pedalare alla ricerca dell’abitazione dove dove-vo portare il vestito, per sbaglio, sono arrivata al confine tra la Svizzerae la Francia. Meno male che buona parte del Cantone di Ginevra toccauna frontiera, perché oltre non potevo andare: c’erano i doganieri a fer-marmi.

I primi tempi, per orientarmi, memorizzavo certi punti di riferimen-to come negozi, campanili, alberi particolari. Se ero già passata di lì,voleva dire che giravo in tondo. Poi, con il tempo, ho imparato i quar-tieri e le varie vie della città. Successivamente ho cambiato mestiere.Sono andata a fare la fioraia in uno dei più grandi negozi della città. Eanche lì ero “la bonne à tout faire” nel senso esatto della parola.Qualsiasi cosa c’era da fare, l’Armentina, detta Tina, era presente: dallapulizia della casa personale dei padroni a quella del negozio, alla rea-lizzazione di corbeilles di fiori alla vendita. Tutto, perfino la pittura!Avevo le mani d’oro e il lavoro non mi ha mai spaventata, ero una veramacchina da lavoro e, infatti, mi chiamavano: la machine. Inoltre, dalmondo contadino portavo un forte senso di onestà e lealtà. I mieipadroni (in Italia si dice datori di lavoro, ma la sostanza non cambia)erano molto contenti di essere capitati con una come me e mi hannotenuta fino a quando ho deciso io di ritornare in Italia.

All’inizio Monsieur Vontobel, il fioraio, aveva capito che faticavo aleggere in francese per cui voleva mandarmi a seguire un corso di que-sta lingua pagando lui le spese. Come potevo dirgli che avevo altrettan-ta difficoltà in italiano, poiché avevo fatto solo fino alla terza elemen-

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tare? Certo, l’istruzione è sempre stata il mio più profondo rimpianto.Mi ricordo che una volta si discuteva in gruppo e il Sig. Vontobel

vantò, con orgoglio, i meriti dei soldati svizzeri che avevano saputoresistere a Hitler. Gli feci notare che non erano i quattro fucili schiera-ti ad aver fermato l’armata tedesca, ma le casseforti dove i ricchi euro-pei avevano messo in salvo il loro denaro. Rimase colpito da questariflessione ed esclamò: «Oh de Dieu, j’y avais pas pensé, sacrée Tina!(non ci avevo pensato)».

In Svizzera, appena sono arrivata, ho capito subito d’essere l’ultimaruota del carro, ma la mia era una ruota d’acciaio e i sacrifici che dovet-ti fare, li feci perché volevo assolutamente migliorare la mia situazio-ne economica, volevo realizzare qualcosa nella vita.

Questo desiderio era poi quello di tutti noi emigrati e non sapevamoche grazie a questa forza di volontà, indirettamente, con i nostri rispar-mi, le nostre rimesse, aiutavamo anche l’economia del nostro paese.

Certo, se mi volto indietro vedo che l’emigrazione è stata un paneduro da mandare giù: sono stata sfruttata, alcuni datori di lavoro hannoapprofittato del fatto che ero emigrante per pagarmi poco, farmi lavo-rare il doppio, senza nessun contratto sindacale e talvolta non hannonemmeno pagato per intero i contributi mutualistici. Ma la cosa che miha più amareggiato nel soggiorno svizzero è stata che ci sentivamototalmente abbandonati dalle autorità italiane, proprio noi che aiutava-mo l’Italia a risollevarsi economicamente.

Provo tanta tristezza ancora oggi quando penso a quei permessi disoggiorno che non ci consentivano di cambiare datore di lavoro, chenon ci permettevano di cambiare mestiere ma, soprattutto, che non cipermettevano di portare i figli a vivere con noi, cosa di cui abbiamo piùsofferto. Ho dovuto lasciare mio figlio di appena tre anni alle cure dimia madre. Sapevo che avrebbe avuto tutto l’affetto, ma è stato diffici-le sia per me, separarmi da lui, sia per lei, che ha dovuto prendersi que-sta grande responsabilità. Ma non avevo scelta, perché senza soldi nonsi può vivere decorosamente e io volevo che i miei figli non avessero apatire quello che stavo soffrendo io. La scelta del collegio è stata obbli-gata, ma era anche meglio così, perché durante tutta la settimana, quan-do si lavorava anche tredici ore al giorno, i miei figli potevano viverein un luogo protetto e non in mezzo alla strada. E, poi, il sabato ci ritro-vavamo….

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Sono comunque contenta di essere ritornata in Italia. Sono convintache se avessi continuato a restare in Svizzera non sarei mai arrivata aimiei 87 anni, perché a Ginevra la mutua passa un’assistenza medica dibase e per farti curare bene devi essere ricco. Poi qui, nella mia terra,ho ritrovato la gente che mi somiglia, che ha voglia di scherzare e diridere come me e un’organizzazione per gli anziani davvero ecceziona-le. Vicino casa ho due associazioni dove ho potuto conoscere tantiamici, passare il tempo con loro ballando e giocando a carte.

Gennaio 2011

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Primi anni ’60. Armentina al lavoro durante le feste di Ginevra

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Et ici, au moins, je peux parler? “ 139

Introduction “ 141

I. Histoire de l’émigration italienne à Genève “ 145

II. Histoire de l’internat “Regina Margherita”du Grand-Saconnex “ 161

III. A partir des années ’50,les fils d’émigrés italiens au “Regina Margherita” “ 173

IV. Ecole élémentaire du Grand-Saconnexet les enfants italiens de l’internat “ 183

V. L’après-internat “ 191

VI. TémoignagesRapport école-internat:souvenirs du Maître principalet de la Mère supérieure “ 197

VII. Questionnaire sur la vie à l’internat et à l’écolerempli par le anciens pensionnaires “ 201

VIII. Histoires de vie migratoire “ 245- Domenico Donato DE DONATO “ 245- Une mère, Armentina BONINI,

raconte son émigration “ 264

Note “ 267

Notes “ 273

Bibliografia - Bibliographie “ 279

Ringraziamenti “ 281

Remerciements “ 282

Barbara Bertolini

Nasce a Viano (RE), un paesino del-l’entroterra emiliano. Nel 1959 raggiun-ge i genitori emigrati a Ginevra. Dopoaver frequentato le scuole di lingua fran-cese, ha svolto vari incarichi professiona-li in multinazionali francesi, prima inSvizzera poi in Italia, dove è tornata dal1973.

Sposata con un molisano, vive ora aCampobasso, dove è stata per molti anni

insegnante di madrelingua francese presso le scuole superiori statalidella regione.

Iscritta all’Ordine dei giornalisti dal 1983, è stata corrispondente peril Molise dell’Agenzia ANSA e de Il Giornale di Montanelli.

Insieme alla collega Rita Frattolillo nel 1998 ha pubblicatoMolisani, milleuno profili e biografie, il primo dizionario completo sututti i personaggi di spicco del Novecento del Molise o originari di que-sta regione e, nel 2007, Il tempo sospeso. Donne nella storia delMolise.

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Indice - Index

E qui, almeno posso parlare? p. 5

Introduzione “ 7

Si sono ritrovati quarant’anni dopo i figlidi emigrati per riconciliarsi con il proprio passato “ 11

I. Storia dell’emigrazione italiana a Ginevra “ 15

II. Storia del collegio “Regina Margherita”del Grand-Saconnex “ 31

III. Dagli anni ’50 in poie i figli degli italiani al “Regina Margherita” “ 47

IV. Scuola elementare del Grand-Saconnex

e i bambini italiani del collegio “ 57

V. Il dopo collegio “ 65

VI. TestimonianzeRapporto scuola-collegio:ricordi del Maestro principalee della Madre superiora “ 69

VII. Questionario d’indagine sul collegioe la scuola compilato dagli ex convittori “ 75

VIII. Storie di vita “ 117- Domenico Donato De Donato “ 117- Storia di una madre emigrata: Armentina Bonini “ 135

Finito di stampare nel mese di luglio 2011da

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