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Letteratura italiana Einaudi La scienza nuova di Giambattista Vico

La scienza nuova - FAMIGLIA FIDEUS · 2019. 3. 30. · sofi; perch’ella, in quest’opera, più in suso innalzandosi, contempla in Dio il mondo delle menti umane, ch’è ’l

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Letteratura italiana Einaudi

La scienza nuova

di Giambattista Vico

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Edizione di riferimento:Principj di scienza nuova d’intornoalla comune natura delle nazioni...Corretta, Schiarita, e notabilmente Accresciuta,in Opere, a cura di Paolo Rossi, Rizzoli, Milano 1959

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Idea dell’opera [...] 2

Libro primo. Dello stabilimento de’ princìpi 36I. Annotazione alla Tavola cronologica [...] 37II. Degli elementi 80III. De’ princìpi 128IV. Del metodo 133

Libro secondo. Della sapienza poetica 1431. Della sapienza generalmente 1452. Proposizione e partizione della sapienza poetica 1483. Del diluvio universale e de’ Giganti 150I. Metafisica poetica 155II. Logica poetica 171III. Morale poetica 229IV. Dell’economica poetica 241V. Della politica poetica 281VI. Repilogamenti della storia poetica 343VII. Fisica poetica 347VIII. Della cosmografia poetica 358IX. Dell’astronomia poetica 367X. Della cronologia poetica 370XI. Della geografia poetica 378

Libro terzo. Della discoverta del vero Omero 394II. Discoverta del vero Omero 424

Libro quarto. Del corso che fanno le nazioni 437I. Tre spezie di nature 439II. Tre spezie di costumi 440

Sommario

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III. Tre spezie di diritti naturali 441IV. Tre spezie di governi 442V. Tre spezie di lingue 443VI. Tre spezie di caratteri 444VII. Tre spezie di giurisprudenze 446VIII. Tre spezie d’autorità 448IX. Tre spezie di ragioni 451X. Tre spezie di giudizi 457XI. Tre sètte di tempi 468XII. Altre pruove tratte dalle proprietà [...] 470XIII. Altre pruove prese dal temperamento [...] 486XIV. Ultime pruove le quale confermano [...] 496

Libro quinto.Del ricorso delle cose umane nel risurgereche fanno le nazioni 5091. 5102. Ricorso che fanno le nazioni [...] 5153. Descrizione del mondo antico e moderno[...] 531

Conchiusione dell’opera [...] 536

Sommario

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IDEA DELL’OPERA

SPIEGAZIONE DELLA DIPINTURA PROPOSTAAL FRONTISPIZIO CHE SERVE

PER L’INTRODUZIONE DELL’OPERA.

Quale Cebete tebano fece delle morali, tale noi quidiamo a vedere una Tavola delle cose civili, la quale servaal leggitore per concepire l’idea di quest’opera avanti dileggerla, e per ridurla più facilmente a memoria, con talaiuto che gli somministri la fantasia, dopo di averla letta.

La donna con le tempie alate che sovrasta al globomondano, o sia al mondo della natura, è la metafisica,ché tanto suona il suo nome. Il triangolo luminoso conivi dentro un occhio veggente egli è Iddio con l’aspettodella sua provvedenza, per lo qual aspetto la metafisicain atto di estatica il contempla sopra l’ordine delle cosenaturali, per lo quale finora l’hanno contemplato i filo-sofi; perch’ella, in quest’opera, più in suso innalzandosi,contempla in Dio il mondo delle menti umane, ch’è ’lmondo metafisico, per dimostrarne la provvedenza nelmondo degli animi umani, ch’è ’l mondo civile, o sia ilmondo delle nazioni; il quale, come da suoi elementi, èformato da tutte quelle cose le quali la dipintura quirappresenta co’ geroglifici che spone in mostra al di sot-to. Perciò il globo, o sia il mondo fisico ovvero naturale,in una sola parte egli dall’altare vien sostenuto; perché ifilosofi, infin ad ora, avendo contemplato la divina prov-vedenza per lo sol ordine naturale, ne hanno solamentedimostrato una parte, per la quale a Dio, come a Mentesignora libera ed assoluta della natura (perocché, col suoeterno consiglio, ci ha dato naturalmente l’essere, e na-turalmente lo ci conserva), si danno dagli uomini l’ado-razioni co’ sagrifici ed altri divini onori; ma nol contem-plarono già per la parte ch’era più propia degli uomini,

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la natura de’ quali ha questa principale propietà: d’esse-re socievoli. Alla qual Iddio provvedendo, ha così ordi-nate e disposte le cose umane, che gli uomini, cadutidall’intiera giustizia per lo peccato originale, intendendodi fare quasi sempre tutto il diverso e, sovente ancora,tutto il contrario – onde, per servir all’utilità, vivesseroin solitudine da fiere bestie, – per quelle stesse loro di-verse e contrarie vie, essi dall’utilità medesima sien trattida uomini a vivere con giustizia e conservarsi in società,e sì a celebrare la loro natura socievole: la quale,nell’opera, si dimostrerà essere la vera civil naturadell’uomo, e sì esservi diritto in natura. La qual condot-ta della provvedenza divina è una delle cose che princi-palmente s’occupa questa Scienza di ragionare; ond’ella,per tal aspetto, vien ad essere una teologia civile ragio-nata della provvedenza divina.

Nella fascia del zodiaco che cinge il globo mondano,più che gli altri, compariscono in maestà o, come dico-no, in prospettiva i soli due segni di Lione e di Vergine,per significare che questa Scienza ne’ suoi princìpi con-templa primieramente Ercole (poiché si truova ogni na-zione gentile antica narrarne uno, che la fondò); e ’l con-templa dalla maggior sua fatiga, che fu quella con laqual uccise il lione, il quale, vomitando fiamme, incen-diò la selva nemea, della cui spoglia adorno, Ercole fuinnalzato alle stelle (il qual lione qui si truova essere sta-ta la gran selva antica della terra, a cui Ercole, il quale sitruova essere stato il carattere degli eroi politici, i qualidovettero venire innanzi agli eroi delle guerre, diede ilfuoco e la ridusse a coltura); – e per dar altresì il princi-pio de’ tempi, il quale, appo i greci (da’ quali abbiamotutto ciò ch’abbiamo dell’antichità gentilesche), inco-minciarono dalle olimpiadi co’ giuochi olimpici, de’quali pur ci si narra essere stato Ercole il fondatore (iquali giuochi dovettero incominciar da’ nemei, introdut-ti per festeggiare la vittoria d’Ercole riportata dell’ucciso

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lione); e sì i tempi de’ greci cominciarono da che tra loroincominciò la coltivazione de’ campi. E la Vergine, cheda’ poeti venne descritta agli astronomi andar coronatadi spighe, vuol dire che la storia greca cominciò dall’etàdell’oro, ch’i poeti apertamente narrano essere stata laprima età del lor mondo, nella quale, per lunga scorsa disecoli, gli anni si noverarono con le messi del grano, ilquale si truova essere stato il primo oro del mondo; allaqual età dell’oro de’ greci risponde a livello l’età di Sa-turno per li latini, detto a «satis», da’ seminati. Nellaqual età dell’oro pur ci dissero fedelmente i poeti che glidèi in terra praticavano con gli eroi: perché dentro simostrerà ch’i primi uomini del gentilesimo, semplici erozzi, per forte inganno di robustissime fantasie, tutteingombre da spaventose superstizioni, credettero vera-mente veder in terra gli dèi; e poscia si truoveràch’egualmente, per uniformità d’idee, senza saper nullagli uni degli altri, appo gli orientali, egizi, greci e latini,furono da terra innalzati gli dèi all’erranti e gli eroi allestelle fisse. E così, da Saturno, ch’è Chrónos a’ greci (echrónos è il tempo ai medesimi), si danno altri princìpialla cronologia o sia alla dottrina de’ tempi.

Né dee sembrarti sconcezza che l’altare sta sotto e so-stiene il globo. Perché truoverassi che i primi altari delmondo s’alzarono da’ gentili nel primo ciel de’ poeti; iquali, nelle loro favole, fedelmente ci trammandarono ilCielo avere in terra regnato sopra degli uomini ed aver la-sciato de’ grandi benefìci al gener umano, nel tempo ch’iprimi uomini, come fanciulli del nascente gener umano,credettero che ’l cielo non fusse più in suso dell’alture de’monti (come tuttavia or i fanciulli il credono di poco piùalto de’ tetti delle lor case); – che poi, vieppiù spiegando-si le menti greche, fu innalzato sulle cime degli altissimimonti, come d’Olimpo, dove Omero narra a’ suoi tempistarsi gli dèi; – e finalmente alzossi sopra le sfere, come orci dimostra l’astronomia, e l’Olimpo si alzò sopra il cielo

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stellato. Ove, insiememente, l’altare, portato in cielo, viforma un segno celeste; e ’l fuoco, che vi è sopra, passònella casa vicina, come tu vedi qui, del Lione (il quale, co-me testé si è avvisato, fu la selva nemea, a cui Ercole die-de il fuoco per ridurla a coltura); e ne fu alzata, in trofeod’Ercole, la spoglia del lione alle stelle.

Il raggio della divina provvedenza, ch’alluma ungioiello convesso di che adorna il petto la metafisica, di-nota il cuor terso e puro che qui la metafisica dev’avere,non lordo né sporcato da superbia di spirito o da viltà dicorporali piaceri; col primo de’ quali Zenone diede il fa-to, col secondo Epicuro diede il caso, ed entrambi per-ciò niegarono la provvedenza divina. Oltracciò, dinotache la cognizione di Dio non termini in essolei, perch’el-la privatamente s’illumini dell’intellettuali, e quindi re-goli le sue sole morali cose, siccome finor han fatto i filo-sofi; lo che si sarebbe significato con un gioiello piano.Ma convesso, ove il raggio si rifrange e risparge al difuori, perché la metafisica conosca Dio provvedente nel-le cose morali pubbliche, o sia ne’ costumi civili, co’quali sono provenute al mondo e si conservan le nazioni.

Lo stesso raggio si risparge da petto della metafisicanella statua d’Omero, primo autore della gentilità che cisia pervenuto, perché, in forza della metafisica (la qualesi è fatta da capo sopra una storia dell’idee umane, dache cominciaron tal’uomini a umanamente pensare), si èda noi finalmente disceso nelle menti balorde de’ primifondatori delle nazioni gentili, tutti robustissimi sensi evastissime fantasie; e – per questo istesso che non ave-van altro che la sola facultà, e pur tutta stordita e stupi-da, di poter usare l’umana mente e ragione – da quelliche se ne sono finor pensati si truovano tutti contrari,nonché diversi, i princìpi della poesia dentro i finora,per quest’istesse cagioni, nascosti principi della sapienzapoetica, o sia la scienza de’ poeti teologi, la quale senzacontrasto fu la prima sapienza del mondo per gli gentili.

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E la statua d’Omero sopra una rovinosa base vuol dire ladiscoverta del vero Omero (che nella Scienza nuova laprima volta stampata si era da noi sentita ma non intesa,e in questi libri, riflettuta, pienamente si è dimostrata); ilquale, non saputosi finora, ci ha tenuto nascoste le cosevere del tempo favoloso delle nazioni, e molto più le giàda tutti disperate a sapersi del tempo oscuro, e ’n conse-guenza le prime vere origini delle cose del tempo stori-co: che sono gli tre tempi del mondo, che Marco Teren-zio Varrone ci lasciò scritto (lo più dotto scrittore delleromane antichità) nella sua grand’opera intitolata Re-rum divinarum et humanarum, che si è perduta.

Oltracciò, qui si accenna che ’n quest’opera, con unanuova arte critica, che finor ha mancato, entrando nellaricerca del vero sopra gli autori delle nazioni medesime(nelle quali deono correre assai più di mille anni per po-tervi provvenir gli scrittori d’intorno ai quali la critica siè finor occupata), qui la filosofia si pone ad esaminare lafilologia (o sia la dottrina di tutte le cose le quali dipen-dono dall’umano arbitrio, come sono tutte le storie dellelingue, de’ costumi e de’ fatti così della pace come dellaguerra de’ popoli), la quale, per la di lei deplorata oscu-rezza delle cagioni e quasi infinita varietà degli effetti, haella avuto quasi un orrore di ragionarne; e la riduce informa di scienza, col discovrirvi il disegno di una storiaideal eterna, sopra la quale corrono in tempo le storie ditutte le nazioni: talché, per quest’altro principale suoaspetto, viene questa Scienza ad esser una filosofiadell’autorità. Imperciocché, in forza d’altri princìpi quiscoverti di mitologia, che vanno di séguito agli altriprincìpi qui ritruovati della poesia, si dimostra le favoleessere state vere e severe istorie de’ costumi delle anti-chissime genti di Grecia, e, primieramente, che quelledegli dèi furon istorie de’ tempi che gli uomini della piùrozza umanità gentilesca credettero tutte le cose neces-sarie o utili al gener umano essere deitadi; della qual

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poesia furon autori i primi popoli, che si truovano esserestati tutti di poeti teologi, i quali, senza dubbio, ci si nar-rano aver fondato le nazioni gentili con le favole deglidèi. E quivi, co’ princìpi di questa nuov’arte critica, si vameditando a quali determinati tempi e particolari occa-sioni di umane necessità o utilità, avvertiti da’ primi uo-mini del gentilesimo, eglino, con ispaventose religioni, lequali essi stessi si finsero e si credettero, fantasticaronoprima tali e poi tali dèi; la qual teogonia naturale, o siagenerazione degli dèi, fatta naturalmente nelle menti ditai primi uomini, ne dia una cronologia ragionata dellastoria poetica degli dèi. Le favole eroiche furono storievere degli eroi e de’ lor eroici costumi, i quali si ritruova-no aver fiorito in tutte le nazioni nel tempo della lorobarbarie; sicché i due poemi d’Omero si truovano esseredue grandi tesori di discoverte del diritto naturale dellegenti greche ancor barbare. Il qual tempo si determinanell’opera aver durato tra’ greci infino a quello d’Erodo-to, detto padre della greca storia, i cui libri sono ripienila più parte di favole e lo stile ritiene moltissimodell’omerico; nella qual possessione si sono mantenutitutti gli storici che sono venuti appresso, i quali usanouna frase mezza tra la poetica e la volgare. Ma Tucidide,primo severo e grave storico della Grecia, sul principiode’ suoi racconti professa che, fin al tempo di suo padre(ch’era quello di Erodoto, il qual era vecchio quando es-so era fanciullo), i greci, nonché delle straniere (le quali,a riserba delle romane, noi abbiamo tutte da’ greci),eglino non seppero nulla affatto dell’antichità loro pro-pie: che sono le dense tenebre, le quali la dipintura spie-ga nel fondo, dalle quali, al lume del raggio della prov-vedenza divina dalla metafisica risparso in Omero,escono alla luce tutti i geroglifici, che significano iprincìpi conosciuti solamente finor per gli effetti di que-sto mondo di nazioni.

Tra questi la maggior comparsa vi fa un altare, perché

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’l mondo civile cominciò appo tutti i popoli con le reli-gioni, come dianzi si è divisato alquanto, e più se ne di-viserà quindi a poco.

Sull’altare, a man destra, il primo a comparire è un li-tuo, o sia verga, con la quale gli àuguri prendevan gliaugùri ed osservavan gli auspìci; il quale vuol dar ad in-tendere la divinazione, dalla qual appo i gentili tutti in-cominciarono le prime divine cose. Perché, per l’attri-buto della di lui provvedenza, così vera appo gli ebrei – iquali credevano Dio esser una Mente infinita e, ’n con-seguenza, che vede tutti i tempi in un punto d’eternità;onde Iddio (o esso, o per gli angioli che sono menti, oper gli profeti de’ quali parlava Iddio alle menti) egli av-visava le cose avvenire al suo popolo, – come immagina-ta appresso i gentili – i quali fantasticarono i corpi esserdèi, che perciò con segni sensibili avvisassero le cose av-venire alle genti, – fu universalmente da tutto il generumano dato alla natura di Dio il nome di «divinità» daun’idea medesima, la quale i latini dissero «divinari»«avvisar l’avvenire»; ma con questa fondamentale diver-sità che si è detta, dalla quale dipendono tutte l’altre(che da questa Scienza si dimostrano) essenziali diffe-renze tra ’l diritto natural degli ebrei e ’l diritto naturaldelle genti, che i romani giureconsulti diffinirono esserestato con essi umani costumi dalla divina provvedenzaordinato. Laonde ad un colpo, con sì fatto lituo, si ac-cenna il principio della storia universal gentilesca, laquale, con pruove fisiche e filologiche, si dimostra averavuto il suo cominciamento dal diluvio universale: dopoil quale, a capo di due secoli, il Cielo (come pure la sto-ria favolosa il racconta) regnò in terra e fece de’ molti egrandi benefìci al gener umano, e, per uniformità d’ideetra gli orientali, egizi, greci, latini ed altre nazioni gentili,sursero egualmente le religioni di tanti Giovi. Perché, acapo di tanto tempo dopo il diluvio, si pruova che do-vette fulminare e tuonare il cielo, e da’ fulmini e tuoni,

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ciascuna del suo Giove, incominciarono a prendere tainazioni gli auspìci (la qual moltiplicità di Giovi, onde gliegizi dicevano il loro Giove Ammone essere lo più anti-co di tutti, ha fatto finora maraviglia a’ filologi); e con lemedesime pruove se ne dimostra l’antichità della reli-gion degli ebrei sopra quelle con le quali si fondaron legenti, e quindi la verità della cristiana.

Sullo stesso altare, appresso il lituo, si vede l’acqua e’l fuoco, e l’acqua contenuta dentro un urciuolo; perché,per cagione della divinazione, appresso i gentili proven-nero i sacrifiZ da quel comune loro costume ch’i latinidicevano «procurare auspicia», o sia sagrificare per benintender gli augùri a fin di ben eseguire i divini avvisi,ovvero comandi di Giove. E queste sono le divine coseappresso i gentili, dalle quali provvennero poscia lorotutte le cose umane.

La prima delle quali furon i matrimoni, significati dal-la fiaccola accesa al fuoco sopra esso altare ed appoggia-ta all’urciuolo; i quali, come tutti i politici vi convengo-no, sono il seminario delle famiglie, come le famiglie losono delle repubbliche. E, per ciò dinotare, la fiaccola,quantunque sia geroglifico di cosa umana, è allogatasull’altare tra l’acqua e ’l fuoco, che sono geroglifici dicerimonie divine; appunto come i romani antichi cele-brarono «aqua et igni» le nozze, perché queste due cosecomuni (e, prima del fuoco, l’acqua perenne, come cosapiù necessaria alla vita) dappoi s’intese che, per divinoconsiglio, avevano menato gli uomini a viver in società.

La seconda delle cose umane, per la quale a’ latini, da«humando», «seppellire», prima e propiamente viendetta «humanitas», sono le seppolture, le quali sono rap-presentate da un’urna ceneraria, riposta in disparte den-tro le selve, la qual addita le seppolture essersi ritruovatefin dal tempo che l’umana generazione mangiava pomal’estate, ghiande l’inverno. Ed è nell’urna iscritto «D.M.», che vuol dire: «All’anime buone de’ seppelliti»; il

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qual motto divisa il comun consentimento di tutto il ge-ner umano in quel placito, dimostrato vero poi da Plato-ne, che le anime umane non muoiano co’ loro corpi, mache sieno immortali.

Tal urna accenna altresì l’origine tra’ gentili medesimidella divisione de’ campi, nella quale si deon andar atruovare l’origini della distinzione delle città e de’ popo-li e alfin delle nazioni. Perché truoverassi che le razze,prima di Cam, poi di Giafet e finalmente di Sem, elleno,senza la religione del loro padre Noè, ch’avevano rinnie-gata (la qual sola, nello stato ch’era allor di natura, pote-va, co’ matrimoni, tenergli in società di famiglie) – es-sendosi sperdute, con un errore o sia divagamentoferino, dentro la gran selva di questa terra, per inseguirele schive e ritrose donne, per campar dalle fiere (dellequali doveva la grande antica selva abbondare), e, sìsbandati, per truovare pascolo ed acqua, e, per tutto ciò,a capo di lunga età essendo andate in uno stato di bestie,– quivi, a certe occasioni dalla divina provvedenza ordi-nate (che da questa Scienza si meditano e si ritruovano),scosse e destate da un terribile spavento d’una da essistessi finta e creduta divinità del Cielo e di Giove, final-mente se ne ristarono alquanti e si nascosero in certi luo-ghi; ove, fermi con certe donne, per lo timore dell’ap-presa divinità, al coverto, coi congiugnimenti carnalireligiosi e pudichi, celebrarono i matrimoni e fecero cer-ti figliuoli, e così fondarono le famiglie. E, con lo starquivi fermi lunga stagione e con le seppolture degli ante-nati, si ritruovarono aver ivi fondati e divisi i primidomìni della terra, i cui signori ne furon detti «giganti»(ché tanto suona tal voce in greco quanto «figliuoli dellaterra», cioè discendenti da’ seppelliti), e quindi se ne ri-putarono nobili, estimando, in quel primo stato di coseumane, con giuste idee, la nobiltà dall’essere stati uma-namente eglino generati col timore della divinità; dallaqual maniera di umanamente generare e non altronde,

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come provvenne, così fu detta l’«umana generazione»,dalla quale le case diramate in più così fatte famiglie, percotal generazione, se ne dissero le prime «genti». Dalqual punto di tempo antichissimo, siccome ne incomin-cia la materia, così s’incomincia qui la dottrina del dirit-to natural delle genti, ch’è altro principal aspetto concui si dee guardar questa Scienza. Or tai giganti, con ra-gioni come fisiche così morali, oltre l’autorità dell’isto-rie, si truovano essere stati di sformate forze e stature: lequali cagioni non essendo cadute ne’ credenti del veroDio, criatore del mondo e del principe di tutto l’umangenere Adamo, gli ebrei, fin dal principio del mondo,furono di giusta corporatura. Così – dopo il primo d’in-torno alla provvedenza divina, e ’l secondo il qual è de’matrimoni solenni – l’universal credenza dell’immorta-lità dell’anima, che cominciò con le seppolture, egli è ilterzo degli tre princìpi, sopra i quali questa Scienza ra-giona d’intorno all’origini di tutte l’innumerabili variediverse cose che tratta.

Dalle selve ov’è riposta l’urna s’avvanza in fuori unaratro, il qual divisa ch’i padri delle prime genti furono iprimi forti della storia; onde si truovano gli Ercoli fon-datori delle prime nazioni gentili che si sono mentovatidi sopra (de’ quali Varrone noverò ben quaranta, e gliegizi dicevano che il loro era lo più antico di tutti), per-ché tali Ercoli domarono le prime terre del mondo e leridussero alla coltura. Onde i primi padri delle nazionigentili – ch’erano giusti per la creduta pietà di osservaregli auspìci, che credevano divini comandi di Giove (dalquale, appo i latini chiamato Ious, ne fu anticamentedetto «ious» il gius, che poi, contratto, si disse «ius»; on-de la giustizia appo tutte le nazioni s’insegna natural-mente con la pietà); erano prudenti co’ sagrifizi fatti perproccurar o sia ben intender gli auspìci, e sì ben consi-gliarsi di ciò che per comandi di Giove dovevan operarnella vita; erano temperati co’ matrimoni – furono, co-

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me qui s’accenna, anco forti. Quinci si danno altriprincìpi alla moral filosofia, onde la sapienza riposta de’filosofi debba cospirare con la sapienza volgare de’ legi-slatori; per gli quali princìpi tutte le virtù mettano le lo-ro radici nella pietà e nella religione, per le quali soleson efficaci ad operar le virtù, e ’n conseguenza de’ qua-li gli uomini si debbano proporre per bene tutto ciò cheDio vuole. Si danno altri princìpi alla dottrina iconomi-ca, onde i figliuoli, mentre sono in potestà de’ lor padri,si deono stimare essere nello stato delle famiglie, e, ’nconseguenza, non sono in altro da formarsi e fermarsi,in tutti i loro studi, che nella pietà e nella religione; e,quando non son ancor capaci d’intender repubblica eleggi, vi riveriscano e temano i padri come vivi simolacridi Dio; onde si truovino poi naturalmente disposti a se-guire la religione de’ loro padri ed a difender la patria,che conserva lor le famiglie, e, così, ad ubbidir alle leggi,ordinate alla conservazione della religione e della patria(siccome la provvedenza divina ordinò le cose umanecon tal eterno consiglio: che prima si fondassero le fami-glie con le religioni, sopra le quali poi avevan da surgerele repubbliche con le leggi).

L’aratro appoggia con certa maestà il manico in facciaall’altare, per darci ad intendere che le terre arate furo-no i primi altari della gentilità; e per dinotar altresì la su-periorità di natura la quale credevano avere gli eroi so-pra i loro soci (i quali, quindi a poco, vedremosignificarsici dal timone, che si vede in atto d’inchinarsipresso al zoccolo dell’altare); nella qual superiorità dinatura si mostrerà ch’essi eroi riponevano la ragione, lascienza e quindi l’amministrazione ch’essi avevano dellecose divine, o sia de’ divini auspìci.

L’aratro scuopre la sola punta del dente e ne nascon-de la curvatura (che, prima d’intendersi l’uso del ferro,dovett’esser un legno curvo ben duro, che potesse fen-der le terre ed ararle) – la qual curvatura da’ latini fu

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detta «urbs», ond’è l’antico «urbum», «curvo» – per si-gnificare che le prime città, le quali tutte si fondarono incampi colti, sursero con lo stare le famiglie lunga età benritirate e nascoste tra’ sagri orrori de’ boschi religiosi, iquali si truovano appo tutte le nazioni gentili antiche e,con l’idea comune a tutte, si dissero dalle genti latine«luci», ch’erano «terre bruciate dentro il chiuso de’ bo-schi», i quali sono condennati da Mosè a doversi bruciaranch’essi ovunque il popolo di Dio stendesse le sue con-quiste. E ciò per consiglio della provvedenza divina, ac-ciocché gli già venuti all’umanità non si confondesserodi nuovo co’ vagabondi, rimasti nella nefaria comunionesì delle cose sì delle donne.

Si vede al lato destro del medesimo altare un timone,il qual significa l’origine della trasmigrazione de’ popolifatta per mezzo della navigazione. E, per ciò che sembrainchinarsi a piè dell’altare, significa gli antenati di coloroche furono poi gli autori delle trasmigrazioni medesime:i quali furono dapprima uomini empi, che non conosce-vano niuna divinità; nefari, ché, per non esser tra lorodistinti i parentadi co’ matrimoni, giacevano sovente i fi-gliuoli con le madri, i padri con le figliuole; e finalmen-te, perché, come fiere bestie, non intendevano società inmezzo ad essa infame comunion delle cose, tutti soli equindi deboli e finalmente miseri ed infelici, perché bi-sognosi di tutti i beni che fan d’uopo per conservare consicurezza la vita. Essi, con la fuga de’ propi mali, speri-mentati nelle risse ch’essa ferina comunità produceva,per loro scampo e salvezza, ricorsero alle terre colte da’pii, casti, forti ed anco potenti, siccome coloro ch’eranogià uniti in società di famiglie. Dalle quali terre si truo-veranno le città essere state dette «are» dappertutto ilmondo antico della gentilità: che dovetter essere i primialtari delle nazioni gentili, sopra i quali il primo fuoco ilqual vi si accese fu quello che fu dato alle selve per isbo-scarle e ridurle a coltura, e la prima acqua fu quella del-

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le fontane perenni, ch’abbisognarono acciocché coloroch’avevano da fondare l’umanità non più, per truovaracqua, divagassero in uno ferino errore, anzi dentro cir-coscritte terre stassero fermi ben lunga età, onde si di-savvezzassero dallo andar vagabondi. E, perché questialtari si truovan essere stati i primi asili del mondo (iquali Livio generalmente diffinisce «vetus urbes conden-tium consilium», come dentro l’asilo aperto nel Luco ciè narrato aver Romolo fondato Roma), quindi le primecittà quasi tutte si disser «are». Tal minor discoverta,con quest’altra maggiore: che appo i greci (da’ quali, co-me si è sopra detto, abbiamo tutto ciò ch’abbiamodell’antichità gentilesche) la prima Tracia o Scizia (o siail primo Settentrione), la prima Asia e la prima India (osia il primo Oriente), la prima Mauritania o Libia (o siail primo Mezzodì) e la prima Europa o prima Esperia (osia il primo Occidente) e, con queste, il primo Oceano,nacquero tutte dentro essa Grecia; e che poi i greci,ch’uscirono per lo mondo, dalla somiglianza de’ siti die-dero sì fatti nomi alle di lui quattro parti ed all’oceanoche ’l cinge; – tali discoverte diciamo dar altri princìpialla geografia, i quali, come gli altri princìpi accennatidarsi alla cronologia (che son i due occhi della storia),bisognavano per leggere la storia ideal eterna che soprasi è mentovata.

A questi altari, adunque, gli empi-vagabondi-deboli,inseguiti alla vita da’ più robusti, essendo ricorsi, i pii-forti v’uccisero i violenti e vi riceverono in protezione ideboli, i quali, perché altro non vi avevano portato chela sola vita, ricevettero in qualità di famoli, con sommi-nistrar loro i mezzi di sostentare la vita; da’ quali famoliprincipalmente si dissero le famiglie, i quali furono gliabbozzi degli schiavi, che poi vennero appresso con lecattività nelle guerre. Quinci, come da un tronco più ra-mi, escono l’origini degli asili, come si è veduto; – l’ori-gine delle famiglie, sulle quali poi sursero le città, come

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spiegherassi più sotto; – l’origine di celebrarsi le città,che fu per viver sicuri gli uomini dagl’ingiusti violenti; –l’origine delle giurisdizioni da esercitarsi dentro i propiterritori; – l’origine di stender gl’imperi, che si fa conusar giustizia, fortezza e magnanimità, che sono le virtùpiù luminose de’ prìncipi e degli Stati; – l’origine dell’ar-mi gentilizie, delle quali i primi campi d’armi si truova-no questi primi campi da semina; – l’origine della fama,dalla quale tai famoli furon detti, e della gloria, che eter-nalmente è riposta in giovar il gener umano; – l’originidella nobiltà vera, che naturalmente nasce dall’eserciziodelle morali virtù; – l’origine del vero eroismo, ch’è didomar superbi e soccorrere a’ pericolanti (nel qual eroi-smo il romano avvanzò tutti i popoli della terra, e ne di-venne signor del mondo); – le origini, finalmente, dellaguerra e della pace, e che la guerra cominciò al mondoper la propia difesa, nella quale consiste la virtù veradella fortezza. Ed in tutte queste origini si scuopre dise-gnata la pianta eterna delle repubbliche, sulla quale gliStati, quantunque acquistati con violenza e con froda,per durare, debbon fermarsi; come, allo ’ncontro, gli ac-quistati con queste origini virtuose, poscia, con la frodae con la forza rovinano. E cotal pianta di repubbliche èfondata sopra i due princìpi eterni di questo mondo dinazioni, che sono la mente e ’l corpo degli uomini che lecompongono. Imperocché – costando gli uomini di que-ste due parti, delle quali una è nobile, che, come tale,dovrebbe comandare, e l’altra vile, la qual dovrebbe ser-vire; e, per la corrotta natura umana, senza l’aiuto dellafilosofia (la quale non può soccorrere ch’a pochissimi),non potendo l’universale degli uomini far sì che privata-mente la mente di ciascheduno comandasse, e non ser-visse, al suo corpo – la divina provvedenza ordinò tal-mente le cose umane con quest’ordine eterno: che, nellerepubbliche, quelli che usano la mente vi comandino equelli che usano il corpo v’ubbidiscano.

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Il timone s’inchina a piè dell’altare, perché tali famoli,siccome uomini senza dèi, non avevano la comunionedelle cose divine e, ’n conseguenza delle quali, nemme-no la comunità delle cose umane insieme co’ nobili, eprincipalmente la ragione di celebrare nozze solenni,ch’i latini dissero «connubium», delle quali la maggiorsolennità era riposta negli auspìci, per gli qual i nobili siriputavano esser d’origine divina e tenevano quelli esse-re d’origine bestiale, siccome generati da’ nefari concu-biti. Nella qual differenza di natura più nobile si truova,egualmente tra gli egizi, greci e latini, che consisteva uncreduto natural eroismo, il quale troppo spiegatamenteci vien narrato dalla storia romana antica.

Finalmente il timone è in lontananza dall’aratro, ch’infaccia dell’altare gli si mostra infesto e minaccevole conla punta, perché i famoli, non avendo parte, come si èdivisato, nel dominio de’ terreni, che tutti eran in signo-ria de’ nobili, ristucchi di dover servire sempre a’ signo-ri, dopo lunga età finalmente faccendone la pretensionee perciò ammutinati, si rivoltarono contro gli eroi in sìfatte contese agrarie, che si truoveranno assai più anti-che e di gran lunga diverse da quelle che si leggono so-pra la storia romana ultima. E quivi molti capi d’esse ca-terve di famoli, sollevate e vinte da’ lor eroi (comespesso i villani d’Egitto lo furono da’ sacerdoti, all’osser-vare di Pier Cuneo, De republica hebræorum), per nonesser oppressi e truovare scampo e salvezza, con quellidelle loro fazioni, si commisero alla fortuna del mare edandarono a truovar terre vacue per gli lidi del Mediter-raneo, verso occidente, ch’a que’ tempi non era abitatonelle marine. Ch’è l’origine della trasmigrazione de’ po-poli già dalla religione umanati, fatta da Oriente, daEgitto, e dall’Oriente sopra tutti dalla Fenicia, come,per le stesse cagioni, avvenne de’ greci appresso. In cotalguisa, non le innondazioni de’ popoli, che per mare nonposson farsi; – non la gelosia di conservare gli acquisti

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lontani con le colonie conosciute, perché dall’Oriente,da Egitto, da Grecia non si legge essersi nell’Occidentealcun imperio disteso; – non la cagione de’ traffichi, per-ché l’Occidente in tali tempi si truova non essere statoancora sulle marine abitato; – ma il diritto eroico fece lanecessità a sì fatte brigate d’uomini di tali nazioni d’ab-bandonare le propie terre, le quali, naturalmente, se-nonsé per qualche estrema necessità s’abbandonano. Econ sì fatte colonie, le quali perciò saranno appellate«eroiche oltramarine», propagossi il gener umano, ancoper mare, nel resto del nostro mondo; siccome con l’er-ror ferino, lunga età innanzi, vi si era propagato per ter-ra.

Esce più in fuori, innanzi l’aratro, una tavola coniscrittovi un alfabeto latino antico (che, come narra Ta-cito, fu somigliante all’antico greco) e, più sotto, l’alfa-beto ultimo che ci restò. Egli dinota l’origine delle lin-gue e delle lettere che sono dette volgari, che si truovanoessere venute lunga stagione dopo fondate le nazioni, edassai più tardi quella delle lettere che delle lingue; e, perciò significare, la tavola giace sopra un rottame di colon-na d’ordine corintiaco, assai moderno tra gli ordinidell’architettura.

Giace la tavola molto dapresso all’aratro e lontana as-sai dal timone, per significare l’origine delle lingue natie,le quali si formarono prima ciascuna nelle propie lor ter-re, ove finalmente si ritruovarono a sorte, fermati dal lo-ro divagamento ferino, gli autori delle nazioni, che sierano, come sopra si è detto, sparsi e dispersi per la granselva della terra; con le quali lingue natie, lunga età do-po, si mescolarono le lingue orientali o egiziache o gre-che, con la trasmigrazione de’ popoli fatta nelle marinedel Mediterraneo e dell’Oceano che si è sopra accenna-ta. E qui si danno altri princìpi d’etimologia (e se ne fan-no spessissimi saggi per tutta l’opera), per gli quali si di-stinguono l’origini delle voci natie da quelle che sono

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d’origini indubitate straniere, con tal importante diver-sità: che l’etimologie delle lingue natie sieno istorie dicose significate da esse voci su quest’ordine naturaled’idee, che prima furono le selve, poi i campi colti e i tu-guri, appresso le picciole case e le ville, quindi le città,finalmente l’accademie e i filosofi (sopra il qual ordinene devono dalle prime lor origini camminar i progressi);e l’etimologie delle lingue straniere sieno mere storie divoci le quali una lingua abbia ricevute da un’altra.

La tavola mostra i soli princìpi degli alfabeti e giacerimpetto alla statua d’Omero, perché le lettere, comedelle greche si ha dalle greche tradizioni, non si ritruo-varono tutte a un tempo; ed è necessario ch’almeno tut-te non si fussero ritruovate nel tempo d’Omero, che sidimostra non aver lasciato scritto niuno de’ suoi poemi.Ma dell’origine delle lingue natie si dà un avviso più di-stinto qui appresso.

Finalmente, nel piano più illuminato di tutti, perchévi si espongono i geroglifici significanti le cose umanepiù conosciute, in capricciosa acconcezza l’ingegnosopittore fa comparire un fascio romano, una spada eduna borsa appoggiate al fascio, una bilancia e ’l caduceodi Mercurio.

De’ quali geroglifici il primo è ’l fascio, perché i primiimperi civili sursero sull’unione delle paterne potestadide’ padri, i quali, tra’ gentili, erano sappienti in divinitàd’auspìci, sacerdoti per proccurargli (o sia ben intender-gli) co’ sacrifizi, re, e certamente monarchi, i quali co-mandavano ciò che credevano volesser gli dèi con gli au-spìci, e ’n conseguenza non ad altri soggetti ch’a Dio.Così egli è un fascio di litui, che si truovano i primi scet-tri del mondo. Tai padri, nelle turbolenze agrarie di so-pra dette, per resistere alle caterve de’ famoli sollevaticontro essoloro, furono naturalmente menati ad unirsi echiudersi ne’ primi ordini di senati regnanti (o senati ditanti re famigliari) sotto certi loro capi-ordini, che si

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truovano essere stati i primi re delle città eroiche, i qualipur ci narra, quantunque troppo oscuramente, la storiaantica che, nel primo mondo de’ popoli, si criavano glire per natura, de’ quali qui si medita e se ne truova laguisa. Or tai senati regnanti, per contentare le sollevatecaterve de’ famoli e ridurle all’ubbidienza, accordaronoloro una legge agraria, che si truova essere stata la primadi tutte le leggi civili che nacque al mondo; e, natural-mente, de’ famoli, con tal legge ridutti, si composero leprime plebi delle città. L’accordato da’ nobili a tai ple-bei fu il dominio naturale de’ campi, restando il civileappo essi nobili, i quali soli furono i cittadini delle cittàeroiche, e ne surse il dominio eminente appo essi ordini,che furono le prime civili potestà, o sieno potestà sovra-ne de’ popoli; le quali tutte e tre queste spezie di domìnisi formarono e si distinsero col nascere di esse repubbli-che, le quali, da per tutte le nazioni, con un’idea spiega-ta in favellari diversi, si truovano essere state dette «re-pubbliche erculee», ovvero di cureti, ossia di armati inpubblica ragunanza. E quindi si schiariscono i princìpidel famoso «ius quiritium», che gl’interpetri della roma-na ragione han creduto esser propio de’ cittadini roma-ni, perché negli ultimi tempi tale lo era; ma ne’ tempiantichi romani si truova essere stato diritto naturale ditutte le genti eroiche. E quindi sgorgano, come da ungran fonte più fiumi, l’origine delle città, che sursero so-pra le famiglie non sol de’ figliuoli ma anco de’ famoli(onde si truovarono naturalmente fondate sopra due co-muni: uno di nobili che vi comandassero, altro di plebeich’ubbidissero; delle quali due parti si compone tutta lapolizia, o sia la ragione de’ civili governi); le quali primecittà, sopra le famiglie sol di figliuoli, si dimostra chenon potevano, né tali né di niuna sorta, affatto nascernel mondo; – l’origini degl’imperi pubblici, che nacque-ro dall’unione degl’imperi privati paterni-sovrani nellostato delle famiglie; – l’origini della guerra e della pace,

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onde tutte le repubbliche nacquero con la mossa dell’ar-mi, e poi si composero con le leggi; della qual natura dicose umane restò questa eterna propietà: che le guerre sifanno perché i popoli vivano sicuri in pace; – l’originide’ feudi, perché con una spezie di feudi rustici i plebeis’assoggettirono a’ nobili, e con un’altra di feudi nobili,ovvero armati, i nobili, ch’eran sovrani nelle loro fami-glie, s’assoggettirono alla maggiore sovranità de’ lor or-dini eroici; e si ritruova che sopra i feudi sono sempresurti al mondo i reami de’ tempi barbari, e se ne schiari-sce la storia de’ nuovi reami d’Europa, surti ne’ tempibarbari ultimi, i quali ci sono riusciti più oscuri de’ tem-pi barbari primi che Varrone diceva. Perché tai primicampi da’ nobili furon dati a’ plebei col peso di pagarneloro la «decima» che fu detta «d’Ercole» appresso i gre-ci, ovvero «censo» (che si truova quello da Servio Tullioordinato a’ romani), ovvero «tributo», il quale portavaanco l’obbligazione di servir a propie spese i plebei a’nobili nelle guerre, come pur ben si legge apertamentenella storia romana antica. E quivi si scuopre l’originedel censo, che poi restò pianta delle repubbliche popo-lari; la qual ricerca ci ha costo la maggior fatiga di tuttesulle cose romane, in ritruovare la guisa come in questosi cangiò il censo di Servio Tullio, che si truoverà esserestato la pianta delle antiche repubbliche aristocratiche;lo che ha fatto cadere tutti in errore di credere ServioTullio aver ordinato il censo <pianta> della libertà po-polare.

Dallo stesso principio esce l’origine de’ commerzi,che, ’n cotal guisa qual abbiam detto, cominciarono dibeni stabili col cominciare d’esse città, che si dissero«commerzi» da questa prima mercede che nacque almondo, la quale gli eroi, con tali campi, diedero a’ famo-li sotto la legge ch’abbiam detto di dover questi ad esso-loro servire; – l’origine degli erari, che si abbozzaronocol nascere delle repubbliche, e poi i propiamente detti

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da «æs æris», in senso di «danaio», s’intesero con la ne-cessità di somministrare dal pubblico il danaio a’ plebeinelle guerre; – l’origine delle colonie, che si truovano ca-terve, prima di contadini che servivano agli eroi per losostentamento della lor vita, poi di vassalli che ne colti-vavano per sé i campi sotto i reali e personali pesi già di-visati; le quali si appelleranno «colonie eroiche mediter-ranee», a differenza delle oltramarine già sopra dette; –e, finalmente, l’origini delle repubbliche, le quali nac-quero al mondo di forma severissima aristocratica, nellequali i plebei non avevano niuna parte di diritto civile. Equindi si ritruova il romano essere stato regno aristocra-tico, il quale cadde sotto la tirannia di Tarquinio Super-bo, il quale avea fatto pessimo governo de’ nobili espento quasi tutto il senato; ché Giunio Bruto, il qualenel fatto di Lugrezia afferrò l’occasione di commuoverela plebe contro i Tarquini e, avendo liberato Roma dallatirannide, ristabilì il senato e riordinò la repubblica so-pra i suoi princìpi e, per un re a vita, con due consoli an-nali, non introdusse la popolare, ma vi raffermò la li-bertà signorile. La qual si truova che visse fin alla leggePublilia, con la quale Publilio Filone dittatore, dettoperciò «popolare», dichiarò la repubblica romana esserdivenuta popolare di stato, e spirò finalmente con la leg-ge Petelia, la quale liberò affatto la plebe dal diritto feu-dale rustico del carcere privato, ch’avevano i nobili so-pra i plebei debitori: sulle quali due leggi, checontengono i due maggiori punti della storia romana,non si è punto riflettuto né da’ politici né da’ giurecon-sulti né dagl’interpetri eruditi della romana ragione, perla favola della legge delle XII Tavole venuta da Atene li-bera per ordinar in Roma la libertà popolare, la qualequeste due leggi dichiarano essersi ordinata in casa co’suoi naturali costumi (la qual favola si è scoverta ne’Princìpi del Diritto universale, usciti molti anni fa dallestampe). Laonde, perché le leggi si deono interpetrare

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acconciamente agli stati delle repubbliche, da sì fattiprincìpi di governo romano si danno altri princìpi allaromana giurisprudenza.

La spada che s’appoggia al fascio dinota che ’l dirittoeroico fu diritto della forza, ma prevenuta dalla religio-ne, la qual sola può tener in ufizio la forza e l’armi ovenon ancora si sono ritruovate (o, ritruovate, non hannopiù luogo) le leggi giudiziarie; il qual diritto è quell’ap-punto d’Achille, ch’è l’eroe cantato da Omero a’ popolidella Grecia in esemplo dell’eroica virtù, il qual ripone-va tutta la ragione nell’armi. E qui si scuopre l’originede’ duelli; i quali, come certamente si celebrarono ne’tempi barbari ultimi, così egli si truova essersi praticatine’ tempi barbari primi, ne’ quali non erano ancor i po-tenti addimesticati di vendicare tra loro le offese e i torticon le leggi giudiziarie, e si esercitavano con certi giudi-zi divini, ne’ quali protestavano Dio testimone e si ri-chiamavano a Dio giudice dell’offesa, e dalla fortuna,qual fusse mai, dell’abbattimento ne ossequiavano contanta riverenza la dicisione che, se essa parte oltraggiatavi cadesse mai vinta, riputavasi rea. Alto consiglio dellaprovvedenza divina, acciocché, in tempi barbari e fierine’ quali non s’intendeva ragione, la stimassero dall’ave-re propizio o contrario Dio, onde da tali guerre privatenon si seminassero guerre ch’andassero a spegnere final-mente il gener umano; il quale natural senso barbaronon può in altro rifondersi che nel concetto innatoc’hanno gli uomini di essa provvedenza divina, con laquale si devono conformare, ove vedano opprimersi ibuoni e prosperarsi gli scellerati. Per le quali cagioni tut-te funne il duello creduto una spezie di purgazione divi-na; onde, quanto oggi, in questa umanità, la quale con leleggi ha ordinato i giudizi criminali e civili, sono vietati,tanto ne’ tempi barbari furono creduti necessari i duelli.In tal guisa ne’ duelli, o sieno guerre private, si truoval’origine delle guerre pubbliche, che le faccino le civili

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potestà, non ad altri soggette ch’a Dio, perché Iddio lediffinisca con la fortuna delle vittorie, perché ’l generumano riposasse sulla certezza degli Stati civili: ch’è ’lprincipio della «giustizia esterna», che dicesi, delle guer-re.

La borsa pur sopra il fascio dimostra ch’i commerzi iquali si celebrano con danaio non cominciarono che tar-di – dopo fondati già gl’imperi civili; – talché la monetaconiata non si legge in niuno de’ due poemi d’Omero.Lo stesso geroglifico accenna l’origine di esse moneteconiate, la qual si truova provvenire da quelle dell’armigentilizie, le quali si scuoprono (come sopra se n’è al-quanto accennato de’ primieri campi d’armi) aver signi-ficato diritti e ragioni di nobiltà appartenenti più ad unafamiglia che ad altra; onde poi nacque l’origine dell’im-prese pubbliche, o sien insegne de’ popoli, le quali pois’innalberarono nell’insegne militari (e se ne serve, comedi parole mute, la militar disciplina), e finalmente diede-ro l’impronto per tutti i popoli alle monete. E qui si dan-no altri princìpi alla scienza delle medaglie, e quindi al-tri alla scienza, che dicono, del blasone; ch’è uno deglitre luoghi de’ quali ci truoviamo soddisfatti della Scienzanuova la prima volta stampata.

La bilancia dopo la borsa dà a divedere che, dopo igoverni aristocratici, che furono governi eroici, vennero igoverni umani, di spezie prima popolari; ne’ qual’ i po-poli, perché avevano già finalmente inteso la natura ra-gionevole (ch’è la vera natura umana) esser uguale in tut-ti, da sì fatta ugualità naturale (per le cagioni che simeditano nella storia ideal eterna e si rincontrano ap-puntino nella romana) trassero gli eroi, tratto tratto,all’egualità civile nelle repubbliche popolari; la quale ci èsignificata dalla bilancia, perché, come dicevano i greci,nelle repubbliche popolari tutto corre a sorte o bilancia.Ma finalmente, non potendo i popoli liberi mantenersi incivile egualità con le leggi per le fazioni de’ potenti, e an-

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dando a perdersi con le guerre civili, avvenne natural-mente che, per esser salvi, con una legge regia naturale laqual si truova comune a tutti i popoli di tutti i tempi intali Stati popolari corrotti (perché la legge regia civile,che dicesi comandata dal popolo romano per legittimarela romana monarchia nella persona d’Augusto, ella ne’Princìpi del Diritto universale si dimostra esser una favo-la, la quale, con la favola ivi dimostrata della legge delleXII Tavole venuta da Atene, sono due luoghi per li qualistimiamo non avere scritto inutilmente quell’opera), contal legge o più tosto costume naturale delle genti umane,vanno a ripararsi sotto le monarchie, ch’è l’altra speziedegli umani governi. Talché queste due forme ultime de’governi, che sono umani, nella presente umanità si scam-biano vicendevolmente tra loro; ma niuna delle due pas-sano per natura in istati aristocratici, ch’i soli nobili vi co-mandino e tutti gli altri vi ubbidiscano; onde son oggirimaste al mondo tanto rade le repubbliche de’ nobili: inGermania, Norimberga; in Dalmazia, Ragugia; in Italia,Vinegia, Genova e Lucca. Perché queste sono le tre spe-zie degli Stati che la divina provvedenza, con essi natura-li costumi delle nazioni, ha fatto nascere al mondo, e conquest’ordine naturale succedono l’una all’altra; perchéaltre per provvedenza umana di queste tre mescolate,perché essa natura delle nazioni non le sopporta, da Ta-cito (che vidde gli effetti soli delle cagioni che qui si ac-cennano e dentro ampiamente si ragionano) son diffiniteche «sono più da lodarsi che da potersi mai conseguire,e, se per sorta ve n’hanno, non sono punto durevoli».Per la qual discoverta si danno altri princìpi alla dottrinapolitica, non sol diversi ma affatto contrari a quelli che sene sono immaginati finora.

Il caduceo è l’ultimo de’ geroglifici, per farci avvertitich’i primi popoli, ne’ tempi lor eroici ne’ quali regnava ildiritto natural della forza, si guardavano tra loro da per-petui nimici, con continove rube e corseggi (e come, ne’

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tempi barbari primi, gli eroi si recavano a titolo d’onored’esser chiamati ladroni, così, a’ tempi barbari ritornati,d’esser i potenti detti corsali), perché, essendo le guerreeterne tra loro, non bisognava intimarle; ma, venuti poi igoverni umani, o popolari o monarchici, dal diritto dellegenti umane furon introdutti gli araldi ch’intimasser leguerre, e s’incominciarono a finire l’ostilità con le paci.E ciò per alto consiglio della provvedenza divina, per-ché, ne’ tempi della loro barbarie, le nazioni che novelleal mondo dovevano germogliare si stassero circoscrittedentro i loro confini, né, essendo feroci e indomite,uscissero quindi a sterminarsi tra essolor con le guerre;ma poi che, con lo stesso tempo, fussero cresciute e sitruovassero insiememente addimesticate, e perciò fattecomportevoli de’ costumi l’une dall’altre, indi fusse faci-le a’ popoli vincitori di risparmiare la vita a’ vinti con legiuste leggi delle vittorie.

Così questa Nuova Scienza, o sia la metafisica, al lumedella provvedenza divina meditando la comune naturadelle nazioni, avendo scoverte tali origini delle divine edumane cose tralle nazioni gentili, ne stabilisce un siste-ma del diritto natural delle genti, che procede con som-ma egualità e costanza per le tre età che gli egizi ci la-sciaron detto aver camminato per tutto il tempo delmondo corso loro dinanzi, cioè: l’età degli dèi, nellaquale gli uomini gentili credettero vivere sotto divini go-verni, e ogni cosa essere lor comandata con gli auspìci econ gli oracoli, che sono le più vecchie cose della storiaprofana; – l’età degli eroi, nella quale dappertutto essiregnarono in repubbliche aristocratiche, per una certada essi riputata differenza di superior natura a quella de’lor plebei; – e finalmente l’età degli uomini, nella qualetutti si riconobbero esser uguali in natura umana, e per-ciò vi si celebrarono prima le repubbliche popolari e fi-nalmente le monarchie, le quali entrambe sono forme digoverni umani, come poco sopra si è detto.

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Convenevolmente a tali tre sorte di natura e governi,si parlarono tre spezie di lingue, che compongono il vo-cabolario di questa Scienza: la prima, nel tempo delle fa-miglie, che gli uomini gentili si erano di fresco ricevutiall’umanità; la qual si truova essere stata una lingua mu-ta per cenni o corpi ch’avessero naturali rapporti all’ideech’essi volevan significare; – la seconda si parlò per im-prese eroiche, o sia per simiglianze, comparazioni, im-magini, metafore e naturali descrizioni, che fanno ilmaggior corpo della lingua eroica, che si truova essersiparlata nel tempo che regnaron gli eroi; – la terza fu lalingua umana per voci convenute da’ popoli, della qualesono assoluti signori i popoli, propia delle repubblichepopolari e degli Stati monarchici, perché i popoli dieno isensi alle leggi, a’ quali debbano stare con la plebe ancoi nobili; onde, appo tutte le nazioni, portate le leggi inlingue volgari, la scienza delle leggi esce di mano a’ no-bili, delle quali, innanzi, come di cosa sagra, appo tuttesi truova che ne conservavano una lingua segreta i nobi-li, i quali, pur da per tutte, si truova che furono sacerdo-ti: ch’è la ragion natural dell’arcano delle leggi appo ipatrizi romani, finché vi surse la libertà popolare. Que-ste sono appunto le tre lingue che pur gli egizi disseroessersi parlate innanzi nel loro mondo, corrispondenti alivello, così nel numero come nell’ordine, alle tre età chenel loro mondo erano corse loro dinanzi: la geroglifica,ovvero sagra o segreta, per atti muti, convenevole allereligioni, alle quali più importa osservarle che favellar-ne; – la simbolica, o per somiglianze, qual testé abbiamveduto essere stata l’eroica; – e finalmente la pistolare, osia volgare, che serviva loro per gli usi volgari della lorvita. Le quali tre lingue si truovano tra’ caldei, sciti, egi-zi, germani e tutte le altre nazioni gentili antiche; quan-tunque la scrittura geroglifica più si conservò tra gli egi-zi, perché più lungo tempo che le altre furono chiusi atutte le nazioni straniere (per la stessa cagione onde si è

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truovata durare tuttavia tra’ chinesi), e quindi si formauna dimostrazione d’esser vana la lor immaginata lonta-nissima antichità.

Però qui si danno gli schiariti princìpi come delle lin-gue così delle lettere, d’intorno alle quali ha finora la fi-lologia disperato, e se ne darà un saggio delle stravagan-ti e mostruose oppenioni che se ne sono finor avute.L’infelice cagione di tal effetto si osserverà ch’i filologihan creduto nelle nazioni esser nate prima le lingue,dappoi le lettere; quando (com’abbiamo qui leggier-mente accennato e pienamente si pruoverà in questi li-bri) nacquero esse gemelle e caminarono del pari, in tut-te e tre le loro spezie, le lettere con le lingue. E taiprincìpi si rincontrano appuntino nelle cagioni della lin-gua latina, ritruovate nella Scienza nuova stampata laprima volta – ch’è l’altro luogo degli tre onde di quel li-bro non ci pentiamo; – per le quali ragionate cagioni sisono fatte tante discoverte dell’istoria, governo e dirittoromano antico, come in questi libri potrai, o leggitore, amille pruove osservare. Al qual esemplo, gli eruditi dellelingue orientali, greca e, tralle presenti, particolarmentedella tedesca, ch’è lingua madre, potranno fare disco-verte d’antichità fuori d’ogni loro e nostra aspettazione.

Principio di tal’origini e di lingue e di lettere si truovaessere stato ch’i primi popoli della gentilità, per una di-mostrata necessità di natura, furon poeti, i quali parlaro-no per caratteri poetici; la qual discoverta, ch’è la chiavemaestra di questa Scienza, ci ha costo la ricerca ostinatadi quasi tutta la nostra vita letteraria, perocché tal naturapoetica di tai primi uomini, in queste nostre ingentilitenature, egli è affatto impossibile immaginare e a gran pe-na ci è permesso d’intendere. Tali caratteri si truovanoessere stati certi generi fantastici (ovvero immagini, perlo più di sostanze animate o di dèi o d’eroi, formate dallalor fantasia), ai quali riducevano tutte le spezie o tutti iparticolari a ciascun genere appartenenti; appunto come

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le favole de’ tempi umani, quali sono quelle della com-media ultima, sono i generi intelligibili, ovvero ragionatidalla moral filosofia, de’ quali i poeti comici formano ge-neri fantastici (ch’altro non sono l’idee ottime degli uo-mini in ciascun suo genere), che sono i personaggi dellecommedie. Quindi sì fatti caratteri divini o eroici si truo-vano essere state favole, ovvero favelle vere; e se ne scuo-prono l’allegorie, contenenti sensi non già analoghi maunivoci, non filosofici ma istorici di tali tempi de’ popolidella Grecia. Di più, perché tali generi (che sono, nellalor essenza, le favole) erano formati da fantasie robustis-sime, come d’uomini di debolissimo raziocinio, se nescuoprono le vere sentenze poetiche, che debbon esseresentimenti vestiti di grandissime passioni, e perciò pienedi sublimità e risveglianti la maraviglia. Inoltre, i fonti ditutta la locuzion poetica si truovano questi due, cioè po-vertà di parlari e necessità di spiegarsi e di farsi intende-re; da’ quali proviene l’evidenza della favella eroica, cheimmediatamente succedette alla favella mutola per atti ocorpi ch’avessero naturali rapporti all’idee che si volevansignificare, la quale ne’ tempi divini si era parlata. E fi-nalmente, per tal necessario natural corso di cose umane,le lingue, appo gli assiri, siri, fenici, egizi, greci e latini, sitruovano aver cominciato da versi eroici, indi passati ingiambici, che finalmente si fermarono nella prosa; e se nedà la certezza alla storia degli antichi poeti, e si rende laragione perché nella lingua tedesca, particolarmente nel-la Slesia, provincia tutta di contadini, nascono natural-mente verseggiatori, e nella lingua spagnuola, francese editaliana i primi autori scrissero in versi.

Da sì fatte tre lingue si compone il vocabolario men-tale, da dar le propie significazioni a tutte le lingue arti-colate diverse, e se ne fa uso qui sempre, ove bisogna. Enella Scienza nuova la prima volta stampata se ne fa unpieno saggio particolare, ove se ne dà essa idea: chedall’eterne propietà de’ padri, che noi, in forza di questa

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Scienza, meditammo aver quelli avuto nello stato dellefamiglie e delle prime eroiche città nel tempo che si for-maron le lingue, se ne truovano le significazioni propiein quindeci lingue diverse, così morte come viventi, nel-le quali furono, ove da una ove da un’altra propietà, di-versamente appellati (ch’è ’l terzo luogo nel quale cicompiacciamo di quel libro di già stampato). Un tal les-sico si truova esser necessario per sapere la lingua concui parla la storia ideal eterna, sulla quale corrono intempo le storie di tutte le nazioni, e per potere coniscienza arrecare l’autorità da confermare ciò che si ra-giona in diritto natural delle genti, e quindi in ogni giu-risprudenza particolare.

Con tali tre lingue – propie di tali tre età, nelle quali sicelebrarono tre spezie di governi, conformi a tre speziedi nature civili, che cangiano nel corso che fanno le na-zioni – si truova aver camminato con lo stess’ordine, inciascun suo tempo, un’acconcia giurisprudenza.

Delle quali si truova la prima essere stata una teologiamistica, che si celebrò nel tempo ch’a’ gentili comanda-vano i dèi; della quale furono sappienti i poeti teologi(che si dicono aver fondato l’umanità gentilesca), ch’in-terpetravano i misteri degli oracoli, i quali da per tutte lenazioni risposero in versi. Quindi si truova nelle favoleessere stati nascosti i misteri di sì fatta sapienza volgare;e si medita così nelle cagioni onde poi i filosofi ebberotanto disiderio di conseguire la sapienza degli antichi,come nelle occasioni ch’essi filosofi n’ebbero di destarsia meditare altissime cose in filosofia e nelle comoditàd’intrudere nelle favole la loro sapienza riposta. La se-conda si truova essere stata la giurisprudenza eroica, tut-ta scrupolosità di parole (della quale si truova essere sta-to prudente Ulisse), la quale guardava quella che da’giureconsulti romani fu detta «æquitas civilis» e noi di-ciamo «ragion di Stato», per la quale, con le loro corteidee, estimarono appartenersi loro naturalmente quello

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diritto, ch’era ciò, quanto e quale si fusse con le parolespiegato; come pur tuttavia si può osservare ne’ contadi-ni ed altri uomini rozzi, i quali, in contese di parole e disentimenti, ostinatamente dicono la lor ragione star peressi nelle parole. E ciò, per consiglio della provvedenzadivina, acciocché gli uomini gentili, non essendo ancorcapaci d’universali, quali debbon esser le buone leggi,da essa particolarità delle loro parole fussero tratti adosservare le leggi universalmente; e se per cotal equità inalcun caso riuscivan le leggi non solo dure ma anco cru-deli, naturalmente il sopportavano, perché naturalmentetale stimavano essere il loro diritto. Oltreché, gli vi atti-rava ad osservarle un sommo privato interesse, che sitruova aver avuto gli eroi medesimato con quello delleloro patrie, delle quali essi soli erano cittadini; onde nondubitavano, per la salvezza delle lor patrie, consagraresé e le loro famiglie alla volontà delle leggi, le quali, conla salvezza comune delle loro patrie, mantenevano lorosalvi certi privati regni monarchici sopra le loro famiglie.Altronde, tal privato grande interesse, congionto colsommo orgoglio propio de’ tempi barbari, formava lorola natura eroica, dalla quale uscirono tante eroiche azio-ni per la salvezza delle lor patrie. Con le quali eroicheazioni si componghino l’insopportabil superbia, laprofonda avarizia e la spietata crudeltà con la quale i pa-trizi romani antichi trattavano gl’infelici plebei, comeapertamente si leggono sulla storia romana nel tempoche lo stesso Livio dice essere stata l’età della romanavirtù e della più fiorente finor sognata romana libertàpopolare; e truoverassi che tal pubblica virtù non fu al-tro che un buon uso che la provvedenza faceva di sì gra-vi, laidi e fieri vizi privati, perché si conservassero lecittà ne’ tempi che le menti degli uomini, essendo parti-colarissime, non potevano naturalmente intendere bencomune. Per lo che si danno altri princìpi per dimostra-re l’argomento che tratta sant’Agostino, De virtute ro-

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manorum, e si dilegua l’oppinione che da’ dotti finor si èavuta dell’eroismo de’ primi popoli. Sì fatta civil equitàsi truova naturalmente celebrata dalle nazioni eroichecosì in pace come in guerra (e se n’arrecano luminosissi-mi esempli così della storia barbara prima come dell’ul-tima); e da’ romani essersi praticata privatamente finchéfu quella repubblica aristocratica, che si truova esserlostata fin a’ tempi delle leggi Publilia e Petelia, ne’ qualisi celebrò tutta sulla legge delle XII Tavole.

L’ultima giurisprudenza fu dell’equità naturale, cheregna naturalmente nelle repubbliche libere, ove i popo-li, per un bene particolare di ciascheduno, ch’è eguale intutti, senza intenderlo, sono portati a comandar leggiuniversali, e perciò naturalmente le disiderano benigna-mente pieghevoli inverso l’ultime circostanze de’ fattiche dimandano l’ugual utilità; ch’è l’«æquum bonum»,subbietto della giurisprudenza romana ultima, la qualeda’ tempi di Cicerone si era incominciata a rivoltareall’editto del pretore romano. È ella ancora, e forse ancopiù, connaturale alle monarchie, nelle qual’i monarchihanno avvezzati i sudditi ad attendere alle loro privateutilità, avendosi essi preso la cura di tutte le cose pubbli-che, e vogliono tutte le nazioni soggette uguagliate tralor con le leggi, perché tutte sieno egualmente interessa-te allo Stato. Onde Adriano imperadore riformò tutto ildiritto naturale eroico romano col diritto naturale uma-no delle provincie, e comandò che la giurisprudenza sicelebrasse sull’Editto perpetuo, che da Salvio Giulianofu composto quasi tutto d’editti provinciali.

Ora – per raccogliere tutti i primi elementi di questomondo di nazioni da’ geroglifici che gli significano – il li-tuo, l’acqua e ’l fuoco sopra l’altare, l’urna ceneraria den-tro le selve, l’aratro che s’appoggia all’altare e ’l timoneprostrato a piè dell’altare, significano la divinazione, i sa-grifizi, le famiglie prima de’ figliuoli, le seppolture, la col-tivazione de’ campi e la division de’ medesimi, gli asili, le

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famiglie appresso de’ famoli, le prime contese agrarie, equindi le prime colonie eroiche mediterranee e, ’n difettodi queste, l’oltramarine e, con queste, le prime trasmigra-zioni de’ popoli, esser avvenute tutte nell’età degli dèidegli egizi, che, non sappiendo o traccurando, «tempooscuro» chiamò Varrone, come si è sopra avvisato; – ilfascio significa le prime repubbliche eroiche, la distinzio-ne degli tre domini (cioè naturale, civile e sovrano), i pri-mi imperi civili, le prime alleanze ineguali accordate conla prima legge agraria, per la quale si composero esse pri-me città sopra feudi rustici de’ plebei, che furono suffeu-di di feudi nobili degli eroi, ch’essendo sovrani, divenne-ro soggetti a maggior sovranità di essi ordini eroiciregnanti; – la spada che s’appoggia al fascio significa leguerre pubbliche che si fanno da esse città, incominciateda rube innanzi e corseggi (perché i duelli, ovvero guerreprivate, dovettero nascere molto prima, come qui saràdimostrato, dentro lo stato d’esse famiglie); – la borsa si-gnifica divise di nobiltà o insegne gentilizie passate inmedaglie, che furono le prime insegne de’ popoli, chequindi passarono in insegne militari e finalmente in mo-nete, ch’accennano i commerzi di cose anco mobili condanaio (perché i commerzi di robe stabili, con prezzi na-turali di frutti e fatighe, avevan innanzi cominciato finda’ tempi divini con la prima legge agraria, sulla qualenacquero le repubbliche); – la bilancia significa le leggid’ugualità, che sono propiamente le leggi; – e finalmenteil caduceo significa le guerre pubbliche intimate, che siterminano con le paci. Tutti i quali geroglifici sono lonta-ni dall’altare, perché sono tutte cose civili de’ tempi ne’quali andarono tratto tratto a svanire le false religioni, in-cominciando dalle contese eroiche agrarie, le quali die-dero il nome all’età degli eroi degli egizi, che «tempo fa-voloso» chiamò Varrone. La tavola degli alfabeti è postain mezzo a’ geroglifici divini ed umani, perché le false re-ligioni incominciaron a svanir con le lettere, dalle quali

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ebbero il principio le filosofie; a differenza della vera,ch’è la nostra cristiana, la quale dalle più sublimi filoso-fie, cioè dalla platonica e dalla peripatetica (in quantocon la platonica si conforma), anco umanamente ci èconfermata. Laonde tutta l’idea di quest’opera si puòchiudere in questa somma. Le tenebre nel fondo della di-pintura sono la materia di questa Scienza, incerta, infor-me, oscura, che si propone nella Tavola cronologica enelle a lei scritte Annotazioni. Il raggio del quale la divi-na provvedenza alluma il petto alla metafisica sono le Di-gnità, le Diffinizioni e i Postulati, che questa Scienza siprende per Elementi di ragionar i Princìpi co’ quali sistabilisce e ’l Metodo con cui si conduce: le quali cosetutte son contenute nel libro primo. Il raggio che da pet-to alla metafisica si risparge nella statua d’Omero è la lu-ce propia che si dà alla Sapienza poetica nel libro secon-do, dond’è il vero Omero schiarito nel libro terzo. DallaDiscoverta del vero Omero vengono poste in chiaro tuttele cose che compongono questo mondo di nazioni, dallelor origini progredendo secondo l’ordine col quale al lu-me del vero Omero n’escono i geroglifici: ch’è il Corsodelle nazioni, che si ragiona nel libro quarto; e, pervenu-te finalmente a’ piedi della statua d’Omero, con lostess’ordine ricominciando, ricorrono: lo che si ragionanel quinto ed ultimo libro.

E alla fin fine, per restrignere l’idea dell’opera in unasomma brievissima, tutta la figura rappresenta gli tremondi secondo l’ordine col quale le menti umane dellagentilità da terra si sono al cielo levate. Tutti i geroglificiche si vedono in terra dinotano il mondo delle nazioni,al quale prima di tutt’altra cosa applicarono gli uomini.Il globo ch’è in mezzo rappresenta il mondo della natu-ra, il quale poi osservarono i fisici. I geroglifici che vi so-no al di sopra significano il mondo delle menti e di Dio,il quale finalmente contemplarono i metafisici.

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34Letteratura italiana Einaudi

EBREI (II) CALDEI(III)

SCITI (IV) FENICI (V) EGIZI (VI) GRECI ROMANI Annidel

mondo

Annidi

RomaDiluvio

universale1656

Zoroaste oregno de'

Caldei (VII)

1756

Dinastie inEgitto

Deucalione (XI)

Chiamatad'Abramo

MercurioTrimegisto il

vecchio ovveroetà degli dei

d'Egitto (XII)

Età dell'oro, ovvero etàdegli dei di Grecia (XIII)

Elleno, figliuolo diDeucalione, nipote diPrometeo, pronipote diGiapeto, per tre suoifigliuoli sparge nella

Grecia tre dialetti (XIV)

2082

Cecrope egizio menadodici colonie nell'Attica,

delle quali poi Teseocompose Atene (XV)

Cadmo fenice fonda Tebein Beozia, ed introduce inGrecia le lettere volgari

(XVI)

2448

Iddio dà lalegge scritta a

Mosè

Sarturno, ovverol'età degli dei del

Lazio (XVII)

2491

MercurioTrimegisto il

giovane ovveroetà degli eroi

d'Egitto (XVII)

Danao caccia gl'Inachididal regno d'Argo (XIX).Pelope frigio regna nel

Peloponneso

2553

Eraclidi sparsi per tuttaGrecia, che vi fanno l'età

degli eroi.Cureti in Creta,

Saturnia, ovvero Italia,ed in Asia, che vi fannoregni di sacerdoti (XX)

Aborigini 2682

Nino regnacon gliassiri

2737

Didone daTiro va afondare

Cartagine(XXI)

Tiro celebreper la

navigazionee per lecolonie

Minosse re di Creta,primo legislatore dellegenti e primo corsale

dell'Egeo.

2752

Orfeo, e con essolui l'etàde' poeti teologi (XXII).

Ercole, con cui è alcolmo il tempo eroico di

Grecia (XXIII)

Arcadi

Sancuniatescrive storie

in letterevolgari(XXIV)

Giasone dà principio alleguerre navali con quella

di Ponto.Teseo fonda Atene e vi

ordina l'Areopago

Ercole appoEvandro nel

Lazio, ovvero etàdegli eroi d'Italia

2800

Guerra troiana (XXV) 2820Errori degli eroi, ed in

ispezie d'Ulisse e di EneaRegno d'Alba 2830

Regno di Saulle 2909Sesotride regnain Tebe (XXVI)

Colonie greche in Asia,in Sicilia, in Italia

(XXVII)

2949

Ligurco dà le leggi a'Lacedemoni

3120

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35Letteratura italiana Einaudi

Giuochi olimpici, primaordinati da Ercole poi

intermessi e restituiti daIsifilo (XXVIII)

3223

Fondazione diRoma (XXIX)

1

Omero, il quale venneche non si eran ancor

truovate le lettere volgari,e 'l quale non vidde

l'Egitto (XXX)

Numa re. 3290 37

Psammeticoapre l'Egitto a'

soli greci diInia e di Caria

(XXXI)

Esopo, moral filosofovolgare (XXXII)

3334

Sette savi di Grecia: de'quali uno, Solone, ordina

la libertà popolared'Atene: l'altro, Talete

Milesio, dàincominciamento allafilosofia con la fisica

(XXXIII)

3406

Ciro regnain Assiriaco' persiani

Pittagora, cui vivo diceLivio che nemmeno ilnome potè sapersi in

Roma (XXXIV)

Servio Tullio re(XXXV)

3468 225

I Pisistratidi tirannicacciati da Atene

3491

I Tarquinitiranni cacciati

da Roma

3499 245

Esiodo (XXXVI)Erodoto, Ippocrate

(XXXVII)

3500

Idantura redi Scizia

(XXXVIII)

Guerra peloponnesiaca.Tucidide, il qual scriveche fin a suo padre i

greci non seppero nulladelle antichità loro

proprie; onde si diede ascrivere di cotal guerra

(XXXIX)

3530

Socrate dà principio allafilosofia morale

ragionata.Platone fiorisce nella

metafisica.Atene sfolgora di tuttel'arti della più colta

umanità (XL).

Legge delle XIITavole.

3553 303

Senofonte, con portarl'armi greche nelle

viscere della Persia, è 'lprimo a sapere con

qualche certezza le cosepersiane (XLI)

3583 333

Legge Pubilia(XLII)

3658 416

Alessandro Magnorovescia nella Macedoniala monarchia persiana;ed Aristotile, che vi si

porta in persona, osservach'i greci innanzi

avevano detto favole dellecose dell'Oriente

3660

Legge Petelia(XLIII).

3661 419

Guerra diTaranto, ove

s'incomincian aconoscer tra loroi latini co' greci

(XLIV)

3708 489

Guerracartaginese

seconda, da cuiincomincia lastoria certa

romana a Livio,il qual pur

professa nonsaperne tremassime

circostanze(XLV)

3849 552

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LIBRO PRIMODELLO STABILIMENTO DE’ PRINCÌPI

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ANNOTAZIONI ALLA TAVOLA CRONOLOGICANELLE QUALI SI FA L’APPARECCHIO

DELLE MATERIE.

I

[Tavola cronologica, descritta sopra le tre epoche de’ tempi degliegizi, che dicevano tutto il mondo innanzi essere scorso per treetà: degli dèi, degli eroi e degli uomini]

Questa Tavola cronologica spone in comparsa il mon-do delle nazioni antiche, il quale dal diluvio universalegirasi dagli ebrei per gli caldei, sciti, fenici, egizi, greci eromani fin alla loro guerra seconda cartaginese. E vicompariscono uomini o fatti romorosissimi, determinatiin certi tempi o in certi luoghi dalla comune de’ dotti, iquali uomini o fatti o non furono ne’ tempi o ne’ luoghine’ quali sono stati comunemente determinati, non fu-ron affatto nel mondo; e da lunghe densissime tenebre,ove giaciuti erano seppelliti, v’escon uomini insigni efatti rilevantissimi, da’ quali e co’ quali son avvenutigrandissimi momenti di cose umane. Lo che tutto si di-mostra in queste Annotazioni, per dar ad intenderequanto l’umanità delle nazioni abbia incerti a sconci odifettuosi o vani i princìpi.

Di più, ella si propone tutta contraria al Canone croni-co egiziaco, ebraico e greco di Giovanni Marshamo, ovevuol provare che gli egizi nella polizia e nella religioneprecedettero a tutte le nazioni del mondo, e che i di lororiti sagri ed ordinamenti civili, trasportati ad altri popo-li, con qualche emendazione si ricevettero dagli ebrei.Nella qual oppenione il seguitò lo Spencero nella disser-tazione De Urim et Thummim, ove oppina che gl’israeli-

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ti avessero apparato dagli egizi tutta la scienza delle divi-ne cose per mezzo della sagra Cabbala. Finalmente alMarshamo acclamò l’Ornio nell’Antichità della barbare-sca filosofia, ove, nel libro intitolato Chaldaicus, scriveche Mosè, addottrinato nella scienza delle divine cosedagli egizi, l’avesse portate nelle sue leggi agli ebrei. Sur-se allo ’ncontro Ermanno Witzio, nell’opera intitolataÆgyptiaca sive de ægyptiacorum sacrorum cum hebraiciscollatione, e stima che ’l primo autor gentile, che n’abbiadato le prime certe notizie degli egizi, egli sia stato DionCassio, il quale fiorì sotto Marco Antonino filosofo. Diche può essere confutato con gli Annali di Tacito, ovenarra che Germanico, passato nell’Oriente, quindi por-tossi in Egitto per vedere l’antichità famose di Tebe, equivi da un di quei sacerdoti si fece spiegare i geroglificiiscritti in alcune moli, il quale, vaneggiando, gli riferìche que’ caratteri conservavano le memorie della stermi-nata potenza ch’ebbe il loro re Ramse nell’Affrica,nell’Oriente e fino nell’Asia Minore, eguale alla potenzaromana di quelli tempi, che fu grandissima: il qual luo-go, perché gli era contrario, forse il Witzio si tacque.

Ma, certamente, cotanto sterminata antichità nonfruttò molto di sapienza riposta agli egizi mediterranei.Imperciocché ne’ tempi di Clemente l’alessandrino,com’esso narra negli Stromati, andavano attorno i lorolibri detti «sacerdotali» al numero di quarantadue, iquali in filosofia ed astronomia contenevano de’ gran-dissimi errori, de’ quali Cheremone, maestro di san Dio-nigi areopagita, sovente è messo in favola da Strabone; –le cose della medicina si truovano da Galeno ne’ libri demedicina mercuriali essere manifeste ciance e mere im-posture; – la morale era dissoluta, la quale, nonché tolle-rate o lecite, faceva oneste le meretrici; – la teologia erapiena di superstizioni, prestigi e stregonerie. E la magni-ficenza delle loro moli e piramidi poté ben esser partodella barbarie, la quale si comporta col grande: però la

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scoltura e la fonderia egiziaca s’accusano ancor oggi es-sere state rozzissime. Perché la dilicatezza è frutto dellefilosofie; onde la Grecia, che fu la nazion de’ filosofi, so-la sfolgorò di tutte le belle arti ch’abbia giammai truova-to l’ingegno umano: pittura, scoltura, fonderia, arted’intagliare, le quali sono dilicatissime, perché debbonastrarre le superficie da’ corpi ch’imitano.

Innalzò alle stelle cotal antica sapienza degli egizi lafondatavi sul mare da Alessandro Magno Alessandria, laqual, unendo l’acutezza affricana con la dilicatezza gre-ca, vi produsse chiarissimi filosofi in divinità, per li qua-li ella pervenne in tanto splendore d’alto divin sapereche ’l Museo alessandrino funne poi celebrato quantounitamente erano stat’innanzi l’Accademia, il Liceo, laStoa e ’l Cinosargi in Atene; e funne detta «la madre del-le scienze» Alessandria e, per cotanta eccellenza, fu ap-pellata da’ greci Pólis come Aùstu Atene, «Urbs» Roma.Quindi provenne Maneto, o sia Manetone, sommo pon-tefice egizio, il quale trasportò tutta la storia egiziaca aduna sublime teologia naturale, appunto come i greci fi-losofi avevano fatto innanzi delle lor favole, quali quitruoverassi esser state le lor antichissime storie; ondes’intenda lo stesso esser avvenuto delle favole greche chede’ geroglifici egizi.

Con tanto fasto d’alto sapere, la nazione, di sua natu-ra boriosa (che ne furono motteggiati «gloriæ anima-lia»), in una città ch’era un grand’emporio del Mediter-raneo e, per lo Mar Rosso, dell’Oceano e dell’Indie (tragli cui costumi vituperevoli da Tacito, in un luogo d’oro,si narra questo: «novarum religionum avida»), tra per lapregiudicata oppenione della loro sformata antichità, laquale vanamente vantavano sopra tutte l’altre nazionidel mondo, e quindi d’aver signoreggiato anticamentead una gran parte del mondo; e perché non sapevano laguisa come tra gentili, senza ch’i popoli sapessero nullagli uni degli altri, divisamente nacquero idee uniformi

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degli dèi e degli eroi (lo che dentro appieno sarà dimo-stro), tutte le false divinitadi, ch’essi dalle nazioni che viconcorrevano per gli marittimi traffichi udivano esseresparse per lo resto del mondo, credettero esser uscitedal lor Egitto, e che ’l loro Giove Ammone fusse lo piùantico di tutti (de’ quali ogni nazione gentile n’ebbeuno), e che gli Ercoli di tutte l’altre nazioni (de’ qualiVarrone giunse a noverare quaranta) avessero preso ilnome dal lor Ercole egizio, come l’uno e l’altro ci viennarrato da Tacito. E, con tutto ciò che Diodoro sicolo, ilquale visse a’ tempi d’Augusto, gli adorni di troppo van-taggiosi giudizi, non dà agli egizi maggior antichità chedi duemila anni; e i di lui giudizi sono rovesciati da Gia-como Cappello nella sua Storia sagra ed egiziaca, che glistima tali quali Senofonte aveva innanzi attaccati a Ciroe (noi aggiugniamo) Platone sovente finge de’ persiani.Tutto ciò, finalmente, d’intorno alla vanità dell’altissimaantica sapienza egiziaca si conferma con l’impostura delPimandro smaltito per dottrina ermetica, il quale siscuopre dal Casaubuono non contenere dottrina più an-tica di quella de’ platonici spiegata con la medesima fra-se, nel rimanente giudicata dal Salmasio per una disordi-nata e mal composta raccolta di cose.

Fece agli egizi la falsa oppenione di cotanta lor anti-chità questa propietà della mente umana – d’esser indif-finita, – per la quale, delle cose che non sa, ella soventecrede sformatamente più di quello che son in fatti essecose. Perciò gli egizi furon in ciò somiglianti a’ chinesi, iquali crebbero in tanto gran nazione chiusi a tutte le na-zioni straniere, come gli egizi lo erano stati fino a Psam-metico e gli sciti fin ad Idantura, da’ quali è volgar tradi-zione che furono vinti gli egizi in pregio d’antichità. Laqual volgar tradizione è necessario ch’avesse avuto indimotivo onde incomincia la storia universale profana, laqual, appresso Giustino, come antiprincìpi propone in-nanzi alla monarchia degli assiri due potentissimi re, Ta-

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nai scita e Sesostride egizio, i quali finor han fatto com-parire il mondo molto più antico di quel ch’è in fatti; eche per l’Oriente prima Tanai fusse ito con un grandissi-mo esercito a soggiogare l’Egitto, il qual è per naturadifficilissimo a penetrarsi con l’armi, e che poi Sesostri-de con altrettante forze si fusse portato a soggiogare laScizia, la qual visse sconosciuta ad essi persiani (ch’ave-vano stesa la loro monarchia sopra quella de’ medi, suoiconfinanti) fin a’ tempi di Dario detto «maggiore», ilqual intimò al di lei re Idantura la guerra; il qual si truo-va cotanto barbaro a’ tempi dell’umanissima Persia, chegli risponde con cinque parole reali di cinque corpi, chenon seppe nemmeno scrivere per geroglifici. E questidue potentissimi re attraversano con due grandissimieserciti l’Asia, e non la fanno provincia o di Scizia od’Egitto, e la lasciano in tanta libertà ch’ivi poi surse laprima monarchia delle quattro più famose del mondo,che fu quella d’Assiria!

Perciò, forse, in cotal contesa d’antichità non manca-rono d’entrar in mezzo i caldei, pur nazione mediterra-nea e, come dimostreremo, più antica dell’altre due, iquali vanamente vantavano di conservare le osservazioniastronomiche di ben ventiottomila anni: che forse diedeil motivo a Flavio Giuseppe ebreo di credere con errorel’osservazioni avantidiluviane descritte nelle due colon-ne, una di marmo ed un’altra di mattoni, innalzate in-contro a’ due diluvi, e d’aver esso veduta nella Siriaquella di marmo. Tanto importava alle nazioni antichedi conservare le memorie astronomiche, il qual senso fumorto affatto tralle nazioni che loro vennero appresso!Onde tal colonna è da riporsi nel museo della credulità.

Ma così i chinesi si sono trovati scriver per geroglifici,come anticamente gli egizi e, più degli egizi, gli sciti, iquali nemmeno gli sapevano scrivere. E, non avendo permolte migliaia d’anni avuto commerzio con altre nazionidalle quali potesser esser informati della vera antichità

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del mondo, com’uomo, che dormendo sia chiuso inun’oscura picciolissima stanza, nell’orror delle tenebrela crede certamente molto maggiore di quello che conmani la toccherà; così, nel buio della loro cronologia,han fatto i chinesi e gli egizi e, con entrambi, i caldei.Pure, benché il padre Michel di Ruggiero, gesuita, affer-mi d’aver esso letti libri stampati innanzi la venuta diGesù Cristo; e benché il padre Martini, pur gesuita, nel-la sua Storia chinese narri una grandissima antichità diConfucio, la qual ha indotti molti nell’ateismo, al riferiredi Martino Scoockio in Demonstratione Diluvii universa-lis, onde Isacco Pereyro, autore della Storia preadamiti-ca, forse perciò abbandonò la fede catolica, e quindiscrisse che ’l diluvio si sparse sopra la terra de’ soliebrei: però Niccolò Trigaulzio, meglio del Ruggieri e delMartini informato, nella sua Christiana expeditione apudSinas scrive la stampa appo i chinesi essersi truovata nonpiù che da due secoli innanzi degli europei, e Confucioaver fiorito non più che cinquecento anni innanzi di Ge-sù Cristo. E la filosofia confuciana, conforme a’ libri sa-cerdotali egiziaci, nelle poche cose naturali ella è rozza egoffa, e quasi tutta si rivolge ad una volgar morale, o siamoral comandata a que’ popoli con le leggi.

Da sì fatto ragionamento d’intorno alla vana oppenio-ne ch’avevano della lor antichità queste gentili nazioni, esopra tutte gli egizi, doveva cominciare tutto lo scibilegentilesco, tra per sapere con iscienza quest’importanteprincipio: – dove e quando egli ebbe i suoi primi inco-minciamenti nel mondo, – e per assistere con ragioni an-co umane a tutto il credibile cristiano, il quale tutto in-comincia da ciò: che ’l primo popolo del mondo fu eglil’ebreo, di cui fu principe Adamo, il quale fu criato dalvero Dio con la criazione del mondo. E che la primascienza da doversi apparare sia la mitologia, ovvero l’in-terpetrazion delle favole (perché, come si vedrà, tutte lestorie gentilesche hanno favolosi i princìpi), e che le fa-

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vole furono le prime storie delle nazioni gentili. E con sìfatto metodo rinvenire i princìpi come delle nazioni cosìdelle scienze, le quali da esse nazioni son uscite e non al-trimente: come per tutta quest’opera sarà dimostroch’alle pubbliche necessità o utilità de’ popoli ellenohanno avuto i lor incominciamenti, e poi, con applicarvila riflessione acuti particolari uomini, si sono perfezio-nate. E quindi cominciar debbe la storia universale, chetutti i dotti dicono mancare ne’ suoi princìpi.

E, per ciò fare, l’antichità degli egizi in ciò grande-mente ci gioverà, che ne serbarono due grandi rottaminon meno maravigliosi delle loro piramidi, che sonoqueste due grandi verità filologiche. Delle quali una ènarrata da Erodoto: ch’essi tutto il tempo del mondoch’era corso loro dinanzi riducevano a tre età: la primadegli dèi, la seconda degli eroi e la terza degli uomini.L’altra è che, con corrispondente numero ed ordine, pertutto tal tempo si erano parlate tre lingue: la prima gero-glifica ovvero per caratteri sagri, la seconda simbolica oper caratteri eroici, la terza pistolare o per caratteri con-venuti da’ popoli, al riferire dello Scheffero, De philo-sophia italica. La qual divisione de’ tempi egli è necessa-rio che Marco Terenzio Varrone – perch’egli, per la suasterminata erudizione, meritò l’elogio con cui fu detto il«dottissimo de’ romani» ne’ tempi loro più illuminati,che furon quelli di Cicerone – dobbiam dire, non giàch’egli non seppe seguire, ma che non volle; perché, for-se, intese della romana ciò che, per questi princìpi, sitruoverà vero di tutte le nazioni antiche, cioè che tutte ledivine ed umane cose romane erano native del Lazio:onde si studiò dar loro tutte latine origini nella sua granopera Rerum divinarum et humanarum, della quale l’in-giuria del tempo ci ha privi (tanto Varrone credette allafavola della legge delle XII Tavole venuta da Atene inRoma!), e divise tutti i tempi del mondo in tre, cioè:tempo oscuro, ch’è l’età degli dèi; quindi tempo favolo-

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so, ch’è l’età degli eroi; e finalmente tempo istorico, ch’èl’età degli uomini che dicevano gli egizi.

Oltracciò, l’antichità degli egizi gioveracci con dueboriose memorie, di quella boria delle nazioni, le qualiosserva Diodoro sicolo che, o barbare o umane si fusse-ro, ciascheduna si è tenuta la più antica di tutte e serba-re le sue memorie fin dal principio del mondo; lo che ve-dremo essere stato privilegio de’ soli ebrei. Delle qualidue boriose memorie una osservammo esser quella che’l loro Giove Ammone era il più vecchio di tutti gli altridel mondo, l’altra che tutti gli altri Ercoli dell’altre na-zioni avevano preso il nome dal loro Ercole egizio: cioèch’appo tutte prima corse l’età degli dèi, re de’ quali ap-po tutte fu creduto esser Giove; e poscia l’età degli eroi,che si tenevano esser figliuoli degli dèi, il massimo de’quali fu creduto esser Ercole.

II

[Ebrei]

S’innalza la prima colonna agli ebrei, i quali, per gra-vissime autorità di Flavio Giuseppe ebreo e di LattanzioFirmiano ch’appresso s’arrecheranno, vissero scono-sciuti a tutte le nazioni gentili. E pur essi contavano giu-sta la ragione de’ tempi corsi del mondo, oggi dagli piùseveri critici ricevuta per vera, secondo il calcolo di Filo-ne giudeo; la qual se varia da quel d’Eusebio, il divarionon è che di mille e cinquecento anni, ch’è brievissimospazio di tempo a petto di quanto l’alterarono i caldei,gli sciti, gli egizi e, fin al dì d’oggi, i chinesi. Che dev’es-ser un invitto argomento che gli ebrei furono il primopopolo del nostro mondo ed hanno serbato con verità le

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loro memorie nella storia sagra fin dal principio delmondo.

III

[Caldei]

Si pianta la seconda colonna a’ caldei, tra perché ingeografia si mostra in Assiria essere stata la monarchiapiù mediterranea di tutto il mondo abitabile, e perché inquest’opera si dimostra che si popolarono prima le na-zioni mediterranee, dappoi le marittime. E certamente icaldei furono i primi sappienti della gentilità, il principede’ quali dalla comune de’ filologi è ricevuto Zoroastecaldeo. E senza veruno scrupolo la storia universaleprende principio dalla monarchia degli assiri, la qualeaveva dovuto incominciar a formarsi dalla gente caldea;dalla quale, cresciuta in un grandissimo corpo, dovettepassare nella nazion degli assiri sotto di Nino, il quale vidovette fondare tal monarchia, non già con gente mena-ta colà da fuori, ma nata dentro essa Caldea medesima,con la qual egli spense il nome caldeo e vi produsse l’as-sirio: che dovetter esser i plebei di quella nazione, con leforze de’ quali Nino vi surse monarca, come inquest’opera tal civile costume di quasi tutte, come si hacertamente della romana, vien dimostrato. Ed essa sto-ria pur ci racconta che fu Zoroaste ucciso da Nino; loche truoveremo esser stato detto, con lingua eroica, insenso che ’l regno, il qual era stato aristocratico de’ cal-dei (de’ quali era stato carattere eroico Zoroaste), fu ro-vesciato per mezzo della libertà popolare da’ plebei dital gente, i quali ne’ tempi eroici si vedranno essere statialtra nazione da’ nobili, e che col favore di tal nazione

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Nino vi si fusse stabilito monarca. Altrimente, se nonistanno così queste cose, n’uscirebbe questo mostro dicronologia nella storia assiriaca; che nella vita d’un soluomo, di Zoroaste, da vagabondi eslegi si fusse la Cal-dea portata a tanta grandezza d’imperio che Nino vifondò una grandissima monarchia. Senza i quali princì-pi, avendoci Nino dato il primo incominciamento dellastoria universale, ci ha fatto finor sembrare la monarchiadell’Assiria, come una ranocchia in una pioggia d’està,esser nata tutta ad un tratto.

IV

[Sciti]

Si fonda la terza colonna agli sciti, i quali vinsero gliegizi in contesa d’antichità, come testé l’hacci narratouna tradizione volgare.

V

[Fenici]

La quarta colonna si stabilisce a’ fenici innanzi degliegizi, ai quali i fenici, da’ caldei, portarono la pratica delquadrante e la scienza dell’elevazione del polo, di che èvolgare tradizione; e appresso dimostraremo che porta-rono anco i volgari caratteri.

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VI

[Egizi]

Per tutte le cose sopra qui ragionate, quelli egizi chenel suo Canone vuol il Marshamo essere stati gli più an-tichi di tutte le nazioni, meritano il quinto luogo su que-sta Tavola cronologica.

VII

[Zoroaste, o regno de’ caldei. – Anni del mondo 1756]

Zoroaste si truova in quest’opera essere stato un ca-rattere poetico di fondatori di popoli in Oriente, ondese ne truovano tanti sparsi per quella gran parte delmondo quanti sono gli Ercoli per l’altra oppostadell’Occidente; e forse gli Ercoli, i quali con l’aspettodegli occidentali osservò Varrone anco in Asia (come iltirio, il fenicio), dovettero agli orientali essere Zoroasti.Ma la boria de’ dotti, i quali ciò ch’essi sanno voglionoche sia antico quanto ch’è il mondo, ne ha fatto un uo-mo particolare ricolmo d’altissima sapienza riposta e gliha attaccato gli oracoli della filosofia, i quali non ismalti-scono altro che per vecchia una troppo nuova dottrina,ch’è quella de’ pittagorici e de’ platonici. Ma tal boriade’ dotti non si fermò qui, ché gonfiò più col fingerneanco la succession delle scuole per le nazioni: che Zo-roaste addottrinò Beroso, per la Caldea; Beroso, Mercu-rio Trimegisto, per l’Egitto; Mercurio Trimegisto,Atlante, per l’Etiopia; Atlante, Orfeo, per la Tracia; eche, finalmente, Orfeo fermò la sua scuola in Grecia.Ma quindi a poco si vedrà quanto furono facili questilunghi viaggi per le prime nazioni, le quali, per la loro

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fresca selvaggia origine, dappertutto vivevano scono-sciute alle loro medesime confinanti, e non si conobberotra loro che con l’occasion delle guerre o per cagione de’traffichi.

Ma de’ caldei gli stessi filologi, sbalorditi dalle varievolgari tradizioni che ne hanno essi raccolte, non sannos’eglino fussero stati particolari uomini o intiere famiglieo tutto un popolo o nazione. Le quali dubbiezze tutte sisolveranno con questi princìpi: che prima furono parti-colari uomini, dipoi intiere famiglie, appresso tutto unpopolo e finalmente una gran nazione, sulla quale sifondò la monarchia dell’Assiria; e ’l lor sapere fu primain volgare divinità (con la qual indovinavano l’avveniredal tragitto delle stelle cadenti la notte) e poi in astrolo-gia giudiziaria, com’a’ latini l’astrologo giudiziario restòdetto «chaldæus».

VIII

[Giapeto, dal quale provvengon i giganti – Anni del mondo1856]

I quali, con istorie fisiche truovate dentro le grechefavole, e pruove come fisiche così morali tratte da den-tro l’istorie civili, si dimostreranno essere stati in naturaappo tutte le prime nazioni gentili.

IX

[Nebrod, o confusione delle lingue. – Anni del mondo 1856]

La quale avvenne in una maniera miracolosa, ondeall’istante si formarono tante favelle diverse. Per la qual

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confusione di lingue vogliono i Padri che si venne trattotratto a perdere la purità della lingua santa avantidilu-viana. Lo che si deve intendere delle lingue de’ popolid’Oriente, tra’ quali Sem propagò il gener umano. Madelle nazioni di tutto il restante mondo altrimente do-vette andar la bisogna. Perocché le razze di Cam e Gia-fet dovettero disperdersi per la gran selva di questa terracon un error ferino di dugento anni; e così, raminghi esoli, dovettero produrre i figliuoli, con una ferina educa-zione, nudi d’ogni umano costume e privi d’ogni umanafavella, e sì in uno stato di bruti animali. E tanto tempoappunto vi bisognò correre, che la terra, disseccatadall’umidore dell’universale diluvio, potesse mandar inaria delle esalazioni secche a potervisi ingenerare de’ ful-mini, da’ quali gli uomini storditi e spaventati si abban-donassero alle false religioni di tanti Giovi, che Varronegiunse a noverarne quaranta e gli egizi dicevano il loroGiove Ammone essere lo più antico di tutti. E si diederoad una spezie di divinazione d’indovinar l’avvenire da’tuoni e da’ fulmini e da’ voli dell’aquile, che credevanoessere uccelli di Giove. Ma appo gli orientali nacqueuna spezie di divinazione più dilicata dall’osservare imoti de’ pianeti e gli aspetti degli astri: onde il primo sa-piente della gentilità si celebra Zoroaste, che ’l Bocartovuol detto «contemplatore degli astri». E, siccome tragli orientali nacque la prima volgar sapienza, così tra es-si surse la prima monarchia, che fu quella d’Assiria.

Per sì fatto ragionamento vengono a rovinare tutti glietimologi ultimi, che vogliono rapportare tutte le linguedel mondo all’origini dell’orientali; quando tutte le na-zioni provenute da Cam e Giafet si fondarono prima lelingue natie dentro terra, e poi, calate al mare, comincia-rono a praticar co’ fenici, che furono celebri ne’ lidi delMediterraneo e dell’Oceano per la navigazione e per lecolonie. Come nella Scienza nuova la prima volta stam-pata l’abbiam dimostro nelle origini della lingua latina,

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e, ad esempio della latina, doversi lo stesso intenderedell’altre tutte.

X

[Un de’ quali [giganti], Prometeo, ruba il fuoco dal sole. – Annidel mondo 1856]

Da questa favola si scorge il Cielo avere regnato interra, quando fu creduto tant’alto quanto le cime de’monti, come ve n’ha la volgare tradizione, che narra an-co aver lasciato de’ molti e grandi benefizi al gener uma-no.

XI

[Deucalione]

Al cui tempo Temi, o sia la giustizia divina, aveva untemplo sopra il monte Parnaso; e ch’ella giudicava interra le cose degli uomini.

XII

[Mercurio Trimegisto il vecchio, ovvero età degli dèi d’Egitto]

Questo è ’l Mercurio, ch’al riferire di Cicerone, Denatura deorum, fu dagli egizi detto «Theut» (dal quale a’greci fusse provenuto theós), il quale truovò le lettere ele leggi agli egizi, e questi (per lo Marshamo) l’avesserinsegnate all’altre nazioni del mondo. Però i greci non

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iscrissero le loro leggi co’ geroglifici, ma con le letterevolgari, che finora si è oppinato aver loro portato Cad-mo dalla Fenicia, delle quali, come vedrassi, non si servi-rono per settecento anni e più appresso. Dentro il qualtempo venne Omero, che in niuno de’ suoi poemi nomi-na nómos (ch’osservò il Feizio nell’Omeriche antichità),e lasciò i suoi poemi alla memoria de’ suoi rapsòdi, per-ché al di lui tempo le lettere volgari non si erano ancortruovate, come risolutamente Flavio Giuseffo ebreo ilsostiene contro Appione, greco gramatico. E pure, dopoOmero, le lettere greche uscirono tanto diverse dalle fe-nicie.

Ma queste sono minori difficultà a petto di quelle: co-me le nazioni, senza le leggi, possano truovarsi di giàfondate? e come dentro esso Egitto, innanzi di tal Mer-curio, si erano già fondate le dinastie? Quasi fusserod’essenza delle leggi le lettere, e sì non fussero leggiquelle di Sparta, ove per legge d’esso Ligurgo eranoproibiti saper di lettera! Quasi non vi avesse potuto es-sere quest’ordine in natura civile: – di concepire a vocele leggi e pur a voce di pubblicarle, – e non si truovasse-ro di fatto appo Omero due sorte d’adunanze: una dettabulé segreta, dove si adunavano gli eroi per consultar avoce le leggi; ed un’altra detta agorá, pubblica, nellaquale pur a voce le pubblicavano! Quasi, finalmente, laprovvedenza non avesse provveduto a questa umana ne-cessità: che, per la mancanza delle lettere, tutte le nazio-ni nella loro barbarie si fondassero prima con le consue-tudini e, ingentilite, poi si governassero con le leggi!Siccome nella barbarie ricorsa i primi diritti delle nazio-ni novelle d’Europa sono nati con le consuetudini, dellequali tutte le più antiche son le feudali; lo che si dee ri-cordare per ciò ch’appresso diremo: ch’i feudi sono sta-te le prime sorgive di tutti i diritti che vennero appressoappo tutte le nazioni così antiche come moderne, e

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quindi il diritto natural delle genti, non già con leggi, macon essi costumi umani essersi stabilito.

Ora, per ciò ch’attiensi a questo gran momento dellacristiana religione: – che Mosè non abbia apparato dagliegizi la sublime teologia degli ebrei, – sembra fortemen-te ostare la cronologia, la qual alloga Mosè dopo di que-sto Mercurio Trimegisto. Ma tal difficultà, oltre alle ra-gioni con le quali sopra si è combattuta, ella si vinceaffatto per questi princìpi, fermati in un luogo veramen-te d’oro di Giamblico, De mysteriis ægyptiorum, dovedice che gli egizi tutti i loro ritruovati necessari o utili al-la vita umana civile riferivano a questo loro Mercurio;talché egli dee essere stato, non un particolare uomo ric-co di sapienza riposta che fu poi consagrato dio, ma uncarattere poetico de’ primi uomini dell’Egitto sappientidi sapienza volgare, che vi fondarono prima le famiglie epoi i popoli che finalmente composero quella gran na-zione. E per questo stesso luogo arrecato testé di Giam-blico, perché gli egizi costino con la loro divisione delletre età degli dèi, degli eroi e degli uomini, e questo Tri-megisto fu loro dio, perciò nella vita di tal Mercurio deecorrere tutta l’età degli dèi degli egizi.

XIII

[Età dell’oro, ovvero età degli dèi di Grecia]

Una delle cui particolarità la storia favolosa ci narra:che gli dèi praticavano in terra con gli uomini. E, perdar certezza a’ princìpi della cronologia, meditiamo inquest’opera una teogonia naturale, o sia generazione de-gli dèi, fatta naturalmente nelle fantasie de’ greci a certeoccasioni di umane necessità o utilità, ch’avvertirono es-sere state loro soccorse o somministrate ne’ tempi del

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primo mondo fanciullo, sorpreso da spaventosissime re-ligioni: che tutto ciò che gli uomini o vedevano o imma-ginavano o anco essi stessi facevano, apprendevano esse-re divinità. E, de’ famosi dodici dèi delle genti che furondette «maggiori», o sieno dèi consagrati dagli uomininel tempo delle famiglie, faccendo dodici minute epo-che, con una cronologia ragionata della storia poetica sidetermina all’età degli dèi la durata di novecento anni;onde si danno i princìpi alla storia universale profana.

XIV

[Elleno, figliuolo di Deucalione, nipote di Prometeo, pronipotedi Giapeto, per tre suoi figliuoli sparge nella Grecia tre dialetti. –Anni del mondo 2082]

Da quest’Elleno i greci natii si disser «elleni»; ma igreci d’Italia si dissero «graii»; e la loro terra Graikía,onde «græci» vennero detti a’ latini. Tanto i greci d’Ita-lia seppero il nome della nazion greca principe, che fuquella oltramare, ond’essi erano venuti colonie in Italia!Perché tal voce Graikía non si truova appresso grecoscrittore, come osserva Giovanni Palmerio nella Descri-zion della Grecia.

XV

[Cecrope egizio mena dodici colonie nell’Attica, delle quali poiTeseo compose Atene]

Ma Strabone stima che l’Attica, per l’asprezza dellesue terre, non poteva invitare stranieri che vi venissero

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ad abitare, per pruovare che ’l dialetto attico è de’ primitra gli altri natii di Grecia.

XVI

[Cadmo fenice fonda Tebe in Beozia, ed introduce in Grecia lelettere volgari. – Anni del mondo 2448]

E vi porrò le lettere fenicie: onde Beozia, fin dalla suafondazione letterata, doveva essere la più ingegnosa ditutte l’altre nazioni di Grecia; ma produsse uomini dimenti tanto balorde che passò in proverbio «beoto» peruomo d’ottuso ingegno.

XVII

[Saturno, ovvero l’età degli dèi del Lazio. – Anni del mondo2491]

Questa è l’età degli dèi che comincia alle nazioni delLazio, corrispondente nelle propietà all’età dell’oro de’greci, a’ quali il primo oro si ritruoverà per la nostra mi-tologia essere stato il frumento, con le cui raccolte perlunghi secoli le prime nazioni numerarono gli anni. ESaturno da’ latini fu detto a «satis», da’ seminati, e si di-ce Chrónos da’ greci, appo i quali chrónos è il tempo, dacui vien detta essa «cronologia».

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XVIII

[Mercurio Trimegisto il giovine, o età degli eroi d’Egitto. Annidel mondo 2553]

Questo Mercurio il giovine dev’essere carattere poeti-co dell’età degli eroi degli egizi. La qual a’ greci non suc-cedé che dopo novecento anni, per gli quali va a finirel’età degli dèi di Grecia; ma agli egizi corre per un pa-dre, figlio e nipote. A tal anacronismo nella storia egizia-ca osservammo uno somigliante nella storia assiriacanella persona di Zoroaste.

XIX

[Danao egizio caccia gl’Inachidi dal regno d’Argo. Anni del mon-do 2553]

Queste successioni reali sono gran canoni di cronolo-gia: come Danao occupa il regno d’Argo, signoreggiatoinnanzi da nove re della casa d’Inaco, per gli quali dove-vano correre trecento anni (per la regola de’ cronologi),come presso a cinquecento per gli quattordici re latiniche regnarono in Alba.

Ma Tucidide dice che ne’ tempi eroici gli re si caccia-vano tutto giorno di sedia l’un l’altro; come Amulio cac-cia Numitore dal regno d’Alba, e Romolo ne cacciaAmulio e rimettevi Numitore. Lo che avveniva tra per laferocia de’ tempi, e perch’erano smurate l’eroiche città,né eran in uso ancor le fortezze, come dentro si rincon-tra de’ tempi barbari ritornati.

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XX

[Eraclidi sparsi per tutta Grecia, che vi fanno l’età degli eroi. –Cureti in Creta, Saturnia, ovvero Italia, ed in Asia, che vi fannoregni di sacerdoti. – Anni del mondo 2682]

Questi due grandi rottami d’antichità si osservano daDionigi Petavio gittati dentro la greca storia avanti iltempo eroico de’ greci. E sono sparsi per tutta Grecia gliEraclidi, o sieno i figliuoli d’Ercole, più di cento anni in-nanzi di provenirvi Ercole loro padre, il quale, per pro-pagarli in tanta generazione, doveva esser nato molti se-coli prima.

XXI

[Didone da Tiro va a fondar Cartagine]

La quale noi poniamo nel fine del tempo eroico de’fenici, e sì, cacciata da Tiro perché vinta in contesa eroi-ca, com’ella il professa d’esserne uscita per l’odio delsuo cognato. Tal moltitudine d’uomini tirii con fraseeroica fu detta «femmina», perché di deboli e vinti.

XXII

[Orfeo, e con essolui l’età de’ poeti teologi]

Quest’Orfeo, che riduce le fiere di Grecia all’uma-nità, si truova esser un vasto covile di mille mostri. Vie-ne da Tracia, patria di fieri Marti, non d’umani filosofi,perché furono, per tutto il tempo appresso, cotanto bar-

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bari ch’Androzione filosofo tolse Orfeo dal numero de’sappienti solamente per ciò che fusse nato egli in Tracia.E, ne’ di lei princìpi, ne uscì tanto dotto di greca linguache vi compose in versi di maravigliosissima poesia, conla quale addimestica i barbari per gli orecchi; i quali,composti già in nazioni, non furono ritenuti dagli occhidi non dar fuoco alle città piene di maraviglie. E truova igreci ancor fiere bestie; a’ quali Deucalione, da un milleanni innanzi, aveva insegnato la pietà col riverire e teme-re la giustizia divina, col cui timore, innanzi al di lei tem-plo posto sopra il monte Parnaso (che fu poi la stanzadelle muse e d’Apollo, che sono lo dio e l’arti dell’uma-nità), insieme con Pirra sua moglie, entrambi co’ capivelati (cioè col pudore del concubito umano, volendo si-gnificare col matrimonio), le pietre ch’erano loro dinan-zi i piedi (cioè gli stupidi della vita innanzi ferina), git-tandole dietro le spalle, fanno divenir uomini (cioè conl’ordine della disciplina iconomica, nello stato delle fa-miglie); – Elleno, da settecento anni innanzi, aveva asso-ciati con la lingua e v’aveva sparso per tre suoi figliuolitre dialetti; – la casa d’Inaco dimostrava esservi da tre-cento anni innanzi fondati i regni e scorrervi le succes-sioni reali. Viene finalmente Orfeo ad insegnarvi l’uma-nità; e, da un tempo che la truova tanto selvaggia, portala Grecia a tanto lustro di nazione ch’esso è compagnodi Giasone nell’impresa navale del vello d’oro (quandola navale e la nautica sono gli ultimi ritruovati de’ popo-li), e vi s’accompagna con Castore e Polluce, fratellid’Elena, per cui fu fatta la tanto romorosa guerra diTroia. E, nella vita d’un sol uomo, tante civili cose fatte,alle quali appena basta la scorsa di ben mill’anni! Talmostro di cronologia sulla storia greca nella personad’Orfeo è somigliante agli altri due osservati sopra: unosulla storia assiriaca nella persona di Zoroaste, ed un al-tro sull’egiziaca in quelle de’ due Mercuri. Per tutto ciò,

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forse, Cicerone, De natura deorum, sospettò ch’un talOrfeo non fusse giammai stato nel mondo.

A queste grandissime difficultà cronologiche s’ag-giungono non minori altre morali e politiche: che Orfeofonda l’umanità della Grecia sopra esempli d’un Gioveadultero, d’una Giunione nimica a morte della virtù de-gli Ercoli, d’una casta Diana che solecita gli addormen-tati Endimioni di notte, d’un Apollo che risponde ora-coli ed infesta fin alla morte le pudiche donzelle Dafni,d’un Marte che, come non bastasse agli dèi di commet-tere adultèri in terra, gli trasporta fin dentro il mare conVenere. Né tale sfrenata libidine degli dèi si contentade’ vietati concubiti con le donne: arde Giove di nefandiamori per Ganimede; né pur qui si ferma: eccede final-mente alla bestiale, e Giove, trasformato in cigno, giacecon Leda: la qual libidine, esercitata negli uomini e nellebestie, fece assolutamente l’infame nefas del mondoeslege. Tanti dèi e dèe nel cielo non contraggono matri-moni; ed uno ve n’ha, di Giove con Giunone, ed è steri-le; né solamente sterile, ma anco pieno d’atroci risse; tal-ché Giove appicca in aria la pudica gelosa moglie, edesso partorisce Minerva dal capo; ed infine, se Saturnofa figliuoli, gli si divora. I quali esempli, e potenti esem-pli divini (contengansi pure cotali favole tutta la sapien-za riposta, disiderata da Platone infino a’ nostri tempida Bacone di Verulamio, De sapientia veterum), comesuonano, dissolverebbero i popoli più costumati egl’istigherebbero ad imbrutirsi in esse fiere d’Orfeo:tanto sono acconci e valevoli a ridurre gli uomini da be-stie fiere all’umanità! Della qual riprensione è una parti-cella quella che degli dèi della gentilità fa sant’Agostinonella Città di Dio, per questo motivo dell’Eunuco di Te-renzio: che ’l Cherea, scandalezzato da una dipintura diGiove ch’in pioggia d’oro si giace con Danae, prendequell’ardire, che non aveva avuto, di violare la schiava,della quale pur era impazzato d’un violentissimo amore.

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Ma questi duri scogli di mitologia si schiveranno co’princìpi di questa Scienza, la quale dimostrerà che talifavole, ne’ loro princìpi, furono tutte vere e severe e de-gne di fondatori di nazioni, e che poi, con lungo volgerdegli anni, da una parte oscurandosene i significati, edall’altra col cangiar de’ costumi che da severi divenne-ro dissoluti, perché gli uomini per consolarne le lor co-scienze volevano peccare con l’autorità degli dèi, passa-rono ne’ laidi significati co’ quali sonoci pervenute.L’aspre tempeste cronologiche ci saranno rasserenatedalla discoverta de’ caratteri poetici, un de’ quali fu Or-feo, guardato per l’aspetto di poeta teologo, il quale conle favole, nel primo loro significato, fondò prima e poiraffermò l’umanità della Grecia. Il quale caratterespiccò più che mai nell’eroiche contese co’ plebei dellegreche città; ond’in tal età si distinsero i poeti teologi,com’esso Orfeo, Lino, Museo, Anfione, il quale de’ sassisemoventi (de’ balordi plebei) innalzò le mura di Tebe,che Cadmo aveva da trecento anni innanzi fondata; ap-punto come Appio, nipote del decemviro, circa altret-tanto tempo dalla fondazione di Roma, col cantar allaplebe la forza degli dèi negli auspìci, della quale avevanola scienza i patrizi, ferma lo stato eroico a’ romani. Dallequali eroiche contese ebbe nome il secolo eroico.

XXIII

[Ercole, con cui è al colmo il tempo eroico di Grecia]

Le stesse difficultà ricorrono in Ercole, preso per unuom vero, compagno di Giasone nella spedizione diColco; quando egli non sia, come si truoverà, carattereeroico di fondatore di popoli per l’aspetto delle fatighe.

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XXIV

[Sancuniate scrive storie in lettere volgari. – Anni del mondo2800]

Detto anco Sancunazione, chiamato «lo storico dellaverità» (al riferire di Clemente alessandrino negli Stro-mati), il quale scrisse in caratteri volgari la storia fenicia,mentre gli egizi e gli sciti, come abbiam veduto, scrive-vano per geroglifici, come si sono truovati scrivere fin aldì d’oggi i chinesi, i quali non meno degli sciti ed egizivantano una mostruosa antichità, perché al buio del lorochiuso, non praticando con altre nazioni, non videro lavera luce de’ tempi. E Sancuniate scrisse in caratteri fe-nici volgari, mentre le lettere volgari non si erano ancortruovate tra’ greci, come sopra si è detto.

XXV

[Guerra troiana. – Anni del mondo 2820]

La quale, com’è narrata da Omero, avveduti criticigiudicano non essersi fatta nel mondo; e i Ditti cretesi e iDareti frigi, che la scrissero in prosa come storici del lortempo, da’ medesimi critici sono mandati a conservarsinella libraria dell’impostura.

XXVI

[Sesostride regna in Tebe. – Anni del mondo 2949]

Il quale ridusse sotto il suo imperio le tre altre dina-

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stie dell’Egitto; che si truova esser il re Ramse che ’l sa-cerdote egizio narra a Germanico appresso Tacito.

XXVII

[Colonie greche in Asia, in Sicilia, in Italia. Anni del mondo2949]

Questa è una delle pochissime cose nelle quali non se-guiamo l’autorità d’essa cronologia, forzati da una pre-potente cagione. Onde poniamo le colonie de’ greci me-nate in Italia ed in Sicilia da cento anni dopo la guerratroiana, e sì da un trecento anni innanzi al tempo ovel’han poste i cronologi, cioè vicino a’ tempi ne’ quali icronologi pongono gli errori degli eroi, come di Mene-lao, di Enea, d’Antenore, di Diomede e d’Ulisse. Né deerecare ciò maraviglia, quando essi variano di quattro-censessant’anni d’intorno al tempo d’Omero, ch’è ’l piùvicino autore a sì fatte cose de’ greci. Perché la magnifi-cenza e dilicatezza di Siragosa a’ tempi delle guerre car-taginesi non avevano che invidiare a quelle d’Atene me-desima; quando nell’isole più tardi che ne’ continentis’introducono la morbidezza e lo splendor de’ costumi,e, ne’ di lui tempi, Cotrone fa compassione a Livio delsuo poco numero d’abitatori, la quale aveva abitato in-nanzi più millioni.

XXVIII

[Giuochi olimpici, prima ordinati da Ercole, poi intermessi, e re-stituiti da Isifilo. – Anni del mondo 3223]

Perché si truova che da Ercole si noveravano gli anni

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con le raccolte; da Isifilo in poi, col corso del sole, pergli segni del zodiaco: onde da questi incomincia il tempocerto de’ greci.

XXIX

[Fondazione di Roma. – Anni di Roma 1]

Ma, qual sole le nebbie, così sgombra tutte le magnifi-che oppenioni che finora si sono avute de’ princìpi diRoma, e di tutte l’altre città che sono state capitali di fa-mosissime nazioni, un luogo d’oro di Varrone (apposant’Agostino nella Città di Dio): ch’ella sotto gli re, chevi regnarono da dugencinquant’anni, manomise da piùdi venti popoli, e non distese più di venti miglia l’impe-rio.

XXX

[Omero, il quale venne in tempo che non si eran ancor truovatele lettere volgari, e ’l quale non vidde l’Egitto. Anni del mondo3290, di Roma 35]

Del qual primo lume di Grecia ci ha lasciato al buio lagreca storia d’intorno alle principali sue parti, cioè geo-grafia e cronologia, poiché non ci è giunto nulla di certoné della di lui patria né dell’età. Il quale nel terzo di que-sti libri si truoverà tutt’altro da quello ch’è stato finorcreduto. Ma, qualunque egli sia stato, non vide certa-mente l’Egitto; il quale nell’Odissea narra che l’isola ov’èil faro or d’Alessandria fosse lontana da terrafermaquanto una nave scarica, con rovaio in poppa, potesseveleggiar un intiero giorno. Né vide la Fenicia; ove narra

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l’isola di Calipso, detta Ogigia, esser tanto lontana cheMercurio dio, e dio alato, difficilissimamente vi giunse,come se da Grecia, dove sul monte Olimpo egli nell’Ilia-de canta starsi gli dèi, fusse la distanza che vi è dal no-stro mondo in America. Talché, se i greci a’ tempid’Omero avessero trafficato in Fenicia ed Egitto, eglin’arebbe perduto il credito a tutti e due i suoi poemi.

XXXI

[Psammetico apre l’Egitto a’ soli greci di Ionia e di Caria. Annidel mondo 3334]

Onde da Psammetico comincia Erodoto a raccontarcose più accertare degli egizi. E ciò conferma che Ome-ro non vide l’Egitto; e le tante notizie, ch’egli narra e diEgitto e d’altri paesi del mondo, o sono cose e fatti den-tro essa Grecia, come si dimostrerà nella Geografia poe-tica; o sono tradizioni, alterate col lungo tempo, de’ feni-ci, egizi, frigi, ch’avevano menate le loro colonie tra’greci; o sono novelle de’ viaggiatori fenici, che da moltoinnanzi a’ tempi d’Omero mercantavano nelle marine diGrecia.

XXXII

[Esopo, moral filosofo volgare. – Anni del mondo 3334]

Nella Logica poetica si truoverà Esopo non essere sta-to un particolar uomo in natura, ma un genere fantasti-co, ovvero un carattere poetico de’ soci ovvero famolidegli eroi, i quali certamente furon innanzi a’ sette saggidi Grecia.

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XXXIII

[Sette savi di Grecia; de’ quali uno, Solone, ordina la libertà po-polare d’Atene; l’altro, Talete milesio, dà incominciamento allafilosofia con la fisica. – Anni del mondo 3406]

E cominciò da un principio troppo sciapito – dall’ac-qua, – forse perché aveva osservato con l’acqua crescerle zucche.

XXXIV

[Pittagora, di cui vivo dice Livio che nemmeno il nome poté sa-persi in Roma. – Anni del mondo 3468, di Roma 225]

Ch’esso Livio pone a’ tempi di Servio Tullio (tantoebbe per vero che Pittagora fosse stato maestro di Nu-ma in divinità!); e ne’ medesimi tempi di Servio Tullio,che sono presso a dugento anni dopo di Numa, dice che’n quelli tempi barbari dell’Italia mediterranea fosse sta-to impossibile, nonché esso Pittagora, il di lui nome, pertanti popoli di lingue e costumi diversi, avesse potuto daCotrone giugnere a Roma. Onde s’intenda quanto furo-no spediti e facili tanti lunghi viaggi d’esso Pittagora inTracia dagli scolari d’Orfeo, da’ maghi nella Persia, da’caldei in Babillonia, da’ ginnosofisti nell’India; quindi,nel ritorno, da’ sacerdoti in Egitto e, quanto è larga l’Af-frica attraversando, dagli scolari d’Atlante nella Mauri-tania; e di là, rivalicando il mare, da’ druidi nella Gallia;ed indi fusse ritornato, ricco della sapienza barbarescache dice l’Ornio, nella sua patria: da quelle barbare na-zioni, alle quali, lunga età innanzi, Ercole tebano conuccider mostri e tiranni era andato per lo mondo disse-minando l’umanità; ed alle quali medesime, lunga età

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dopo, essi greci vantavano d’averla insegnata, ma noncon tanto profitto che pure non restassero barbare. Tan-to ha di serioso e grave la succession delle scuole dellafilosofia barbaresca che dice l’Ornio, alquanto più sopraaccennata, alla quale la boria de’ dotti ha cotanto ap-plaudito!

Che hassi a dire se fa necessità qui l’autorità di Lat-tanzio, che risolutamente niega Pittagora essere stato di-scepolo d’Isaia? La qual autorità si rende gravissima perun luogo di Giuseffo ebreo nell’Antichità giudaiche, chepruova gli ebrei, a’ tempi di Omero e di Pittagora, avervivuto sconosciuti ad esse vicine loro mediterranee,nonché all’oltramarine lontanissime nazioni. Perché aTolomeo Filadelfo, che si maravigliava perché delle leg-gi mosaiche né poeta né storico alcuno avesse fatto veru-na menzione giammai, Demetrio ebreo rispose esserestati puniti miracolosamente da Dio alcuni che attentatoavevano di narrarle a’ gentili, come Teopompo che ne fuprivato del senno, e Teodette che lo fu della vista. Quin-di esso Giuseffo confessa generosamente questa loroscurezza, e ne rende queste cagioni: «Noi – dic’egli –non abitiamo sulle marine, né ci dilettiamo di mercanta-re e per cagione di traffichi praticare con gli stranieri».Sul qual costume Lattanzio riflette essere stato ciò con-siglio della provvedenza divina, acciocché coi commerzigentileschi non si profanasse la religione del vero Dio;nel qual detto egli è Lattanzio seguito da Pier Cuneo, Derepublica hebræorum. Tutto ciò si ferma con una confes-sion pubblica d’essi ebrei, i quali per la versione de’ Set-tanta facevan ogni anno un solenne digiuno nel dì ottodi tebet, ovvero dicembre; perocché, quando ella uscì,tre giorni di tenebre furon per tutto il mondo, come suilibri rabbinici l’osservarono il Casaubuono nell’Esercita-zioni sopra gli Annali del Baronio, il Buxtorfio nella Sina-goga giudaica e l’Ottingero nel Tesoro filologico. E per-ché i giudei grecanti, dett’«ellenisti», tra’ quali fu

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Aristea, detto capo di essa versione, le attribuivano unadivina autorità, i giudei gerosolomitani gli odiavanomortalmente.

Ma per la natura di queste cose civili [è da reputareimpossibile] che, per confini vietati anco dagli umanissi-mi egizi (i quali furono così inospitali a’ greci lunga etàdopo ch’avevano aperto loro l’Egitto, ch’erano vietatid’usar pentola, schidone, coltello ed anco carne tagliatacol coltello che fusse greco), per cammini aspri ed infe-sti, senza alcuna comunanza di lingue, tra gli ebrei, chesolevano motteggiarsi da’ gentili ch’allo straniero asseta-to non additassero il fonte, i profeti avessero profanatola loro sagra dottrina a’ stranieri, uomini nuovi e ad es-solor sconosciuti, la quale in tutte le nazioni del mondo isacerdoti custodivano arcana al volgo delle loro medesi-me plebi, ond’ella ha avuto appo tutte il nome di «sa-gra», ch’è tanto dire quanto «segreta». E ne risulta unapruova più luminosa per la verità della cristiana religio-ne: che Pittagora, che Platone, in forza di umana subli-missima scienza, si fussero alquanto alzati alla cognizio-ne delle divine verità, delle quali gli ebrei erano statiaddottrinati dal vero Dio; e, al contrario, ne nasce unagrave confutazione dell’errore de’ mitologi ultimi, i qua-li credono che le favole sieno storie sagre, corrotte dallenazioni gentili e sopra tutti da’ greci. E, benché gli egizipraticarono con gli ebrei nella loro cattività, però, perun costume comune de’ primi popoli, che qui dentrosarà dimostro, di tener i vinti per uomini senza dèi, egli-no della religione e storia ebraica fecero anzi beffe checonto; i quali, come narra il sagro Genesi, sovente perischerno domandavano agli ebrei perché lo Dio ch’essiadoravano non veniva a liberargli dalle lor mani.

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XXXV

[Servio Tullio re. – Anni del mondo 3468, di Roma 225]

Il quale, con comun errore, è stato finor credutod’aver ordinato in Roma il censo pianta della libertà po-polare, il quale dentro si truoverà essere stato censopianta di libertà signorile. Il qual errore va di concertocon quell’altro onde si è pur creduto finora che, ne’ tem-pi ne’ quali il debitor ammalato doveva compariresull’asinello o dentro la carriuola innanzi al pretore, Tar-quinio Prisco avesse ordinato l’insegne, le toghe, le divi-se e le sedie d’avolio (de’ denti di quelli elefanti che,perché i romani avevano veduto la prima volta in Luca-nia nella guerra con Pirro, dissero «boves lucas») e final-mente i cocchi d’oro da trionfare; nella quale splendidacomparsa rifulse la romana maestà ne’ tempi della re-pubblica popolare più luminosa.

XXXVI

[Esiodo. – Anni del mondo 3500]

Per le pruove che si faranno d’intorno al tempo chefra i greci si truovò la scrittura volgare, poniamo Esiodocirca i tempi d’Erodoto e alquanto innanzi; il quale da’cronologi con troppo risoluta franchezza si ponetrent’anni innanzi d’Omero, della cui età variano quat-trocensessant’anni gli autori. Oltreché, Porfirio (appres-so Suida) e Velleo Patercolo voglion ch’Omero avesse digran tempo preceduto ad Esiodo. E ’l treppiedi ch’Esio-do consagrò in Elicona ad Apollo, con iscrittovi ch’essoaveva vinto Omero nel canto, quantunque il riconoscaVarrone (appresso Aulo Gellio), egli è da conservarsi

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nel museo dell’impostura, perché fu una di quelle chefanno tuttavia a’ nostri tempi i falsatori delle medaglieper ritrarne con tal frode molto guadagno.

XXXVII

[Erodoto, Ippocrate. – Anni del mondo 3500]

Egli è Ippocrate posto da’ cronologi nel tempo de’sette savi della Grecia. Ma, tra perché la di lui vita ètroppo tinta di favole (ch’è raccontato figliuolo d’Eu-sculapio e nipote d’Apollo), e perch’è certo autored’opere scritte in prosa con volgari caratteri, perciò egliè qui posto circa i tempi d’Erodoto, il qual egualmente escrisse in prosa con volgari caratteri e tessé la sua storiaquasi tutta di favole.

XXXVIII

[Idantura re di Scizia. – Anni del mondo 3530]

Il quale a Dario il maggiore, che gli aveva intimato laguerra, risponde con cinque parole reali (le quali, comedentro si mostrerà, i primi popoli dovettero usare primache le vocali e, finalmente, le scritte); le quali parole rea-li furono una ranocchia, un topo, un uccello, un dented’aratro ed un arco da saettare. Dentro, con tutta natu-ralezza e propietà se ne spiegheranno i significati; e c’in-cresce rapportare ciò che san Cirillo alessandrino riferi-sce del consiglio che Dario tenne su tal risposta, che dase stesso accusa le ridevoli interpetrazioni che le diederoi consiglieri. E questo è re di quelli sciti i quali vinsero

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gli egizi in contesa d’antichità, ch’a tali tempi sì bassinon sapevano nemmeno scrivere per geroglifici! TalchéIdantura dovett’essere un degli re chinesi, che, fin a po-chi secoli fa chiusi a tutto il rimanente del mondo, van-tano vanamente un’antichità maggiore di quella delmondo e, ’n tanta lunghezza di tempi, si sono truovatiscrivere ancora per geroglifici, e, quantunque per lagran mollezza del cielo abbiano dilicatissimi ingegni, co’quali fanno tanti a maraviglia dilicati lavori, però nonsanno ancora dar l’ombre nella pittura, sopra le quali ri-saltar possano i lumi; onde, non avendo sporti né ad-dentrati, la loro pittura è goffissima. E le statuette, ch’in-di ci vengon di porcellana, gli ci accusano egualmenterozzi quanto lo furono gli egizi nella fonderia; ond’è dastimarsi che, come ora i chinesi, così furono rozzi gli egi-zi nella pittura.

Di questi sciti è quell’Anacarsi, autore degli oracoliscitici, come Zoroaste lo fu de’ caldaici; che dovetterodapprima esser oracoli d’indovini, che poi per la boriade’ dotti passarono in oracoli di filosofi. Se dagli iperbo-rei della Scizia presente, o da altra nata anticamentedentro essa Grecia, sieno venuti a’ greci i due più famo-si oracoli del gentilesimo, il delfico e ’l dodoneo, come ilcredette Erodoto e, dopo lui, Pindaro e Ferenico, segui-ti da Cicerone, De natura deorum, onde forse Anacarsifu gridato famoso autore d’oracoli e fu noverato tra gliantichissimi dèi fatidici, si vedrà nella Geografia poetica.Vaglia, per ora intendere quanto la Scizia fusse statadotta in sapienza riposta, che gli sciti ficcavano un col-tello in terra e l’adoravan per dio, perché con quello giu-stificassero l’uccisioni ch’avevan essi da fare; dalla qualfiera religione uscirono le tante virtù morali e civili nar-rate da Diodoro sicolo, Giustino, Plinio, e innalzate conle lodi al cielo da Orazio. Laonde Abari, volendo ordi-nare la Scizia con le leggi di Grecia, funne ucciso daCadvido, suo fratello. Tanto egli profittò nella filosofia

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barbaresca dell’Ornio, che non intese da sé le leggi vale-voli di addimesticare una gente barbara ad un’umana ci-viltà, e dovette appararle da’ greci! Ch’è lo stesso, ap-punto, de’ greci in rapporto degli sciti, che poco faabbiam detto de’ medesimi a riguardo degli egizi: che,per la vanità di dar al loro sapere romorose origini d’an-tichità forastiera, meritarono con verità la riprensionech’essi stessi sognarono d’aver fatta il sacerdote egizio aSolone (riferita da Crizia, appresso Platone in uno degliAlcibiadi): ch’i greci fussero sempre fanciulli. Laondehassi a dire che per cotal boria i greci, a riguardo deglisciti e degli egizi, quanto essi guadagnarono di vanaglo-ria, tanto perderono di vero merito.

XXXIX

[Guerra peloponnesiaca. Tucidide, il qual scrive che fin a suo pa-dre i greci non seppero nulla delle antichità loro propie, onde sidiede a scrivere di cotal guerra. – Anni del mondo 3530]

Il qual era giovinetto nel tempo ch’era Erodoto vec-chio, che gli poteva esser padre, e visse nel tempo più lu-minoso di Grecia, che fu quello della guerra peloponne-siaca, di cui fu contemporaneo, e perciò, per iscriverecose vere, ne scrisse la storia; da cui fu detto ch’i grecifin al tempo di suo padre, ch’era quello d’Erodoto, nonseppero nulla dell’antichità loro propie. Che hassi a sti-mare delle cose straniere che essi narrano, e quanto essine narrano tanto noi sappiamo dell’antichità gentileschebarbare? Che hassi a stimare, fin alle guerre cartaginesi,delle cose antiche di que’ romani che fin a que’ tempinon avevan ad altro atteso ch’all’agricoltura ed al me-stiero dell’armi, quando Tucidide stabilisce questa ve-rità de’ suoi greci, che provennero tanto prestamente fi-

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losofi? Se non, forse, vogliam dire ch’essi romani n’aves-ser avuto un particolar privilegio da Dio.

XL

[Socrate dà principio alla filosofia morale ragionata. Platone fio-risce nella metafisica. Atene sfolgora di tutte l’arti della più coltaumanità]

Nel qual tempo da Atene si porta in Roma la leggedelle XII Tavole, tanto incivile, rozza, inumana, crudelee fiera quanto ne’ Princìpi del Diritto universale sta di-mostrata.

XLI

[Senofonte, con portar l’armi greche nelle viscere della Persia, è’l primo a sapere con qualche certezza le cose persiane. Anni delmondo 3583, di Roma 333]

Come osserva san Girolamo, Sopra Daniello. E dopoche, per l’utilità de’ commerzi, avevano cominciato igreci sotto Psammetico a sapere le cose di Egitto (ondeda quel tempo Erodoto incomincia a scrivere cose piùaccertate degli egizi), da Senofonte la prima volta, per lanecessità delle guerre, cominciaron a saper i greci cosepiù accertare de’ persiani; de’ quali pure Aristotile, por-tatovisi con Alessandro magno, scrive che, innanzi, da’greci se n’erano dette favole, come si accenna in questaTavola cronologica. In cotal guisa cominciaron i greciad avere certa contezza delle cose straniere.

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XLII

[Legge Publilia. – Anni del mondo 3658, di Roma 416]

Questa legge fu comandata negli anni di RomaCCCCXVI, e contiene un punto massimo d’istoria ro-mana, ché con questa legge si dichiarò la romana repub-blica mutata di stato da aristocratica in popolare; ondePublilio Filone, che ne fu autore, ne fu detto «dittatorpopolare». E non si è avvertita, perché non si è saputointendere il di lei linguaggio. Lo che appresso sarà danoi ad evidenza dimostrato di fatto: basta qui che nediamo un’idea per ipotesi.

Giacque sconosciuta questa e la seguente legge Pete-lia, ch’è d’ugual importanza che la Publilia, per questetre parole non diffinite: «popolo», «regno» e «libertà»,per le quali si è con comun errore creduto che ’l popoloromano fin da’ tempi di Romolo fusse stato di cittadinicome nobili così plebei, che ’l romano fusse stato regnomonarchico, e che la ordinatavi da Bruto fusse stata li-bertà popolare. E queste tre voci non diffinite han fattocader in errore tutti i critici, storici, politici e giurecon-sulti, perché da niuna delle presenti poterono far ideadelle repubbliche eroiche, le quali furono d’una formaaristocratica severissima e quindi a tutto cielo diverse daqueste de’ nostri tempi.

Romolo dentro l’asilo aperto nel luco egli fondò Ro-ma sopra le clientele, le quali furono protezioni nellequali i padri di famiglia tenevano i rifuggiti all’asilo inqualità di contadini giornalieri, che non avevano niunprivilegio di cittadino, e sì niuna parte di civil libertà; e,perché v’erano rifuggiti per aver salva la vita, i padriproteggevano loro la libertà naturale col tenergli partita-mente divisi in coltivar i di loro campi, de’ quali così do-

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vette comporsi il fondo pubblico del territorio romano,come di essi padri Romolo compose il senato.

Appresso, Servio Tullio vi ordinò il censo, con per-mettere a’ giornalieri il dominio bonitario de’ campich’erano propi de’ padri, i quali essi coltivassero per sé,sotto il peso del censo, con l’obbligo di servir loro a pro-pie spese nelle guerre, conforme, di fatto, i plebei ad es-si patrizi servirono dentro cotesta finor sognata libertàpopolare. La qual legge di Servio Tullio fu la prima leg-ge agraria del mondo, ordinatrice del censo pianta dellerepubbliche eroiche, ovvero antichissime aristocrazie ditutte le nazioni.

Dappoi, Giunio Bruto, con la discacciata de’ tiranniTarquini, restituì la romana repubblica a’ suoi princìpi,e, con ordinarvi i consoli, quasi due re aristocratici an-nali (come Cicerone gli appella nelle sue Leggi) invece diuno re a vita, vi riordinò la libertà de’ signori da’ lor ti-ranni, non già la libertà del popolo da’ signori. Ma, i no-bili mal serbando l’agraria di Servio a’ plebei, questi sicriarono i tribuni della plebe, e gli si fecero giurare dallanobiltà, i quali difendessero alla plebe tal parte di natu-ral libertà del dominio bonitario de’ campi: siccome per-ciò, disiderando i plebei riportarne da’ nobili il dominiocivile, i tribuni della plebe cacciarono da Roma MarcioCoriolano, per aver detto ch’i plebei andassero a zappa-re, cioè che, poiché non eran contenti dell’agraria diServio Tullio e volevano un’agraria più piena e più fer-ma, si riducessero a’ giornalieri di Romolo. Altrimente,che stolto fasto de’ plebei sdegnare l’agricoltura, la qua-le certamente sappiamo che si recavano ad onore eserci-tar essi nobili? e per sì lieve cagione accendere sì crudelguerra, che Marcio, per vendicarsi dell’esiglio, era venu-to a rovinar Roma, senonsé le pietose lagrime della ma-dre e della moglie l’avessero distolto dall’empia impre-sa?

Per tutto ciò, pur seguitando i nobili a ritogliere i

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campi a’ plebei poi che quelli gli avevano coltivati, néavendo questi azion civile da vendicargli, quivi i tribunidella plebe fecero la pretensione della legge delle XIITavole (dalla quale, come ne’ Princìpi del Diritto univer-sale si è dimostrato, non si dispose altro affare che que-sto), con la qual legge i nobili permisero il dominio qui-ritario de’ campi a’ plebei; il qual dominio civile, perdiritto natural delle genti, permettesi agli stranieri. Equesta fu la seconda legge agraria dell’antiche nazioni.

Quindi – accorti i plebei che non potevan essi tram-mandar ab intestato i campi a’ loro congionti, perchénon avevano suità, agnazioni, gentilità (per le quali ra-gioni correvano allora le successioni legittime), perchénon celebravano matrimoni solenni, e nemmeno ne po-tevano disponere in testamento, perché non avevanoprivilegio di cittadini – fecero la pretensione de’ connu-bi de’ nobili, o sia della ragione di contrarre nozze so-lenni (ché tanto suona «connubium»), la cui maggior so-lennità erano gli auspìci, ch’erano propi de’ nobili (iquali auspìci furono il gran fonte di tutto il diritto roma-no, privato e pubblico); e sì fu da’ padri comunicata a’plebei la ragion delle nozze, le quali, per la diffinizionedi Modestino giureconsulto, essendo «omnis divini ethumani iuris communicatio», ch’altro non è la cittadi-nanza, dieder essi a’ plebei il privilegio di cittadini.Quindi, secondo la serie degli umani disidèri, ne ripor-tarono i plebei da’ padri comunicate tutte le dipendenzedegli auspìci ch’erano di ragion privata, come patria po-testà, suità, agnazioni, gentilità e, per questi diritti, lesuccessioni legittime, i testamenti e le tutele. Dipoi nepretesero le dipendenze di ragion pubblica, e prima neriportarono comunicati gl’imperi coi consolati, e final-mente i sacerdozi e i ponteficati e, con questi, la scienzaancor delle leggi.

In cotal guisa i tribuni della plebe, sulla pianta soprala qual erano stati criati di proteggerle la libertà natura-

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le, tratto tratto si condussero a farle conseguire tutta lalibertà civile. E ’l censo ordinato da Servio Tullio – condisponersi dappoi che non più si pagasse privatamentea’ nobili, ma all’erario, perché l’erario somministrasse lespese nelle guerre a’ plebei, – da pianta di libertà signo-rile, andò da se stesso, naturalmente, a formar il censopianta della libertà popolare; di che dentro truoverassila guisa.

Con uguali passi i medesimi tribuni s’avanzarono nel-la potestà di comandare le leggi. Perché le due leggiOrazia ed Ortensia non poterono accordar alla plebech’i di lei plebisciti obbligassero tutto il popolo senonsénelle due particolari emergenze, per la prima delle qualila plebe si era ritirata nell’Aventino gli anni di RomaCCCIV, nel qual tempo, come qui si è detto per ipotesie dentro mostrerassi di fatto, i plebei non erano ancorcittadini; e per la seconda ritirossi nel Gianicolo gli anniCCCLXVII, quando la plebe ancora contendeva con lanobiltà di comunicarlesi il consolato. Ma, sulla piantadelle suddette due leggi, la plebe finalmente si avanzò acomandare leggi universali: per lo che dovetter avvenirein Roma de’ grandi movimenti e rivolte; onde fu biso-gno di criare Publilio Filone dittatore, il quale non sicriava se non negli ultimi pericoli della repubblica, sic-come in questo, ch’ella era caduta in un tanto grande di-sordine di nudrire dentro il suo corpo due potestà som-me legislatrici, senza essere di nulla distinte né di tempiné di materie né di territori, con le quali doveva presta-mente andare in una certa rovina. Quindi Filone, per ri-mediare a tanto civil malore, ordinò che ciò che la plebeavesse co’ plebisciti comandato ne’ comizi tributi, «om-nes quirites teneret», obbligasse tutto il popolo ne’ comi-zi centuriati, ne’ quali «omnes quirites» si ragunavano(perché i romani non si appellavano «quirites» che nellepubbliche ragunanze, né «quirites» nel numero del me-no si disse in volgar sermone latino giammai); con la

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qual formola Filone volle dire che non si potessero ordi-nar leggi le quali fussero a’ plebisciti contrarie. Per tuttociò – essendo già, per leggi nelle quali essi nobili eranoconvenuti, la plebe in tutto e per tutto uguagliata allanobiltà; e per quest’ultimo tentativo, al quale i nobilinon potevano resistere senza rovinar la repubblica, ellaera divenuta superiore alla nobiltà, ché senza l’autoritàdel senato comandava leggi generali a tutto il popolo; esì essendo già naturalmente la romana repubblica dive-nuta libera popolare; – Filone, con questa legge, tale ladichiarò e ne fu detto «dittator popolare».

In conformità di tal cangiata natura, le diede due or-dinamenti, che si contengono negli altri due capi dellalegge Publilia. Il primo fu che l’autorità del senato, laqual era stata autorità di signori, per la quale, di ciò che’l popolo avesse disposto prima, «deinde patres fierentautores» (talché le criazioni de’ consoli, l’ordinazionidelle leggi, fatte dal popolo per lo innanzi, erano statepubbliche testimonianze di merito e domande pubbli-che di ragione), questo dittatore ordinò ch’indi in poifussero i padri autori al popolo, ch’era già sovrano libe-ro, «in incertum comitiorum eventum», come tutori delpopolo, signor del romano imperio; che, se volesse co-mandare le leggi, le comandasse secondo la formola por-tata a lui dal senato, altrimente si servisse del suo sovra-no arbitrio e l’«antiquasse» (cioè dichiarasse di nonvoler novità); talché tutto ciò ch’indi in poi ordinasse ilsenato d’intorno a’ pubblici affari, fussero o istruzionida esso date al popolo, o commessioni del popolo date alui. Restava finalmente che, perché il censo, per tutto iltempo innanzi, essendo stato l’erario de’ nobili, i soli no-bili se n’erano criati censori: poi che egli per cotal leggedivenne patrimonio di tutto il popolo, ordinasse Filonenel terzo capo che si comunicasse alla plebe ancor lacensura, il qual maestrato solo restava da comunicarsialla plebe.

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Se sopra quest’ipotesi si legga quindi innanzi la storiaromana, a mille pruove si truoverà che vi reggono tuttele cose che narra, le quali, per le tre voci non diffiniteanzidette, non hanno né alcun fondamento comune, nétra loro alcun convenevole rapporto particolare; ondequest’ipotesi perciò si dovrebbe ricever per vera. Ma, seben si considera, questa non è tanto ipotesi quanto unaverità meditata in idea, che poi con l’autorità truoverassidi fatto. E – posto ciò che Livio dice generalmente: gliasili essere stati «vetus urbes condentium consilium», co-me Romolo entro l’asilo aperto nel luco egli fondò la ro-mana – ne dà l’istoria di tutte l’altre città del mondo de’tempi finora disperati a sapersi. Lo che è un saggiod’una storia ideal eterna (la quale dentro si medita e siritruova), sopra la quale corrono in tempo le storie ditutte le nazioni.

XLIII

[Legge Petelia. – Anni del mondo 3661, di Roma 419]

Quest’altra legge fu comandata negli anni di RomaCCCCXIX, detta de nexu (e, sì, tre anni dopo la Publi-lia), da’ consoli Caio Petelio e Lucio Papirio Mugilano;e contiene un altro punto massimo di cose romane, poi-ché con quella si rillasciò a’ plebei la ragion feudale d’es-sere vassalli ligi de’ nobili per cagion di debiti, per gliquali quelli tenevano questi, sovente tutta la vita, a lavo-rare per essi nelle loro private prigioni. Ma restò al sena-to il sovrano dominio ch’esso aveva sopra i fondidell’imperio romano, ch’era già passato nel popolo, eper lo senato consulto che chiamavano «ultimo», finchéla romana fu repubblica libera, se ’l mantenne con laforza dell’armi; onde, quante volte il popolo ne volle di-

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sponere con le leggi agrarie de’ Gracchi, tante il senatoarmò i consoli, i quali dichiararono rubelli ed uccisero itribuni della plebe che n’erano stati gli autori. Il qualegrand’effetto non può altrove reggere che sopra una ra-gione di feudi sovrani soggetti a maggiore sovranità; laqual ragione ci vien confermata con un luogo di Cicero-ne in una Catilinaria, dove afferma che Tiberio Graccocon la legge agraria guastava lo stato della repubblica, eche con ragione da Publio Scipione Nasica ne fu am-mazzato, per lo diritto dettato nella formola con la qualil consolo armava il popolo contro gli autori di cotal leg-ge: «Qui rempublicam salvam velit consulem sequatur».

XLIV

[Guerra di Taranto, ove s’incomincian a conoscer tra loro i latinico’ greci. – Anni del mondo, 3708, di Roma 489]

La cui cagione fu ch’i tarantini maltrattarono le naviromane ch’approdavano al loro lido e gli ambasciadorialtresì, perché, per dirla con Floro, essi si scusavano che«qui essent aut unde venirent ignorabant». Tanto tra lo-ro, quantunque dentro brievi continenti, si conoscevanoi primi popoli!

XLV

[Guerra cartaginese seconda, da cui comincia la storia certa ro-mana a Livio, il qual pur professa non saperne tre massime circo-stanze. – Anni del mondo 3849, di Roma 552]

Della qual guerra pur Livio – il quale si era professatodalla seconda guerra cartaginese scrivere la storia roma-

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na con alquanto più di certezza, promettendo di scrivereuna guerra la più memorabile di quante mai si fecero da’romani, e, ’n conseguenza di cotanta incomparabil gran-dezza, ne debbono, come di tutte più romorose, esserpiù certe le memorie che scrive – non ne seppe, ed aper-tamente dice di non sapere, tre gravissime circostanze.La prima, sotto quali consoli, dopo aver espugnato Sa-gunto, avesse Annibale preso dalla Spagna il camminoverso l’Italia. La seconda, per quali Alpi vi giunse, se perle Cozie o l’Appennine. La terza, con quante forze; diche truova negli antichi annali tanto divario, ch’altri ave-vano lasciato scritto seimila cavalieri e ventimila pedoni,altri ventimila di quelli e ottantamila di questi.

[CONCLUSIONE]

Per lo che tutto ragionato in queste Annotazioni, sivede che quanto ci è giunto dell’antiche nazioni gentili,fin a’ tempi diterminati su questa Tavola, egli è tutto in-certissimo. Onde noi in tutto ciò siamo entrati come incose dette «nullius», delle quali è quella regola di ragio-ne che «occupanti conceduntur», e perciò non crediamod’offendere il diritto di niuno se ne ragioneremo spessodiversamente ed alle volte tutto il contrario all’oppenio-ni che finora si hanno avute d’intorno a’ principidell’umanità delle nazioni. E, con far ciò, gli ridurremoa princìpi di scienza, per gli quali ai fatti della storia cer-ta si rendano le loro primiere origini, sulle quali regganoe per le quali tra essoloro convengano; i quali finora nonsembrano aver alcun fondamento comune né alcunaperpetuità di séguito né alcuna coerenza tra lor medesi-mi.

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IIDEGLI ELEMENTI.

Per dar forma adunque alle materie qui innanzi appa-recchiate sulla Tavola cronologica, proponiamo ora qui iseguenti assiomi o degnità così filosofiche come filologi-che, alcune poche, ragionevoli e discrete domande, conalquante schiarite diffinizioni; le quali, come per lo cor-po animato il sangue, così deono per entro scorrervi edanimarla in tutto ciò che questa Scienza ragiona dellacomune natura delle nazioni.

I

L’uomo, per l’indiffinita natura della mente umana,ove questa si rovesci nell’ignoranza, egli fa sé regoladell’universo.

Questa degnità è la cagione di que’ due comuni co-stumi umani: uno che «fama crescit eundo», l’altro che«minuit præsentia famam», la qual, avendo fatto uncammino lunghissimo quanto è dal principio del mon-do, è stata la sorgiva perenne di tutte le magnifiche op-penioni che si sono finor avute delle sconosciute da noilontanissime antichità, per tal proprietà della menteumana avvertita da Tacito nella Vita d’Agricola con quelmotto: «Omne ignotum pro magnifico est».

II

È altra propietà della mente umana ch’ove gli uominidelle cose lontane e non conosciute non possono fareniuna idea, le stimano dalle cose loro conosciute e pre-senti.

Questa degnità addita il fonte inesausto di tutti gli er-rori presi dall’intiere nazioni e da tutt’i dotti d’intorno a’

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princìpi dell’umanità; perocché da’ loro tempi illumina-ti, colti e magnifici, ne’ quali cominciarono quelle ad av-vertirle, questi a ragionarle, hanno estimato l’originidell’umanità, le quali dovettero per natura essere piccio-le, rozze, oscurissime.

A questo genere sono da richiamarsi due spezie di bo-rie che si sono sopra accennate: una delle nazioni un’al-tra de’ dotti.

III

Della boria delle nazioni udimmo quell’aureo detto diDiodoro sicolo: che le nazioni, o greche o barbare, ab-biano avuto tal boria: d’aver esse prima di tutte l’altre ri-truovati i comodi della vita umana e conservar le memo-rie delle loro cose fin dal principio del mondo.

Questa degnità dilegua ad un fiato la vanagloria de’caldei, sciti, egizi, chinesi, d’aver essi i primi fondatol’umanità dell’antico mondo. Ma Flavio Giuseffo ebreone purga la sua nazione, con quella confessione magna-nima ch’abbiamo sopra udito: che gli ebrei avevano vi-vuto nascosti a tutti i gentili; e la sagra storia ci accertal’età del mondo essere quasi giovine a petto della vec-chiezza che ne credettero i caldei, gli sciti, gli egizi e final dì d’oggi i chinesi. Lo che è una gran pruova della ve-rità della storia sagra.

IV

A tal boria di nazioni s’aggiugne qui la boria de’ dotti,i quali, ciò ch’essi sanno, vogliono che sia antico quantoche ’l mondo.

Questa degnità dilegua tutte le oppinioni de’ dottid’intorno alla sapienza innarrivabile degli antichi; con-vince d’impostura gli oracoli di Zoroaste caldeo, d’Ana-carsi scita, che non ci son pervenuti, il Pimandro di Mer-

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curio Trimegisto, gli orfici (o sieno versi d’Orfeo), ilCarme aureo di Pittagora, come tutti gli più scorti criticivi convengono; e riprende d’importunità tutti i sensi mi-stici dati da’ dotti a’ geroglifici egizi e l’allegorie filosofi-che date alle greche favole.

V

La filosofia, per giovar al gener umano, dee sollevar ereggere l’uomo caduto e debole, non convellergli la na-tura né abbandonarlo nella sua corrozione.

Questa degnità allontana dalla scuola di questa Scien-za gli stoici, i quali vogliono l’ammortimento de’ sensi, egli epicurei, che ne fanno regola, ed entrambi niegano laprovvedenza, quelli faccendosi strascinare dal fato, que-sti abbandonandosi al caso, e i secondi oppinando chemuoiano l’anime umane coi corpi, i quali entrambi sidovrebbero dire «filosofi monastici o solitari». E vi am-mette i filosofi politici, e principalmente i platonici, iquali convengono con tutti i legislatori in questi treprincipali punti: che si dia provvedenza divina, che sidebbano moderare l’umane passioni e farne umanevirtù, e che l’anime umane sien immortali. E, ’n conse-guenza, questa degnità ne darà gli tre princìpi di questaScienza.

VI

La filosofia considera l’uomo quale dev’essere, e sìnon può fruttare ch’a pochissimi, che vogliono viverenella repubblica di Platone, non rovesciarsi nella fecciadi Romolo.

VII

La legislazione considera l’uomo qual è, per farne

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buoni usi nell’umana società; come della ferocia,dell’avarizia, dell’ambizione, che sono gli tre vizi cheportano a travverso tutto il gener umano, ne fa la mili-zia, la mercatanzia e la corte, e sì la fortezza, l’opulenza ela sapienza delle repubbliche; e di questi tre grandi vizi,i quali certamente distruggerebbero l’umana generazio-ne sopra la terra, ne fa la civile felicità.

Questa degnità pruova esservi provvedenza divina eche ella sia una divina mente legislatrice, la quale dellepassioni degli uomini, tutti attenuti alle loro private uti-lità, per le quali viverebbono da fiere bestie dentro le so-litudini, ne ha fatto gli ordini civili per gli quali vivano inumana società.

VIII

Le cose fuori del loro stato naturale né vi si adagianoné vi durano.

Questa degnità sola, poiché ’l gener umano, da che siha memoria del mondo, ha vivuto e vive comportevol-mente in società, ella determina la gran disputa, dellaquale i migliori filosofi e i morali teologi ancora conten-dono con Carneade scettico e con Epicuro (né Groziol’ha pur inchiovata): se vi sia diritto in natura, o sel’umana natura sia socievole, che suonano la medesimacosa.

Questa medesima degnità, congionta con la settima e’l di lei corollario, pruova che l’uomo abbia libero arbi-trio, però debole, di fare delle passioni virtù; ma che daDio è aiutato naturalmente con la divina provvedenza, esoprannaturalmente dalla divina grazia.

IX

Gli uomini che non sanno il vero delle cose proccura-no d’attenersi al certo, perché, non potendo soddisfare

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l’intelletto con la scienza, almeno la volontà riposi sullacoscienza.

X

La filosofia contempla la ragione, onde viene la scien-za del vero; la filologia osserva l’autorità dell’umano ar-bitrio, onde viene la coscienza del certo.

Questa degnità per la seconda parte diffinisce i filolo-gi essere tutti i gramatici, istorici, critici, che son occu-pati d’intorno alla cognizione delle lingue e de’ fatti de’popoli, così in casa, come sono i costumi e le leggi, comefuori, quali sono le guerre, le paci, l’alleanze, i viaggi, icommerzi.

Questa medesima degnità dimostra aver mancato permetà così i filosofi che non accertarono le loro ragionicon l’autorità de’ filologi, come i filologi che non cura-rono d’avverare le loro autorità con la ragion de’ filosofi;lo che se avessero fatto, sarebbero stati più utili alle re-pubbliche e ci avrebbero prevenuto nel meditar questaScienza.

XI

L’umano arbitrio, di sua natura incertissimo, egli siaccerta e determina col senso comune degli uomini d’in-torno alle umane necessità o utilità, che son i due fontidel diritto naturale delle genti.

XII

Il senso comune è un giudizio senz’alcuna riflessione,comunemente sentito da tutto un ordine, da tutto unpopolo, da tutta una nazione o da tutto il gener umano.

Questa degnità con la seguente diffinizione ne daràuna nuova arte critica sopra essi autori delle nazioni,

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tralle quali devono correre assai più di mille anni perprovenirvi gli scrittori, sopra i quali finora si è occupatala critica.

XIII

Idee uniformi nate appo intieri popoli tra essoloronon conosciuti debbon avere un motivo comune di ve-ro.

Questa degnità è un gran principio, che stabilisce ilsenso comune del gener umano esser il criterio insegna-to alle nazioni dalla provvedenza divina per diffinire ilcerto d’intorno al diritto natural delle genti, del quale lenazioni si accertano con intendere l’unità sostanziali dicotal diritto, nelle quali con diverse modificazioni tutteconvengono. Ond’esce il dizionario mentale, da darl’origini a tutte le lingue articolate diverse, col quale staconceputa la storia ideal eterna che ne dia le storie intempo di tutte le nazioni; del qual dizionario e della qualistoria si proporranno appresso le degnità loro propie.

Questa stessa degnità rovescia tutte l’idee che si sonofinor avute d’intorno al diritto natural delle genti, il qua-le si è creduto esser uscito da una prima nazione da cuil’altre l’avessero ricevuto; al qual errore diedero lo scan-dalo gli egizi e i greci, i quali vanamente vantavanod’aver essi disseminata l’umanità per lo mondo: il qualerror certamente dovette far venire la legge delle XIITavole da’ greci a’ romani. Ma, in cotal guisa, egli sareb-be un diritto civile comunicato ad altri popoli per uma-no provvedimento, e non già un diritto con essi costumiumani naturalmente dalla divina provvidenza ordinatoin tutte le nazioni. Questo sarà uno de’ perpetui lavoriche si farà in questi libri: in dimostrare che ’l diritto na-tural delle genti nacque privatamente appo i popoli sen-za sapere nulla gli uni degli altri; e che poi, con l’occa-

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sioni di guerre, ambasciarie, allianze, commerzi, si rico-nobbe comune a tutto il gener umano.

XIV

Natura di cose altro non è che nascimento di esse incerti tempi e con certe guise, le quali sempre che sonotali, indi tali e non altre nascon le cose.

XV

Le propietà inseparabili da’ subbietti devon essereprodutte dalla modificazione o guisa con che le cose sonnate; per lo che esse ci posson avverare tale e non altraessere la natura o nascimento di esse cose.

XVI

Le tradizioni volgari devon avere avuto pubblici mo-tivi di vero, onde nacquero e si conservarono da intieripopoli per lunghi spazi di tempi.

Questo sarà altro grande lavoro di questa Scienza: diritruovarne i motivi del vero, il quale, col volger deglianni e col cangiare delle lingue e costumi, ci pervennericoverto di falso.

XVII

I parlari volgari debbon esser i testimoni più gravi de-gli antichi costumi de’ popoli, che si celebrarono neltempo ch’essi si formaron le lingue.

XVIII

Lingua di nazione antica, che si è conservata regnante

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finché pervenne al suo compimento, dev’esser un grantestimone de’ costumi de’ primi tempi del mondo.

Questa degnità ne assicura che le pruove filologichedel diritto naturale delle genti (del quale, senza contra-sto, sappientissima sopra tutte l’altre del mondo fu la ro-mana) tratte da’ parlari latini sieno gravissime. Per lastessa ragione potranno far il medesimo i dotti della lin-gua tedesca, che ritiene questa stessa propietà della lin-gua romana antica.

XIX

Se la legge delle XII Tavole furono costumi delle gen-ti del Lazio, incominciativisi a celebrare fin dall’età diSaturno, altrove sempre andanti e da’ romani fissi nelbronzo e religiosamente custoditi dalla romana giuri-sprudenza, ella è un gran testimone dell’antico dirittonaturale delle genti del Lazio.

Ciò si è da noi dimostro esser vero di fatto, da benmolti anni fa, ne’ Princìpi del Diritto universale; lo chepiù illuminato si vedrà in questi libri.

XX

Se i poemi d’Omero sono storie civili degli antichi co-stumi greci, saranno due grandi tesori del diritto natura-le delle genti di Grecia.

Questa degnità ora qui si suppone: dentro sarà dimo-strata di fatto.

XXI

I greci filosofi affrettarono il natural corso che far do-veva la loro nazione, col provenirvi essendo ancor crudala lor barbarie, onde passarono immediatamente ad unasomma dilicatezza, e nello stesso tempo serbaronv’intie-

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re le loro storie favolose così divine com’eroiche; ove iromani, i quali ne’ lor costumi caminarono con giustopasso, affatto perderono di veduta la loro storia deglidèi (onde l’«età degli dèi», che gli egizi dicevano, Varro-ne chiama «tempo oscuro» d’essi romani), e conservaro-no con favella volgare la storia eroica che si stende daRomolo fino alle leggi Publilia e Petelia, che si truoveràuna perpetua mitologia storica dell’età degli eroi di Gre-cia.

Questa natura di cose umane civili ci si conferma nel-la nazione francese, nella quale perché di mezzo allabarbarie del mille e cento s’aprì la famosa scuola parigi-na, dove il celebre maestro delle sentenze Piero Lom-bardo si diede ad insegnare di sottilissima teologia scola-stica, vi restò come un poema omerico la storia diTurpino vescovo di Parigi, piena di tutte le favole deglieroi di Francia che si dissero «i paladini», delle qualis’empieron appresso tanti romanzi e poemi. E, per talimmaturo passaggio dalla barbarie alle scienze più sotti-li, la francese restonne una lingua dilicatissima, talché,di tutte le viventi, sembra avere restituito a’ nostri tempil’atticismo de’ greci e più ch’ogni altra è buona a ragio-nar delle scienze, come la greca; e come a’ greci così a’francesi restarono tanti dittonghi, che sono propi di lin-gua barbara, dura ancor e difficile a comporre le conso-nanti con le vocali. In confermazione di ciò ch’abbiamodetto di tutte e due queste lingue, aggiugniamo l’osser-vazione che tuttavia si può fare ne’ giovani, i quali,nell’età nella qual è robusta la memoria, vivida la fanta-sia e focoso l’ingegno – ch’eserciterebbero con fruttocon lo studio delle lingue e della geometria lineare, sen-za domare con tali esercizi cotal acerbezza di menti con-tratta dal corpo, che si potrebbe dire la barbarie degl’in-telletti, – passando ancor crudi agli studi troppoassottigliati di critica metafisica e d’algebra, divengono

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per tutta la vita affilatissimi nella loro maniera di pensa-re e si rendono inabili ad ogni grande lavoro.

Ma, col più meditare quest’opera, ritruovammo altracagione di tal effetto, la qual forse è più propia: che Ro-molo fondò Roma in mezzo ad altre più antiche città delLazio, e fondolla con aprirvi l’asilo, che Livio diffiniscegeneralmente «vetus urbes condentium consilium», per-ché, durando ancora le violenze, egli naturalmente or-dinò la romana sulla pianta sulla quale si erano fondatele prime città del mondo. Laonde, da tali stessi princìpiprogredendo i romani costumi, in tempi che le linguevolgari del Lazio avevano fatto di molti avvanzi, dovetteavvenire che le cose civili romane, le qual’i popoli greciavevano spiegato con lingua eroica, essi spiegarono conlingua volgare; onde la storia romana antica si truoveràessere una perpetua mitologia della storia eroica de’ gre-ci. E questa dev’essere la cagione perché i romani furo-no gli eroi del mondo: perocché Roma manomise l’altrecittà del Lazio, quindi l’Italia e per ultimo il mondo, es-sendo tra’ romani giovine l’eroismo; mentre tra gli altripopoli del Lazio, da’ quali, vinti, provenne tutta la ro-mana grandezza, aveva dovuto incominciar a invecchiar-si.

XXII

È necessario che vi sia nella natura delle cose umaneuna lingua mentale comune a tutte le nazioni, la qualeuniformemente intenda la sostanza delle cose agibilinell’umana vita socievole, e la spieghi con tante diversemodificazioni per quanti diversi aspetti possan aver essecose; siccome lo sperimentiamo vero ne’ proverbi, chesono massime di sapienza volgare, l’istesse in sostanzaintese da tutte le nazioni antiche e moderne, quante elle-no sono, per tanti diversi aspetti significate.

Questa lingua è propia di questa Scienza, col lume

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della quale se i dotti delle lingue v’attenderanno, po-tranno formar un vocabolario mentale comune a tutte lelingue articolate diverse, morte e viventi, di cui abbiamodato un saggio particolare nella Scienza nuova la primavolta stampata, ove abbiamo provato i nomi de’ primipadri di famiglia, in un gran numero di lingue morte eviventi, dati loro per le diverse propietà ch’ebbero nellostato delle famiglie e delle prime repubbliche, nel qualtempo le nazioni si formaron le lingue. Del qual vocabo-lario noi, per quanto ci permette la nostra scarsa erudi-zione, facciamo qui uso in tutte le cose che ragioniamo.

Di tutte l’anzidette proposizioni, la prima, seconda,terza e quarta ne danno i fondamenti delle confutazionidi tutto ciò che si è finor oppinato d’intorno a’ princìpidell’umanità, le quali si prendono dalle inverisimiglian-ze, assurdi, contradizioni, impossibilità di cotali oppe-nioni. Le seguenti, dalla quinta fin alla decimaquinta, lequali ne danno i fondamenti del vero, serviranno a me-ditare questo mondo di nazioni nella sua idea eterna,per quella propietà di ciascuna scienza, avvertita da Ari-stotile, che «scientia debet esse de universalibus et æter-nis». L’ultime, dalla decimaquinta fin alla ventesimase-conda, le quali ne daranno i fondamenti del certo, siadopreranno a veder in fatti questo mondo di nazioniquale l’abbiamo meditato in idea, giusta il metodo di fi-losofare più accertato di Francesco Bacone signor di Ve-rulamio, dalle naturali, sulle quali esso lavorò il libro Co-gitata visa, trasportato all’umane cose civili.

Le proposizioni finora proposte sono generali e stabi-liscono questa Scienza per tutto; le seguenti sono parti-colari, che la stabiliscono partitamente nelle diverse ma-terie che tratta.

XXIII

La storia sagra è più antica di tutte le più antiche pro-

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fane che ci son pervenute, perché narra tanto spiegata-mente e per lungo tratto di più di ottocento anni lo statodi natura sotto de’ patriarchi, o sia lo stato delle fami-glie, sopra le quali tutti i politici convengono che poisursero i popoli e le città; del quale stato la storia profa-na ce ne ha o nulla o poco e assai confusamente narrato.

Questa degnità pruova la verità della storia sagra con-tro la boria delle nazioni che sopra ci ha detto Diodorosicolo, perocché gli ebrei han conservato tanto spiegata-mente le loro memorie fin dal principio del mondo.

XXIV

La religion ebraica fu fondata dal vero Dio sul divietodella divinazione, sulla quale sursero tutte le nazionigentili.

Questa degnità è una delle principali cagioni per lequali tutto il mondo delle nazioni antiche si divise traebrei e genti.

XXV

Il diluvio universale si dimostra non già per le pruovefilologiche di Martino Scoockio, le quali sono troppoleggieri; né per l’astrologiche di Piero cardinale d’Alliac,seguìto da Giampico della Mirandola, le quali sonotroppo incerte, anzi false, rigredendo sopra le Tavolealfonsine, confutate dagli ebrei ed ora da’ cristiani, iquali, disappruovato il calcolo d’Eusebio e di Beda, sie-guon oggi quello di Filone giudeo: ma si dimostra conistorie fisiche osservate dentro le favole, come nelle de-gnità qui appresso si scorgerà.

XXVI

I giganti furon in natura di vasti corpi, quali in piedi

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dell’America, nel paese detto de los patacones, diconoviaggiatori essersi truovati goffi e fierissimi. E, lasciate levane o sconce o false ragioni che ne hanno arrecato i fi-losofi, raccolte e seguite dal Cassanione, De gigantibus,se n’arrecano le cagioni, parte fisiche e parte morali, os-servate da Giulio Cesare e da Cornelio Tacito ove narra-no della gigantesca statura degli antichi germani; e, danoi considerate, si compongono sulla ferina educazionde’ fanciulli.

XXVII

La storia greca, dalla qual abbiamo tutto ciò ch’ab-biamo (dalla romana in fuori) di tutte l’altre antichitàgentilesche, ella dal diluvio e da’ giganti prende i princì-pi.

Queste due degnità mettono in comparsa tutto il pri-mo gener umano diviso in due spezie: una di giganti, al-tra d’uomini di giusta corporatura; quelli gentili, questiebrei (la qual differenza non può essere nata altrondeche dalla ferina educazione di quelli e dall’umana diquesti); e, ’n conseguenza, che gli ebrei ebbero altra ori-gine da quella c’hanno avuto tutti i gentili.

XXVIII

Ci sono pur giunti due gran rottami dell’egiziache an-tichità, che si sono sopra osservati. De’ quali uno è chegli egizi riducevano tutto il tempo del mondo scorso lo-ro dinanzi a tre età, che furono: età degli dèi, età deglieroi ed età degli uomini. L’altro, che per tutte queste treetà si fussero parlate tre lingue, nell’ordine corrispon-denti a dette tre età, che furono: la lingua geroglifica ov-vero sagra, la lingua simbolica o per somiglianze, qual èl’eroica, e la pistolare o sia volgare degli uomini, per se-

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gni convenuti da comunicare le volgari bisogne della lorvita.

XXIX

Omero, in cinque luoghi di tutti e due i suoi poemiche si rapporteranno dentro, mentova una lingua piùantica della sua, che certamente fu lingua eroica, e lachiama «lingua degli dèi».

XXX

Varrone ebbe la diligenza di raccogliere trentamilanomi di dèi (ché tanti pure ne noverano i greci), i qualinomi si rapportavano ad altrettante bisogne della vita onaturale o morale o iconomica o finalmente civile de’primi tempi.

Queste tre degnità stabiliscono che ’l mondo de’ po-poli dappertutto cominciò dalle religioni: che sarà il pri-mo degli tre princìpi di questa Scienza.

XXXI

Ove i popoli son infieriti con le armi, talché non viabbiano più luogo l’umane leggi, l’unico potente mezzodi ridurgli è la religione.

Questa degnità stabilisce che nello stato eslege laprovvedenza divina diede principio a’ fieri e violenti dicondursi all’umanità ed ordinarvi le nazioni, con risve-gliar in essi un’idea confusa della divinità, ch’essi per lalor ignoranza attribuirono a cui ella non conveniva; e co-sì, con lo spavento di tal immaginata divinità, si comin-ciarono a rimettere in qualche ordine.

Tal principio di cose, tra i suoi «fieri e violenti», nonseppe vedere Tommaso Obbes, perché ne andò a truo-var i princìpi errando col «caso» del suo Epicuro; onde,

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con quanto magnanimo sforzo, con altrettanto infeliceevento, credette d’accrescere la greca filosofia di questagran parte, della quale certamente aveva mancato (comeriferisce Giorgio Paschio, De eruditis huius sæculi inven-tis), di considerar l’uomo in tutta la società del generumano. Né Obbes l’arebbe altrimente pensato, se nongliene avesse dato il motivo la cristiana religione, la qua-le inverso tutto il gener umano, nonché la giustizia, co-manda la carità. E quindi incomincia a confutarsi Poli-bio di quel falso suo detto: che, se fussero al mondofilosofi, non farebber uopo religioni; ché, se non fusseroal mondo repubbliche, le quali non posson esser natesenza religioni, non sarebbero al mondo filosofi.

XXXII

Gli uomini ignoranti delle naturali cagioni che produ-con le cose, ove non le possono spiegare nemmeno percose simili, essi danno alle cose la loro propia natura, co-me il volgo, per esemplo, dice la calamita esser innamo-rata del ferro.

Questa degnità è una particella della prima: che lamente umana, per la sua indiffinita natura, ove si rovescinell’ignoranza, essa fa sé regola dell’universo d’intorno atutto quello che ignora.

XXXIII

La fisica degl’ignoranti è una volgar metafisica, con laquale rendono le cagioni delle cose ch’ignorano alla vo-lontà di Dio, senza considerare i mezzi de’ quali la vo-lontà divina si serve.

XXXIV

Vera propietà di natura umana è quella avvertita da

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Tacito, ove disse «mobiles ad superstitionem perculsæ se-mel mentes»: ch’una volta che gli uomini sono sorpresida una spaventosa superstizione, a quella richiamanotutto ciò ch’essi immaginano, vedono ed anche fanno.

XXXV

La maraviglia è figliuola dell’ignoranza; e quanto l’ef-fetto ammirato è più grande, tanto più a proporzionecresce la maraviglia.

XXXVI

La fantasia tanto è più robusta quanto è più debole ilraziocinio.

XXXVII

Il più sublime lavoro della poesia è alle cose insensatedare senso e passione, ed è propietà de’ fanciulli diprender cose inanimate tra mani e, trastullandosi, favel-larvi come se fussero, quelle, persone vive.

Questa degnità filologico-filosofica ne appruova chegli uomini del mondo fanciullo, per natura, furono su-blimi poeti.

XXXVIII

È un luogo d’oro di Lattanzio Firmiano quello ove ra-giona dell’origini dell’idolatria, dicendo: «Rudes initiohomines deos appellarunt sive ob miraculum virtutis (hocvere putabant rudes adhuc et simplices); sive, ut fieri so-let, in admirationem præsentis potentiæ; sive ob benefi-cia, quibus erant ad humanitatem compositi».

XXXIX

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La curiosità, propietà connaturale dell’uomo, figliuo-la dell’ignoranza, che partorisce la scienza, all’aprire chefa della nostra mente la maraviglia, porta questo costu-me: ch’ove osserva straordinario effetto in natura, comecometa, parelio o stella di mezzodì, subito domanda chetal cosa voglia dire o significare.

XL

Le streghe, nel tempo stesso che sono ricolme di spa-ventose superstizioni, sono sommamente fiere ed imma-ni; talché, se bisogna per solennizzare le loro stregone-rie, esse uccidono spietatamente e fanno in braniamabilissimi innocenti bambini.

Tutte queste proposizioni, dalla ventesimottava inco-minciando fin alla trentesimottava, ne scuoprono iprincìpi della poesia divina o sia della teologia poetica;dalla trentesimaprima, ne danno i princìpi dell’idolatria;dalla trentesimanona, i princìpi della divinazione; e laquarantesima finalmente ne dà con sanguinose religionii princìpi de’ sagrifizi, che da’ primi crudi fierissimi uo-mini incominciarono con voti e vittime umane. Le quali,come si ha da Plauto, restarono a’ latini volgarmentedette «Saturni hostiæ», e furono i sagrifizi di Moloc ap-presso i fenici, i quali passavano per mezzo alle fiamme ibambini consegrati a quella falsa divinità; delle qualiconsegrazioni si serbarono alquante nella legge delle XIITavole. Le quali cose, come danno il diritto senso a quelmotto:

Primos in orbe deos fecit timor

– che le false religioni non nacquero da imposturad’altrui, ma da propia credulità; – così l’infelice voto esagrifizio che fece Agamennone della pia figliuola Ifige-nia, a cui empiamente Lucrezio acclama:

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Tantum relligio potuit suadere malorum!,

rivolgono in consiglio della provvedenza. Ché tanto vivoleva per addimesticare i figliuoli de’ polifemi e ridur-gli all’umanità degli Aristidi e de’ Socrati, de’ Leli e de-gli Scipioni affricani.

XLI

Si domanda, e la domanda è discreta, che per più cen-tinaia d’anni la terra, insoppata dall’umidore dell’uni-versale diluvio, non abbia mandato esalazioni secche, osieno materie ignite, in aria, a ingenerarvisi i fulmini.

XLII

Giove fulmina ed atterra i giganti, ed ogni nazionegentile n’ebbe uno.

Questa degnità contiene la storia fisica che ci hanconservato le favole: che fu il diluvio universale sopratutta la terra.

Questa stessa degnità, con l’antecedente postulato, nedee determinare che dentro tal lunghissimo corso d’annile razze empie degli tre figliuoli di Noè fussero andate inuno stato ferino, e con un ferino divagamento si fusserosparse e disperse per la gran selva della terra, e conl’educazione ferina vi fussero provenuti e ritruovati gi-ganti nel tempo che la prima volta fulminò il cielo dopoil diluvio.

XLIII

Ogni nazione gentile ebbe un suo Ercole, il quale fufigliuolo di Giove; e Varrone, dottissimo dell’antichità,ne giunse a noverare quaranta.

Questa degnità è ’l principio dell’eroismo de’ primi

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popoli, nato da una falsa oppenione: gli eroi provenir dadivina origine.

Questa stessa degnità con l’antecedente, che ne dan-no prima tanti Giovi, dappoi tanti Ercole tralle nazionigentili – oltreché ne dimostrano che non si poteronofondare senza religione né ingrandire senza virtù, essen-dono elle ne’ lor incominciamenti selvagge e chiuse, eperciò non sappiendo nulla l’una dell’altra, per la de-gnità che «idee uniformi, nate tra popoli sconosciuti,debbon aver un motivo comune di vero», – ne danno dipiù questo gran principio: che le prime favole dovetterocontenere verità civili, e perciò essere state le storie de’primi popoli.

XLIV

I primi sappienti del mondo greco furon i poeti teolo-gi, i quali senza dubbio fioriron innanzi agli eroici, sic-come Giove fu padre d’Ercole.

Questa degnità con le altre due antecedenti stabili-scono che tutte le nazioni gentili, poiché tutte ebbero iloro Giovi, i lor Ercoli, furono ne’ loro incominciamentipoetiche; e che prima tra loro nacque la poesia divina:dopo, l’eroica.

XLV

Gli uomini sono naturalmente portati a conservar lememorie delle leggi e degli ordini che gli tengono den-tro la loro società.

XLVI

Tutte le storie barbare hanno favolosi princìpi.Tutte queste degnità, dalla quarantesimaseconda, ne

danno il principio della nostra mitologia istorica.

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XLVII

La mente umana è naturalmente portata a dilettarsidell’uniforme.

Questa degnità, a proposito delle favole, si confermadal costume c’ha il volgo, il quale degli uomini nell’unao nell’altra parte famosi, posti in tali o tali circostanze,per ciò che loro in tale stato conviene, ne finge acconcefavole. Le quali sono verità d’idea in conformità del me-rito di coloro de’ quali il volgo le finge; e in tanto sonofalse talor in fatti, in quanto al merito di quelli non siadato ciò di che essi son degni. Talché, se bene vi si riflet-ta, il vero poetico è un vero metafisico, a petto del qualeil vero fisico, che non vi si conforma, dee tenersi a luogodi falso. Dallo che esce questa importante considerazio-ne in ragion poetica: che ’l vero capitano di guerra, peresemplo, è ’l Goffredo che finge Torquato Tasso; e tuttii capitani che non si conformano in tutto e per tutto aGoffredo, essi non sono veri capitani di guerra.

XLVIII

È natura de’ fanciulli che con l’idee e nomi degli uo-mini, femmine, cose che la prima volta hanno conosciu-to, da esse e con essi dappoi apprendono e nominanotutti gli uomini, femmine, cose c’hanno con le prime al-cuna somiglianza o rapporto.

XLIX

È un luogo d’oro quel di Giamblico, De mysteriisægyptiorum, sopra arrecato, che gli egizi tutti i ritruovatiutili o necessari alla vita umana richiamavano a Mercu-rio Trimegisto.

Cotal detto, assistito dalla degnità precedente, rove-scerà a questo divino filosofo tutti i sensi di sublime teo-

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logia naturale ch’esso stesso ha dato a’ misteri degli egi-zi.

E queste tre degnità ne danno il principio de’ caratte-ri poetici, i quali costituiscono l’essenza delle favole. E laprima dimostra la natural inchinazione del volgo di fin-gerle, e fingerle con decoro. La seconda dimostra ch’iprimi uomini, come fanciulli del gener umano, non es-sendo capaci di formar i generi intelligibili delle cose,ebbero naturale necessità di fingersi i caratteri poetici,che sono generi o universali fantastici, da ridurvi come acerti modelli, o pure ritratti ideali, tutte le spezie parti-colari a ciascun suo genere simiglianti; per la qual simi-glianza, le antiche favole non potevano fingersi che condecoro. Appunto come gli egizi tutti i loro ritruovati uti-li o necessari al gener umano, che sono particolari effettidi sapienza civile, riducevano al genere del «sappientecivile», da essi fantasticato Mercurio Trimegisto, perchénon sapevano astrarre il gener intelligibile di «sappientecivile», e molto meno la forma di civile sapienza dellaquale furono sappienti cotal’egizi. Tanto gli egizi, neltempo ch’arricchivan il mondo de’ ritruovati o necessario utili al gener umano, furon essi filosofi e s’intendevanodi universali, o sia di generi intelligibili!

E quest’ultima degnità, in séguito dell’antecedenti, è’l principio delle vere allegorie poetiche, che alle favoledavano significati univoci, non analogi, di diversi parti-colari compresi sotto i loro generi poetici: le quali perciòsi dissero «diversiloquia», cioè parlari comprendenti inun general concetto diverse spezie di uomini o fatti o co-se.

L

Ne’ fanciulli è vigorosissima la memoria; quindi vivi-da all’eccesso la fantasia, ch’altro non è che memoria odilatata o composta.

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Questa degnità è ’l principio dell’evidenza dell’imma-gini poetiche che dovette formare il primo mondo fan-ciullo.

LI

In ogni facultà uomini, i quali non vi hanno la natura,vi riescono con ostinato studio dell’arte; ma in poesia èaffatto niegato di riuscire con l’arte chiunque non vi hala natura.

Questa degnità dimostra che, poiché la poesia fondòl’umanità gentilesca, dalla quale e non altronde dovetteruscire tutte le arti, i primi poeti furono per natura.

LII

I fanciulli vagliono potentemente nell’imitare, perchéosserviamo per lo più trastullarsi in assembrare ciò cheson capaci d’apprendere.

Questa degnità dimostra che ’l mondo fanciullo fu dinazioni poetiche, non essendo altro la poesia che imita-zione.

E questa degnità daranne il principio di ciò: che tuttel’arti del necessario, utile, comodo e ’n buona parte ancodell’umano piacere si ritruovarono ne’ secoli poetici in-nanzi di venir i filosofi, perché l’arti non sono altroch’imitazioni della natura e poesie in un certo modo rea-li.

LIII

Gli uomini prima sentono senz’avvertire, dappoi av-vertiscono con animo perturbato e commosso, final-mente riflettono con mente pura.

Questa degnità è ’l principio delle sentenze poetiche,che sono formate con sensi di passioni e d’affetti, a dif-

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ferenza delle sentenze filosofiche, che si formano dallariflessione con raziocinî: onde queste più s’appressanoal vero quanto più s’innalzano agli universali, e quellesono più certe quanto più s’appropriano a’ particolari.

LIV

Gli uomini le cose dubbie ovvero oscure, che lor ap-partengono, naturalmente interpetrano secondo le loronature e quindi uscite passioni e costumi.

Questa degnità è un gran canone della nostra mitolo-gia, per lo quale le favole, trovate da’ primi uomini sel-vaggi e crudi tutte severe, convenevolmente alla fonda-zione delle nazioni che venivano dalla feroce libertàbestiale, poi, col lungo volger degli anni e cangiar de’costumi, furon impropiate, alterate, oscurate ne’ tempidissoluti e corrotti anco innanzi d’Omero. Perché agliuomini greci importava la religione, temendo di nonavere gli dèi così contrari a’ loro voti come contrari erana’ loro costumi, attaccarono i loro costumi agli dèi, ediedero sconci, laidi, oscenissimi sensi alle favole.

LV

È un aureo luogo quello d’Eusebio (dal suo particola-re della sapienza degli egizi innalzato a quella di tutti glialtri gentili) ove dice: «Primam ægyptiorum theologiammere historiam fuisse fabulis interpolatam; quarum quumpostea puderet posteros, sensim coeperunt mysticos iis si-gnificatus affingere». Come fece Maneto, o sia Maneto-ne, sommo pontefice egizio, che trasportò tutta la storiaegiziaca ad una sublime teologia naturale, come pur so-pra si è detto.

Queste due degnità sono due grandi pruove della no-stra mitologia istorica, e sono insiememente due granditurbini per confondere l’oppenioni della sapienza innar-

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rivabile degli antichi, come due grandi fondamenti dellaverità della religion cristiana, la quale nella sagra storianon ha ella narrazioni da vergognarsene.

LVI

I primi autori tra gli orientali, egizi, greci e latini e,nella barbarie ricorsa, i primi scrittori nelle nuove lingued’Europa si truovano essere stati poeti.

LVII

I mutoli si spiegano per atti o corpi c’hanno naturalirapporti all’idee ch’essi vogliono significare.

Questa degnità è ’l principio del parlar naturale, checongetturò Platone nel Cratilo, e, dopo di lui, Giambli-co, De mysteriis ægyptiorum, essersi una volta parlatonel mondo. Co’ quali sono gli stoici ed Origene, ContraCelso; e, perché ’l dissero indovinando, ebbero contrariAristotile nella Perì ermeneia e Galeno, De decretis Hip-pocratis et Platonis: della qual disputa ragiona PublioNigidio appresso Aulo Gellio. Alla qual favella naturaledovette succedere la locuzion poetica per immagini, so-miglianze, comparazioni e naturali propietà.

LVIII

I mutoli mandan fuori i suoni informi cantando, e gliscilinguati pur cantando spediscono la lingua a pronon-ziare.

LIX

Gli uomini sfogano le grandi passioni dando nel can-

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to, come si sperimenta ne’ sommamente addolorati e al-legri.

Queste due degnità supposte [danno a congettura-re]che gli autori delle nazioni gentili [poich’]eran an-dat’in uno stato ferino di bestie mute; e che, perquest’istesso balordi, non si fussero risentiti ch’a spintedi violentissime passioni – dovettero formare le primeloro lingue cantando.

LX

Le lingue debbon aver incominciato da voci monosil-labe; come, nella presente copia di parlari articolati ne’quali nascon ora, i fanciulli, quantunque abbiano mollis-sime le fibbre dell’istrumento necessario ad articolare lafavella, da tali voci incominciano.

LXI

Il verso eroico è lo più antico di tutti e lo spondaico ilpiù tardo, e dentro si truoverà il verso eroico esser natospondaico.

LXII

Il verso giambico è ’l più somigliante alla prosa, e ’lgiambo è «piede presto», come vien diffinito da Orazio.

Queste due degnità ultime danno a congetturare cheandarono con pari passi a spedirsi e l’idee e le lingue.

Tutte queste degnità, dalla quarantesimasettima inco-minciando, insieme con le sopra proposte per princìpidi tutte l’altre, compiono tutta la ragion poetica nellesue parti, che sono: la favola, il costume e suo decoro, lasentenza, la locuzione e la di lei evidenza, l’allegoria, ilcanto e per ultimo il verso. E le sette ultime convincon

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altresì che fu prima il parlar in verso e poi il parlar inprosa appo tutte le nazioni.

LXIII

La mente umana è inchinata naturalmente co’ sensi avedersi fuori nel corpo, e con molta difficultà per mezzodella riflessione ad intendere se medesima.

Questa degnità ne dà l’universal principio d’etimolo-gia in tutte le lingue, nelle qual’i vocaboli sono traspor-tati da’ corpi e dalle propietà de’ corpi a significare lecose della mente e dell’animo.

LXIV

L’ordine dell’idee dee procedere secondo l’ordinedelle cose.

LXV

L’ordine delle cose umane procedette: che prima fu-rono le selve, dopo i tuguri, quindi i villaggi, appresso lecittà, finalmente l’accademie.

Questa degnità è un gran principio d’etimologia: chesecondo questa serie di cose umane si debbano narrarele storie delle voci delle lingue natie, come osserviamonella lingua latina quasi tutto il corpo delle sue voci averorigini selvagge e contadinesche. Come, per cagiond’esemplo, «lex», che dapprima dovett’essere «raccoltadi ghiande», da cui crediamo detta «ilex», quasi «illex»,l’elce (come certamente «aquilex» è ’l raccoglitoredell’acque), perché l’elce produce la ghianda, alla quales’uniscono i porci. Dappoi «lex» fu «raccolta di legu-mi», dalla quale questi furon detti «legumina». Appres-so, nel tempo che le lettere volgari non si eran ancortruovate con le quali fussero scritte le leggi, per neces-

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sità di natura civile «lex» dovett’essere «raccolta di citta-dini», o sia il pubblico parlamento; onde la presenza delpopolo era la legge che solennizzava i testamenti che sifacevano «calatis comitiis». Finalmente il raccoglier let-tere e farne com’un fascio in ciascuna parola fu detto«legere».

LXVI

Gli uomini prima sentono il necessario, dipoi badanoall’utile, appresso avvertiscono il comodo, più innanzi sidilettano del piacere, quindi si dissolvono nel lusso, e fi-nalmente impazzano in istrappazzar le sostanze.

LXVII

La natura de’ popoli prima è cruda, dipoi severa,quindi benigna, appresso dilicata, finalmente dissoluta.

LXVIII

Nel gener umano prima surgono immani e goffi,qual’i Polifemi; poi magnanimi ed orgogliosi, quali gliAchilli; quindi valorosi e giusti, quali gli Aristidi, gli Sci-pioni affricani; più a noi gli appariscenti con grand’im-magini di virtù che s’accompagnano con grandi vizi,ch’appo il volgo fanno strepito di vera gloria, quali gliAlessandri e i Cesari; più oltre i tristi riflessivi, qual’i Ti-beri; finalmente i furiosi dissoluti e sfacciati, qual’i Cali-goli, i Neroni, i Domiziani.

Questa degnità dimostra che i primi abbisognaronoper ubbidire l’uomo all’uomo nello stato delle famiglie,e disporlo ad ubbidir alle leggi nello stato ch’aveva a ve-nire delle città; i secondi, che naturalmente non cedeva-no a’ loro pari, per istabilire sulle famiglie le repubbli-che di forma aristocratica; i terzi per aprirvi la strada alla

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libertà popolare; i quarti per introdurvi le monarchie; iquinti per istabilirle; i sesti per rovesciarle.

E questa con l’antecedenti degnità danno una partede’ princìpi della storia ideal eterna, sulla quale corronoin tempo tutte le nazioni ne’ loro sorgimenti, progressi,stati, decadenze e fini.

LXIX

I governi debbon essere conformi alla natura degliuomini governati.

Questa degnità dimostra che per natura di cose uma-ne civili la scuola pubblica de’ principi è la morale de’popoli.

LXX

Si conceda ciò che non ripugna in natura e qui poitruoverassi vero di fatto: che dallo stato nefario delmondo eslege si ritirarono prima alquanti pochi più ro-busti, che fondarono le famiglie, con le quali e per lequali ridussero i campi a coltura; e gli altri molti lungaetà dopo se ne ritirarono, rifuggendo alle terre colte diquesti padri.

LXXI

I natii costumi, e sopra tutto quello della natural li-bertà, non si cangiano tutti ad un tratto, ma per gradi econ lungo tempo.

LXXII

Posto che le nazioni tutte cominciarono da un cultodi una qualche divinità, i padri nello stato delle famigliedovetter esser i sappienti in divinità d’auspìci, i sacerdo-

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ti che sagrificavano per proccurargli o sia ben intender-gli, e gli re che portavano le divine leggi alle loro fami-glie.

LXXIII

È volgar tradizione che i primi i quali governarono ilmondo furono re.

LXXIV

È altra volgar tradizione ch’i primi re si criavano pernatura i più degni.

LXXV

È volgar tradizione ancora ch’i primi re furono sap-pienti, onde Platone con vano voto disiderava questi an-tichissimi tempi ne’ quali o i filosofi regnavano o filoso-favano i re.

Tutte queste degnità dimostrano che nelle personede’ primi padri andarono uniti sapienza, sacerdozio e re-gno, e ’l regno e ’l sacerdozio erano dipendenze della sa-pienza, non già riposta di filosofi, ma volgare di legisla-tori. E perciò, dappoi, in tutte le nazioni i sacerdotiandarono coronati.

LXXVI

È volgar tradizione che la prima forma di governo almondo fusse ella stata monarchica.

LXXVII

Ma la degnità sessantesimasettima con l’altre seguen-ti, e ’n particolare col corollario della sessantesimanona,

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ne danno che i padri nello stato delle famiglie dovetteroesercitare un imperio monarchico, solamente soggetto aDio, così nelle persone come negli acquisti de’ lor fi-gliuoli e molto più de’ famoli che si erano rifuggiti alleloro terre, e sì che essi furono i primi monarchi del mon-do de’ quali la storia sagra hassi da intendere ove gli ap-pella «patriarchi», cioè «padri principi». Il qual dirittomonarchico fu loro serbato dalla legge delle XII Tavoleper tutti i tempi della romana repubblica: «Patrifamiliasius vitæ et necis in liberos esto»; di che è conseguenza:«Quicquid filius acquirit, patri acquirit».

LXXVIII

Le famiglie non posson essere state dette, con pro-pietà d’origine, altronde che da questi famoli de’ padrinello stato allor di natura.

LXXIX

I primi soci, che propiamente sono compagni per finedi comunicare tra loro l’utilità, non posson al mondoimmaginarsi né intendersi innanzi di questi rifuggiti peraver salva la vita da’ primi padri anzidetti e, ricevuti perla lor vita, obbligati a sostentarla con coltivare i campi ditali padri.

Tali si truovano i veri soci degli eroi, che poi furono iplebei dell’eroiche città, e finalmente le provincie de’popoli principi.

LXXX

Gli uomini vengono naturalmente alla ragione de’ be-nefizi, ove scorgano o ritenerne o ritrarne buona e granparte d’utilità, che son i benefizi che si possono sperarenella vita civile.

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LXXXI

È propietà de’ forti gli acquisti fatti con virtù non ril-lasciare per infingardaggine, ma, o per necessità o perutilità, rimetterne a poco a poco e quanto meno essipossono.

Da queste due degnità sgorgano le sorgive perennide’ feudi, i quali con romana eleganza si dicono «benefi-cia».

LXXXII

Tutte le nazioni antiche si truovano sparse di clienti edi clientele, che non si possono più acconciamente in-tendere che per vassalli e per feudi, né da’ feudisti eru-diti si truovano più acconce voci romane per ispiegarsiche «clientes» e «clientelæ».

Queste tre ultime degnità con dodici precedenti, dallasettantesima incominciando, ne scuoprono i princìpidelle repubbliche, nate da una qualche grande necessità(che dentro si determina) a’ padri di famiglia fatta da’famoli, per la quale andarono da se stesse naturalmentea formarsi aristocratiche. Perocché i padri si unirono inordini per resister a’ famoli ammutinati contro essoloro;e, così uniti, per far contenti essi famoli e ridurgli all’ub-bidienza, concedettero loro una spezie di feudi rustici;ed essi si truovaron assoggettiti i loro sovrani imperi fa-migliari (che non si posson intendere che sulla ragionedi feudi nobili) all’imperio sovrano civile de’ lor ordiniregnanti medesimi; e i capi ordini se ne dissero «re», iquali, più animosi, dovettero lor far capo nelle rivoltede’ famoli. Tal origine delle città se fusse data per ipote-si (che dentro si ritruova di fatto), ella, per la sua natura-lezza e semplicità e per l’infinito numero degli effetti ci-vili che sopra, come a lor propia cagione, vi reggono,dee fare necessità di esser ricevuta per vera. Perché in

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altra guisa non si può al mondo intendere come dellepotestà famigliari si formò la potestà civile e de’ patri-moni privati il patrimonio pubblico, e come truovossiapparecchiata la materia alle repubbliche d’un ordine dipochi che vi comandi e della moltitudine de’ plebei laqual v’ubbidisca: che sono le due parti che compiono ilsubbietto della politica. La qual generazione degli Staticivili, con le famiglie sol di figliuoli, si dimostrerà dentroessere stata impossibile.

LXXXIII

Questa legge d’intorno a’ campi si stabilisce la primaagraria del mondo; né per natura si può immaginar o in-tendere un’altra che possa essere più ristretta.

Questa legge agraria distinse gli tre domìni, che pos-son esser di natura civile, appo tre spezie di persone: ilbonitario, appo i plebei; il quiritario, conservato conl’armi e, ’n conseguenza, nobile, appo i padri; e l’emi-nente, appo esso ordine, ch’è la Signoria, o sia la sovranapotestà, nelle repubbliche aristocratiche.

LXXXIV

È un luogo d’oro d’Aristotile ne’ Libri politici ove,nella divisione delle repubbliche, novera i regni eroici,ne’ quali gli re in casa ministravan le leggi, fuori ammini-stravan le guerre, ed erano capi della religione.

Questa degnità cade tutta a livello ne’ due regni eroicidi Teseo e di Romolo, come di quello si può osservar inPlutarco nella di lui Vita, e di questo sulla storia roma-na, con supplire la storia greca con la romana, ove TulloOstilio ministra la legge nell’accusa d’Orazio. E gli reromani erano ancora re delle cose sagre, detti «reges sa-crorum»; onde, cacciati gli re da Roma, per la certezzadelle cerimonie divine ne criavano uno che si dicesse

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«rex sacrorum», ch’era il capo de’ feciali o sia degli aral-di.

LXXXV

È pur luogo d’oro d’Aristotile ne’ medesimi libri, overiferisce che l’antiche repubbliche non avevano leggi dapunire l’offese ed ammendar i torti privati; e dice tal co-stume esser de’ popoli barbari, perché i popoli per ciòne’ lor incominciamenti sono barbari perché non sonoaddimesticati ancor con le leggi.

Questa degnità dimostra la necessità de’ duelli e delleripresaglie ne’ tempi barbari, perché in tali tempi man-cano le leggi giudiziarie.

LXXXVI

È pur aureo negli stessi libri d’Aristotile quel luogoove dice che nell’antiche repubbliche i nobili giuravanod’esser eterni nemici della plebe.

Questa degnità ne spiega la cagione de’ superbi, avarie crudeli costumi de’ nobili sopra i plebei, ch’aperta-mente si leggono sulla storia romana antica: che, dentroessa finor sognata libertà popolare, lungo tempo anga-riarono i plebei di servir loro a propie spese nelle guer-re, gli anniegavano in un mar d’usure, che non potendoquelli meschini poi soddisfare, gli tenevano chiusi tuttala vita nelle loro private prigioni, per pagargliele co’ la-vori e fatighe, e quivi con maniera tirannica gli batteva-no a spalle nude con le verghe come vilissimi schiavi.

LXXXVII

Le repubbliche aristocratiche sono rattenutissime divenir alle guerre per non agguerrire la moltitudine de’plebei.

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Questa degnità è ’l principio della giustizia dell’armiromane fin alle guerre cartaginesi.

LXXXVIII

Le repubbliche aristocratiche conservano le ricchezzedentro l’ordine de’ nobili, perché conferiscono alla po-tenza di esso ordine.

Questa degnità è ’l principio della clemenza romananelle vittorie, che toglievano a’ vinti le sole armi e, sottola legge di comportevol tributo, rillasciavano il dominiobonitario di tutto. Ch’è la cagione per che i padri resi-stettero sempre all’agrarie de’ Gracchi: perché non vole-vano arricchire la plebe.

LXXXIX

L’onore è ’l più nobile stimolo del valor militare.

XC

I popoli debbon eroicamente portarsi in guerra, seesercitano gare di onore tra lor in pace, altri per conser-varglisi, altri per farsi merito di conseguirgli.

Questa degnità è un principio dell’eroismo romanodalla discacciata de’ tiranni fin alle guerre cartaginesi,dentro il qual tempo i nobili naturalmente si consagra-vano per la salvezza della lor patria, con la quale aveva-no salvi tutti gli onori civili dentro il lor ordine, e i ple-bei facevano delle segnalatissime imprese perappruovarsi meritevoli degli onori de’ nobili.

XCI

Le gare, ch’esercitano gli ordini nelle città, d’ugua-

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gliarsi con giustizia sono lo più potente mezzo d’ingran-dir le repubbliche.

Questo è l’altro principio dell’eroismo romano, assi-stito da tre pubbliche virtù: dalla magnanimità della ple-be di volere le ragioni civili comunicate ad essolei con leleggi de’ padri, dalla fortezza de’ padri nel custodirledentro il lor ordine e dalla sapienza de’ giureconsultinell’interpetrarle e condurne fil filo l’utilità a’ nuovi casiche domandavano la ragione. Che sono le tre cagionipropie onde si distinse al mondo la giurisprudenza ro-mana.

Tutte queste degnità, dalla otantesimaquarta inco-minciando, espongono nel suo giusto aspetto la storiaromana antica: le seguenti tre vi si adoprano in parte.

XCII

I deboli vogliono le leggi; i potenti le ricusano; gli am-biziosi, per farsi séguito, le promuovono; i principi, peruguagliar i potenti co’ deboli, le proteggono.

Questa degnità, per la prima e seconda parte, è lafiaccola delle contese eroiche nelle repubbliche aristo-cratiche, nelle qual’i nobili vogliono appo l’ordine arca-ne tutte le leggi, perché dipendano dal lor arbitrio e leministrino con la mano regia: che sono le tre cagionich’arreca Pomponio giureconsulto, ove narra che la ple-be romana desidera la legge delle XII Tavole, con quelmotto che l’erano gravi «ius latens, incertum et manusregia». Ed è la cagione della ritrosia ch’avevano i padridi dargliele, dicendo «mores patrios servandos, leges ferrinon oportere», come riferisce Dionigi d’Alicarnasso, chefu meglio informato che Tito Livio delle cose romane(perché le scrisse istrutto delle notizie di Marco Teren-zio Varrone, il qual fu acclamato «il dottissimo de’ ro-mani»), e in questa circostanza è per diametro opposto aLivio, che narra intorno a ciò: i nobili, per dirla con lui,

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«desideria plebis non aspernari». Onde, per questa ed al-tre maggiori contrarietà osservate ne’ Princìpi del Dirittouniversale, essendo cotanto tra lor opposti i primi autoriche scrissero di cotal favola da presso a cinquecento an-ni dopo, meglio sarà di non credere a niun degli due.Tanto più che ne’ medesimi tempi non la credettero néesso Varrone, il quale nella grande opera Rerum divina-rum et humanarum diede origini tutte natie del Lazio atutte le cose divine ed umane d’essi romani; né Cicero-ne, il qual in presenza di Quinto Muzio Scevola, princi-pe de’ giureconsulti della sua età, fa dire a Marco Crassooratore che la sapienza de’ decemviri di gran lunga su-perava quella di Dragone e di Solone, che diedero le leg-gi agli ateniesi, e quella di Ligurgo, che diedele agli spar-tani: ch’è lo stesso che la legge delle XII Tavole non erané da Sparta né da Atene venuta in Roma. E crediamoin ciò apporci al vero: che non per altro Cicerone feceintervenire Q. Muzio in quella sola prima giornata che –essendo al suo tempo cotal favola troppo ricevuta tra’letterati, nata dalla boria de’ dotti di dare origini sap-pientissime al sapere ch’essi professavano (lo che s’in-tende da quelle parole che ’l medesimo Crasso dice:«Fremant omnes: dicam quod sentio») – perché non po-tessero opporgli ch’un oratore parlasse della storia deldiritto romano, che si appartiene saper da’ giureconsulti(essendo allora queste due professioni tra lor divise); seCrasso avesse d’intorno a ciò detto falso, Muzio nel’avrebbe certamente ripreso, siccome, al riferir di Pom-ponio, riprese Servio Sulpizio, ch’interviene in questistessi ragionamenti, dicendogli «turpe esse patricio viroius, in quo versaretur ignorare».

Ma, più che Cicerone e Varrone, ci dà Polibio un in-vitto argomento di non credere né a Dionigi né a Livio,il quale senza contrasto seppe più di politica di questidue e fiorì da dugento anni più vicino a’ decemviri chequesti due. Egli (nel libro sesto, al numero quarto e mol-

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ti appresso, dell’edizione di Giacomo Gronovio) a pièfermo si pone a contemplare la costituzione delle repub-bliche libere più famose de’ tempi suoi, ed osserva la ro-mana esser diversa da quelle d’Atene e di Sparta e, piùche di Sparta, esserlo da quella d’Atene, dalla quale, piùche da Sparta, i pareggiatori del gius attico col romanovogliono esser venute le leggi per ordinarvi la libertà po-polare già innanzi fondata da Bruto. Ma osserva, al con-trario, somiglianti tra loro la romana e la cartaginese, laquale niuno mai si è sognato essere stata ordinata liberacon le leggi di Grecia; lo che è tanto vero ch’in Cartagi-ne era espressa legge che vietava a’ cartaginesi sapere digreca lettera. Ed uno scrittore sappientissimo di repub-bliche non fa sopra ciò questa cotanto naturale e cotan-to ovvia riflessione, e non ne investiga la cagion delladifferenza: – Le repubbliche romana ed ateniese, diver-se, ordinate con le medesime leggi; e le repubbliche ro-mana e cartaginese, simili, ordinate con leggi diverse? –Laonde, per assolverlo d’un’oscitanza sì dissoluta, è ne-cessaria cosa a dirsi che nell’età di Polibio non era ancornata in Roma cotesta favola delle leggi greche venute daAtene ad ordinarvi il governo libero popolare.

Questa stessa degnità, per la terza parte, apre la viaagli ambiziosi nelle repubbliche popolari di portarsi allamonarchia, col secondare tal disiderio natural della ple-be, che, non intendendo universali, d’ogni particolarevuol una legge. Onde Silla, capoparte di nobiltà, vintoMario, capoparte di plebe, riordinando lo Stato popola-re con governo aristocratico, rimediò alla moltitudinedelle leggi con le «quistioni perpetue».

E questa degnità medesima per l’ultima parte è la ra-gione arcana perché, da Augusto incominciando, i ro-mani prìncipi fecero innumerevoli leggi di ragion priva-ta, e perché i sovrani e le potenze d’Europa dappertutto,ne’ loro Stati reali e nelle repubbliche libere, ricevettero

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il Corpo del diritto civile romano e quello del diritto cano-nico.

XCIII

Poiché la porta degli onori nelle repubbliche popolaritutta si è con le leggi aperta alla moltitudine avara che vicomanda, non resta altro in pace che contendervi di po-tenza non già con le leggi ma con le armi, e per la poten-za comandare leggi per arricchire, quali in Roma furonl’agrarie de’ Gracchi; onde provengono nello stessotempo guerre civili in casa ed ingiuste fuori.

Questa degnità, per lo suo opposto, conferma per tut-to il tempo innanzi de’ Gracchi il romano eroismo.

XCIV

La natural libertà è più feroce quanto i beni più a’propi corpi son attaccati, e la civil servitù s’inceppa co’beni di fortuna non necessari alla vita.

Questa degnità, per la prima parte, è altro principiodel natural eroismo de’ primi popoli; per la seconda, ellaè ’l principio naturale delle monarchie.

XCV

Gli uomini prima amano d’uscir di suggezione e disi-derano ugualità: ecco le plebi nelle repubbliche aristo-cratiche, le quali finalmente cangiano in popolari; dipoisi sforzano superare gli uguali: ecco le plebi nelle repub-bliche popolari, corrotte in repubbliche di potenti; fi-nalmente vogliono mettersi sotto le leggi: ecco l’anar-chie, o repubbliche popolari sfrenate, delle quali non sidà piggiore tirannide, dove tanti son i tiranni quanti so-no gli audaci e dissoluti delle città. E quivi le plebi, fatteaccorte da’ propi mali, per truovarvi rimedio vanno a

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salvarsi sotto le monarchie; ch’è la legge regia naturalecon la quale Tacito legittima la monarchia romana sottodi Augusto, «qui cuncta, bellis civilibus fessa, nomine«principis» sub imperium accepit».

XCVI

Dalla natia libertà eslege i nobili, quando sulle fami-glie si composero le prime città, furono ritrosi ed a frenoed a peso: ecco le repubbliche aristocratiche nelle qual’inobili son i signori; dappoi dalle plebi, cresciute in grannumero ed agguerrite, indutti a sofferire e leggi e pesiegualmente coi lor plebei: ecco i nobili nelle repubbli-che popolari; finalmente, per aver salva la vita comoda,naturalmente inchinati alla suggezione d’un solo: ecco inobili sotto le monarchie.

Queste due degnità con l’altre innanzi, dalla sessante-simasesta incominciando, sono i princìpi della storiaideal eterna la quale si è sopra detta.

XCVII

Si conceda ciò che ragion non offende, col dimandar-si che dopo il diluvio gli uomini prima abitarono sopra imonti, alquanto tempo appresso calarono alle pianure,dopo lunga età finalmente si assicurarono di condursi a’lidi del mare.

XCVIII

Appresso Strabone è un luogo d’oro di Platone, chedice, dopo i particolari diluvi ogigio e deucalionio, avergli uomini abitato nelle grotte sui monti, e gli riconoscene’ Polifemi, ne’ quali altrove rincontra i primi padri difamiglia del mondo; dipoi, sulle falde, e gli avvisa inDardano che fabbricò Pergamo, che divenne poi la ròc-

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ca di Troia; finalmente, nelle pianure, e gli scorge in Ilo,dal quale Troia fu portata nel piano vicino al mare e fudetta Ilio.

XCIX

È pur antica tradizione che Tiro prima fu fondata en-tro terra, e dipoi portata nel lido del mar Fenicio; com’ècerta istoria indi essere stata tragittata in un’isola ivi dapresso, quindi da Alessandro Magno riattaccata al suocontinente.

L’antecedente postulato e le due degnità che gli van-no appresso ne scuoprono che prima si fondarono le na-zioni mediterranee, dappoi le marittime. E ne danno ungrand’argomento che dimostra l’antichità del popoloebreo, che da Noè si fondò nella Mesopotamia, ch’è laterra più mediterranea del primo mondo abitabile, e sìfu l’antichissima di tutte le nazioni. Lo che vien confer-mato perché ivi fondossi la prima monarchia, che fuquella degli assiri, sopra la gente caldea, dalla qual eranusciti i primi sappienti del mondo, de’ quali fu principeZoroaste.

C

Gli uomini non s’inducono ad abbandonar affatto lepropie terre, che sono naturalmente care a’ natii, cheper ultime necessità della vita; o di lasciarle a tempo cheo per l’ingordigia d’arricchire co’ traffichi, o per gelosiadi conservare gli acquisti.

Questa degnità è ’l principio delle trasmigrazioni de’popoli, fatte con le colonie eroiche marittime, con le in-nondazioni de’ barbari (delle quali sole scrisse Wolfan-go Lazio), con le colonie romane ultime conosciute econ le colonie degli europei nell’Indie.

E questa stessa degnità ci dimostra che le razze per-

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dute degli tre figliuoli di Noè dovettero andar in un er-ror bestiale, perché, col fuggire le fiere (delle quali lagran selva della terra doveva pur troppo abbondare) ecoll’inseguire le schive e ritrose donne (ch’in tale statoselvaggio dovevan essere sommamente ritrose e schive),e poi per cercare pascolo ed acqua, si ritruovassero di-spersi per tutta la terra nel tempo che fulminò la primavolta il cielo dopo il diluvio: onde ogni nazione gentilecominciò da un suo Giove. Perché, se avessero duratonell’umanità come il popolo di Dio vi durò, si sarebbe-ro, come quello, ristati nell’Asia, che, tra per la vastità diquella gran parte del mondo e per la scarsezza allora de-gli uomini, non avevano niuna necessaria cagione d’ab-bandonare, quando non è natural costume ch’i paesi na-tii s’abbandonino per capriccio.

CI

I fenici furono i primi navigatori del mondo antico.

CII

Le nazioni nella loro barbarie sono impenetrabili, chesi debbono irrompere da fuori con le guerre, o da den-tro spontaneamente aprire agli stranieri per l’utilità de’commerzi. Come Psammetico aprì l’Egitto a’ grecidell’Ionia e della Caria, i quali, dopo i fenici, dovetteressere celebri nella negoziazione marittima; onde, per legrandi ricchezze, nell’Ionia si fondò il templo di Giunio-ne samia e nella Caria si alzò il mausoleo d’Artemisia,che furono due delle sette maraviglie del mondo: la glo-ria della qual negoziazione restò a quelli di Rodi, nellabocca del cui porto ergerono il gran colosso del Sole,ch’entrò nel numero delle maraviglie suddette. Così ilChinese, per l’utilità de’ commerzi, ha ultimamenteaperto la China a’ nostri europei.

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Queste tre degnità ne danno il principio d’un altroetimologico delle voci d’origine certa straniera, diversoda quello sopra detto delle voci natie. Ne può altresì da-re la storia di nazioni dopo altre nazioni portatesi concolonie in terre straniere: come Napoli si disse dapprimaSirena con voce siriaca – ch’è argomento che i siri, ovve-ro fenici, vi avessero menato prima di tutti una coloniaper cagione di traffichi; – dopo si disse Partenope convoce eroica greca, e finalmente con lingua greca volgaresi disse Napoli – che sono pruove che vi fussero appres-so passati i greci per aprirvi società di negozi: – ove do-vette provenire una lingua mescolata di fenicia e di gre-ca, della quale, più che della greca pura, si dice Tiberioimperadore essersi dilettato. Appunto come ne’ lidi diTaranto vi fu una colonia siriaca detta Siri, i cui abitato-ri erano chiamati «siriti», e poi da’ greci fu detta Polieo,e ne fu appellata Minerva «poliade», che ivi aveva unsuo templo.

Questa degnità altresì dà i princìpi di scienza all’argo-mento di che scrisse il Giambullari: che la lingua tosca-na sia d’origine siriaca. La quale non poté provenire chedagli più antichi fenici, che furono i primi navigatori delmondo antico, come poco sopra n’abbiamo propostouna degnità; perché, appresso, tal gloria fu de’ greci del-la Caria e dell’Ionia, e restò per ultimo a’ rodiani.

CIII

Si domanda ciò ch’è necessario concedersi: che nel li-do del Lazio fusse stata menata alcuna greca colonia,che poi, da’ romani vinta e distrutta, fusse restata sep-pellita nelle tenebre dell’antichità.

Se ciò non si concede, chiunque riflette e combina so-pra l’antichità, è sbalordito dalla storia romana ove nar-ra Ercole, Evandro, arcadi, frigi dentro del Lazio, ServioTullio greco, Tarquinio Prisco figliuolo di Demarato co-

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rintio, Enea fondatore della gente romana. Certamentele lettere latine Tacito osserva somiglianti all’antichegreche, quando a’ tempi di Servio Tullio, per giudizio diLivio, non poterono i romani nemmeno udire il famosonome di Pittagora, ch’insegnava nella sua celebratissimascuola in Cotrone, e non incominciaron a conoscersi co’greci d’Italia che con l’occasione della guerra di Taran-to, che portò appresso quella di Pirro co’ greci oltrama-re.

CIV

È un detto degno di considerazione quello di DionCassio: che la consuetudine è simile al re e la legge al ti-ranno; che deesi intendere della consuetudine ragione-vole e della legge non animata da ragion naturale.

Questa degnità dagli effetti diffinisce altresì la grandisputa: «se vi sia diritto in natura o sia egli nell’oppe-nione degli uomini», la qual è la stessa che la propostanel corollario dell’VIII: «se la natura umana sia socievo-le». Perché, il diritto natural delle genti essendo statoordinato dalla consuetudine (la qual Dione dice coman-dare da re con piacere), non ordinato con legge (cheDion dice comandare da tiranno con forza), perocchéegli è nato con essi costumi umani usciti dalla natura co-mune delle nazioni (ch’è ’l subbietto adeguato di questaScienza), e tal diritto conserva l’umana società; né essen-dovi cosa più naturale (perché non vi è cosa che piacciapiù) che celebrare i naturali costumi: per tutto ciò la na-tura umana, dalla quale sono usciti tali costumi, ella èsocievole.

Questa stessa degnità, con l’ottava e ’l di lei corolla-rio, dimostra che l’uomo non è ingiusto per natura asso-lutamente, ma per natura caduta e debole. E ’n conse-guenza dimostra il primo principio della cristianareligione, ch’è Adamo intiero, qual dovette nell’idea ot-

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tima essere stato criato da Dio. E quindi dimostra i cato-lici princìpi della grazia: ch’ella operi nell’uomo, ch’ab-bia la privazione, non la niegazione delle buon’opere, esì ne abbia una potenza inefficace, e perciò sia efficace lagrazia; che perciò non può stare senza il principiodell’arbitrio libero, il quale naturalmente è da Dio aiuta-to con la di lui provvedenza (come si è detto sopra, nelsecondo corollario della medesima ottava), sulla quale lacristiana conviene con tutte l’altre religioni. Ch’era quel-lo sopra di che Grozio, Seldeno, Pufendorfio dovevano,innanzi ogni altra cosa, fondar i loro sistemi e convenirecoi romani giureconsulti, che diffiniscono il diritto natu-ral delle genti essere stato dalla divina provvedenza or-dinato.

CV

Il diritto natural delle genti è uscito coi costumi dellenazioni, tra loro conformi in un senso comune umano,senza alcuna riflessione e senza prender essemplo l’unadall’altra.

Questa degnità, col detto di Dione riferito nell’ante-cedente, stabilisce la provvedenza essere l’ordinatricedel diritto natural delle genti, perch’ella è la regina dellefaccende degli uomini.

Questa stessa stabilisce la differenza del diritto natu-ral degli ebrei, del diritto natural delle genti e diritto na-tural de’ filosofi. Perché le genti n’ebbero i soli ordinariaiuti dalla provvedenza; gli ebrei n’ebbero anco aiutiestraordinari dal vero Dio, per lo che tutto il mondo del-le nazioni era da essi diviso tra ebrei e genti; e i filosofi ilragionano più perfetto di quello che ’l costuman le gen-ti, i quali non vennero che da un duemila anni dopo es-sersi fondate le genti. Per tutte le quali tre differenzenon osservate, debbon cadere gli tre sistemi di Grozio,di Seldeno, di Pufendorfio.

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CVI

Le dottrine debbono cominciare da quando comin-ciano le materie che trattano.

Questa degnità, allogata qui per la particolar materiadel diritto natural delle genti, ella è universalmente usa-ta in tutte le materie che qui si trattano; ond’era da pro-porsi tralle degnità generali: ma si è posta qui, perché inquesta più che in ogni altra particolar materia fa vederela sua verità e l’importanza di farne uso.

CVII

Le genti cominciarono prima delle città, e sono quelleche da’ latini si dissero «gentes maiores», o sia case nobi-li antiche, come quelle de’ padri de’ quali Romolo com-pose il senato e, col senato, la romana città: come, alcontrario, si dissero «gentes minores» le case nobili nuo-ve fondate dopo le città, come furono quelle de’ padride’ quali Giunio Bruto, cacciati gli re, riempiè il senato,quasi esausto per le morti de’ senatori fatti morire daTarquinio Superbo.

CVIII

Tale fu la divisione degli dèi: tra quelli delle gentimaggiori, ovvero dèi consagrati dalle famiglie innanzidelle città, – i quali appo i greci e latini certamente (equi pruoverassi appo i primi assiri ovvero caldei, fenici,egizi) furono dodici (il qual novero fu tanto famoso tra igreci che l’intendevano con la sola parola dódeka), evanno confusamente raccolti in un distico latino riferitone’ Princìpi del Diritto universale; i quali però qui, nel li-bro secondo, con una teogonia naturale, o sia generazio-ne degli dèi naturalmente fatta nelle menti de’ greci,usciranno così ordinati: Giove, Giunone; Diana, Apollo;

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Vulcano, Saturno, Vesta; Marte, Venere; Minerva, Mer-curio; Nettunno; – e gli dèi delle genti minori, ovverodèi consegrati appresso dai popoli, come Romolo, ilqual, morto, il popolo romano appellò dio Quirino.

Per queste tre degnità, gli tre sistemi di Grozio, diSeldeno, di Pufendorfio mancano ne loro princìpi,ch’incominciano dalle nazioni guardate tra loro nella so-cietà di tutto il gener umano, il quale, appo tutte le pri-me nazioni, come sarà qui dimostrato, cominciò daltempo delle famiglie, sotto gli dèi delle genti dette«maggiori».

CIX

Gli uomini di corte idee stimano diritto quanto si èspiegato con le parole.

CX

È aurea la diffinizione ch’Ulpiano assegna dell’equitàcivile: ch’ella è «probabilis quædam ratio, non omnibushominibus naturaliter cognita (com’è l’equità naturale),sed paucis tantum, qui, prudentia, usu, doctrina præditi,didicerunt quæ ad societatis humanæ conservationemsunt necessaria». La quale in bell’italiano si chiama «ra-gion di Stato».

CXI

Il certo delle leggi è un’oscurezza della ragione unica-mente sostenuta dall’autorità, che le ci fa sperimentaredure nel praticarle, e siamo necessitati praticarle per lodi lor «certo», che in buon latino significa «particolariz-zato» o, come le scuole dicono, «individuato»; nel qualsenso «certum» e «commune», con troppa latina elegan-za, son opposti tra loro.

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Questa degnità, con le due seguenti diffinizioni, costi-tuiscono il principio della ragion stretta, della qual è re-gola l’equità civile, al cui certo, o sia alla determinataparticolarità delle cui parole, i barbari, d’idee particola-ri, naturalmente s’acquetano, e tale stimano il diritto chelor si debba. Onde ciò che in tali casi Ulpiano dice: «lexdura est, sed scripta est», tu diresti, con più bellezza lati-na e con maggior eleganza legale: «lex dura est, sed certaest».

CXII

Gli uomini intelligenti stimano diritto tutto ciò chedetta essa uguale utilità delle cause.

CXIII

Il vero delle leggi è un certo lume e splendore di chene illumina la ragion naturale; onde spesso i giurecon-sulti usan dire «verum est» per «æquum est».

Questa diffinizione come la centoundecimo sono pro-posizioni particolari per far le pruove nella particolarmateria del diritto natural delle genti, uscite dalle duegenerali, nona e decima, che trattano del vero e del certogeneralmente, per far le conchiusioni in tutte le materieche qui si trattano.

CXIV

L’equità naturale della ragion umana tutta spiegata èuna pratica della sapienza nelle faccende dell’utilità,poiché «sapienza», nell’ampiezza sua, altro non è chescienza di far uso delle cose qual esse hanno in natura.

Questa degnità con l’altre due seguenti diffinizionicostituiscono il principio della ragion benigna, regolatadall’equità naturale, la qual è connaturale alle nazioni

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ingentilite; dalla quale scuola pubblica si dimostrerà es-ser usciti i filosofi.

Tutte queste sei ultime proposizioni fermano che laprovvedenza fu l’ordinatrice del diritto natural dellegenti, la qual permise che, poiché per lunga scorsa di se-coli le nazioni avevano a vivere incapaci del vero edell’equità naturale (la quale più rischiararono, appres-so, i filosofi), esse si attenessero al certo ed all’equità ci-vile, che scrupolosamente custodisce le parole degli or-dini e delle leggi, e da queste fussero portate adosservarle generalmente anco ne’ casi che riuscisserodure, perché si serbassero le nazioni.

E queste istesse sei proposizioni, sconosciute dagli treprincipi della dottrina del diritto natural delle genti, fe-cero ch’essi, tutti e tre, errassero di concerto nello stabi-lirne i loro sistemi; perc’han creduto che l’equità natura-le nella sua idea ottima fusse stata intesa dalle nazionigentili fin da’ loro primi incominciamenti, senza riflette-re che vi volle da un duemila anni perché in alcuna fus-sero provenuti i filosofi, e senza privilegiarvi un popolocon particolarità assistito dal vero Dio.

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IIIDE’ PRINCÌPI.

Ora, per fare sperienza se le proposizioni noverate fi-nora per elementi di questa Scienza debbano dare la for-ma alle materie apparecchiate nel principio sulla Tavolacronologica, preghiamo il leggitore che rifletta a quantosi è scritto d’intorno a’ princìpi di qualunque materia ditutto lo scibile divino ed umano della gentilità, e combi-ni se egli faccia sconcezza con esse proposizioni, o tutteo più o una; perché tanto si è con una quanto sarebbecon tutte, perché ogniuna di quelle fa acconcezza contutte. Ché certamente egli, faccendo cotal confronto,s’accorgerà che sono tutti luoghi di confusa memoria,tutte immagini di mal regolata fantasia, e niun essereparto d’intendimento, il qual è stato trattenuto oziosodalle due borie che nelle Degnità noverammo. Laonde,perché la boria delle nazioni, d’essere stata ogniuna laprima del mondo, ci disanima di ritruovare i princìpi diquesta Scienza da’ filologi; altronde la boria de’ dotti, iquali vogliono ciò ch’essi sanno essere stato eminente-mente inteso fin dal principio del mondo, ci dispera diritruovargli da’ filosofi: quindi, per questa ricerca, si deefar conto come se non vi fussero libri nel mondo.

Ma, in tal densa notte di tenebre ond’è coverta la pri-ma da noi lontanissima antichità, apparisce questo lumeeterno, che non tramonta, di questa verità, la quale nonsi può a patto alcuno chiamar in dubbio; che questomondo civile egli certamente è stato fatto dagli uomini,onde se ne possono, perché se ne debbono, ritruovare iprincìpi dentro le modificazioni della nostra medesimamente umana. Lo che, a chiunque vi rifletta, dee recarmaraviglia come tutti i filosofi seriosamente si studiaro-no di conseguire la scienza di questo mondo naturale,del quale, perché Iddio egli il fece, esso solo ne ha la

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scienza; e traccurarono di meditare su questo mondodelle nazioni, o sia mondo civile, del quale, perché l’ave-vano fatto gli uomini, ne potevano conseguire la scienzagli uomini. Il quale stravagante effetto è provenuto daquella miseria, la qual avvertimmo nelle Degnità, dellamente umana, la quale, restata immersa e seppellita nelcorpo, è naturalmente inchinata a sentire le cose del cor-po e dee usare troppo sforzo e fatiga per intendere semedesima, come l’occhio corporale che vede tutti gliobbietti fuori di sé ed ha dello specchio bisogno per ve-dere se stesso.

Or, poiché questo mondo di nazioni egli è stato fattodagli uomini, vediamo in quali cose hanno con perpe-tuità convenuto e tuttavia vi convengono tutti gli uomi-ni, perché tali cose ne potranno dare i princìpi universa-li ed eterni, quali devon essere d’ogni scienza, sopra iquali tutte sursero e tutte vi si conservano in nazioni.

Osserviamo tutte le nazioni così barbare come uma-ne, quantunque, per immensi spazi di luoghi e tempi traloro lontane, divisamente fondate, custodire questi treumani costumi: che tutte hanno qualche religione, tuttecontraggono matrimoni solenni, tutte seppelliscono i lo-ro morti; né tra nazioni, quantunque selvagge e crude, sicelebrano azioni umane con più ricercate cerimonie epiù consagrate solennità che religioni, matrimoni e sep-polture. Ché, per la degnità che «idee uniformi, nate trapopoli sconosciuti tra loro, debbon aver un principiocomune di vero», dee essere stato dettato a tutte: che daqueste tre cose incominciò appo tutte l’umanità, e perciò si debbano santissimamente custodire da tutte per-ché ’l mondo non s’infierisca e si rinselvi di nuovo. Per-ciò abbiamo presi questi tre costumi eterni ed universaliper tre primi princìpi di questa Scienza.

Né ci accusino di falso il primo i moderni viaggiatori,i quali narrano che popoli del Brasile, di Cafra ed altrenazioni del mondo nuovo (e Antonio Arnaldo crede lo

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stesso degli abitatori dell’isole chiamate Antille) vivanoin società senza alcuna cognizione di Dio; da’ quali forsepersuaso, Bayle afferma nel Trattato delle comete chepossano i popoli senza lume di Dio vivere con giustizia;che tanto non osò affermare Polibio, al cui detto da talu-ni s’acclama: che, se fussero al mondo filosofi, che ’nforza della ragione non delle leggi vivessero con giusti-zia, al mondo non farebbero uopo religioni. Queste so-no novelle di viaggiatori, che proccurano smaltimento a’lor libri con mostruosi ragguagli. Certamente AndreaRudigero nella sua Fisica magnificamente intitolata divi-na, che vuole che sia l’unica via di mezzo tra l’ateismo ela superstizione, egli da’ censori dell’università di Gene-vra (nella qual repubblica, come libera popolare, dee es-sere alquanto più di libertà nello scrivere) è di tal senti-mento gravemente notato che «‘l dica con troppo disicurezza», ch’è lo stesso dire che con non poco d’auda-cia. Perché tutte le nazioni credono in una divinità prov-vedente, onde quattro e non più si hanno potuto truova-re religioni primarie per tutta la scorsa de’ tempi e pertutta l’ampiezza di questo mondo civile: una degli ebrei,e quindi altra de’ cristiani, che credono nella divinitàd’una mente infinita libera; la terza de’ gentili, che lacredono di più dèi, immaginati composti di corpo e dimente libera, onde, quando vogliono significare la divi-nità che regge e conserva il mondo, dicono «deos im-mortales»; la quarta ed ultima de’ maomettani, che lacredono d’un dio infinita mente libera in un infinito cor-po, perché aspettano piaceri de’ sensi per premi nell’al-tra vita.

Niuna credette in un dio tutto corpo o pure in un diotutto mente la quale non fusse libera. Quindi né gli epi-curei, che non danno altro che corpo e, col corpo, il ca-so, né gli stoici, che danno Dio in infinito corpo infinitamente soggetta al fato (che sarebbero per tal parte glispinosisti), poterono ragionare di repubblica né di leggi,

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e Benedetto Spinosa parla di repubblica come d’una so-cietà che fusse di mercadanti. Per lo che aveva la ragionCicerone, il qual ad Attico, perch’egli era epicureo, di-ceva non poter esso con lui ragionar delle leggi, se quel-lo non gli avesse conceduto che vi sia provvedenza divi-na. Tanto le due sètte stoica ed epicurea sonocomportevoli con la romana giurisprudenza, la qualepone la provvedenza divina per principal suo principio!

L’oppenione poi ch’i concubiti, certi di fatto, d’uomi-ni liberi con femmine libere senza solennità di matrimo-ni non contengano niuna naturale malizia, ella da tuttele nazioni del mondo è ripresa di falso con essi costumiumani, co’ quali tutte religiosamente celebrano i matri-moni e con essi diffiniscono che, ’n grado benché rimes-so, sia tal peccato di bestia. Perciocché, quanto è per ta-li genitori, non tenendogli congionti niun vincolonecessario di legge, essi vanno a disperdere i loro fi-gliuoli naturali, i quali, potendosi i loro genitori ad ogniora dividere, eglino, abbandonati da entrambi, deonogiacer esposti per esser divorati da’ cani; e, se l’umanitào pubblica o privata non gli allevasse, dovrebbero cre-scere senza avere chi insegnasse loro religione, né lin-gua, né altro umano costume. Onde, quanto è per essi,di questo mondo di nazioni, di tante belle arti dell’uma-nità arricchito ed adorno, vanno a fare la grande anti-chissima selva per entro a cui divagavano con nefario fe-rino errore le brutte fiere d’Orfeo, delle qual’i figliuolicon le madri, i padri con le figliuole usavano la venerebestiale. Ch’è l’infame nefas del mondo eslege, che So-crate con ragioni fisiche poco propie voleva pruovareesser vietato dalla natura, essendo egli vietato dalla natu-ra umana, perché tali concubiti appo tutte le nazioni so-no naturalmente abborriti, né da talune furono praticatiche nell’ultima loro corrozione, come da’ persiani.

Finalmente, quanto gran principio dell’umanità sienole seppolture, s’immagini uno stato ferino nel quale re-

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stino inseppolti i cadaveri umani sopra la terra ad esserésca de’ corvi e cani; ché certamente con questo bestialecostume dee andar di concerto quello d’esser incolti icampi nonché disabitate le città, e che gli uomini a guisadi porci anderebbono a mangiar le ghiande, còlte dentroil marciume de’ loro morti congionti. Onde a gran ragio-ne le seppolture con quella espressione sublime «foederageneris humani» ci furono diffinite e, con minor gran-dezza, «humanitatis commercia» ci furono descritte daTacito. Oltrecché, questo è un placito nel quale certa-mente son convenute tutte le nazioni gentili: che l’animerestassero sopra la terra inquiete ed andassero errandointorno a’ loro corpi inseppolti, e ’n conseguenza chenon muoiano co’ loro corpi, ma che sieno immortali. Eche tale consentimento fusse ancora stato dell’antichebarbare, ce ne convincono i popoli di Guinea, come at-testa Ugone Linschotano; di quei del Perù e del Messi-co, Acosta, De indicis; degli abitatori della Virginia,Tommaso Ariot; di quelli della Nuova Inghilterra, Ric-cardo Waitbornio; di quelli del regno di Sciam, Giu-seffo Scultenio. Laonde Seneca conchiude: «Quum deimmortalitate loquimur non leve momentum apud noshabet consensus hominum aut timentium inferos aut co-lentium: hac persuasione publica utor».

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IVDEL METODO.

Per lo intiero stabilimento de’ princìpi, i quali si sonopresi di questa Scienza, ci rimane in questo primo librodi ragionare del metodo che debbe ella usare. Perchédovendo ella cominciare donde ne incominciò la mate-ria, siccome si è proposto nelle Degnità, e sì avendo noia ripeterla, per gli filologi, dalle pietre di Deucalione ePirra, da’ sassi d’Anfione, dagli uomini nati o da’ solchidi Cadmo o dalla dura rovere di Virgilio e, per gli filoso-fi, dalle ranocchie d’Epicuro, dalle cicale di Obbes, da’semplicioni di Grozio, da’ gittati in questo mondo senzaniuna cura o aiuto di Dio di Pufendorfio, goffi e fieriquanto i giganti detti «los patacones», che dicono ritro-varsi presso lo stretto di Magaglianes, cioè da’ polifemid’Omero, ne’ quali Platone riconosce i primi padri nellostato delle famiglie (questa scienza ci han dato de’princìpi dell’umanità così i filologi come i filosofi!); – edovendo noi incominciar a ragionarne da che quelli in-cominciaron a umanamente pensare; – e, nella loro im-mane fierezza e sfrenata libertà bestiale, non essendovialtro mezzo, per addimesticar quella ed infrenar questa,ch’uno spaventoso pensiero d’una qualche divinità, ilcui timore, come si è detto nelle Degnità, è ’l solo poten-te mezzo di ridurre in ufizio una libertà inferocita: – perrinvenire la guisa di tal primo pensiero umano nato nelmondo della gentilità, incontrammo l’aspre difficultàche ci han costo la ricerca di ben venti anni, e [dovem-mo] discendere da queste nostre umane ingentilite natu-re a quelle affatto fiere ed immani, le quali ci è affattoniegato d’immaginare e solamente a gran pena ci è per-messo d’intendere.

Per tutto ciò dobbiamo cominciare da una qualchecognizione di Dio, della quale non sieno privi gli uomi-

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ni, quantunque selvaggi, fieri ed immani. Tal cognizionedimostriamo esser questa: che l’uomo, caduto nella di-sperazione di tutti i soccorsi della natura, disidera unacosa superiore che lo salvasse. Ma cosa superiore allanatura è Iddio, e questo è il lume ch’Iddio ha sparso so-pra tutti gli uomini. Ciò si conferma con questo comunecostume umano: che gli uomini libertini, invecchiando,perché si sentono mancare le forze naturali, divengononaturalmente religiosi.

Ma tali primi uomini, che furono poi i principi dellenazioni gentili, dovevano pensare a forti spinte di vio-lentissime passioni, ch’è il pensare da bestie. Quindidobbiamo andare da una volgar metafisica (la quale si èavvisata nelle Degnità, e truoveremo che fu la teologiade’ poeti), e da quelle ripetere il pensiero spaventosod’una qualche divinità, ch’alle passioni bestiali di tal’uo-mini perduti pose modo e misura e le rendé passioniumane. Da cotal pensiero dovette nascere il conato, ilqual è propio dell’umana volontà, di tener in freno i mo-ti impressi alla mente dal corpo, per o affatto acquetar-gli, ch’è dell’uomo sappiente, o almeno dar loro altra di-rezione ad usi migliori, ch’è dell’uomo civile. Questoinfrenar il moto de’ corpi certamente egli è un effettodella libertà dell’umano arbitrio, e sì della libera vo-lontà, la qual è domicilio e stanza di tutte le virtù e, tral-le altre, della giustizia, da cui informata la volontà è ’lsubbietto di tutto il giusto e di tutti i diritti che sonodettati dal giusto.

Perché dar conato a’ corpi tanto è quanto dar loro li-bertà di regolar i lor moti, quando i corpi tutti sonoagenti necessari in natura; e que’ ch’i meccanici dicono«potenze», «forze», «conati» sono moti insensibili d’essicorpi, co’ quali essi o s’appressano, come volle la mecca-nica antica, a’ loro centri di gravità, o s’allontanano, co-me vuole la meccanica nuova, da’ loro centri del moto.

Ma gli uomini, per la loro corrotta natura, essendo ti-

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ranneggiati dall’amor propio, per lo quale non sieguonoprincipalmente che la propia utilità; onde eglino, volen-do tutto l’utile per sé e niuna parte per lo compagno,non posson essi porre in conato le passioni per indiriz-zarle a giustizia. Quindi stabiliamo: che l’uomo nellostato bestiale ama solamente la sua salvezza; presa mo-glie e fatti figliuoli, ama la sua salvezza con la salvezzadelle famiglie; venuto a vita civile, ama la sua salvezzacon la salvezza delle città; distesi gl’imperi sopra più po-poli, ama la sua salvezza con la salvezza delle nazioni;unite le nazioni in guerre, paci, allianze, commerzi, amala sua salvezza con la salvezza di tutto il gener umano:l’uomo in tutte queste circostanze ama principalmentel’utilità propia. Adunque, non da altri che dalla provve-denza divina deve esser tenuto dentro tali ordini a cele-brare con giustizia la famigliare, la civile e finalmentel’umana società; per gli quali ordini, non potendo l’uo-mo conseguire ciò che vuole, almeno voglia conseguireciò che dee dell’utilità: ch’è quel che dicesi «giusto».Onde quella che regola tutto il giusto degli uomini è lagiustizia divina, la quale ci è ministrata dalla divinaprovvedenza per conservare l’umana società.

Perciò questa Scienza, per uno de’ suoi principaliaspetti, dev’essere una teologia civile ragionata dellaprovvedenza divina. La quale sembra aver mancato fi-nora, perché i filosofi o l’hanno sconosciuta affatto, co-me gli stoici e gli epicurei, de’ quali questi dicono cheun concorso cieco d’atomi agita, quelli che una sordacatena di cagioni e d’effetti strascina le faccende degliuomini; o l’hanno considerata solamente sull’ordine del-le naturali cose, onde «teologia naturale» essi chiamanola metafisica, nella quale contemplano questo attributodi Dio, e ’l confermano con l’ordine fisico che si osservane’ moti de’ corpi, come delle sfere, degli elementi, enella cagion finale sopra l’altre naturali cose minori os-servata. E pure sull’iconomia delle cose civili essi ne do-

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vevano ragionare con tutta la propietà della voce, con laquale la provvedenza fu appellata «divinità» da «divina-ri», «indovinare», ovvero intendere o ’l nascosto agli uo-mini, ch’è l’avvenire, o ’l nascosto degli uomini, ch’è lacoscienza; ed è quella che propiamente occupa la primae principal parte del subbietto della giurisprudenza, cheson le cose divine, dalle quali dipende l’altra che ’l com-pie, che sono le cose umane. Laonde cotale Scienza deeessere una dimostrazione, per così dire, di fatto istoricodella provvedenza, perché dee essere una storia degli or-dini che quella, senza verun umano scorgimento o con-siglio, e sovente contro essi proponimenti degli uomini,ha dato a questa gran città del gener umano, ché, quan-tunque questo mondo sia stato criato in tempo e parti-colare, però gli ordini ch’ella v’ha posto sono universalied eterni. Per tutto ciò, entro la contemplazione di essaprovvedenza infinita ed eterna questa Scienza ritruovacerte divine pruove, con le quali si conferma e dimostra.Impercioché la provvedenza divina, avendo per sua mi-nistra l’onnipotenza, vi debbe spiegar i suoi ordini pervie tanto facili quanto sono i naturali costumi umani;perc’ha per consigliera la sapienza infinita, quanto vi di-spone debbe essere tutto ordine; perc’ha per suo fine lasua stessa immensa bontà, quanto vi ordina debb’esserindiritto a un bene sempre superiore a quello che si hanproposto essi uomini.

Per tutto ciò, nella deplorata oscurità de’ princìpi enell’innumerabile varietà de’ costumi delle nazioni, so-pra un argomento divino che contiene tutte le cose uma-ne, qui pruove non si possono più sublimi disiderareche queste istesse che ci daranno la naturalezza, l’ordinee ’l fine, ch’è essa conservazione del gener umano. Lequali pruove vi riusciranno luminose e distinte, ove ri-fletteremo con quanta facilità le cose nascono ed a qualioccasioni, che spesso da lontanissime parti, e talvoltatutte contrarie ai proponimenti degli uomini, vengono e

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vi si adagiano da se stesse; e tali pruove ne somministral’onnipotenza. Combinarle e vederne l’ordine, a qualitempi e luoghi loro propi nascono le cose ora, che videbbono nascer ora, e l’altre si differiscono nascer ne’tempi e ne’ luoghi loro, nello che, all’avviso d’Orazio,consiste tutta la bellezza dell’ordine; e tali pruove ci ap-parecchia l’eterna sapienza. E finalmente considerare sesiam capaci d’intendere se, a quelle occasioni, luoghi etempi, potevano nascere altri benefìci divini, co’ quali,in tali o tali bisogni o malori degli uomini, si poteva con-durre meglio a bene e conservare l’umana società; e talipruove ne darà l’eterna bontà di Dio.

Onde la propia continua pruova che qui farassi sarà ilcombinar e riflettere se la nostra mente umana, nella se-rie de’ possibili la quale ci è permesso d’intendere, e perquanto ce n’è permesso, possa pensare o più o meno oaltre cagioni di quelle ond’escono gli effetti di questomondo civile. Lo che faccendo, il leggitore pruoverà undivin piacere, in questo corpo mortale, di contemplarenelle divine idee questo mondo di nazioni per tutta ladistesa de’ loro luoghi, tempi e varietà; e truoverassiaver convinto di fatto gli epicurei che ’l loro caso nonpuò pazzamente divagare e farsi per ogni parte l’uscita,e gli stoici che la loro catena eterna delle cagioni, con laqual vogliono avvinto il mondo, ella penda dall’onnipo-tente, saggia e benigna volontà dell’Ottimo MassimoDio.

Queste sublimi pruove teologiche naturali ci saranconfermate con le seguenti spezie di pruove logiche:che, nel ragionare dell’origini delle cose divine ed uma-ne della gentilità, se ne giugne a que’ primi oltre i quali èstolta curiosità di domandar altri primi, ch’è la propiacaratteristica de’ princìpi; se ne spiegano le particolariguise del loro nascimento, che si appella «natura», ch’èla nota propissima della scienza; e finalmente si confer-mano con l’eterne propietà che conservano, le quali non

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posson altronde esser nate che da tali e non altri nasci-menti, in tali tempi, luoghi e con tali guise, o sia da talinature, come se ne sono proposte sopra due Degnità.

Per andar a truovare tali nature di cose umane proce-de questa Scienza con una severa analisi de’ pensieriumani d’intorno all’umane necessità o utilità della vitasocievole, che sono i due fonti perenni del diritto natu-ral delle genti, come pure nelle Degnità si è avvisato.Onde, per quest’altro principale suo aspetto, questaScienza è una storia dell’umane idee, sulla quale sembradover procedere la metafisica della mente umana; laqual regina delle scienze, per la Degnità che «le scienzedebbono incominciare da che n’incominciò la materia»,cominciò d’allora ch’i primi uomini cominciarono aumanamente pensare, non già da quando i filosofi co-minciaron a riflettere sopra l’umane idee (come ultima-mente n’è uscito alla luce un libricciuolo erudito e dottocol titolo Historia de ideis, che si conduce fin all’ultimecontroversie che ne hanno avuto i due primi ingegni diquesta età, il Leibnizio e ’l Newtone).

E per determinar i tempi e i luoghi a sì fatta istoria,cioè quando e dove essi umani pensieri nacquero, e sìaccertarla con due sue propie cronologia e geografia,per dir così, metafisiche, questa Scienza usa un’arte cri-tica, pur metafisica, sopra gli autori d’esse medesime na-zioni, tralle quali debbono correre assai più di mille anniper potervi provenir gli scrittori, sopra i quali la criticafilologica si è finor occupata. E ’l criterio di che si serve,per una Degnità sovraposta, è quello, insegnato dallaprovvedenza divina, comune a tutte le nazioni; ch’è ilsenso comune d’esso gener umano, determinato dallanecessaria convenevolezza delle medesime umane cose,che fa tutta la bellezza di questo mondo civile. Quindiregna in questa Scienza questa spezie di pruove: che talidovettero, debbono e dovranno andare le cose delle na-zioni quali da questa Scienza son ragionate, posti tali or-

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dini dalla provvedenza divina, fusse anco che dall’eter-nità nascessero di tempo in tempo mondi infiniti; lo checertamente è falso di fatto.

Onde questa Scienza viene nello stesso tempo a de-scrivere una storia ideal eterna, sopra la quale corron intempo le storie di tutte le nazioni ne’ loro sorgimenti,progressi, stati, decadenze e fini. Anzi ci avvanziamo adaffermare ch’in tanto chi medita questa Scienza egli nar-ri a se stesso questa storia ideal eterna, in quanto – es-sendo questo mondo di nazioni stato certamente fattodagli uomini (ch’è ’l primo principio indubitato che sen’è posto qui sopra), e perciò dovendosene ritruovare laguisa dentro le modificazioni della nostra medesimamente umana – egli, in quella pruova «dovette, deve,dovrà», esso stesso sel faccia; perché, ove avvenga chechi fa le cose esso stesso le narri, ivi non può essere piùcerta l’istoria. Così questa Scienza procede appunto co-me la geometria, che, mentre sopra i suoi elementi il co-struisce o ’l contempla, essa stessa si faccia il mondo del-le grandezze; ma con tanto più di realità quanta più nehanno gli ordini d’intorno alle faccende degli uomini,che non ne hanno punti, linee, superficie e figure. Equesto istesso è argomento che tali pruove sieno d’unaspezie divina e che debbano, o leggitore, arrecarti un di-vin piacere, perocché in Dio il conoscer e ’l fare è unamedesima cosa.

Oltracciò, quando, per le diffinizioni del vero e delcerto sopra proposte, gli uomini per lunga età non pote-ron esser capaci del vero e della ragione, ch’è ’l fontedella giustizia interna, della quale si soddisfano gl’intel-letti – la qual fu praticata dagli ebrei, ch’illuminati dalvero Dio erano proibiti dalla di lui divina legge di far an-co pensieri meno che giusti, de’ quali niuno di tutti i le-gislatori mortali mai s’impacciò (perché gli ebrei crede-vano in un Dio tutto mente che spia nel cuor degliuomini, e i gentili credevano negli dèi composti di corpi

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e mente che nol potevano); e fu poi ragionata da’ filoso-fi, i quali non provennero che duemila anni dopo essersile loro nazioni fondate; – frattanto si governassero colcerto dell’autorità, cioè con lo stesso criterio ch’usa que-sta critica metafisica, il qual è ’l senso comune d’esso ge-ner umano (di cui si è la diffinizione sopra, negli Ele-menti, proposta), sopra il quale riposano le coscienze ditutte le nazioni. Talché, per quest’altro principale ri-guardo, questa Scienza vien ad essere una filosofiadell’autorità, ch’è ’l fonte della «giustizia esterna» chedicono i morali teologi. Della qual autorità dovevano te-ner conto gli tre principi della dottrina d’intorno al di-ritto natural delle genti, e non di quella tratta da’ luoghidegli scrittori; della quale niuna contezza aver poteronogli scrittori, perché tal autorità regnò tralle nazioni assaipiù di mille anni innanzi di potervi provenir gli scrittori.Onde Grozio, più degli altri due come dotto così erudi-to, quasi in ogni particolar materia di tal dottrina com-batte i romani giureconsulti; ma i colpi tutti cadono avuoto, perché quelli stabilirono i loro princìpi del giustosopra il certo dell’autorità del gener umano, non sopral’autorità degli addottrinati.

Queste sono le pruove filosofiche ch’userà questaScienza, e ’n conseguenza quelle che per conseguirla sonassolutamente necessarie. Le filologiche vi debbono te-nere l’ultimo luogo, le quali tutte a questi generi si ridu-cono.

Primo, che sulle cose le quali si meditano vi conven-gono le nostre mitologie, non isforzate e contorte, madiritte, facili e naturali, che si vedranno essere istorie ci-vili de’ primi popoli, i quali si truovano dappertutto es-sere stati naturalmente poeti.

Secondo, vi convengono le frasi eroiche, che vi sispiegano con tutta la verità de’ sentimenti e tutta la pro-pietà dell’espressioni.

Terzo, che vi convengono l’etimologie delle lingue

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natie, che ne narrano le storie delle cose ch’esse voci si-gnificano, incominciando dalla propietà delle lor originie prosieguendone i naturali progressi de’ lor trasportisecondo l’ordine dell’idee, sul quale dee procedere lastoria delle lingue, come nelle Degnità sta premesso.

Quarto, vi si spiega il vocabolario mentale delle coseumane socievoli, sentite le stesse in sostanza da tutte lenazioni e per le diverse modificazioni spiegate con lin-gue diversamente, quale si è nelle Degnità divisato.

Quinto, vi si vaglia dal falso il vero in tutto ciò cheper lungo tratto di secoli ce ne hanno custodito le volga-ri tradizioni, le quali, perocché sonosi per sì lunga età eda intieri popoli custodite, per una Degnità soprapostadebbon avere avuto un pubblico fondamento di vero.

Sesto, i grandi frantumi dell’antichità, inutili finor allascienza perché erano giaciuti squallidi, tronchi e slogati,arrecano de’ grandi lumi, tersi, composti ed allogati ne’luoghi loro.

Settimo ed ultimo, sopra tutte queste cose, come loronecessarie cagioni, vi reggono tutti gli effetti i quali cinarra la storia certa.

Le quali pruove filologiche servono per farci vederedi fatto le cose meditate in idea d’intorno a questo mon-do di nazioni, secondo il metodo di filosofare del Veru-lamio, ch’è «cogitare videre»; ond’è che, per le pruove fi-losofiche innanzi fatte, le filologiche, le quali succedonoappresso, vengono nello stesso tempo e ad aver confer-mata l’autorità loro con la ragione ed a confermare la ra-gione con la loro autorità.

Conchiudiamo tutto ciò che generalmente si è divisa-to d’intorno allo stabilimento de’ princìpi di questaScienza: che, poiché i di lei princìpi sono provvedenzadivina, moderazione di passioni co’ matrimoni e immor-talità dell’anime umane con le seppolture; e ’l criterioche usa è che ciò che si sente giusto da tutti o la maggiorparte degli uomini debba essere la regola della vita so-

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cievole (ne’ quali princìpi e criterio conviene la sapienzavolgare di tutti i legislatori e la sapienza riposta degli piùriputati filosofi): questi deon esser i confini dell’umanaragione. E chiunque se ne voglia trar fuori, egli veda dinon trarsi fuori da tutta l’umanità.

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LIBRO SECONDODELLA SAPIENZA POETICA.

Per ciò che sopra si è detto nelle Degnità: che tutte lestorie delle nazioni gentili hanno avuto favolosi princìpi,e che appo i greci (da’ quali abbiamo tutto ciò ch’abbia-mo dell’antichità gentilesche) i primi sappienti furon ipoeti teologi, e la natura delle cose che sono mai nate ofatte porta che sieno rozze le lor origini; tali e non altri-menti si deono stimare quelle della sapienza poetica. Ela somma e sovrana stima con la qual è fin a noi perve-nuta, ella è nata dalle due borie nelle Degnità divisate,una delle nazioni, l’altra de’ dotti, e più che da quelladelle nazioni ella è nata dalla boria de’ dotti, per la qualecome Manetone, sommo pontefice egizio, portò tutta lastoria favolosa egiziaca ad una sublime teologia naturale,come dicemmo nelle Degnità, così i filosofi greci porta-rono la loro alla filosofia. Né già solamente per ciò –perché, come sopra pur vedemmo nelle Degnità, eranoloro entrambe cotal’istorie pervenute laidissime, – maper queste cinque altre cagioni.

La prima fu la riverenza della religione, perché con lefavole furono le gentili nazioni dappertutto sulla religio-ne fondate. La seconda fu il grande effetto indi seguìtodi questo mondo civile, sì sappientemente ordinato chenon poté esser effetto che d’una sovraumana sapienza.La terza furono l’occasioni che, come qui dentro vedre-mo, esse favole, assistite dalla venerazione della religio-ne e dal credito di tanta sapienza, dieder a’ filosofi diporsi in ricerca e di meditare altissime cose in filosofia.La quarta furono le comodità, come pur qui dentro fa-rem conoscere, di spiegar essi le sublimi da lor meditatecose in filosofia con l’espressioni che loro n’avevano perventura lasciato i poeti. La quinta ed ultima, che val pertutte, per appruovar essi filosofi le cose da essolor medi-

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tate con l’autorità della religione e con la sapienza de’poeti. Delle quali cinque cagioni le due prime contengo-no le lodi, l’ultima le testimonianze, che, dentro i lor er-rori medesimi, dissero i filosofi della sapienza divina, laquale ordinò questo mondo di nazioni; la terza e quartasono inganni permessi dalla divina provvedenza ond’es-si provenisser filosofi per intenderla e riconoscerla, qualella è veramente, attributo del vero Dio.

E per tutto questo libro si mostrerà che quanto primaavevano sentito d’intorno alla sapienza volgare i poeti,tanto intesero poi d’intorno alla sapienza riposta i filoso-fi; talché si possono quelli dire essere stati il senso e que-sti l’intelletto del gener umano; di cui anco generalmen-te sia vero quello da Aristotile detto particolarmente diciascun uomo: «Nihil est in intellectu quin prius fuerit insensu», cioè che la mente umana non intenda cosa dellaquale non abbia avuto alcun motivo (ch’i metafisicid’oggi dicono «occasione») da’ sensi, la quale allora usal’intelletto quando, da cosa che sente, raccoglie cosa chenon cade sotto de’ sensi; lo che propiamente a’ latinivuol dir «intelligere».

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1.DELLA SAPIENZA GENERALMENTE.

Ora, innanzi di ragionare della sapienza poetica, ci famestieri di vedere generalmente che cosa sia essa sapien-za. Ella è sapienza la facultà che comanda a tutte le di-scipline, dalle quali s’apprendono tutte le scienze e l’artiche compiono l’umanità. Platone diffinisce la sapienzaesser la perfezionatrice dell’uomo. Egli è l’uomo non al-tro, nel propio esser d’uomo, che mente ed animo, o vo-gliam dire intelletto e volontà. La sapienza dee compierall’uomo entrambe queste due parti, e la seconda in sé-guito della prima, acciocché dalla mente il luminata conla cognizione delle cose altissime l’animo s’inducaall’elezione delle cose ottime. Le cose altissime in que-st’universo son quelle che s’intendono e si ragionan diDio; le cose ottime son quelle che riguardano il bene ditutto il gener umano: quelle «divine» e queste si dicono«umane cose». Adunque la vera sapienza deve la cogni-zione delle divine cose insegnare per condurre a sommobene le cose umane. Crediamo che Marco Terenzio Var-rone, il quale meritò il titolo di «dottissimo de’ romani»,su questa pianta avesse innalzata la sua grand’opera Re-rum divinarum et humanarum, della quale l’ingiuria deltempo ci fa sentire la gran mancanza. Noi in questo li-bro ne trattiamo secondo la debolezza della nostra dot-trina e scarsezza della nostra erudizione.

La sapienza tra’ gentili cominciò dalla musa, la qual èda Omero in un luogo d’oro dell’Odissea diffinita«scienza del bene e del male», la qual poi fu detta «divi-nazione»; sul cui natural divieto, perché di cosa natural-mente niegata agli uomini, Iddio fondò la vera religioneagli ebrei, onde uscì la nostra de’ cristiani, come se n’èproposta una Degnità. Sicché la musa dovett’essere pro-piamente dapprima la scienza in divinità d’auspìci; la

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quale, come innanzi nelle Degnità si è detto (e più, ap-presso, se ne dirà), fu la sapienza volgare di tutte le na-zioni di contemplare Dio per l’attributo della sua prov-vedenza, per la quale, da «divinari», la di lui essenzaappellossi divinità. E di tal sapienza vedremo appressoessere stati sappienti i poeti teologi, i quali certamentefondarono l’umanità della Grecia; onde restò a’ latinidirsi professori di sapienza gli astrologhi giudiziari.Quindi sapienza fu poi detta d’uomini chiari per avvisiutili dati al gener umano, onde furono detti i sette sap-pienti della Grecia. Appresso sapienza s’avanzò a dirsid’uomini ch’a bene de’ popoli e delle nazioni saggia-mente ordinano repubbliche e le governano. Dappois’innoltrò la voce «sapienza» a significare la scienza del-le divine cose naturali, qual è la metafisica, che perciò sichiama scienza divina, la quale, andando a conoscere lamente dell’uomo in Dio, per ciò che riconosce Dio fonted’ogni vero, dee riconoscerlo regolator d’ogni bene; tal-ché la metafisica dee essenzialmente adoperarsi a benedel gener umano, il quale si conserva sopra questo sensouniversale: che sia, la divinità, provvedente; onde forsePlatone, che la dimostra, meritò il titolo di divino, e per-ciò quella che niega a Dio un tale e tanto attributo, anzi-ché «sapienza», dee «stoltezza» appellarsi. Finalmente«sapienza» tra gli ebrei, e quindi tra noi cristiani, fu det-ta la scienza di cose eterne rivelate da Dio, la quale appoi toscani, per l’aspetto di scienza del vero bene e del ve-ro male, forse funne detta, col suo primo vocabolo,«scienza in divinità».

Quindi si deon fare tre spezie di teologia, con più diverità di quelle che ne fece Varrone: una, teologia poeti-ca, la qual fu de’ poeti teologi, che fu la teologia civile ditutte le nazioni gentili; un’altra, teologia naturale, ch’èquella de’ metafisici; e ’n luogo della terza che ne poseVarrone, ch’è la poetica, la qual appo i gentili fu la stes-sa che la civile (la qual Varrone distinse dalla civile e dal-

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la naturale, perocché, entrato nel volgare comun erroreche dentro le favole si contenessero alti misteri di subli-me filosofia, la credette mescolata dell’una dell’altra),poniamo per terza spezie la nostra teologia cristiana,mescolata di civile e di naturale e di altissima teologia ri-velata, e tutte e tre tra loro congionte dalla contempla-zione della provvedenza divina. La quale così condussele cose umane che, dalla teologia poetica che le regolavaa certi segni sensibili, creduti divini avvisi mandati agliuomini dagli dèi, per mezzo della teologia naturale, chedimostra la provvedenza per eterne ragioni che non ca-dono sotto i sensi, le nazioni si disponessero a ricevere lateologia rivelata in forza d’una fede sopranaturale, non-ché a’ sensi, superiore ad esse umane ragioni.

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2.PROPOSIZIONE E PARTIZIONE

DELLA SAPIENZA POETICA.

Ma, perché la metafisica è la scienza sublime, che ri-partisce i certi loro subbietti a tutte le scienze che si di-cono «subalterne»; e la sapienza degli antichi fu quellade’ poeti teologi, i quali senza contrasto furono i primisappienti del gentilesimo, come si è nelle Degnità stabili-to; e le origini delle cose tutte debbono per natura esserrozze: dobbiamo per tutto ciò dar incominciamento allasapienza poetica da una rozza lor metafisica, dalla quale,come da un tronco, si diramino per un ramo la logica, lamorale, l’iconomica e la politica, tutte poetiche; e per unaltro ramo, tutte eziandio poetiche, la fisica, la qual siastata madre della loro cosmografia, e quindi dell’astro-nomia, che ne dia accertate le due sue figliuole, che sonocronologia e geografia. E con ischiarite e distinte guisefarem vedere come i fondatori dell’umanità gentilescacon la loro teologia naturale (o sia metafisica) s’immagi-narono gli dèi, con la loro logica si truovarono le lingue,con la morale si generarono gli eroi, con l’iconomica sifondarono le famiglie, con la politica le città; come conla loro fisica si stabilirono i princìpi delle cose tutte divi-ni, con la fisica particolare dell’uomo in un certo modogenerarono se medesimi, con la loro cosmografia si fin-sero un lor universo tutto di dèi, con l’astronomia porta-rono da terra in cielo i pianeti e le costellazioni, con lacronologia diedero principio ai tempi, e con la geografiai greci, per cagion di esemplo, si descrissero il mondodentro la loro Grecia.

Di tal maniera questa Scienza vien ad essere ad un fia-to una storia dell’idee, costumi e fatti del gener umano.E da tutti e tre si vedranno uscir i princìpi della storiadella natura umana, e questi esser i princìpi della storia

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universale, la quale sembra ancor mancare ne’ suoiprincìpi.

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3.DEL DILUVIO UNIVERSALE E DE’ GIGANTI.

Gli autori dell’umanità gentilesca dovetter essere uo-mini delle razze di Cam, che molto prestamente, di Gia-fet, che alquanto dopo, e finalmente di Sem, ch’altri do-po altri tratto tratto rinnunziarono alla vera religione delloro comun padre Noè, la qual sola nello stato delle fa-miglie poteva tenergli in umana società con la societàde’ matrimoni, e quindi di esse famiglie medesime. Eperciò dovetter andar a dissolver i matrimoni e disper-dere le famiglie coi concubiti incerti; e, con un ferino er-ror divagando per la gran selva della terra – quella diCam per l’Asia meridionale, per l’Egitto e ’l rimanentedell’Affrica; quella di Giafet per l’Asia settentrionale,ch’è la Scizia, e di là per l’Europa; quella di Sem per tut-ta l’Asia di mezzo ad esso Oriente, – per campar dallefiere, delle quali la gran selva ben doveva abbondare, eper inseguire le donne, ch’in tale stato dovevan esser sel-vagge, ritrose e schive, e sì sbandati per truovare pascoloed acqua, le madri abbandonando i loro figliuoli, questidovettero tratto tratto crescere senza udir voce umananonché apprender uman costume, onde andarono inuno stato affatto bestiale e ferino. Nel quale le madri,come bestie, dovettero lattare solamente i bambini e la-sciargli nudi rotolare dentro le fecce loro propie, ed ap-pena spoppati abbandonargli per sempre; e questi – do-vendosi rotolare dentro le loro fecce, le quali co’ salinitri maravigliosamente ingrassano i campi; – e sforzarsiper penetrare la gran selva, che per lo fresco diluvio do-veva esser foltissima, per gli quali sforzi dovevano dila-tar altri muscoli per tenderne altri, onde i sali nitri inmaggior copia s’insinuavano ne’ loro corpi; – e senza al-cuno timore di dèi, di padri, di maestri, il qual assidera ilpiù rigoglioso dell’età fanciullesca; – dovettero a dismi-

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sura ingrandire le carni e l’ossa, e crescere vigorosamen-te robusti, e sì provenire giganti. Ch’è la ferina educazio-ne, ed in grado più fiera di quella nella quale, come nel-le Degnità si è sopra avvisato, Cesare e Tacito rifondonola cagione della gigantesca statura degli antichi germani,onde fu quella de’ goti che dice Procopio, e qual oggi èquella de los patacones che si credono presso lo stretto diMagaglianes; d’intorno alla quale han detto tante ineziei filosofi in fisica, raccolte dal Cassanione che scrisse Degigantibus. De’ quali giganti si sono truovati e tuttavia sitruovano, per lo più sopra i monti (la qual particolaritàmolto rileva per le cose ch’appresso se n’hanno a dire), ivasti teschi e le ossa d’una sformata grandezza, la qualepoi con le volgari tradizioni si alterò all’eccesso, per ciòche a suo luogo diremo.

Di giganti così fatti fu sparsa la terra dopo il diluvio,poiché, come gli abbiamo veduti sulla storia favolosa de’greci, così i filologi latini, senza avvedersene, gli ci han-no narrati sulla vecchia storia d’Italia, ov’essi dicono chegli antichissimi popoli dell’Italia detti «aborigini» si dis-sero autóchthones, che tanto suona quanto «figliuoli del-la Terra», ch’a’ greci e latini significano «nobili». E contutta propietà i figliuoli della Terra da’ greci furon detti«giganti», onde madre de’ giganti dalle favole ci è narra-ta la Terra; ed autóchthones de’ greci si devono voltarein latino «indigenæ», che sono propiamente i natii d’unaterra, siccome gli dèi natii d’un popolo o nazione si dis-sero «dii indigetes», quasi «inde geniti», ed oggi più spe-ditamente si direbbono «ingeniti». Perocché la sillaba«de», qui, è una delle ridondanti delle prime lingue de’popoli, le quali qui appresso ragioneremo; come negiunsero de’ latini quella «induperator» per «imperator»,e nelle leggi delle XII Tavole quella «endoiacito» per«iniicito» (onde forse rimasero dette «induciæ» gli armi-stizi, quasi «iniiciæ», perché debbon essere state cosìdette da «icere foedus», «far patto di pace»). Siccome, al

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nostro proposito, dagl’«indigeni», ch’or ragioniamo, re-starono detti «ingenui», i quali, prima e propiamente, si-gnificarono «nobili» (onde restarono dette «artes inge-nuæ», «arti nobili»), e finalmente restarono a significar«liberi» (ma pur «artes liberales» restaron a significar«arti nobili»), perché di soli nobili, come appresso saràdimostro, si composero le prime città, nelle qual’i plebeifurono schiavi o abbozzi di schiavi.

Gli stessi latini filologi osservano che tutti gli antichipopoli furon detti «aborigini», e la sagra storia ci narraesserne stati intieri popoli, che si dissero emmei e zan-zummei, ch’i dotti della lingua santa spiegano «giganti»,uno de’ quali fu Nebrot; e i giganti innanzi il diluvio lastessa storia sagra gli diffinisce «uomini forti, famosi,potenti del secolo». Perché gli ebrei, con la pulita edu-cazione e col timore di Dio e de’ padri, durarono nellagiusta statura, nella qual Iddio aveva criato Adamo, eNoè aveva procriato i suoi tre figliuoli; onde, forse in ab-bominazione di ciò, gli ebrei ebbero tante leggi cerimo-niali, che s’appartenevano alla pulizia de’ lor corpi. E neserbarono un gran vestigio i romani nel pubblico sagrifi-zio con cui credevano purgare la città da tutte le colpede’ cittadini, il quale facevano con l’acqua e ’l fuoco; conle quali due cose essi celebravano altresì le nozze solen-ni, e nella comunanza delle stesse due cose riponevanodi più la cittadinanza, la cui privazione perciò dissero«interdictum aqua et igni»; e tal sagrifizio chiamavano«lustrum», che, perché dentro tanto tempo si ritornava afare, significò lo spazio di cinque anni, come l’olimpiadea’ greci significò quel di quattro; e «lustrum» appo i me-desimi significò «covile di fiere», ond’è «lustrari», chesignifica egualmente e «spiare» e «purgare», che dovettesignificar dapprima spiare sì fatti lustri e purgargli dallefiere ivi dentro intanate; e «aqua lustralis» restò dettaquella ch’abbisognava ne’ sagrifizi. E i romani, con piùaccorgimento forse che i greci, che incominciarono a

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noverare gli anni dal fuoco che attaccò Ercole alla selvanemea per seminarvi il frumento (ond’esso, come accen-nammo nell’Idea dell’opera e appieno vedremo appres-so, ne fondò l’olimpiadi); con più accorgimento, dicia-mo, i romani dall’acqua delle sagre lavandecominciarono a noverare i tempi per lustri, perocchédall’acqua, la cui necessità s’intese prima del fuoco (co-me, nelle nozze e nell’interdetto, dissero prima «aqua» epoi «igni»), avesse incominciato l’umanità. E questa èl’origine delle sagre lavande che deono precedere a’ sa-grifizi, il qual costume fu ed è comune di tutte le nazio-ni. Con tal pulizia de’ corpi e col timore degli dèi e de’padri, il quale si troverà, e degli uni e degli altri, esserene’ primi tempi stato spaventosissimo, avvenne che i gi-ganti degradarono alle nostre giuste stature: il perchéforse da politéia, ch’appo i greci vuol dir «governo civi-le», venne a latini detto «politus», «nettato» e «mondo».

Tal degradamento dovette durar a farsi fin a’ tempiumani delle nazioni, come il dimostravano le smisuratearmi de’ vecchi eroi, le quali, insieme con l’ossa e i teschidegli antichi giganti, Augusto, al riferire di Suetonio,conservava nel suo museo. Quindi, come si è nelle De-gnità divisato, di tutto il primo mondo degli uomini sidevono fare due generi: cioè uno d’uomini di giusta cor-poratura, che furon i soli ebrei, e l’altro di giganti, chefurono gli autori delle nazioni gentili; e de’ giganti faredue spezie: una de’ figliuoli della Terra, ovvero nobili,che diedero il nome all’età de’ giganti, con tutta la pro-pietà di tal voce, come si è detto (e la sagra storia gli ciha diffiniti «uomini forti, famosi, potenti del secolo»);l’altra, meno propiamente detta, degli altri giganti signo-reggiati.

Il tempo di venire gli autori delle nazioni gentili in sìfatto stato si determina cento anni dal diluvio per la raz-za di Sem, e duecento per quelle di Giafet e di Cam, co-me sopra ve n’ha un postulato; e quindi a poco se n’ar-

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recherà la storia fisica, narrataci bensì dalle greche favo-le, ma finora non avvertita, la quale nello stesso tempone darà un’altra storia fisica dell’universale diluvio.

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IMETAFISICA POETICA.

1.DELLA METAFISICA POETICA, CHE NE DÀ

L’ORIGINI DELLA POESIA, DELL’IDOLATRIA,DELLA DIVINAZIONE E DE’ SAGRIFIZI.

Da sì fatti primi uomini, stupidi, insensati ed orribilibestioni, tutti i filosofi e filologi dovevan incominciar aragionare la sapienza degli antichi gentili, cioè da’ gigan-ti, testé presi nella loro propia significazione, de’ quali ilpadre Boulduc, De ecclesia ante Legem, dice che i nomide’ giganti ne’ sagri libri significano «uomini pii, venera-bili, illustri»; lo che non si può intendere che de’ gigantinobili, i quali con la divinazione fondarono le religionia’ gentili e diedero il nome all’età de’ giganti. E doveva-no incominciarla dalla metafisica, siccome quella che vaa prendere le sue pruove non già da fuori ma da dentrole modificazioni della propia mente di chi la medita,dentro le quali, come sopra dicemmo, perché questomondo di nazioni egli certamente è stato fatto dagli uo-mini, se ne dovevan andar a truovar i princìpi; e la natu-ra umana, in quanto ella è comune con le bestie, portaseco questa propietà: ch’i sensi sieno le sole vie ond’ellaconosce le cose.

Adunque la sapienza poetica, che fu la prima sapien-za della gentilità, dovette incominciare da una metafisi-ca, non ragionata ed astratta qual è questa or degli ad-dottrinati, ma sentita ed immaginata quale dovett’esseredi tai primi uomini, siccome quelli ch’erano di niuno ra-ziocinio e tutti robusti sensi e vigorosissime fantasie,com’è stato nelle Degnità stabilito. Questa fu la loropropia poesia, la qual in essi fu una facultà loro connatu-

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rale (perch’erano di tali sensi e di sì fatte fantasie natu-ralmente forniti), nata da ignoranza di cagioni, la qual fuloro madre di maraviglia di tutte le cose, che quelli,ignoranti di tutte le cose, fortemente ammiravano, comesi è accennato nelle Degnità. Tal poesia incominciò inessi divina, perché nello stesso tempo ch’essi immagina-vano le cagioni delle cose, che sentivano ed ammirava-no, essere dèi, come nelle Degnità il vedemmo con Lat-tanzio (ed ora il confermiamo con gli americani, i qualitutte le cose che superano la loro picciola capacità dico-no esser dèi; a’ quali aggiugniamo i germani antichi, abi-tatori presso il mar Agghiacciato, de’ quali Tacito narrache dicevano d’udire la notte il Sole, che dall’occidentepassava per mare nell’oriente, ed affermavano di vederegli dèi: le quali rozzissime e semplicissime nazioni cidanno ad intendere molto più di questi autori della gen-tilità, de’ quali ora qui si ragiona); nello stesso tempo,diciamo, alle cose ammirate davano l’essere di sostanzedalla propia lor idea, ch’è appunto la natura de’ fanciul-li, che, come se n’è proposta una degnità, osserviamoprendere tra mani cose inanimate e trastullarsi e favel-larvi come fusser, quelle, persone vive.

In cotal guisa i primi uomini delle nazioni gentili, co-me fanciulli del nascente gener umano, quali gli abbia-mo pur nelle Degnità divisato, dalla lor idea criavan essile cose, ma con infinita differenza però dal criare che faIddio: perocché Iddio, nel suo purissimo intendimento,conosce e, conoscendole, cria le cose; essi, per la loro ro-busta ignoranza, il facevano in forza d’una corpolentissi-ma fantasia, e, perch’era corpolentissima, il facevanocon una maravigliosa sublimità, tal e tanta che perturba-va all’eccesso essi medesimi che fingendo le si criavano,onde furon detti «poeti», che lo stesso in greco suonache «criatori». Che sono gli tre lavori che deve fare lapoesia grande, cioè di ritruovare favole sublimi confa-centi all’intendimento popolaresco, e che perturbi

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all’eccesso, per conseguir il fine, ch’ella si ha proposto,d’insegnar il volgo a virtuosamente operare, com’essil’insegnarono a se medesimi; lo che or ora si mostrerà. Edi questa natura di cose umane restò eterna propietà,spiegata con nobil espressione da Tacito: che vanamentegli uomini spaventati «fingunt simul creduntque».

Con tali nature si dovettero ritruovar i primi autoridell’umanità gentilesca quando – dugento anni dopo ildiluvio per lo resto del mondo e cento nella Mesopota-mia, come si è detto in un postulato (perché tanto ditempo v’abbisognò per ridursi la terra nello stato che,disseccata dall’umidore dell’universale innondazione,mandasse esalazioni secche, o sieno materie ignite,nell’aria ad ingenerarvisi i fulmini) – il cielo finalmentefolgorò, tuonò con folgori e tuoni spaventosissimi, comedovett’avvenire per introdursi nell’aria la prima voltaun’impressione sì violenta. Quivi pochi giganti, che do-vetter esser gli più robusti, ch’erano dispersi per gli bo-schi posti sull’alture de’ monti, siccome le fiere più ro-buste ivi hanno i loro covili, eglino, spaventati edattoniti dal grand’effetto di che non sapevano la cagio-ne, alzarono gli occhi ed avvertirono il cielo. E perché intal caso la natura della mente umana porta ch’ella attri-buisca all’effetto la sua natura, come si è detto nelle De-gnità, e la natura loro era, in tale stato, d’uomini tutti ro-buste forze di corpo, che, urlando, brontolando,spiegavano le loro violentissime passioni; si finsero ilcielo esser un gran corpo animato, che per tal aspettochiamarono Giove, il primo dio delle genti dette «mag-giori», che col fischio de’ fulmini e col fragore de’ tuonivolesse dir loro qualche cosa; e sì incominciarono a cele-brare la naturale curiosità, ch’è figliuola dell’ignoranza emadre della scienza, la qual partorisce, nell’aprire che fadella mente dell’uomo, la maraviglia, come tra gli Ele-menti ella sopra si è diffinita. La qual natura tuttavia du-ra ostinata nel volgo, ch’ove veggano o una qualche co-

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meta o parelio o altra stravagante cosa in natura, e parti-colarmente nell’aspetto del cielo, subito danno nella cu-riosità e, tutti anziosi nella ricerca, domandano chequella tal cosa voglia significare, come se n’è data unaDegnità; ed ove ammirano gli stupendi effetti della cala-mita col ferro, in questa stessa età di menti più scorte ebenanco erudite dalle filosofie, escono colà: che la cala-mita abbia una simpatia occulta col ferro, e sì fanno ditutta la natura un vasto corpo animato che senta passio-ni ed affetti, conforme nelle Degnità anco si è divisato.

Ma, siccome ora (per la natura delle nostre umanementi, troppo ritirata da’ sensi nel medesimo volgo conle tante astrazioni di quante sono piene le lingue contanti vocaboli astratti, e di troppo assottigliata con l’artedello scrivere, e quasi spiritualezzata con la pratica de’numeri, ché volgarmente sanno di conto e ragione) ci ènaturalmente niegato di poter formare la vasta immagi-ne di cotal donna che dicono «Natura simpatetica» (chementre con la bocca dicono, non hanno nulla in lormente, perocché la lor mente è dentro il falso, ch’è nul-la, né sono soccorsi già dalla fantasia a poterne formareuna falsa vastissima immagine); così ora ci è naturalmen-te niegato di poter entrare nella vasta immaginativa dique’ primi uomini, le menti de’ quali di nulla eranoastratte, di nulla erano assottigliate, di nulla spiritualez-zate, perch’erano tutte immerse ne’ sensi, tutte rintuzza-te dalle passioni, tutte seppellite ne’ corpi: onde dicem-mo sopra ch’or appena intender si può, affattoimmaginar non si può, come pensassero i primi uominiche fondarono l’umanità gentilesca.

In tal guisa i primi poeti teologi si finsero la prima fa-vola divina, la più grande di quante mai se ne finsero ap-presso, cioè Giove, re e padre degli uomini e degli dèi,ed in atto di fulminante; sì popolare, perturbante ed in-segnativa, ch’essi stessi, che sel finsero, sel credettero econ ispaventose religioni, le quali appresso si mostreran-

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no, il temettero, il riverirono e l’osservarono. E per quel-la propietà della mente umana che nelle Degnità udim-mo avvertita da Tacito, tali uomini tutto ciò che vedeva-no, immaginavano ed anco essi stessi facevano,credettero esser Giove, ed a tutto l’universo di cui pote-van esser capaci ed a tutte le parti dell’universo diederol’essere di sostanza animata. Ch’è la storia civile di quelmotto:

... Iovis omnia plena,

che poi Platone prese per l’etere, che penetra ed em-pie tutto; ma per gli poeti teologi, come quindi a pocovedremo, Giove non fu più alto della cima de’ monti.Quivi i primi uomini, che parlavan per cenni, dalla loronatura credettero i fulmini, i tuoni fussero cenni di Gio-ve (onde poi da «nuo», «cennare» fu detta «numen» la«divina volontà», con una troppo sublime idea e degnada spiegare la maestà divina), che Giove comandasse co’cenni, e tali cenni fussero parole reali, e che la naturafusse la lingua di Giove; la scienza della qual lingua cre-dettero universalmente le genti essere la divinazione, laqual da’ greci ne fu detta «teologia», che vuol dire«scienza del parlar degli dèi». Così venne a Giove il te-muto regno del fulmine, per lo qual egli è ’l re degli uo-mini e degli dèi; e vennero i due titoli: uno di «ottimo»,in significato di «fortissimo» (come a rovescio appo iprimi latini «fortus» significò ciò che agli ultimi significa«bonus»), e l’altro di «massimo», dal di lui vasto corpoquant’egli è ’l cielo. E da questo primo gran beneficiofatto al gener umano vennegli il titolo di «sotere» o di«salvadore», perché non gli fulminò (ch’è il primo deglitre princìpi ch’abbiamo preso di questa Scienza); e ven-negli quel di «statore» o di «fermatore», perché fermòque’ pochi giganti dal loro ferino divagamento, onde poidivennero i principi delle genti. Lo che i filologi latini

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troppo ristrinsero al fatto: perocché Giove, invocato daRomolo, avesse fermato i romani che nella battaglia co’sabini si erano messi in fuga.

Quindi tanti Giovi, che fanno maraviglia a’ filologi,perché ogni nazione gentile n’ebbe uno (de’ quali tutti,gli egizi, come si è sopra detto nelle Degnità, per la loroboria dicevano il loro Giove Ammone essere lo più anti-co), sono tante istorie fisiche conservateci dalle favole,che dimostravano essere stato universale il diluvio, comeil promettemmo nelle Degnità.

Così, per ciò che si è detto nelle Degnità d’intorno a’princìpi de’ caratteri poetici, Giove nacque in poesia na-turalmente carattere divino, ovvero un universale fanta-stico, a cui riducevano tutte le cose degli auspìci tutte leantiche nazioni gentili, che tutte perciò dovetter essereper natura poetiche; che incominciarono la sapienzapoetica da questa poetica metafisica di contemplare Dioper l’attributo della sua provvedenza; e se ne dissero«poeti teologi», ovvero sappienti che s’intendevano delparlar degli dèi conceputo con gli auspìci di Giove, e nefurono detti propiamente «divini», in senso d’«indovi-natori», da «divinari», che propiamente è «indovinare»o «predire»: la quale scienza fu detta «musa», diffinitacisopra da Omero essere la scienza del bene e del male,cioè la divinazione, sul cui divieto ordinò Iddio ad Ada-mo la sua vera religione, come nelle Degnità si è pur det-to. Dalla qual mistica teologia i poeti da’ greci furonochiamati «mystæ», che Orazio con iscienza trasporta«interpetri degli dèi», che spiegavano i divini misteri de-gli auspìci e degli oracoli: nella quale scienza ogni nazio-ne gentile ebbe una sua sibilla, delle quali ce ne sonomentovate pur dodici; e le sibille e gli oracoli sono le co-se più antiche della gentilità.

Così con le cose tutte qui ragionate accorda queld’Eusebio riferito nelle Degnità, ove ragiona de’ princìpidell’idolatria: che la prima gente, semplice e rozza, si

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finse gli dèi «ob terrorem præsentis potentiæ». Così il ti-more fu quello che finse gli dèi nel mondo; ma, come siavvisò nelle Degnità, non fatto da altri ad altri uomini,ma da essi a se stessi. Con tal principio dell’idolatria si èdimostrato altresì il principio della divinazione, che nac-quero al mondo ad un parto; a’ quali due princìpi va diséguito quello de’ sagrifizi, ch’essi facevano per «proc-curare» o sia ben intender gli auspìci.

Tal generazione della poesia ci è finalmente confer-mata da questa sua eterna propietà: che la di lei propiamateria è l’impossibile credibile, quanto egli è impossi-bile ch’i corpi sieno menti (e fu creduto che ’l cielo to-nante si fusse Giove); onde i poeti non altrove maggior-mente si esercitano che nel cantare le maraviglie fattedalle maghe per opera d’incantesimi: lo che è da rifon-dersi in un senso nascosto c’hanno le nazioni dell’onni-potenza di Dio, dal quale nasce quell’altro per lo qualetutti i popoli sono naturalmente portati a far infinitionori alla divinità. E in cotal guisa i poeti fondarono lereligioni a’ gentili.

E per tutte le finora qui ragionate cose si rovescia tut-to ciò che dell’origine della poesia si è detto prima daPlatone, poi da Aristotile, infin a’ nostri Patrizi, Scalige-ri, Castelvetri; ritruovatosi che per difetto d’umano ra-ziocinio nacque la poesia tanto sublime che per filosofiele quali vennero appresso, per arti e poetiche e critiche,anzi per queste istesse non provenne altra pari nonchémaggiore: ond’è il privilegio per lo qual Omero è ’l prin-cipe di tutti i sublimi poeti, che sono gli eroici, non me-no per lo merito che per l’età. Per la quale discoverta de’princìpi della poesia si è dileguata l’oppenione della sa-pienza innarrivabile degli antichi, cotanto disiderata discuoprirsi da Platone infin a Bacone da Verulamio, Desapientia veterum, la quale fu sapienza volgare di legisla-tori che fondarono il gener umano, non già sapienza ri-posta di sommi e rari filosofi. Onde, come si è incomin-

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ciato quinci a fare da Giove, si truoveranno tanto im-portuni tutti i sensi mistici d’altissima filosofia dati daidotti alle greche favole ed a’ geroglifici egizi, quanto na-turali usciranno i sensi storici che quelle e questi natu-ralmente dovevano contenere.

2.COROLLARI D’INTORNO AGLI ASPETTI

PRINCIPALI DI QUESTA SCIENZA.

I

Dal detto fino qui si raccoglie che la provvedenza di-vina, appresa per quel senso umano che potevano senti-re uomini crudi, selvaggi e fieri, che ne’ disperati soccor-si della natura anco essi disiderano una cosa alla naturasuperiore che gli salvasse (ch’è ’l primo principio sopradi cui noi sopra stabilimmo il metodo di questa Scien-za), permise loro d’entrar nell’inganno di temere la falsadivinità di Giove, perché poteva fulminargli; e sì, dentroi nembi di quelle prime tempeste e al barlume di que’lampi, videro questa gran verità: che la provvedenza di-vina sovraintenda alla salvezza di tutto il gener umano.Talché quindi questa scienza incomincia, per tal princi-pal aspetto, ad essere una teologia civile ragionata dellaprovvedenza, la quale cominciò dalla sapienza volgarede’ legislatori che fondarono le nazioni con contemplareDio per l’attributo di provvedente, e si compiè con la sa-pienza riposta de’ filosofi che ’l dimostrano con ragioninella loro teologia naturale.

II

Quindi incomincia ancora una filosofia dell’autorità,ch’è altro principal aspetto c’ha questa Scienza, pren-dendo la voce «autorità» nel primo suo significato di

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«propietà», nel qual senso sempre è usata questa vocedalla legge delle XII Tavole; onde restaron «autori» det-ti in civil ragione romana coloro da’ quali abbiamo ca-gion di dominio, che tanto certamente viene da autós,«proprius» o «suus ipsius», che molti eruditi scrivono«autor» e «autoritas» non aspirati.

E l’autorità incominciò primieramente divina, con laquale la divinità appropiò a sé i pochi giganti ch’abbia-mo detti, con propiamente atterrargli nel fondo e ne’ na-scondigli delle grotte per sotto i monti; che sono l’anelladi ferro con le quali restarono i giganti, per lo spaventodel cielo e di Giove, incatenati alle terre dov’essi, al pun-to del primo fulminare del cielo, dispersi per sopra imonti, si ritruovavano: quali furono Tizio e Prometeo,incatenati ad un’alta rupe, a’ quali divorava il cuoreun’aquila, cioè la religione degli auspìci di Giove; sicco-me gli «resi immobili per lo spavento» restarono confrase eroica detti a’ latini «terrore defixi», come appuntoi pittori gli dipingono di mani e piedi incatenati con talianella sotto de’ monti. Dalle quali anella si formò la grancatena, nella quale Dionigi Longino ammira la maggioresublimità di tutte le favole omeriche: la qual catena Gio-ve, per appruovare ch’esso è ’l re degli uomini e deglidèi, propone che, se da una parte vi si attenessero tuttigli dèi e tutti gli uomini, esso solo dall’altra parte oppo-sta gli strascinerebbesi tutti dietro; la qual catena se glistoici vogliono che significhi la serie eterna delle cagionicon la quale il lor fato tenga cinto e legato il mondo, ve-dano ch’essi non vi restino avvolti, perché lo strascina-mento degli uomini e degli dèi con sì fatta catena eglipende dall’arbitrio di esso Giove, ed essi vogliono Gio-ve soggetto al fato.

Sì fatta autorità divina portò di séguito l’autoritàumana, con tutta la sua eleganza filosofica di propietàd’umana natura, che non può essere tolta all’uomo nem-men da Dio senza distruggerlo: siccome in tal significato

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Terenzio disse: «voluptates proprias deorum», che la feli-cità di Dio non dipende da altri; ed Orazio disse «pro-priam virtutis laurum», che ’l trionfo della virtù non puòtogliersi dall’invidia; e Cesare disse «propriamvictoriam», che con errore Dionigi Petavio nota non es-ser detto latino, perché, pur con troppa latina eleganza,significa una vittoria che ’l nimico non poteva toglierglidalle mani. Cotal autorità è il libero uso della volontà,essendo l’intelletto una potenza passiva soggetta alla ve-rità: perché gli uomini da questo primo punto di tutte lecose umane incominciaron a celebrare la libertàdell’umano arbitrio di tener in freno i moti de’ corpi,per o quetargli affatto o dar loro migliore direzione(ch’è ’l conato propio degli agenti liberi, come abbiamdetto sopra nel Metodo); onde que’ giganti si ristetterodal vezzo bestiale d’andar vagando per la gran selva del-la terra e s’avvezzarono ad un costume, tutto contrario,di stare nascosti e fermi lunga età dentro le loro grotte.

A sì fatta autorità di natura umana seguì l’autorità didiritto naturale: che, con l’occupare e stare lungo tempofermi nelle terre dove si erano nel tempo de’ primi ful-mini per fortuna truovati, ne divennero signori per l’oc-cupazione, con una lunga possessione, ch’è ’l fonte ditutti i domìni del mondo. Onde questi sono que’

pauci quos æquus amavitIupiter,

che poi i filosofi trasportarono a coloro c’han sortitoda Dio indoli buone per le scienze e per le virtù: ma ilsenso istorico di tal motto è che tra que’ nascondigli, inque’ fondi essi divennero i principi delle genti dette«maggiori», delle quali Giove si novera il primo dio, co-me si è nelle Degnità divisato; le quali, come si mostreràappresso, furono case nobili antiche, diramate in molte

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famiglie, delle quali si composero i primi regni e le pri-me città. Di che restarono quelle bellissime frasi eroichea’ latini: «condere gentes», «condere regna», «condere ur-bes»; «fundare gentes», «fundare regna», «fundare ur-bes».

Questa filosofia dell’autorità va di séguito alla teolo-gia civile ragionata della provvedenza, perché, per lepruove teologiche di quella, questa, con le sue filosofi-che, rischiara e distingue le filologiche (le quali tre spe-zie di pruove si sono tutte noverate nel Metodo), e d’in-torno alle cose dell’oscurissima antichità delle nazioniriduce a certezza l’umano arbitrio, ch’è di sua natura in-certissimo, come nelle Degnità si è avvisato. Ch’è tantodire quanto riduce la filologia in forma di scienza.

III

Terzo principal aspetto è una storia d’umane idee,che, come testé si è veduto, incominciarono da idee divi-ne con la contemplazione del cielo fatta con gli occhi delcorpo: siccome nella scienza augurale si disse da’ romani«contemplari» l’osservare le parti del cielo donde venis-sero gli augùri o si osservassero gli auspìci, le quali re-gioni, descritte dagli àuguri co’ loro litui, si dicevano«templa coeli», onde dovettero venir a’ greci i primitheorémata e mathémata, «divine o sublimi cose da con-templarsi», che terminarono nelle cose astratte metafisi-che e mattematiche. Ch’è la storia civile di quel motto:

A Iove principium musæ;

siccome da’ fulmini di Giove testé abbiam veduto in-cominciare la prima musa, che Omero ci diffinì «scienzadel bene e del male»; dove poi venne troppo agiato a’ fi-losofi d’intrudervi quel placito: che «‘l principio dellasapienza sia la pietà». Talché la prima musa dovett’esser

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Urania, contemplatrice del cielo affin di prender gliaugùri, che poi passò a significare l’astronomia, come sivedrà appresso. E come sopra si è partita la metafisicapoetica in tutte le scienze subalterne, dalla stessa naturadella lor madre, poetiche; così questa storia d’idee nedarà le rozze origini così delle scienze pratiche che co-stuman le nazioni, come delle scienze specolative le qua-li, ora còlte, son celebrate da’ dotti.

IV

Quarto aspetto è una critica filosofica, la qual nascedalla istoria dell’idee anzidetta; e tal critica giudicherà ilvero sopra gli autori delle nazioni medesime, nelle qualidee correre da assai più di mille anni per potervi prove-nir gli scrittori, che sono il subbietto di questa critica fi-lologica. Tal critica filosofica, quindi incominciando daGiove, ne darà una teogonia naturale, o sia generazionedegli dèi fatta naturalmente nelle menti degli autori del-la gentilità, che furono per natura poeti teologi; e i dodi-ci dèi delle genti dette «maggiori», l’idee de’ quali da co-storo si fantasticarono di tempo in tempo a certe loroumane necessità o utilità, si stabiliscono per dodici mi-nute epoche, alle quali si ridurranno i tempi ne’ qualinacquero le favole. Onde tal teogonia naturale ne daràuna cronologia ragionata della storia poetica almeno unnovecento anni innanzi di avere, dopo il tempo eroico, isuoi primi incominciamenti la storia volgare.

V

Il quinto aspetto è una storia ideal eterna sopra laquale corrano in tempo le storie di tutte le nazioni,ch’ovunque da tempi selvaggi, feroci e fieri comincianogli uomini ad addimesticarsi con le religioni, esse comin-ciano, procedono e finiscono con quelli gradi meditati

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in questo libro secondo, rincontrati nel libro quarto, ovetratteremo del corso che fanno le nazioni, e col ricorsodelle cose umane, nel libro quinto.

VI

Il sesto è un sistema del diritto natural delle genti, dalquale col cominciar delle genti, dalle quali ne incomin-cia la materia per una delle degnità sopraposta, doveva-no cominciar la dottrina ch’essi trattano gli tre suoi prin-cipi: Ugone Grozio, Giovanni Seldeno e SamuelloPufendorfio. I quali in ciò tutti e tre errarrono di con-certo: incominciandola dalla metà in giù, cioè dagli ulti-mi tempi delle nazioni ingentillte (e quindi degli uominiilluminati dalla ragion naturale tutta spiegata), dallequali son usciti i filosofi, che s’alzarono a meditare unaperfetta idea di giustizia.

Primieramente Grozio, il quale, per lo stessogrand’affetto che porta alla verità, prescinde dalla prov-vedenza divina e professa che ’l suo sistema regga preci-sa anco ogni cognizione di Dio. Onde tutte le riprensio-ni, ch’in un gran numero di materie fa contro igiureconsulti romani, loro non appartengono punto, sic-come a quelli i quali, avendone posto per principio laprovvedenza divina, intesero ragionare del diritto natu-ral delle genti, non già di quello de’ filosofi e de’ moraliteologi.

Dipoi il Seldeno la suppone, senza punto avvertireall’inospitalità de’ primi popoli, né alla divisione che ’lpopolo di Dio faceva, di tutto il mondo allor delle nazio-ni, tra ebrei e genti; – né a quello: che, perché gli ebreiavevano perduto di vista il loro diritto naturale nellaschiavitù dell’Egitto, dovett’esso Dio riordinarlo lorocon la Legge la qual diede a Mosè sopra il Sina; – né aquell’altro: che Iddio nella sua Legge vieta anco i pen-sieri meno che giusti, de’ quali niuno de’ legislatori mor-

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tali mai s’impacciò; – oltre all’origini bestiali, che qui siragionano, di tutte le nazioni gentili. E se pretended’averlo gli ebrei a’ gentili insegnato appresso, gli riesceimpossibile a poterlo pruovare, per la confessione ma-gnanima di Giuseffo assistita dalla grave riflessione diLattanzio sopra arrecata, e per la nimistà che pur sopraosservammo aver avuto gli ebrei con le genti, la qual an-cor ora conservano dissipati tra tutte le nazioni.

E finalmente Pufendorfio, che l’incomincia conun’ipotesi epicurea, che pone l’uomo gittato in questomondo senza niun aiuto e cura di Dio. Di che essendonestato ripreso, quantunque con una particolar disserta-zione se ne giustifichi, però senza il primo principio del-la provvedenza non può affatto aprir bocca a ragionaredi diritto, come l’udimmo da Cicerone dirsi ad Attico, ilqual era epicureo, dove gli ragionò delle leggi.

Per tutto ciò, noi da questo primo antichissimo puntodi tutti i tempi incominciamo a ragionare di diritto, det-to da’ latini «ius», contratto dall’antico «Ious»: dal mo-mento che nacque in mente a’ principi delle genti l’ideadi Giove. Nello che a maraviglia co’ latini convengono igreci, i quali per bella nostra ventura osserva Platone nelCratilo che dapprima il gius dissero diaión, che tantosuona quanto «discurrens» o «permanens» (la qual origi-ne filosofica vi è intrusa dallo stesso Platone, il qualecon mitologia erudita prende Giove per l’etere che pe-netra e scorre tutto; ma l’origine istorica viene da essoGiove, che pur da’ greci fu detto Diós, onde vennero a’latini «sub dio» egualmente e «sub Iove» per dir «a cielaperto»), e che poi per leggiadria di favella avesseroprofferito díkaion. Laonde incominciamo a ragionaredel diritto, che prima nacque divino, con la propietà concui ne parlò la divinazione o sia scienza degli auspìci diGiove, che furono le cose divine con le quali le genti re-golavano tutte le cose umane, ch’entrambe compiono al-la giurisprudenza il di lei adeguato subbietto. E sì inco-

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minciamo a ragionare del diritto naturale dall’idea di es-sa provvedenza divina, con la quale nacque congenital’idea di diritto; il quale, come dianzi se n’è meditata laguisa, si cominciò naturalmente ad osservare da’ princi-pi delle genti propiamente dette e della spezie più anti-ca, le quali si appellarono «genti maggiori», delle qualiGiove fu il primo dio.

VII

Il settimo ed ultimo de’ principali aspetti c’ha questaScienza è di princìpi della storia universale. La quale daquesto primo momento di tutte le cose umane della gen-tilità incomincia con la prima età del mondo che diceva-no gli egizi scorsa loro dinanzi, che fu l’età degli dèi: nel-la quale comincia il Cielo a regnar in terra e far agliuomini de’ grandi benefizi, come si ha nelle Degnità; co-mincia l’età dell’oro de’ greci, nella quale gli dèi pratica-vano in terra con gli uomini, come qui abbiamo vedutoaver incominciato a fare Giove. Così i greci poeti daquesta tal prima età del mondo ci hanno nelle loro favo-le fedelmente narrato l’universale diluvio e i giganti es-sere stati in natura, e sì ci hanno con verità narrato iprincìpi della storia universale profana. Ma, non poten-do poscia i vegnenti entrare nelle fantasie de’ primi uo-mini che fondarono il gentilesimo, per le quali sembravaloro di vedere gli dèi; – e non intesasi la propietà di talvoce «atterrare», ch’era «mandar sotterra»; – e perché igiganti, i quali vivevano nascosti nelle grotte sotto de’monti, per le tradizioni appresso di genti sommamentecredule furono alterati all’eccesso ed appresi ch’impo-nessero Olimpo, Pelio ed Ossa, gli uni sopra degli altri,per cacciare gli dèi (che i primi giganti empi non giàcombatterono, ma non avevano appreso finché Giovenon fulminasse) dal cielo, innalzato appresso dalle men-ti greche vieppiù spiegate ad una sformata altezza, il

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quale a’ primi giganti fu la cima de’ monti, come appres-so dimostreremo (la qual favola dovette fingersi dopoOmero e da altri esser stata nell’Odissea appiccata adOmero, al cui tempo bastava che crollasse l’Olimpo soloper farne cadere gli dèi, che Omero nell’Iliade semprenarra allogati sulla cima del monte Olimpo): – per tuttequeste cagioni ha finora mancato il principio e, per ave-re finor mancato la cronologia ragionata della storiapoetica, ha mancato ancora la perpetuità della storiauniversale profana.

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IILOGICA POETICA.

1.DELLA LOGICA POETICA

Or – perché quella ch’è metafisica in quanto contem-pla le cose per tutti i generi dell’essere, la stessa è logicain quanto considera le cose per tutti i generi di signifi-carle – siccome la poesia è stata sopra da noi considerataper una metafisica poetica, per la quale i poeti teologiimmaginarono i corpi essere per lo più divine sostanze,così la stessa poesia or si considera come logica poetica,per la qual le significa.

«Logica» vien detta dalla voce lógos, che prima e pro-piamente significò «favola», che si trasportò in italiano«favella» – e la favola da’ greci si disse anco mûthos, on-de vien a’ latini «mutus», – la quale ne’ tempi mutolinacque mentale, che in un luogo d’oro dice Strabone es-sere stata innanzi della vocale o sia dell’articolata: ondelógos significa e «idea» e «parola». E convenevolmentefu così dalla divina provvedenza ordinato in tali tempireligiosi, per quella eterna propietà: ch’alle religioni piùimporta meditarsi che favellarne; onde tal prima linguane’ primi tempi mutoli delle nazioni, come si è detto nel-le Degnità, dovette cominciare con cenni o atti o corpich’avessero naturali rapporti all’idee: per lo che lógos o«verbum» significò anche «fatto» agli ebrei, ed a’ grecisignificò anche «cosa», come osserva Tommaso Gata-chero, De instrumenti stylo. E pur mûthos ci giunse diffi-nita «vera narratio», o sia «parlar vero», che fu il «parlarnaturale» che Platone prima e dappoi Giamblico disse-ro essersi parlato una volta nel mondo; i quali, come ve-demmo nelle Degnità, perché ’l dissero indovinando, av-

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venne che Platone e spese vana fatiga d’andarlo truo-vando nel Cratilo, e ne fu attaccato da Aristotile e daGaleno: perché cotal primo parlare, che fu de’ poeti teo-logi, non fu un parlare secondo la natura di esse cose(quale dovett’esser la lingua santa ritruovata da Adamo,a cui Iddio concedette la divina onomathesia ovvero im-posizione de’ nomi alle cose secondo la natura di cia-scheduna), ma fu un parlare fantastico per sostanze ani-mate, la maggior parte immaginate divine.

Così Giove, Cibele o Berecintia, Nettunno, per cagio-ne d’esempli, intesero e, dapprima mutoli additando,spiegarono esser esse sostanze del cielo, della terra, delmare, ch’essi immaginarono animate divinità, e perciòcon verità di sensi gli credevano dèi: con le quali tre di-vinità, per ciò ch’abbiam sopra detto de’ caratteri poeti-ci, spiegavano tutte le cose appartenenti al cielo, alla ter-ra, al mare; e così con l’altre significavano le speziedell’altre cose a ciascheduna divinità appartenenti, cometutti i fiori a Flora, tutte le frutte a Pomona. Lo che noipur tuttavia facciamo, al contrario, delle cose dello spiri-to; come delle facultà della mente umana, delle passioni,delle virtù, de’ vizi, delle scienze, dell’arti, delle qualiformiamo idee per lo più di donne, ed a quelle riducia-mo tutte le cagioni, tutte le propietà e ’nfine tutti gli ef-fetti ch’a ciascuna appartengono: perché, ove vogliamotrarre fuori dall’intendimento cose spirituali, dobbiamoessere soccorsi dalla fantasia per poterle spiegare e, co-me pittori, fingerne umane immagini. Ma essi poeti teo-logi, non potendo far uso dell’intendimento, con unopiù sublime lavoro tutto contrario, diedero sensi e pas-sioni, come testé si è veduto, a’ corpi, e vastissimi corpiquanti sono cielo, terra, mare; che poi, impicciolendosicosì vaste fantasie e invigorendo l’astrazioni, furono pre-si per piccioli loro segni. E la metonimia spose in com-parsa di dottrina l’ignoranza di queste finor seppolteorigini di cose umane: e Giove ne divenne sì picciolo e sìleggieri ch’è portato a volo da un’aquila; corre Nettunno

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sopra un dilicato cocchio per mare; e Cibele è assisa so-pra un lione.

Quindi le mitologie devon essere state i propi parlaridelle favole (ché tanto suona tal voce); talché, essendo lefavole, come sopra si è dimostrato, generi fantastici, lemitologie devon essere state le loro propie allegorie. Ilqual nome, come si è nelle Degnità osservato, ci vennediffinito «diversiloquium», in quanto, con identità nondi proporzione ma, per dirla alla scolastica, di predica-bilità, esse significano le diverse spezie o i diversi indivi-dui compresi sotto essi generi: tanto che devon avereuna significazione univoca, comprendente una ragioncomune alle loro spezie o individui (come d’Achille,un’idea di valore comune a tutti i forti; come d’Ulisse,un’idea di prudenza comune a tutti i saggi); talché sì fat-te allegorie debbon essere l’etimologie de’ parlari poeti-ci, che ne dassero le loro origini tutte univoche, comequelle de’ parlari volgari lo sono più spesso analoghe. Ece ne giunse pure la diffinizione d’essa voce «etimolo-gia», che suona lo stesso che «veriloquium», siccome es-sa favola ci fu diffinita «vera narratio».

2.COROLLARI D’INTORNO A’ TROPI, MOSTRI E

TRASFORMAZIONI POETICHE.

I

Di questa logica poetica sono corollari tutti i primitropi, de’ quali la più luminosa e, perché più luminosa,più necessaria e più spessa è la metafora, ch’allora èvieppiù lodata quando alle cose insensate ella dà senso epassione, per la metafisica sopra qui ragionata: ch’i pri-mi poeti dieder a’ corpi l’essere di sostanze animate, soldi tanto capaci di quanto essi potevano, cioè di senso edi passione, e sì ne fecero le favole; talché ogni metafora

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sì fatta vien ad essere una picciola favoletta. Quindi sene dà questa critica d’intorno al tempo che nacqueronelle lingue: che tutte le metafore portate con simiglian-ze prese da’ corpi a significare lavori di menti astrattedebbon essere de’ tempi ne’ quali s’eran incominciate adirozzar le filosofie. Lo che si dimostra da ciò: ch’in ognilingua le voci ch’abbisognano all’arti colte ed alle scien-ze riposte hanno contadinesche le lor origini.

Quello è degno d’osservazione: che ’n tutte le linguela maggior parte dell’espressioni d’intorno a cose inani-mate sono fatte con trasporti del corpo umano e dellesue parti e degli umani sensi e dell’umane passioni. Co-me «capo», per cima o principio; «fronte», «spalle»,avanti e dietro; «occhi» delle viti e quelli che si dicono«lumi» ingredienti delle case; «bocca», ogni apertura;«labro», orlo di vaso o d’altro; «dente» d’aratro, di ra-stello, di serra, di pettine; «barbe», le radici; «lingua» dimare; «fauce» o foce di fiumi o monti; «collo» di terra;«braccio» di fiume; mano, per picciol numero; «seno»di mare, il golfo; fianchi e lati, i canti; «costiera» di ma-re; «cuore», per lo mezzo (ch’«umbilicus» dicesi da’ lati-ni); «gamba» o «piede» di paesi, e «piede» per fine;«pianta» per base o sia fondamento; «carne», «ossa» difrutte; «vena» d’acqua, pietra, miniera; «sangue» dellavite, il vino; «viscere» della terra; «ride» il cielo, il mare;«fischia il vento»; «mormora» l’onda; «geme» un corposotto un gran peso; e i contadini del Lazio dicevano «si-tire agros», «laborare fructus», «luxuriari segetes»; e i no-stri contadini «andar in amore le piante», «andar in paz-zia le viti», «lagrimare gli orni»; ed altre che si possonoraccogliere innumerabili in tutte le lingue. Lo che tuttova di séguito a quella degnità: che «l’uomo ignorante sifa regola dell’universo», siccome negli esempli arrecatiegli di se stesso ha fatto un intiero mondo. Perché comela metafisica ragionata insegna che «homo intelligendofit omnia», così questa metafisica fantasticata dimostra

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che «homo non intelligendo fit omnia»; e forse con piùdi verità detto questo che quello, perché l’uomo conl’intendere spiega la sua mente e comprende esse cose,ma col non intendere egli di sé fa esse cose e, col tran-sformandovisi, lo diventa.

II

Per cotal medesima logica, parto di tal metafisica, do-vettero i primi poeti dar i nomi alle cose dall’idee piùparticolari e sensibili; che sono i due fonti, questo dellametonimia e quello della sineddoche. Perocché la meto-nimia degli autori per l’opere nacque perché gli autorierano più nominati che l’opere; quella de’ subbietti perle loro forme ed aggiunti nacque perché, come nelle De-gnità abbiamo detto, non sapevano astrarre le forme e laqualità da’ subbietti; certamente quella delle cagioni pergli di lor effetti sono tante picciole favole, con le quali lecagioni s’immaginarono esser donne vestite de’ lor effet-ti, come sono la Povertà brutta, la Vecchiezza trista, laMorte pallida.

III

La sineddoche passò in trasporto poi con l’alzarsi iparticolari agli universali o comporsi le parti con le altrecon le quali facessero i lor intieri. Così «mortali» furonoprima propiamente detti i soli uomini, che soli dovetterofarsi sentire mortali. Il «capo», per l’«uomo» o per la«persona», ch’è tanto frequente in volgar latino, perchédentro le boscaglie vedevano di lontano il solo capodell’uomo: la qual voce «uomo» è voce astratta, checomprende, come in un genere filosofico, il corpo e tut-te le parti del corpo, la mente e tutte le facultà dellamente, l’animo e tutti gli abiti dell’animo. Così dovetteavvenire che «tignum» e «culmen» significarono con tut-

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ta propietà «travicello» e «paglia» nel tempo delle pa-gliare; poi, col lustro delle città, significarono tutta lamateria e ’l compimento degli edifici. Così «tectum» perl’intiera «casa», perché a’ primi tempi bastava per casaun coverto. Così «puppis» per la «nave», che, alta, è laprima a vedersi da’ terrazzani; come a’ tempi barbari ri-tornati si disse una «vela» per una «nave». Così «mucro»per la «spada», perché questa è voce astratta e come inun genere comprende pome, elsa, taglio e punta; ed essisentirono la punta, che recava loro spavento. Così la ma-teria per lo tutto formato, come il «ferro» per la «spa-da», perché non sapevano astrarre le forme dalla mate-ria. Quel nastro di sineddoche e di metonimia:

Tertia messis erat

nacque senza dubbio da necessità di natura, perchédovette correre assai più di mille anni per nascere trallenazioni questo vocabolo astronomico «anno»; siccomenel contado fiorentino tuttavia dicono «abbiamo tantevolte mietuto» per dire «tanti anni». E quel gruppo didue sineddochi e d’una metonimia:

Post aliquot, mea regna videns, mirabor aristas

di troppo accusa l’infelicità de’ primi tempi villereccia spiegarsi, ne’ quali dicevano «tante spighe», che sonoparticolari più delle messi, per dire «tanti anni», e, per-ch’era troppo infelice l’espressione, i gramatici v’hannosupposto troppo di arte.

IV

L’ironia certamente non poté cominciare che da’ tem-pi della riflessione, perch’ella è formata dal falso in forzad’una riflessione che prende maschera di verità. E qui

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esce un gran principio di cose umane, che confermal’origine della poesia qui scoverta: che i primi uominidella gentilità essendo stati semplicissimi quanto fan-ciulli, i quali per natura son veritieri, le prime favole nonpoterono fingere nulla di falso; per lo che dovettero ne-cessariamente essere, quali sopra ci vennero diffinite,vere narrazioni.

V

Per tutto ciò si è dimostrato che tutti i tropi (che tuttisi riducono a questi quattro), i quali si sono finora cre-duti ingegnosi ritruovati degli scrittori, sono stati neces-sari modi di spiegarsi [di] tutte le prime nazioni poeti-che, e nella lor origine aver avuto tutta la loro natiapropietà: ma, poi che, col più spiegarsi la mente umana,si ritruovarono le voci che significano forme astratte, ogeneri comprendenti le loro spezie, o componenti leparti co’ loro intieri, tai parlari delle prime nazioni sonodivenuti trasporti. E quindi s’incomincian a convellereque’ due comuni errori de’ gramatici: che ’l parlare de’prosatori è propio, impropio quel de’ poeti; e che primafu il parlare da prosa, dopoi del verso.

VI

I mostri e le trasformazioni poetiche provennero pernecessità di tal prima natura umana, qual abbiamo di-mostrato nelle Degnità che non potevan astrarre le for-me o le propietà da’ subbietti; onde con la lor logica do-vettero comporre i subbietti per comporre esse forme, odistrugger un subbietto per dividere la di lui forma pri-miera dalla forma contraria introduttavi. Tal composi-zione d’idee fece i mostri poetici: come in ragion roma-na, all’osservare di Antonio Fabro nella Giurisprudenzapapinianea, si dicon «mostri» i parti nati da meretrice,

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perc’hanno natura d’uomini, insieme, e propietà di be-stie a esser nati da’ vagabondi o sieno incerti concubiti; iquali truoveremo esser i mostri i quali la legge delle XIITavole (nati da donna onesta senza la solennità dellenozze) comandava che si gittassero in Tevere.

VII

La distinzione dell’idee fece le metamorfosi: come,fralle altre conservateci dalla giurisprudenza antica, an-co i romani nelle loro frasi eroiche ne lasciarono quella«fundum fieri» per «autorem fieri», perché, come il fon-do sostiene il podere o il suolo e ciò ch’è quivi seminatoo piantato o edificato, così l’appruovatore sostiene l’at-to, il quale senza la di lui appruovagione rovinerebbe,perché l’approvatore, da semovente ch’egli è, prendeforma contraria di cosa stabile.

3.COROLLARI D’INTORNO AL PARLARE PER

CARATTERI POETICI DELLE PRIME NAZIONI.

La favella poetica, com’abbiamo in forza di questa lo-gica poetica meditato, scorse per così lungo tratto den-tro il tempo istorico, come i grandi rapidi fiumi si spar-gono molto dentro il mare e serbano dolci l’acqueportatevi con la violenza del corso; per quello cheGiamblico ci disse sopra nelle Degnità: che gli egizi tuttii loro ritruovati utili alla vita umana riferirono a Mercu-rio Trimegisto; il cui detto confermammo con quell’altraDegnità: ch’«i fanciulli con l’idee e nomi d’uomini, fem-mine, cose, c’hanno la prima volta vedute, apprendonoed appellano tutti gli uomini, femmine, cose appresso,c’hanno con le prime alcuna simiglianza o rapporto», eche questo era il naturale gran fonte de’ caratteri poetici,co’ quali naturalmente pensarono e parlarono i primi

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popoli. Alla qual natura di cose umane se avesse Giam-blico riflettuto e vi avesse combinato tal costume ch’eglistesso riferisce degli antichi egizi, dicemmo nelle De-gnità che certamente esso ne’ misteri della sapienza vol-gare degli egizi non arebbe a forza intruso i sublimi mi-steri della sua sapienza platonica.

Ora, per tale natura de’ fanciulli e per tal costume de’primi egizi, diciamo che la favella poetica, in forza d’essicaratteri poetici, ne può dare molte ed importanti disco-verte d’intorno all’antichità.

I

Che Solone dovett’esser alcuno uomo sappiente di sa-pienza volgare, il quale fusse capoparte di plebe ne’ pri-mi tempi ch’Atene era repubblica aristocratica. Lo chela storia greca pur conservò ove narra che dapprimaAtene fu occupata dagli ottimati – ch’è quello che noi inquesti libri dimostreremo universalmente di tutte le re-pubbliche eroiche, nelle quali gli eroi, ovvero nobili, peruna certa loro natura creduta di divina origine, per laquale dicevano essere loro propi gli dèi, e ’n conseguen-za propi loro gli auspìci degli dèi, in forza de’ quali chiu-devano dentro i lor ordini tutti i diritti pubblici e privatidell’eroiche città, ed a’ plebei, che credevano essered’origine bestiale, e ’n conseguenza esser uomini senzadèi e perciò senza auspìci, concedevano i soli usi dellanatural libertà (ch’è un gran principio di cose che si ra-gioneranno per quasi tutta quest’opera) – e che tal Solo-ne avesse ammonito i plebei ch’essi riflettessero a se me-desimi e riconoscessero essere d’ugual natura umana co’nobili, e ’n conseguenza che dovevan esser con quelliuguagliati in civil diritto. Se non, pure, tal Solone furonessi plebei ateniesi, per questo aspetto considerati.

Perché anco i romani antichi arebbono dovuto averun tal Solone fra loro; tra’ quali i plebei, nelle contese

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eroiche co’ nobili, come apertamente lo ci narra la storiaromana antica, dicevano: i padri, de’ quali Romolo ave-va composto il senato (da’ quali essi patrizi erano prove-nuti), «non esse coelo demissos», cioè che non avevanocotale divina origine ch’essi vantavano e che Giove era atutti eguale. Ch’è la storia civile di quel motto

... Iupiter omnibus æquus,

dove poi intrusero i dotti quel placito: che le mentison tutte eguali e che prendono diversità dalla diversaorganizzazione de’ corpi e dalla diversa educazione civi-le. Con la quale riflessione i plebei romani incomincia-ron ad adeguare co’ patrizi la civil libertà, fino che affat-to cangiarono la romana repubblica da aristocratica inpopolare, come l’abbiamo divisato per ipotesi nelle An-notazioni alla Tavola cronologica, ove ragionammo inidea della legge Publilia, e ’l faremo vedere di fatto, non-ché della romana, essere ciò avvenuto di tutte l’altre an-tiche repubbliche, e con ragioni ed autorità dimostrere-mo che universalmente, da tal riflessione di Soloneprincipiando, le plebi de’ popoli vi cangiarono le repub-bliche da aristocratiche in popolari.

Quindi Solone fu fatto autore di quel celebre motto«Nosce te ipsum», il quale, per la grande civile utilitàch’aveva arrecato al popolo ateniese, fu iscritto per tuttii luoghi pubblici di quella città; e poi gli addottrinati ilvollero detto per un grande avviso, quanto infatti lo è,d’intorno alle metafisiche ed alle morali cose, e funne te-nuto Solone per sappiente di sapienza riposta e fattoprincipe de’ sette saggi di Grecia. In cotal guisa, perchéda tal riflessione incominciarono in Atene tutti gli ordinie tutte le leggi che formano una repubblica democratica,perciò, per questa maniera di pensare per caratteri poe-tici de’ primi popoli, tali ordini e tali leggi, come dagliegizi tutti i ritruovati utili alla vita umana civile a Mercu-

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rio Trimegisto, furon tutti dagli ateniesi richiamati a So-lone.

II

Così dovetter a Romolo esser attribuite tutte le leggid’intorno agli ordini.

III

A Numa, tante d’intorno alle cose sagre ed alle divinecerimonie, nelle quali poi comparve ne’ tempi suoi piùpomposi la romana religione.

IV

A Tullo Ostilio, tutte le leggi ed ordini della militardisciplina.

V

A Servio Tullio, il censo, ch’è il fondamento delle re-pubbliche democratiche, ed altre leggi in gran numerod’intorno alla popolar libertà, talché da Tacito vien ac-clamato «præcipuus sanctor legum». Perché, come dimo-streremo, il censo di Servio Tullio fu pianta delle repub-bliche aristocratiche, col qual i plebei riportarono da’nobili il dominio bonitario de’ campi, per cagion delquale si criarono poi i tribuni della plebe per difenderloro questa parte di natural libertà, i quali poi, trattotratto, fecero loro conseguire tutta la libertà civile; e cosìil censo di Servio Tullio, perché indi ne incominciaronol’occasioni e le mosse, diventò censo pianta della roma-na repubblica popolare, come si è ragionato nell’annota-zione alla legge Publilia per via d’ipotesi, e dentro si di-mostrerà essere stato vero di fatto.

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VI

A Tarquinio Prisco, tutte l’insegne e divise, con lequali poscia a’ tempi più luminosi di Roma risplendettela maestà dell’imperio romano.

VII

Così dovettero affiggersi alle XII Tavole moltissimeleggi che dentro dimostreremo essere state comandatene’ tempi appresso; e (come si è appieno dimostrato ne’Princìpi del Diritto universale), perché la legge del domi-nio quiritario da’ nobili accomunato a’ plebei fu la pri-ma legge scritta in pubblica tavola (per la quale unica-mente furono criati i decemviri), per cotal aspetto dipopolar libertà tutte le leggi che uguagliarono la libertàe si scrissero dappoi in pubbliche tavole furono rappor-tate a’ decemviri. Siane pur qui una dimostrazione il lus-so greco de’ funerali, che i decemviri non dovettero in-segnarlo a’ romani col proibirlo, ma dopoché i romanil’avevano ricevuto; lo che non poté avvenire se non do-po le guerre co’ tarantini e con Pirro, nelle quali s’inco-minciarono a conoscer co’ greci; e quindi è che Ciceroneosserva tal legge portata in latino con le stesse parolecon le quali era stata conceputa in Atene.

VIII

Così Dragone, autore delle leggi scritte col sangue neltempo che la greca storia, come sopra si è detto, ci narrach’Atene era occupata dagli ottimati: che fu, come ve-dremo appresso, nel tempo dell’aristocrazie eroiche, nelquale la stessa greca storia racconta che gli Eraclidi era-no sparsi per tutta Grecia, anco nell’Attica, come soprail proponemmo nella Tavola cronologica, i quali final-mente restarono nel Peloponneso e fermarono il loro re-

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gno in Isparta, la quale truoveremo essere stata certa-mente repubblica aristocratica. E cotal Dragone do-vett’esser una di quelle serpi della Gorgone inchiovataallo scudo di Perseo, che si truoverà significare l’imperiodelle leggi, il quale scudo con le spaventose pene insassi-va coloro che ’l riguardavano, siccome nella storia sagra,perché tali leggi erano essi esemplari castighi, si dicono«leges sanguinis», e di tale scudo armossi Minerva, laquale fu detta Athenã, come sarà più appieno spiegatoappresso; e appo i chinesi, i quali tuttavia scrivono pergeroglifici (che dee far maraviglia una tal maniera poeti-ca di pensare e spiegarsi tra queste due e per tempi e perluoghi lontanissime nazioni), un dragone è l’insegnadell’imperio civile. Perché di tal Dragone non si ha altracosa da tutta la greca storia.

IX

Questa istessa discoverta de’ caratteri poetici ci con-ferma Esopo ben posto innanzi a’ sette saggi di Grecia,come il promettemmo nelle Note alla Tavola cronologicadi farlo in questo luogo vedere. Perché tal filologica ve-rità ci è confermata da questa storia d’umane idee: ch’isette saggi furon ammirati dall’incominciar essi a dareprecetti di morale o di civil dottrina per massime, comequel celebre di Solone (il quale ne fu il principe): «Noscete ipsum», che sopra abbiam veduto essere prima statoun precetto di dottrina civile, poi trasportato alla metafi-sica e alla morale. Ma Esopo aveva innanzi dati tali avvi-si per somiglianze, delle quali più innanzi i poeti si eranserviti per ispiegarsi; e l’ordine dell’umane idee è d’os-servare le cose simili, prima per ispiegarsi, dappoi perpruovare, e ciò prima con l’esemplo che si contentad’una sola, finalmente con l’induzione che ne ha biso-gno di più: onde Socrate, padre di tutte le sètte de’ filo-sofi, introdusse la dialettica con l’induzione, che poi

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compiè Aristotile col sillogismo, che non regge senza ununiversale. Ma alle menti corte basta arrecarsi un luogodal somigliante per essere persuase; come con una favo-la, alla fatta di quelle ch’aveva truovato Esopo, il buonoMenenio Agrippa ridusse la plebe romana sollevataall’ubbidienza.

Ch’Esopo sia stato un carattere poetico de’ soci ovve-ro famoli degli eroi, con uno spirito d’indovino lo ci di-scuopre il ben costumato Fedro in un prologo delle sueFavole:

Nunc fabularum cur sit inventum genus,Brevi docebo. Servitus obnoxia,Quia, quæ volebat non audebat dicere,Affectus proprios in fabellas transtulit.Æsopi illius semita feci viam,

come la favola della società lionina evidentemente loci conferma: perché i plebei erano detti «soci» dell’eroi-che città, come nelle Degnità si è avvisato, e venivano aparte delle fatighe e pericoli nelle guerre, ma non delleprede e delle conquiste. Per ciò Esopo fu detto «servo»,perché i plebei, come appresso sarà dimostro, erano fa-moli degli eroi. E ci fu narrato brutto, perché la bellezzacivile era stimata dal nascere da’ matrimoni solenni, checontraevano i soli eroi, com’anco appresso si mostrerà:appunto come fu egli brutto Tersite, che dev’essere ca-rattere de’ plebei che servivano agli eroi nella guerratroiana, ed è da Ulisse battuto con lo scettro di Agamen-none, come gli antichi plebei romani a spalle nude eranobattuti da’ nobili con le verghe, «regium in morem», alnarrar di Sallustio appo sant’Agostino nella Città di Dio,finché la legge Porzia allontanò le verghe dalle spalle ro-mane,

Tali avvisi, adunque, utili al viver civile libero, dovet-ter esser sensi che nudrivano le plebi dell’eroiche città,

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dettati dalla ragion naturale: de’ quali plebei per talaspetto ne fu fatto carattere poetico Esopo, al quale poifuron attaccate le favole d’intorno alla morale filosofia; ene fu fatto Esopo il primo morale filosofo nella stessaguisa che Solone fu fatto sappiente, ch’ordinò con leleggi la repubblica libera ateniese. E perch’Esopo diedetali avvisi per favole, fu fatto prevenire a Solone che glidiede per massime. Tali favole si dovettero prima conce-pire in versi eroici, come poi v’ha tradizione che furonoconcepute in versi giambici, co’ quali noi qui appressotruoveremo aver parlato le genti greche in mezzo il ver-so eroico e la prosa, nella quale finalmente scritte ci so-no giunte.

X

In cotal guisa a’ primi autori della sapienza volgarefurono rapportati i ritruovati appresso della sapienza ri-posta; e i Zoroasti in Oriente, i Trimegisti in Egitto, gliOrfei in Grecia, i Pittagori nell’Italia, di legislatori pri-ma, furono poi finalmente creduti filosofi, come Confu-cio oggi lo è nella China. Perché certamente i pittagoricinella Magna Grecia, come dentro si mostrerà, si disseroin significato di «nobili», che, avendo attentato di ridur-re tutte le loro repubbliche da popolari in aristocratiche,tutti furono spenti. E ’l Carme aureo di Pittagora sopralo si è dimostrato esser un’impostura, come gli Oracolidi Zoroaste, il Pimandro del Trimegisto, gli Orfici o iversi d’Orfeo; né di Pittagora ad essi antichi venne scrit-to alcuno libro d’intorno a filosofia, e Filolao fu il primopittagorico il qual ne scrisse, all’osservare dello Scheffe-ro, De philosophia italica.

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4.COROLLARI D’INTORNO ALL’ORIGINI DELLELINGUE E DELLE LETTERE; E, QUIVI DENTRO,

L’ORIGINI DE’ GEROGLIFICI, DELLE LEGGI,DE’ NOMI, DELL’INSEGNE GENTILIZIE, DELLEMEDAGLIE, DELLE MONETE; E QUINDI DELLAPRIMA LINGUA E LETTERATURA DEL DIRITTO

NATURAL DELLE GENTI.

Ora dalla teologia de’ poeti o sia dalla metafisica poe-tica, per mezzo della indi nata poetica logica, andiamo ascuoprire l’origine delle lingue e delle lettere, d’intornoalle quali sono tante l’oppenioni quanti sono i dotti chen’hanno scritto. Talché Gerardo Giovanni Vossio nellaGramatica dice: «De literarum inventione multi multacongerunt, et fuse et confuse, ut ab iis incertus magisabeas quam veneras dudum». Ed Ermanno Ugone, Deorigine scribendi, osserva: «Nulla alia res est, in qua plu-res magisque pugnantes sententiæ reperiantur atque hæctractatio de literarum et scriptionis origine. Quantæ sen-tentiarum pugnæ! Quid credas? quid non credas?». OndeBernardo da Melinckrot, De arte typographica, seguìtoin ciò da Ingewaldo Elingio, De historia linguæ græcæ,per l’incomprendevolità della guisa, disse essere ritruo-vato divino.

Ma la difficultà della guisa fu fatta da tutti i dotti perciò: ch’essi stimarono cose separate l’origini delle letteredall’origini delle lingue, le quali erano per natura con-gionte; e ’l dovevan pur avvertire dalle voci «gramatica»e «caratteri». Dalla rima, ché «gramatica» si diffinisce«arte di parlare» e grámmata sono le lettere, talché sa-rebbe a diffinirsi «arte di scrivere», qual Aristotile la dif-finì e qual infatti ella dapprima nacque, come qui si di-mostrerà che tutte le nazioni prima parlarono scrivendo,come quelle che furon dapprima mutole. Dipoi «carat-teri» voglion dire «idee», «forme», «modelli», e certa-

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mente furono innanzi que’ de’ poeti che quelli de’ suoniarticolati, come Giuseffo vigorosamente sostiene, controAppione greco gramatico, che a’ tempi d’Omero non sierano ancor truovate le lettere dette «volgari». Oltrac-ciò, se tali lettere fussero forme de’ suoni articolati e nonsegni a placito, dovrebbero appo tutte le nazioni esseruniformi, com’essi suoni articolati son uniformi appotutte. Per tal guisa disperata a sapersi non si è saputo ilpensare delle prime nazioni per caratteri poetici né ’lparlare per favole né lo scrivere per geroglifici: che do-vevan esser i princìpi, che di lor natura han da esser cer-tissimi, così della filosofia per l’umane idee, come dellafilologia per l’umane voci.

In sì fatto ragionamento dovendo noi qui entrare, da-remo un picciol saggio delle tante oppenioni che se nesono avute, o incerte o leggeri o sconce o boriose o ride-voli, le quali, perocché sono tante e tali, si debbono tra-lasciare di riferirsi. Il saggio sia questo: che, perocché a’tempi barbari ritornati la Scandinavia, ovvero Scanzia,per la boria delle nazioni fu detta «vagina gentium» e fucreduta la madre di tutte l’altre del mondo, per la boriade’ dotti furono d’oppenione Giovanni ed Olao Magnich’i loro goti avessero conservate le lettere fin dal princi-pio del mondo, divinamente ritruovate da Adamo; delqual sogno si risero tutti i dotti. Ma non pertanto si ristòdi seguirgli e d’avanzargli Giovanni Goropio Becano,che la sua lingua cimbrica, la quale non molto si discostadalla sassonica, fa egli venire dal paradiso terrestre e chesia la madre di tutte l’altre; della qual oppenione fecerole favole Giuseppe Giusto Scaligero, Giovanni Camera-rio, Cristoforo Brecmanno e Martino Scoockio. E puretal boria più gonfiò e ruppe in quella d’Olao Rudbechionella sua opera intitolata Atlantica, che vuole le letteregreche esser nate dalle rune, e che queste sien le fenicierivolte, le quali Cadmo rendette nell’ordine e nel suonosimili all’ebraiche, e finalmente i greci l’avessero dirizza-

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te e tornate col regolo e col compasso; e, perché il ri-truovatore tra essi è detto Mercurouman, vuole che ’lMercurio che ritruovò le lettere agli egizi sia stato goto.Cotanta licenza d’oppinare d’intorno all’origini dellelettere deve far accorto il leggitore a ricevere queste coseche noi ne diremo, non solo con indifferenza di vedereche arrechino in mezzo di nuovo, ma con attenzione dimeditarvi e prenderle, quali debbon essere, per princìpidi tutto l’umano e divino sapere della gentilità.

Perché da questi princìpi: di concepir i primi uominidella gentilità l’idee delle cose per caratteri fantastici disostanze animate, e, mutoli, di spiegarsi con atti o corpich’avessero naturali rapporti all’idee (quanto, per esem-plo, lo hanno l’atto di tre volte falciare o tre spighe persignificare «tre anni»), e sì spiegarsi con lingua che natu-ralmente significasse, che Platone e Giamblico dicevanoessersi una volta parlata nel mondo (che deve essere sta-ta l’antichissima lingua atlantica, la quale eruditi voglio-no che spiegasse l’idee per la natura delle cose, o sia perle loro naturali propietà): da questi princìpi, diciamo,tutti i filosofi e tutti i filologi dovevan incominciar a trat-tare dell’origini delle lingue e delle lettere. Delle qualidue cose, per natura, com’abbiam detto, congionte, hantrattato divisamente, onde loro è riuscita tanto difficilela ricerca dell’origini delle lettere, ch’involgeva egualdifficultà quanto quella delle lingue, delle quali essi onulla o assai poco han curato.

Sul cominciarne adunque il ragionamento, poniamoper primo principio quella filologica Degnità: che gliegizi narravano, per tutta la scorsa del loro mondo in-nanzi, essersi parlate tre lingue, corrispondenti nel nu-mero e nell’ordine alle tre età scorse pur innanzi nel loromondo: degli dèi, degli eroi e degli uomini; e dicevano laprima lingua essere stata geroglifica o sia sagra ovverodivina; la seconda, simbolica o per segni o sia per impre-se eroiche; la terza pistolare per comunicare i lontani tra

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loro i presenti bisogni della lor vita. Delle quali tre lin-gue v’hanno due luoghi d’oro appo Omero nell’Iliade,per gli quali apertamente si veggono i greci convenir inciò con gli egizi. De’ quali uno è dove narra che Nestorevisse tre vite d’uomini diversilingui: talché Nestore deeessere stato un carattere eroico della cronologia stabilitaper le tre lingue corrispondenti alle tre età degli egizi;onde tanto dovette significare quel motto: «vivere gli an-ni di Nestore» quanto «vivere gli anni del mondo». L’al-tro è dove Enea racconta ad Achille che uomini diversi-lingui cominciaron ad abitar Ilio, dopoché Troia fuportata a’ lidi del mare e Pergamo ne divenne la ròcca.Con tal primo principio congiugniamo quella tradizio-ne, pur degli egizi, che ’l loro Theut o Mercurio ritruovòe le leggi e le lettere.

A queste verità aggruppiamo quell’altre: ch’appo igreci i «nomi» significarono lo stesso che «caratteri»,da’ quali i padri della Chiesa presero con promiscuo usoquelle due espressioni, ove ne ragionano de divinis cha-racteribus e de divinis nominibus. E «nomen» e «defini-tio» significano la stessa cosa, ove in rettorica si dice«quæstio nominis», con la qual si cerca la diffinizionedel fatto; e la nomenclatura de’ morbi è in medicinaquella parte che diffinisce la natura di essi. Appo i roma-ni i «nomi» significarono prima e propiamente «case di-ramate in molte famiglie». E che i primi greci avesseroanch’essi avuto i «nomi» in sì fatto significato, il dimo-strano i patronimici, che significano «nomi di padri»,de’ quali tanto spesso fanno uso i poeti, e più di tutti ilprimo di tutti Omero (appunto come i patrizi romani daun tribuno della plebe, appo Livio, son diffiniti «quipossunt nomine ciere patrem», «che possano usare il ca-sato de’ loro padri»), i quali patronimici poi si sperdero-no nella libertà popolare di tutta la restante Grecia, edagli Eraclidi si serbarono in Isparta, repubblica aristo-cratica. E in ragion romana «nomen» significa «diritto».

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Con somigliante suono appo i greci nómos significa«legge» e da nómos viene nómisma, come avverte Ari-stotile, che vuole dire «moneta»; ed etimologi voglionoche da nómos venga detto a’ latini «numus». Appo ifrancesi «loy» significa «legge» ed «aloy» vuol dire «mo-neta»; e da’ barbari ritornati fu detto «canone» così lalegge ecclesiastica come ciò che dall’enfiteuticario si pa-ga al padrone del fondo datogli in enfiteusi. Per la qualeuniformità di pensare i latini forse dissero «ius» il dirittoe ’l grasso delle vittime ch’era dovuto a Giove, che dap-prima si disse Ious, donde poi derivarono i genitivi «Io-vis» e «iuris» (lo che si è sopra accennato); come, ap-presso gli ebrei, delle tre parti che facevano dell’ostiapacifica, il grasso veniva in quella dovuta a Dio, che bru-ciavasi sull’altare. I latini dissero «prædia», quali dovet-tero dirsi prima i rustici che gli urbani, perocché, comeappresso farem vedere, le prime terre colte furono leprime prede del mondo; onde il primo domare fu di ter-re sì fatte, le quali perciò in antica ragion romana si dis-sero «manucaptæ» (dalle quali restò detto «manceps»l’obbligato all’erario in roba stabile); e nelle romane leg-gi restaron dette «iura prædiorum» le servitù che si di-con «reali», che si costituiscono in robe stabili. E taliterre dette «manucaptæ» dovettero dapprima essere edirsi «mancipia», di che certamente dee intendersi lalegge delle XII Tavole nel capo «Qui nexum faciet man-cipiumque», cioè «chi farà la consegna del nodo, e conquella consegnerà il podere»; onde, con la stessa mentedegli antichi latini, gl’italiani appellarono «poderi», per-ché acquistati con forza. E si convince da ciò che i bar-bari ritornati dissero «presas terrarum» i campi co’ lorotermini; gli spagnuoli chiamano «prendas» l’imprese for-ti; gl’italiani appellano «imprese» l’armi gentilizie, e di-cono «termini» in significazion di «parole» (che restò indialettica scolastica), e l’armi gentilizie chiamano altresì«insegne», onde agli stessi viene il verbo «insegnare»:

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come Omero, al cui tempo non si erano ancor truovatele lettere dette «volgari», la lettera di Preto ad Euriacontro Bellerofonte dice essere stata scritta «persémata», «per segni».

Con queste cose tutte facciano il cumolo queste ulti-me tre incontrastate verità: la prima, che, dimostrato leprime nazioni gentili tutte essere state mutole ne’ loroincominciamenti, dovettero spiegarsi per atti o corpi cheavessero naturali rapporti alle loro idee; la seconda, checon segni dovettero assicurarsi de’ confini de’ lor poderied avere perpetue testimonianze de’ lor diritti; la terza,che tutte si sono truovate usare monete. Tutte queste ve-rità ne daranno qui le origini delle lingue e delle letteree, quivi dentro, quelle de’ geroglifici, delle leggi, de’ no-mi, dell’imprese gentilizie, delle medaglie, delle monetee della lingua e scrittura con la quale parlò e scrisse ilprimo diritto natural delle genti.

E per istabilire di tutto ciò più fermamente i princìpi,è qui da convellersi quella falsa oppenione ch’i geroglifi-ci furono ritruovati di filosofi per nascondervi dentro imisteri d’alta sapienza riposta, come han creduto degliegizi. Perché fu comune naturale necessità di tutte leprime nazioni di parlare con gerogllfici (di che sopra si èproposta una degnità); come nell’Affrica l’abbiamo giàdegli egizi, a’ quali con Eliodoro, Delle cose dell’Etiopia,aggiugniamo gli etiopi, i quali si servirono per geroglificidegli strumenti di tutte l’arti fabbrili. Nell’Oriente lostesso dovett’essere de’ caratteri magici de’ caldei. Nelsettentrione dell’Asia abbiamo sopra veduto che Idantu-ra, re degli sciti, ne’ tempi assai tardi (posta la loro sfor-mata antichità, nella quale avevano vinto essi egizi, chesi vantavano essere gli antichissimi di tutte le nazioni),con cinque parole reali risponde a Dario il maggiore chegli aveva intimato la guerra; che furono una ranocchia,un topo, un uccello, un dente d’aratro ed un arco dasaettare. La ranocchia significava ch’esso era nato dalla

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terra della Scizia, come dalla terra nascono, piovendol’està, le ranocchie, e sì esser figliuolo di quella terra. Iltopo significava esso, come topo, dov’era nato aversi fat-to la casa, cioè aversi fondato la gente. L’uccello signifi-cava aver ivi esso gli auspìci, cioè, come vedremo ap-presso, che non era ad altri soggetto ch’a Dio. L’aratrosignificava aver esso ridutte quelle terre a coltura, e sìaverle dome e fatte sue con la forza. E finalmente l’arcoda saettare significava ch’esso aveva nella Scizia il som-mo imperio dell’armi, da doverla e poterla difendere, Laqual spiegazione così naturale e necessaria si compongacon le ridevoli ch’appresso san Cirillo lor danno i consi-glieri di Dario, e pruoverà ad evidenza generalmente chefinora non si è saputo il propio e vero uso de’ geroglificiche celebrarono i primi popoli, col combinare le inter-petrazioni de’ consiglieri di Dario date a’ geroglifici sci-tici con le lontane, raggirate e contorte c’han dato i dottia’ geroglifici egizi. De’ latini non ci lasciò la storia roma-na privi di qualche tradizione nella risposta eroica mutache Tarquinio superbo manda al figliuolo in Gabi, colfarsi vedere al messaggiero troncar capi di papaveri conla bacchetta che teneva tra mani; lo che è stato credutofatto per superbia, ove bisognava tutta la confidenza.Nel settentrione d’Europa osserva Tacito, ove ne scrive icostumi, ch’i germani antichi non sapevano «literarumsecreta», cioè che non sapevano scriver i loro geroglifici;lo che dovette durare fin a’ tempi di Federico suevo, an-zi fin a quelli di Ridolfo d’Austria, da che incominciaro-no a scriver diplomi in iscrittura volgar tedesca. Nel set-tentrione della Francia vi fu un parlar geroglifico, detto«rebus de Picardie», che dovett’essere, come nella Ger-mania, un parlar con le cose, cioè co’ geroglifici d’Idan-tura. Fino nell’ultima Tule e nell’ultima di lei parte, inIscozia, narra Ettore Boezio nella Storia della Scoziaquella nazione anticamente aver scritto con geroglifici.Nell’Indie occidentali i messicani furono ritruovati scri-

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ver per geroglifici, e Giovanni di Laet nella sua Descri-zione della Nuova India descrive i geroglifici degl’indianiessere diversi capi d’animali, piante, fiori, frutte, e pergli loro ceppi distinguere le famiglie; ch’è lo stesso usoappunto c’hanno l’armi gentilizie nel mondo nostro.Nell’Indie orientali i chinesi tuttavia scrivono per gero-glifici.

Così è sventata cotal boria de’ dotti che vennero ap-presso (che tanto non osò gonfiare quella de’ boriosissi-mi egizi): che gli altri sappienti del mondo avessero ap-preso da essi di nascondere la loro sapienza riposta sottode’ geroglifici.

Posti tali princìpi di logica poetica e dileguata tal bo-ria de’ dotti, ritorniamo alle tre lingue degli egizi. Nellaprima delle quali, ch’è quella degli dèi, come si è avvisa-to nelle Degnità, per gli greci vi conviene Omero, che incinque luoghi di tutti e due i suoi poemi fa menzioned’una lingua più antica della sua, la qual è certamentelingua eroica, e la chiama «lingua degli dèi». Tre luoghisono nell’Iliade: il primo ove narra «Briareo» dirsi daglidèi, «Egeone» dagli uomini; il secondo, ove raccontad’un uccello, che gli dèi chiamano chalkída, gli uominikúmindin; il terzo, che ’l fiume di Troia gli dèi «Xanto»,gli uomini chiamano «Scamandro». Nell’Odissea sonodue: uno, che gli dèi chiamano planktás pétras

«Scilla e Cariddi» che dicon gli uomini; l’altro, oveMercurio dà ad Ulisse un segreto contro le stregoneriedi Circe, che dagli dèi è appellato môlu ed è affatto nie-gato agli uomini di sapere. D’intorno a’ quali luoghi Pla-tone dice molte cose, ma vanamente; talché poi DionCrisostomo ne calogna Omero d’impostura, ch’esso in-tendesse la lingua degli dèi, ch’è naturalmente niegatoagli uomini. Ma dubitiamo che non forse in questi luo-ghi d’Omero si debbano gli «dèi» intendere per gli«eroi», i quali, come poco appresso si mostrerà, si prese-ro il nome di «dèi» sopra i plebei delle loro città, ch’essi

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chiamavan «uomini» (come a’ tempi barbari ritornati ivassalli si dissero «homines», che osserva con maravigliaOttomano), e i grandi signori (come nella barbarie ri-corsa) facevano gloria di avere maravigliosi segreti dimedicina; e così queste non sien altro che differenze diparlari nobili e di parlari volgari. Però, senza alcun dub-bio, per gli latini vi si adoperò Varrone, il quale, comenelle Degnità si è avvisato, ebbe la diligenza di raccoglie-re trentamila dèi, che dovettero bastare per un copiosovocabolario divino, da spiegare le genti del Lazio tutte leloro bisogne umane, ch’in que’ tempi semplici e parchidovetter esser pochissime, perch’erano le sole necessariealla vita. Anco i greci ne numerarono trentamila, comenelle Degnità pur si è detto, i quali d’ogni sasso, d’ognifonte o ruscello, d’ogni pianta, d’ogni scoglio fecero dei-tadi, nel qual numero sono le driadi, l’amadriadi, l’orea-di, le napee; appunto come gli americani ogni cosa chesupera la loro picciola capacità fanno dèi. Talché le fa-vole divine de’ latini e de’ greci dovetter essere i veri pri-mi geroglifici, o caratteri sagri o divini, degli egizi.

Il secondo parlare, che risponde all’età degli eroi, dis-sero gli egizi essersi parlato per simboli, a’ quali sono daridursi l’imprese eroiche, che dovetter essere le somi-glianze mute che da Omero si dicono sémata (i segni co’quali scrivevan gli eroi); e ’n conseguenza dovetter esse-re metafore o immagini o somiglianze o comparazioni,che poi, con lingua articolata, fanno tutta la suppellettiledella favella poetica. Perché certamente Omero, per unarisoluta niegazione di Giuseffo ebreo che non ci sia ve-nuto scrittore più antico di lui, egli vien ad essere il pri-mo autor della lingua greca, e, avendo noi da’ greci tuttociò che di essa n’è giunto, fu il primo autore di tutta lagentilità. Appo i latini le prime memorie della loro lin-gua son i frammenti de’ Carmi saliari, e ’l primo scrittoreche ce n’è stato narrato è Livio Andronico poeta. E dalricorso della barbarie d’Europa, essendovi rinnate altre

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lingue, la prima lingua degli spagnuoli fu quella che di-cono «di romanzo» e, ’n conseguenza, di poesia eroica(perché i romanzieri furon i poeti eroici de’ tempi bar-bari ritornati); in Francia, il primo scrittore in volgarfrancese fu Arnaldo Daniel Pacca, il primo di tutti i pro-venzali poeti, che fiorì nell’XI secolo; e finalmente i pri-mi scrittori in Italia furon rimatori fiorentini e siciliani.

Il parlare pistolare degli egizi, convenuto a spiegare lebisogne della presente comun vita tra gli lontani, dee es-ser nato dal volgo d’un popolo principe dell’Egitto, chedovett’esser quello di Tebe (il cui re, Ramse, come si èsopra detto, distese l’imperio sopra tutta quella gran na-zione), perché per gli egizi corrisponda questa linguaall’età degli «uomini», quali si dicevano le plebi de’ po-poli eroici a differenza de’ lor eroi, come si è sopra det-to. E dee concepirsi esser provenuto da libera loro con-venzione, per questa eterna propietà: ch’è diritto de’popoli il parlare e lo scriver volgare; onde Claudio impe-radore avendo ritruovato tre altre lettere ch’abbisogna-vano alla lingua latina, il popolo romano non le volle ri-cevere, come gl’italiani non han ricevuto le ritruovate daGiorgio Trissino, che si sentono mancare all’italiana fa-vella.

Tali parlari pistolari, o sieno volgari, degli egizi si do-vettero scrivere con lettere parimente volgari, le quali sitruovano somiglianti alle volgari fenicie; ond’è necessa-rio che gli uni l’avessero ricevute dagli altri. Coloro cheoppinano gli egizi essere stati i primi ritruovatori di tuttele cose necessarie o utili all’umana società, in conse-guenza di ciò debbon dire che gli egizi l’avessero inse-gnate a’ fenici. Ma Clemente alessandrino, il quale do-vett’esser informato meglio ch’ogni altro qualunqueautore delle cose di Egitto, narra che Sancunazione oSancuniate fenice (il quale nella Tavola cronologica staallogato nell’età degli eroi di Grecia) avesse scritto inlettere volgari la storia fenicia, e sì il propone come pri-

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mo autore della gentilità ch’abbia scritto in volgari ca-ratteri; per lo qual luogo hassi a dire ch’i fenici, i qualicertamente furono il primo popolo mercatante del mon-do, per cagione di traffichi entrati in Egitto, v’abbianoportato le lettere loro volgari. Ma, senza alcun uopod’argomenti e di congetture, la volgare tradizione ci ac-certa ch’essi fenici portarono le lettere in Grecia; sullaqual tradizione riflette Cornelio Tacito che le vi portaro-no come ritrovate da sé le lettere ritruovate da altri, cheintende le geroglifiche egizie. Ma, perché la volgar tradi-zione abbia alcun fondamento di vero (come abbiamouniversalmente pruovato tutte doverlo avere), diciamoche vi portarono le geroglifiche ricevute da altri, chenon poteron essere ch’i caratteri mattematici o figuregeometriche ch’essi ricevute avevano da’ caldei (i qualisenza contrasto furono i primi mattematici e spezial-mente i primi astronomi delle nazioni; onde Zoroastecaldeo, detto così perché «osservatore degli astri», comevuole il Bocharto, fu il primo sappiente del gentilesimo),e se ne servirono per forme di numeri nelle loro merca-tanzie, per cagion delle quali molto innanzi d’Omeropraticavano nelle marine di Grecia. Lo che ad evidenzasi pruova da essi poemi d’Omero, e spezialmentedall’Odissea, perché a’ tempi d’Omero Gioseffo vigoro-samente sostiene contro Appione greco gramatico che lelettere volgari non si erano ancor truovate tra’ greci. Iquali, con sommo pregio d’ingegno, nel quale certamen-te avvanzarono tutte le nazioni, trasportarono poi taiforme geometriche alle forme de’ suoni articolati diver-si, e con somma bellezza ne formarono i volgari caratteridelle lettere; le quali poscia si presero da’ latini, ch’ilmedesimo Tacito osserva essere state somiglianti all’an-tichissime greche. Di che gravissima pruova è quella ch’igreci per lunga età, e fin agli ultimi loro tempi i latini,usarono lettere maiuscole per scriver numeri; chedev’esser ciò che Demarato corintio e Carmenta, moglie

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d’Evandro arcade, abbiano insegnato le lettere alli latini,come spiegheremo appresso che furono colonie greche,oltramarine e mediterranee, dedotte anticamente nelLazio.

Né punto vale ciò che molti eruditi contendono: – lelettere volgari dagli ebrei esser venute a’ greci, perocchél’appellazione di esse lettere si osserva quasi la stessa ap-po degli uni e degli altri, – essendo più ragionevole chegli ebrei avessero imitata tal appellazione da’ greci chequesti da quelli. Perché dal tempo ch’Alessandro Ma-gno conquistò l’imperio dell’Oriente (che dopo la di luimorte si divisero i di lui capitani) tutti convengono che’l sermon greco si sparse per tutto l’Oriente e l’Egitto; e,convenendo ancor tutti che la gramatica s’introdusse as-sai tardi tra essi ebrei, necessaria cosa è ch’i letteratiebrei appellassero le lettere ebraiche con l’appellazionede’ greci. Oltrecché, essendo gli elementi semplicissimiper natura, dovettero dapprima i greci battere sempli-cissimi i suoni delle lettere, che per quest’aspetto si do-vettero dire «elementi»; siccome seguitarono a batterle ilatini colla stessa gravità (con che conservarono le formedelle lettere somiglianti all’antichissime greche): laondefu d’uopo dire che tal appellazione di lettere con vocicomposte fussesi tardi introdotta tra essi, e più tardi da’greci si fusse in Oriente portata agli ebrei.

Per le quali cose ragionate si dilegua l’oppenion dicoloro che vogliono Cecrope egizio aver portato le lette-re volgari a’ greci. Perché l’altra di coloro che stimanoche Cadmo fenice le vi abbia portato da Egitto perocchéfondò in Grecia una città col nome di Tebe, capitaledella maggior dinastia degli egizi, si solverà appresso co’princìpi della Geografia poetica, per gli quali truoverassich’i greci, portatisi in Egitto, per una qualche simiglian-za colla loro Tebe natia avessero quella capitale d’Egittocosì chiamata. E finalmente s’intende perché avveduticritici, come riferisce l’autor anonimo inglese nell’Incer-

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tezza delle scienze, giudicano che per la sua troppa anti-chità cotal Sancuniate non mai sia stato nel mondo. On-de noi, per non tôrlo affatto dal mondo, stimiamo do-versi porre a’ tempi più bassi, e certamente dopod’Omero; e per serbare maggior antichità a’ fenici soprade’ greci d’intorno all’invenzion delle lettere che si di-con «volgari» (con la giusta proporzione, però, di quan-to i greci furono più ingegnosi d’essi fenici), si ha a direche Sancuniate sia stato alquanto innanzi d’Erodoto (ilquale fu detto «padre della storia de’ greci», la qualescrisse con favella volgare), per quello che Sancuniate fudetto lo «storico della verità», cioè scrittore del tempoistorico che Varrone dice nella sua divisione de’ tempi:dal qual tempo, per la divisione delle tre lingue degliegizi, corrispondente alla divisione delle tre età del mon-do scorse loro dinnanzi, essi parlarono con lingua pisto-lare, scritta con volgari caratteri.

Or, siccome la lingua eroica ovvero poetica si fondòdagli eroi, così le lingue volgari sono state introdutte dalvolgo, che noi dentro ritruoveremo essere state le plebide’ popoli eroici: le quali lingue propiamente da’ latinifurono dette «vernaculæ», che non potevan introdurrequelli «vernæ» che i gramatici diffiniscono «servi nati incasa dagli schiavi che si facevano in guerra», i quali na-turalmente apprendono le lingue de’ popoli dov’essi na-scono. Ma dentro si truoverà ch’i primi e propiamentedetti «vernæ» furon i famoli degli eroi nello stato dellefamiglie, da’ quali poi si compose il volgo delle primeplebi dell’eroiche città, e furono gli abbozzi degli schia-vi, che finalmente dalle città si fecero con le guerre. Etutto ciò si conferma con le due lingue che dice Omero,una degli dèi, altra degli uomini, che noi qui sopra spie-gammo «lingua eroica» e «lingua volgare», e quindi apoco lo spiegheremo vieppiù.

Ma delle lingue volgari egli è stato ricevuto con trop-po di buona fede da tutti i filologi ch’elleno significasse-

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ro a placito, perch’esse, per queste lor origini naturali,debbon aver significato naturalmente, lo che è facile os-servare nella lingua volgar latina (la qual è più eroicadella greca volgare, e perciò più robusta quanto quella èpiù dilicata), che quasi tutte le voci ha formate per tra-sporti di nature o per propietà naturali o per effetti sen-sibili; e generalmente la metafora fa il maggior corpodelle lingue appo tutte le nazioni. Ma i gramatici, abbat-tutisi in gran numero di vocaboli che danno idee confu-se e indistinte di cose, non sappiendone le origini, che ledovettero dapprima formare luminose e distinte, per darpace alla loro ignoranza, stabilirono universalmente lamassima che le voci umane articolate significano a placi-to, e vi trassero Aristotile con Galeno ed altri filosofi, egli armarono contro Platone e Giamblico, come abbiamdetto.

Ma pur rimane la grandissima difficultà: come, quantisono i popoli, tante sono le lingue volgari diverse? Laqual per isciogliere, è qui da stabilirsi questa gran verità:che, come certamente i popoli per la diversità de’ climihan sortito varie diverse nature, onde sono usciti tanticostumi diversi; così dalle loro diverse nature e costumisono nate altrettante diverse lingue: talché, per la mede-sima diversità delle loro nature, siccome han guardato lestesse utilità o necessità della vita umana con aspetti di-versi, onde sono uscite tante per lo più diverse ed allevolte tra lor contrarie costumanze di nazioni; così e nonaltrimente son uscite in tante lingue, quant’esse sono,diverse. Lo che si conferma ad evidenza co’ proverbi,che sono massime di vita umana, le stesse in sostanza,spiegate con tanti diversi aspetti quante sono state e so-no le nazioni, come nelle Degnità si è avvisato. Quindi lestesse origini eroiche, conservate in accorcio dentro iparlari volgari, han fatto ciò che reca tanta maraviglia a’critici biblici: ch’i nomi degli stessi re, nella storia sagradetti d’una maniera, si leggono d’un’altra nella profana;

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perché l’una per avventura [considerò] gli uomini per loriguardo dell’aspetto, della potenza; l’altra per quellode’ costumi, dell’imprese o altro che fusse stato: cometuttavia osserviamo le città d’Ungheria altrimente appel-larsi dagli ungheri, altrimente da’ greci, altrimente da’tedeschi, altrimente da’ turchi. E la lingua tedesca, ch’èlingua eroica vivente, ella trasforma quasi tutti i nomidelle lingue straniere nelle sue propie natie; lo che dob-biam congetturare aver fatto i latini e i greci ove ragio-nano di tante cose barbare con bell’aria greca e latina: laqual dee essere la cagione dell’oscurezza che s’incontranell’antica geografia e nella storia naturale de’ fossili,delle piante e degli animali. Perciò da noi in quest’operala prima volta stampata si è meditata un’Idea d’un dizio-nario mentale da dare le significazioni a tutte le lingue ar-ticolate diverse, riducendole tutte a certe unità d’idee insostanza, che, con varie modificazioni guardate da’ po-poli, hanno da quelli avuto vari diversi vocaboli; delquale tuttavia facciamo uso nel ragionar questa Scienza.E ne diemmo un pienissimo saggio nel capo IV, dove fa-cemmo vedere i padri di famiglia, per quindeci aspettidiversi osservati nello stato delle famiglie e delle primerepubbliche, nel tempo che si dovettero formare le lin-gue (del qual tempo sono gravissimi gli argomenti d’in-torno alle cose i quali si prendono dalle natie significa-zioni delle parole, come se n’è proposta una degnità),essere stati appellati con altrettanti diversi vocaboli daquindeci nazioni antiche e moderne; il qual luogo è unodegli tre per gli quali non ci pentiamo di quel librostampato. Il qual Dizionario ragiona per altra via l’argo-mento che tratta Tommaso Hayne nella dissertazioneDe linguarum cognatione e nell’altre De linguis in generee Variarum linguarum harmonia. Da tutto lo che si rac-coglie questo corollario: che quanto le lingue sono piùricche di tali parlari eroici accorciati tanto sono più bel-le, e per ciò più belle perché son più evidenti, e perché

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più evidenti sono più veraci e più fide; e, al contrario,quanto sono più affollate di voci di tali nascoste originisono meno dilettevoli, perché oscure e confuse, e perciòpiù soggette ad inganni ed errori. Lo che dev’essere del-le lingue formate col mescolamento di molte barbare,delle quali non ci è venuta la storia delle loro origini ede’ loro trasporti.

Ora, per entrare nella difficilissima guisa della forma-zione di tutte e tre queste spezie e di lingue e di lettere, èda stabilirsi questo principio: che, come dallo stessotempo cominciarono gli dèi, gli eroi e gli uomini (per-ch’eran pur uomini quelli che fantasticaron gli dèi e cre-devano la loro natura eroica mescolata di quella deglidèi e di quella degli uomini), così nello stesso tempo co-minciarono tali tre lingue (intendendo sempre andar lo-ro del pari le lettere); però con queste tre grandissimedifferenze: che la lingua degli dèi fu quasi tutta muta,pochissima articolata; la lingua degli eroi, mescolataegualmente e di articolata e di muta, e ’n conseguenza diparlari volgari e di caratteri eroici co’ quali scrivevanogli eroi, che sémata dice Omero; la lingua degli uomini,quasi tutta articolata e pochissima muta, perocché nonvi ha lingua volgare cotanto copiosa ove non sieno più lecose che le sue voci. Quindi fu necessario che la linguaeroica nel suo principio fusse sommamente scomposta;ch’è un gran fonte dell’oscurità delle favole. Di che siaesemplo insigne quella di Cadmo: egli uccide la granserpe, ne semina i denti, da’ solchi nascono uomini ar-mati, gitta una gran pietra tra loro, questi a morte com-battono, e finalmente esso Cadmo si cangia in serpe. Co-tanto fu ingegnoso quel Cadmo il qual portò le lettere a’greci, di cui fu trammandata questa favola, che, come laspiegheremo appresso, contiene più centinaia d’anni distoria poetica!

In séguito del già detto, nello stesso tempo che siformò il carattere divino di Giove, che fu il primo di

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tutt’i pensieri umani della gentilità, incominciò pari-mente a formarsi la lingua articolata con l’onomatopea,con la quale tuttavia osserviamo spiegarsi felicemente ifanciulli. Ed esso Giove fu da’ latini, dal fragor del tuo-no, detto dapprima «Ious»; dal fischio del fulmine da’greci fu detto Zéus; dal suono che dà il fuoco ove brucia,dagli orientali dovett’essere detto «Ur», onde venne«Urim», la potenza del fuoco; dalla quale stessa originedovett’a’ greci venir detto uranós il cielo, ed a’ latini ilverbo «uro», «bruciare»; a’ quali, dallo stesso fischio delfulmine, dovette venire «cel», uno de’ monosillabi d’Au-sonio, ma con prononziarlo con la «ç» degli spagnuoli,perché costi l’argutezza del medesimo Ausonio, ove diVenere così bisquitta:

Nata salo, suscepta solo, patre edita coelo.

Dentro le quali origini è da avvertirsi che, con la stes-sa sublimità dell’invenzione della favola di Giove, qualabbiamo sopra osservato, incomincia egualmente subli-me la locuzion poetica con l’onomatopea, la quale certa-mente Dionigi Longino pone tra’ fonti del sublime, el’avvertisce, appo Omero, nel suono che diede l’occhiodi Polifemo, quando vi si ficcò la trave infuocata daUlisse, che fece síz.

Seguitarono a formarsi le voci umane con l’interiezio-ni, che sono voci articolate all’émpito di passioni violen-te, che ’n tutte le lingue son monosillabe. Onde non èfuori del verisimile che, da’ primi fulmini incominciata adestarsi negli uomini la maraviglia, nascesse la prima in-teriezione da quella di Giove, formata con la voce«pa!», e che poi restò raddoppiata «pape!», interiezionedi maraviglia, onde poi nacque a Giove il titolo di «pa-dre degli uomini e degli dèi», e quindi appresso che tut-ti gli dèi se ne dicessero «padri», e «madri» tutte le dèe;di che restaron a’ latini le voci «Iupiter», «Diespiter»,

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«Marspiter», «Iuno genitrix»: la quale certamente le fa-vole narranci essere stata sterile; ed osservammo, sopra,tanti altri dèi e dèe nel cielo non contrarre tra essolormatrimoni (perché Venere fu detta «concubina», nongià «moglie» di Marte), e nulla di meno tutti appellavan-si «padri» (di che vi hanno alcuni versi di Lucilio, riferi-ti nelle Note al Diritto universale). E si dissero «padri»nel senso nel quale «patrare» dovette significare dappri-ma il fare, ch’è propio di Dio, come vi conviene anco lalingua santa ch’in narrando la criazione del mondo, diceche nel settimo giorno Iddio riposò «ab opere quod pa-trarat». Quindi dev’essere stato detto «impetrare», che sidisse quasi «impatrare», che nella scienza augurale si di-ceva «impetrire», ch’era «riportar il buon augurio», del-la cui origine dicono tante inezie i latini gramatici: lo chepruova che la prima interpetrazione fu delle leggi divineordinate con gli auspìci, così detta quasi «interpatratio».

Or sì fatto divino titolo, per la natural ambizionedell’umana superbia, avendosi arrogato gli uomini po-tenti nello stato delle famiglie, essi si appellarono «pa-dri» (lo che forse diede motivo alla volgar tradizione ch’iprimi uomini potenti della terra si fecero adorare perdèi); ma, per la pietà dovuta ai numi, quelli i numi disse-ro «dèi», ed appresso anco, presosi gli uomini potentidelle prime città il nome di «dèi», per la stessa pietà inumi dissero «dèi immortali», a differenza dei «dèi mor-tali», ch’eran tali uomini. Ma in ciò si può avvertire lagoffaggine di tai giganti, qual i viaggiatori narrano de lospatacones: della quale vi ha un bel vestigio in latinità, la-sciatoci nell’antiche voci «pipulum» e «pipare» nel signi-ficato di «querela» e di «querelarsi», che dovette veniredall’interiezione di lamento «pi, pi»; nel qual sentimen-to vogliono che «pipulum» appresso Plauto sia lo stessoche «obvagulatio» delle XII Tavole, la qual voce devevenir da «vagire», ch’è propio il piagnere de’ fanciulli.Talché è necessario dall’interiezione di spavento esser

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nata a’ greci la voce paián, incominciata da pái; di che viha appo essi un’aurea tradizione antichissima: ch’i greci,spaventati dal gran serpente detto Pitone, invocarono inloro soccorso Apollo con quelle voci: iò paiáv che primatre volte batterono tarde, essendo illanguiditi dallo spa-vento, e poi, per lo giubilo perch’avevalo Apollo ucciso,gli acclamarono altrettante volte battendole preste, coldividere l’omega in due omicron, e ’l dittongo ai in duesillabe. Onde nacque naturalmente il verso eroico primaspondaico e poi divenne dattilico, e ne restò quell’eternapropietà ch’egli in tutte l’altre sedi cede il luogo al datti-lo, fuorché nell’ultima; e naturalmente nacque il canto,misurato dal verso eroico, agl’impeti di passioni violen-tissime, siccome tuttavia osserviamo nelle grandi passio-ni gli uomini dar nel canto e, sopra tutti, i sommamenteafflitti ed allegri, come si è detto nelle Degnità. Lo chequi detto quindi a poco recherà molto uso ove ragione-remo dell’origini del canto e de’ versi.

S’innoltrarono a formar i pronomi, imperocché l’inte-riezioni sfogano le passioni propie, lo che si fa anco dasoli, ma i pronomi servono per comunicare le nostreidee con altrui d’intorno a quelle cose che co’ nomi pro-pi o noi non sappiamo appellare o altri non sappia in-tendere. E i pronomi, pur quasi tutti, in tutte le lingue lamaggior parte son monosillabi; il primo de’ quali, o al-meno tra’ primi, dovett’esser quello di che n’è rimastoquel luogo d’oro d’Ennio:

Aspice hoc sublime cadens, quem omnes invocant Io-vem,

ov’è detto «hoc» invece di «coelum», e ne restò in volgarlatino

Luciscit hoc iam

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invece di «albescit coelum». E gli articoli dalla lor nascitahanno questa eterna propietà: d’andare innanzi a’ nomia’ quali son attaccati.

Dopo si formarono le particelle, delle quali sono granparte le preposizioni, che pure quasi in tutte le lingueson monosillabe; che conservano col nome questa eter-na propietà: di andar innanzi a’ nomi che le domandanoed a’ verbi co’ quali vanno a comporsi.

Tratto tratto s’andarono formando i nomi; de’ qualinell’Origini della lingua latina, ritruovate in quest’operala prima volta stampata, si novera una gran quantità natidentro del Lazio, dalla vita d’essi latini selvaggia, per lacontadinesca, infin alla prima civile, formati tutti mono-sillabi, che non han nulla d’origini forestiere, nemmenogreche, a riserba di quattro voci: bûs, sûs, mûs, séps,ch’a’ latini significa «siepe» e a’ greci «serpe». Il qualluogo è l’altro degli tre che stimiamo esser compiuti inquel libro, perch’egli può dar l’esemplo a’ dotti dell’al-tre lingue di doverne indagare l’origini con grandissimofrutto della repubblica letteraria; come certamente lalingua tedesca, ch’è lingua madre (perocché non vi en-trarono mai a comandare nazioni straniere), ha monosil-labe tutte le sue radici. Ed esser nati i nomi prima de’verbi ci è appruovato da questa eterna propietà: che nonregge orazione se non comincia da nome ch’espresso otaciuto la regga.

Finalmente gli autori delle lingue si formarono i ver-bi, come osserviamo i fanciulli spiegar nomi, particelle, etacer i verbi. Perché i nomi destano idee che lascianofermi vestigi; le particelle, che significano esse modifica-zioni, fanno il medesimo; ma i verbi significano moti, iquali portano l’innanzi e ’l dopo, che sono misuratidall’indivisibile del presente, difficilissimo ad intendersidagli stessi filosofi. Ed è un’osservazione fisica che dimolto appruova ciò che diciamo, che tra noi vive un uo-mo onesto, tòcco da gravissima apoplessia, il quale men-

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tova nomi e sì è affatto dimenticato de’ verbi. E pur iverbi che sono generi di tutti gli altri – quali sono «sum»dell’essere, al quale si riducono tutte l’essenze, ch’è tan-to dire tutte le cose metafisiche; «sto» della quiete, «eo»del moto, a’ quali si riducono tutte le cose fisiche; «do»,«dico» e «facio», a’ quali si riducono tutte le cose agibili,sien o morali o famigliari o finalmente civili – dovetterincominciare dagl’imperativi; perché nello stato delle fa-miglie, povero in sommo grado di lingua, i padri soli do-vettero favellare e dar gli ordini a’ figliuoli ed a’ famoli, equesti, sotto i terribili imperi famigliari, quali poco ap-presso vedremo, con cieco ossequio dovevano tacendoeseguirne i comandi. I quali imperativi sono tutti mono-sillabi, quali ci son rimasti «es», «sta», «i», «da», «dic»,«fac».

Questa generazione delle lingue è conforme a’ princì-pi così dell’universale natura, per gli quali gli elementidelle cose tutte sono indivisibili, de’ quali esse cose sicompongono e ne’ quali vanno a risolversi, come a quel-li della natura particolare umana, per quella Degnitàch’«i fanciulli, nati in questa copia di lingue e c’hannomollissime le fibbre dell’istromento da articolare le voci,le incominciano monosillabe»: che molto più si dee sti-mare de’ primi uomini delle genti, i quali l’avevano du-rissime, né avevano udito ancor voce umana. Di più ellane dà l’ordine con cui nacquero le parti dell’orazione, e’n conseguenza le naturali cagioni della sintassi.

Le quali cose tutte sembrano più ragionevoli di quel-lo che Giulio Cesare Scaligero e Francesco Sanzio nehan detto a proposito della lingua latina. Come se i po-poli che si ritruovaron le lingue avessero prima dovutoandare a scuola d’Aristotile, coi cui princìpi ne hannoamendue ragionato!

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VCOROLLARI D’INTORNO ALL’ORIGINI DELLA

LOCUZION POETICA, DEGLI EPISODI, DELTORNO, DEL NUMERO, DEL CANTO E DEL

VERSO.

In cotal guisa si formò la lingua poetica per le nazioni,composta di caratteri divini ed eroici, dappoi spiegaticon parlari volgari, e finalmente scritti con volgari carat-teri. E nacque tutta da povertà di lingua e necessità dispiegarsi; lo che si dimostra con essi primi lumi dellapoetica locuzione, che sono l’ipotiposi, l’immagini, lesomiglianze, le comparazioni, le metafore, le circoscri-zioni, le frasi spieganti le cose per le loro naturali pro-pietà, le descrizioni raccolte dagli effetti o più minuti opiù risentiti, e finalmente per gli aggiunti enfatici ed an-che oziosi.

Gli episodi sono nati da essa grossezza delle mentieroiche, che non sapevano sceverare il propio delle coseche facesse al loro proposito, come vediamo usargli na-turalmente gl’idioti e sopra tutti le donne.

I torni nacquero dalla difficultà di dar i verbi al ser-mone, che, come abbiam veduto, furono gli ultimi a ri-truovarsi; onde i greci, che furono più ingegnosi, essitornarono il parlare men de’ latini, e i latini meno diquel che fanno i tedeschi.

Il numero prosaico fu inteso tardi dagli scrittori – nel-la greca lingua da Gorgia leontino e nella latina da Cice-rone, – perocché innanzi, al riferire di Cicerone medesi-mo, avevano renduto numerose l’orazioni con certemisure poetiche; lo che servirà molto quindi a poco, overagioneremo dell’origini del canto e de’ versi.

Da tutto ciò sembra essersi dimostrato la locuzionpoetica esser nata per necessità di natura umana primadella prosaica; come per necessità di natura umana nac-quero, esse favole, universali fantastici, prima degli uni-

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versali ragionati o sieno filosofici, i quali nacquero permezzo di essi parlari prosaici. Perocché, essendo i poeti,innanzi, andati a formare la favella poetica con la com-posizione dell’idee particolari (come si è appieno qui di-mostrato), da essa vennero poi i popoli a formare i par-lari da prosa col contrarre in ciascheduna voce, come inun genere, le parti ch’aveva composte la favella poetica;e di quella frase poetica, per essemplo: «mi bolle il san-gue nel cuore» (ch’è parlare per propietà naturale, eter-no ed universale a tutto il gener umano), del sangue, delribollimento e del cuore fecero una sola voce, com’ungenere, che da’ greci fu detto stómachos, da’ latini «ira»,dagl’italiani «collera». Con egual passo, de’ geroglifici edelle lettere eroiche si fecero poche lettere volgari, comegeneri da conformarvi innumerabili voci articolate di-verse, per lo che vi abbisognò fior d’ingegno; co’ qualigeneri volgari, e di voci e di lettere, s’andarono a farepiù spedite le menti de’ popoli ed a formarsi astrattive,onde poi vi poterono provenir i filosofi, i quali formaroni generi intelligibili. Lo che qui ragionato è una particel-la della storia dell’idee. Tanto l’origini delle lettere, pertruovarsi, si dovevano ad un fiato trattare con l’originidelle lingue!

Del canto e del verso si sono proposte quelle Degnità:che, dimostrata l’origine degli uomini mutoli, dovetterodapprima, come fanno i mutoli, mandar fuori le vocalicantando; dipoi, come fanno gli scilinguati, dovetteropur cantando mandar fuori l’articolate di consonanti. Dital primo canto de’ popoli fanno gran pruova i dittonghich’essi ci lasciarono nelle lingue, che dovettero dappri-ma esser assai più in numero; siccome i greci e i francesi,che passarono anzi tempo dall’età poetica alla volgare,ce n’han lasciato moltissimi, come nelle Degnità si è os-servato. E la cagion si è che le vocali sono facili a for-marsi ma le consonanti difficili; e perché si è dimostratoche tai primi uomini stupidi, per muoversi a profferire le

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voci, dovevano sentire passioni violentissime, le qualinaturalmente si spiegano con altissima voce; e la naturaporta ch’ove uomo alzi assai la voce, egli dia ne’ ditton-ghi e nel canto, come nelle Degnità si è accennato: ondepoco sopra dimostrammo i primi uomini greci, nel tem-po de’ loro dèi, aver formato il primo verso eroico spon-daico col dittongo pái e pieno due volte più di vocali checonsonanti.

Ancora tal primo canto de’ popoli nacque natural-mente dalla difficultà delle prime prononzie, la qual sidimostra come dalle cagioni così dagli effetti. Da quelle,perché tali uomini avevano formato di fibbre assai durel’istrumento d’articolare le voci, e di voci essi ebberopochissime; come al contrario i fanciulli, di fibbre mol-lissime, nati in questa somma copia di voci, si osservanocon somma difficultà prononziare le consonanti (comenelle Degnità s’è pur detto), e i chinesi, che non hannopiù che trecento voci articolate, che, variamente modifi-cando, e nel suono e nel tempo, corrispondono, con lalingua volgare a’ loro cenventimila geroglifici, parlan es-si cantando. Per gli effetti, si dimostra dagli accorcia-menti delle voci, i quali s’osservano innumerabili nellapoesia italiana (e nell’Origini della lingua latina n’abbia-mo dimostro un gran numero, che dovettero nascere ac-corciate e poi essersi col tempo distese); ed al contrarioda’ ridondamenti, perocché gli scilinguati da alcuna sil-laba, alla quale sono più disposti di profferire cantando,prendon essi compenso di profferir quelle che loro rie-scono di difficil prononzia (come pure nelle Degnità staproposto); onde appo noi nella mia età fu un eccellentemusico di tenore con tal vizio di lingua: ch’ove non po-teva profferir le parole, dava in un soavissimo canto ecosì le prononziava. Così certamente gli arabi comincia-no quasi tutte le voci da «al»; ed affermano gli unni fus-sero stati così detti che le cominciassero tutte da «un».Finalmente si dimostra che le lingue incominciaron dal

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canto per ciò che testé abbiam detto: ch’innanzi di Gor-gia e di Cicerone i greci e i latini prosatori usarono certinumeri quasi poetici, come a’ tempi barbari ritornati fe-cero i Padri della Chiesa latina (truoverassi il medesimodella greca), talché le loro prose sembrano cantilene.

Il primo verso (come abbiamo poco fa dimostrato difatto che nacque) dovette nascere convenevole alla lin-gua ed all’età degli eroi, qual fu il verso eroico, il piùgrande di tutti gli altri e propio dell’eroica poesia; e nac-que da passioni violentissime di spavento e di giubilo,come la poesia eroica non tratta che passioni perturba-tissime. Però non nacque spondaico per lo gran timordel Pitone, come la volgar tradizione racconta; la qualperturbazione affretta l’idee e le voci più tosto che le ri-tarda, onde appo i latini «solicitus» e «festinans» signifi-cano «timoroso»: ma per la tardezza delle menti e diffi-cultà delle lingue degli autori delle nazioni nacqueprima, come abbiam dimostro, spondaico, di che simantiene in possesso, che nell’ultima sede non lasciamai lo spondeo; dappoi, faccendosi più spedite e lementi e le lingue, v’ammise il dattilo; appresso, speden-dosi entrambe vieppiù, nacque il giambico, il cui piede èdetto «presto» da Orazio (come di tali origini si sonoproposte due Degnità); finalmente, fattesi quelle spedi-tissime, venne la prosa, la quale, come testé si è veduto,parla quasi per generi intelligibili; ed alla prosa il versogiambico s’appressa tanto, che spesso innavedutamentecadeva a’ prosatori scrivendo.

Così il canto s’andò ne’ versi affrettando co’ medesi-mi passi co’ quali si spedirono nelle nazioni e le lingue el’idee, come anco nelle Degnità si è avvisato.

Tal filosofia ci è confermata dalla storia, la quale lapiù antica cosa che narra sono gli oracoli e le sibille, co-me nelle Degnità si è proposto; onde, per significare unacosa esser antichissima, vi era il detto: «quella essere piùvecchia della sibilla»; e le sibille furono sparse per tutte

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le prime nazioni, delle quali ci sono pervenute pur dodi-ci. Ed è volgar tradizione che le sibille cantarono in ver-so eroico, e gli oracoli per tutte le nazioni pur in versoeroico davano le risposte; onde tal verso da’ greci fu det-to «pizio» dal loro famoso oracolo d’Apollo pizio (ilqual dovette così appellarsi dall’ucciso serpente dettoPitone, onde noi sopra abbiam detto esser nato il primoverso spondaico), e da’ latini fu detto «verso saturnio»,come ne accerta Festo; che dovette in Italia nascerenell’età di Saturno, che risponde all’età dell’oro de’ gre-ci, nella quale Apollo, come gli altri dèi, praticava in ter-ra con gli uomini. Ed Ennio, appo il medesimo Festo,dice che con tal verso i fauni rendevano i fati ovvero glioracoli nell’Italia (che certamente tra’ greci, com’or si èdetto, si rendevano in versi esametri); ma poi «versi sa-turni» restaron detti i giambici senari, forse perché cosìpoi naturalmente si parlava in tai versi saturni giambici,come innanzi si era naturalmente parlato in versi saturnieroici.

Quantunque oggi dotti di lingua santa sien divisi inoppenioni diverse d’intorno alla poesia degli ebrei, s’ellaè composta di metri o veramente di ritmi, però Gioseffo,Filone, Origene, Eusebio stanno a favore de’ metri, eper ciò che fa sommamente al nostro proposito san Gi-rolamo vuole che ’l libro di Giobbe, il qual è più anticodi quei di Mosè, fusse stato tessuto in verso eroico daprincipio del III capo fin al principio del capo XLII.

Gli arabi, ignoranti di lettera, come riferisce l’autoranonimo dell’Incertezza delle scienze, conservarono laloro lingua con tener a memoria i loro poemi finattantoch’innondarono le provincie orientali del greco imperio.

Gli egizi scrivevano le memorie de’ lor difonti nellesiringi, o colonne, in verso, dette da «sir», che vuol dire«canzona»; onde vien detta «Sirena», deità senza dub-bio celebre per lo canto, nel qual Ovidio dice esseregualmente stata celebre che ’n bellezza la ninfa detta

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Siringa: per la qual origine si deve lo stesso dire ch’aves-sero dapprima parlato in versi i siri e gli assiri.

Certamente i fondatori della greca umanità furon ipoeti teologi, e furon essi eroi, e cantarono in verso eroi-co.

Vedemmo i primi autori della lingua latina essere sta-ti i salii, che furon poeti sagri, da’ quali si hanno i fram-menti de’ versi saliari, c’hanno un’aria di versi eroici,che sono le più antiche memorie della latina favella. Gliantichi trionfanti romani lasciarono le memorie de’ lorotrionfi pur in aria di verso eroico, come Lucio EmilioRegillo quella:

Duello magno dirimendo, regibus subiugandis,

Acilio Glabrione quell’altra:

Fudit, fugat, prosternit maximas legiones,

ed altri altre.I frammenti della legge delle XII Tavole, se bene vi si

rifletta, nella più parte de’ suoi capi va[nno] a terminarin versi adonî, che sono ultimi ritagli di versi eroici; loche Cicerone dovette imitare nelle sue Leggi, le quali co-sì incominciano:

Deos caste adeunto.Pietatem adhibento.

Onde, al riferire del medesimo, dovette venire quelcostume romano: ch’i fanciulli, per dirla con le di lui pa-role, «tanquam necessarium carmen», andavano cantan-do essa legge; non altrimenti che Eliano narra che face-vano i fanciulli cretesi. Perché certamente Cicerone,famoso ritruovatore del numero prosaico appresso i lati-ni, come Gorgia leontino lo era stato tra’ greci (lo che

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sopra si è riflettuto), doveva schifare nella prosa, e prosadi sì grave argomento, nonché versi così sonori, anche igiambici (i quali tanto la prosa somigliano), da’ quali siguardò scrivendo anco lettere famigliari. Onde di talspezie di verso bisogna che sieno vere quelle volgari tra-dizioni: delle quali la prima è appresso Platone, la qualdice che le leggi degli egizi furono poemi della dea Iside;la seconda è appresso Plutarco, la quale narra che Ligur-go diede agli spartani in verso le leggi, a’ quali con unaparticolar legge aveva proibito saper di lettera; la terza èappo Massimo tirio, la qual racconta Giove aver dato aMinosse le leggi in verso; la quarta ed ultima è riferita daSuida, che Dragone dettò in verso le leggi agli ateniesi, ilquale pur volgarmente ci vien narrato averle scritte colsangue.

Ora, ritornando dalle leggi alle storie, riferisce Tacitone’ Costumi de’ germani antichi che da quelli si conser-vavano conceputi in versi i princìpi della loro storia; equivi Lipsio, nelle Annotazioni, riferisce il medesimo de-gli americani. Le quali autorità di due nazioni, delle qua-li la prima non fu conosciuta da altri popoli che tardi as-sai da’ romani, la seconda fu scoverta due secoli fa da’nostri europei, ne danno un forte argomento di conget-turare lo stesso di tutte l’altre barbare nazioni, così anti-che come moderne; e, senza uopo di conghietture, de’persiani tralle antiche, e de’ chinesi tralle nuovamentescoperte, si ha dagli autori che le prime loro storie scris-sero in versi. E qui si facci questa importante riflessione:che, se i popoli si fondarono con le leggi, e le leggi appotutti furono in versi dettate, e le prime cose de’ popolipur in versi si conservarono; necessaria cosa è che tutti iprimi popoli furono di poeti.

Ora – ripigliando il proposto argomento d’intornoall’origini del verso – al riferire di Festo, ancora le guer-re cartaginesi furono da Nevio innanzi di Ennio scrittein verso eroico; e Livio Andronico, il primo scrittor lati-

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no, scrisse la Romanide, ch’era un poema eroico il qualeconteneva gli annali degli antichi romani. Ne’ tempi bar-bari ritornati essi storici latini furon poeti eroici, comeGuntero, Guglielmo pugliese ed altri. Abbiam veduto iprimi scrittori nelle novelle lingue d’Europa essere stativerseggiatori; e nella Silesia, provincia quasi tutta dicontadini, nascon poeti. E generalmente, perocché cotallingua troppo intiere conserva le sue origini eroiche,questa è la cagione, di cui ignaro, Adamo Rochembergioafferma che le voci composte de’ greci si possono felice-mente rendere in lingua tedesca, spezialmente in poesia;e ’l Berneggero ne scrisse un catalogo, e poi si studiòd’arricchire Giorgio Cristoforo Peischero in Indice degræcæ et germanicæ linguæ analogia. Nella qual parte, dicomporre le intiere voci tra loro, la lingua latina anticane lasciò pur ben molte, delle quali, come di lor ragione,seguitarono a servirsi i poeti: perché dovett’essere pro-pietà comune di tutte le prime lingue, le quali, come si èdimostrato, prima si fornirono di nomi, dappoi di verbi,e sì, per inopia di verbi, avesser unito essi nomi. Che de-von esser i princìpi di ciò che scrisse il Morhofio in Di-squisitionibus de germanica lingua et poesi. E questa siauna pruova dell’avviso che diemmo nelle Degnità: che,se i dotti della lingua tedesca attendano a truovarnel’origini per questi princìpi, vi faranno delle discovertemaravigliose.

Per le quali cose tutte qui ragionate sembra ad evi-denza essersi confutato quel comun error de’ gramatici,i quali dicono la favella della prosa esser nata prima, edopo quella del verso; e dentro l’origini della poesia,quali qui si sono scoverte, si son truovate l’origini dellelingue e l’origini delle lettere.

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6.GLI ALTRI COROLLARI LI QUALI SI SONO DA

PRINCIPIO PROPOSTI.

I

Con tal primo nascere de’ caratteri e delle lingue nac-que il gius, detto «ious» da’ latini, e dagli antichi grecidiaión – che noi sopra spiegammo «celeste», detto daDiós; onde a’ latini vennero «sub dio» egualmente e «subIove» per dir «a ciel aperto» – e, come dice Platone nelCratilo, che poi per leggiadria di favella fu detto díkaion.Perché universalmente da tutte le nazioni gentili fu os-servato il cielo con l’aspetto di Giove, per riceverne leleggi ne’ di lui divini avvisi o comandi, che credevan es-ser gli auspìci; lo che dimostra tutte le nazioni esser natesulla persuasione della provvedenza divina.

E, ’ncominciandole a noverare, Giove a’ caldei fu ’lcielo, in quanto era creduto dagli aspetti e moti dellestelle avvisar l’avvenire, e ne furon dette «astronomia» e«astrologia» le scienze quella delle leggi e questa delparlare degli astri, ma nel senso d’«astrologia giudizia-ria», come «chaldæi» per «astrolaghi giudiziari» restaro-no detti nelle leggi romane.

A’ persiani egli fu Giove ben anco il cielo, in quantosi credeva significare le cose occulte agli uomini. Dellaqual scienza i sappienti se ne dissero «maghi», e reston-ne appellata «magia» così la permessa, ch’è la naturaledelle forze occulte maravigliose della natura, come lavietata delle sopranaturali, nel qual senso restò «mago»detto per «istregone». E i maghi adoperavano la verga(che fu il lituo degli àuguri appo i romani) e descriveva-no i cerchi degli astronomi; della qual verga e cerchi poisi sono serviti i maghi nelle loro stregonerie. Ed a’ per-

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siani il cielo fu il templo di Giove, con la qual religioneCiro rovinava i templi fabbricati per la Grecia.

Agli egizi pur Giove fu ’l cielo, in quanto si credevainfluire nelle cose sublunari ed avvisar l’avvenire; ondecredevano fissare gl’influssi celesti nel fondere a certitempi l’immagini, ed ancor oggi conservano una volgararte d’indovinare.

A’ greci fu anco Giove esso cielo, in quanto ne consi-deravano i teoremi e i matemi altre volte detti, che cre-devano cose divine o sublimi da contemplarsi con gli oc-chi del corpo e da osservarsi (in senso di «eseguirsi»)come leggi di Giove; da’ quai matemi nelle leggi romane«mathematici» si dicono gli astrolaghi giudiziari.

De’ romani è famoso il sopra qui riferito verso di En-nio:

Aspice hoc sublime cadens, quem omnes invocant Io-vem,

preso il pronome «hoc», come si è detto, in significato di«coelum»; ed a’ medesimi si dissero «templa coeli», chepur sopra si sono dette le regioni del cielo disegnate da-gli àuguri per prender gli auspìci. E ne restò a’ latini«templum» per significare ogni luogo che da ogni parteha libero e di nulla impedito il prospetto; ond’è «extem-plo» in significato di «subito», e «neptunia templa» disseil mare, con maniera antica, Virgilio.

De’ germani antichi narra Tacito ch’adoravano i lorodèi entro luoghi sagri, che chiama «lucos et nemora»,che dovetter essere selve rasate dentro il chiuso de’ bo-schi (del qual costume durò fatiga la Chiesa per dissav-vezzargli, come si raccoglie da’ concili stanetense e bra-carense nella Raccolta de’ decreti lasciataci dalBuchardo), ed ancor oggi se ne serbano in Lapponia eLivonia i vestigi.

De’ peruani si è truovato Iddio dirsi assolutamente «il

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Sublime», i cui templi sono, a ciel aperto, poggi ove sisale da due lati per altissime scale, nella qual altezza ri-pongono tutta la loro magnificenza. Onde dappertuttola magnificenza de’ templi or è riposta in una loro sfor-matissima altezza. La cima de’ quali troppo a nostroproposito si truova appresso Pausania dirsi ætós, chevuol dir «aquila»; perché si sboscavano le selve per averil prospetto di contemplare donde venivano gli auspìcidell’aquile, che volan alto più di tutti gli uccelli. E forsequindi le cime ne furon dette «pinnæ templorum», don-de poi dovettero dirsi «pinnæ murorum», perché suiconfini di tali primi templi del mondo dopo s’alzaronole mura delle prime città, come appresso vedremo. E fi-nalmente in architettura restaron dette «aquilæ» i «mer-li» ch’or diciamo degli edifici.

Ma gli ebrei adoravano il vero Altissimo, ch’è sopra ilcielo, nel chiuso del tabernacolo; e Mosè, per dovunquestendeva il popolo di Dio le conquiste, ordinava che fus-sero bruciati i boschi sagri che dice Tacito, dentro i qua-li si chiudessero i «luci».

Onde si raccoglie che dappertutto le prime leggi furo-no le divine di Giove. Dalla qual antichità dev’essereprovenuto nelle lingue di molte nazioni cristiane diprender «il cielo» per «Dio»: come noi italiani diciamo«voglia il cielo», «spero al cielo», nelle quali espressioniintendiamo «Dio»; lo stesso è usato dagli spagnuoli; e ifrancesi dicono «bleu» per l’«azzurro», e perché la voce«azzurro» è di cosa sensibile, dovetter intendere «bleu»per «lo cielo»; e quindi, come le nazioni gentili avevanointeso «il cielo» per «Giove», dovettero i francesi per«lo cielo» intendere «Dio» in quell’empia loro bestem-mia «moure bleu!»per «muoia Iddio!», e tuttavia dicono«par bleu!» «per Dio!». E questo può esser un saggiodel Vocabolario mentale proposto nelle Degnità, delquale sopra si è ragionato.

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II

La certezza de’ domìni fece gran parte della necessitàdi ritrovar i «caratteri» e i «nomi» nella significazionenatia di «case diramate in molte famiglie», che con la lo-ro somma propietà si appellarono «genti». Così Mercu-rio Trimegisto, carattere poetico de’ primi fondatori de-gli egizi, quale l’abbiam dimostrato, ritruovò loro e leleggi e le lettere. Dal qual Mercurio, che fu altresì credu-to dio delle mercatanzie, gl’italiani (la qual uniformità dipensare e spiegarsi, fin a’ nostri dì conservata, dee recarmaraviglia) dicono «mercare» il contrasegnare con lette-re o con imprese i bestiami o altre robe da mercantare,per distinguere ed accertarne i padroni.

III

Queste sono le prime origini dell’imprese gentilizie equindi delle medaglie. Dalle qual’imprese, ritruovateprima per private e poi per pubbliche necessità, venneroper diletto l’imprese erudite, le quali, indovinando, dis-sero «eroiche», le quali bisogna animare co’ motti, per-ché hanno significazioni analoghe, ove l’imprese eroichenaturali lo erano per lo stesso difetto de’ motti e, sì, mu-tole parlavano; ond’erano in lor ragione l’imprese otti-me, perché contenevano significazioni propie, quantotre spighe o tre atti di falciare significavano naturalmen-te «tre anni». Dallo che venne «caratteri» e «nomi» con-vertirsi a vicenda tra loro, e «nomi» e «nature» significa-re lo stesso, come l’uno e l’altro sopra si è detto.

Or, faccendoci da capo all’imprese gentilizie, ne’ tem-pi barbari ritornati le nazioni ritornarono a divenir mu-tole di favella volgare: onde delle lingue italiana, france-se, spagnuola o d’altre nazioni di quelli tempi non ci ègiunta niuna notizia affatto, e le lingue latina e greca sisapevano solamente da’ sacerdoti; talché da’ francesi si

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diceva «clerc» in significazione di «letterato», ed allo’ncontro dagl’italiani, per un bel luogo di Dante, si dice-va «laico» per dir «uomo che non sapeva di lettera». An-zi tra gli stessi sacerdoti regnò cotanta ignoranza, che sileggono scritture sottoscritte da’ vescovi col segno dicroce, perché non sapevano scrivere i propi lor nomi; e iprelati dotti anco poco sapevano scrivere, come la dili-genza del padre Mabillone nella sua opera De re diplo-matica dà a veder intagliate in rame le sottoscrizioni de’vescovi e arcivescovi agli atti de’ concili di que’ tempibarbari, le quali s’osservano scritte con lettere più infor-mi e brutte di quelle che scrivono gli più indotti idiotioggidì. E pure tali prelati erano per lo più i cancellieride’ reami d’Europa, quali restarono tre arcivescovi can-cellieri dell’Imperio per tre lingue (ciascheduno per cia-scheduna): tedesca, francese ed italiana; e da essi, per talmaniera di scrivere lettere con tali forme irregolari,dev’essere stata detta la «scrittura cancellaresca». Da sìfatta scarsezza per una legge inghilese fu ordinato cheun reo di morte il quale sapesse di lettera, come eccel-lente in arte, egli non dovesse morire: da che forse poi lavoce «letterato» si stese a significar «erudito».

Per la stessa inopia di scrittori, nelle case antiche nonosserviamo parete ove non sia intagliata una qualche im-presa. Altronde, da’ latini barbari fu detta «terræ presa»in podere co’ suoi confini, e dagl’italiani fu detto «pode-re» per la stessa idea onde da’ latini era stato detto «præ-dium»; perché le terre ridutte a coltura furono le primeprede del mondo, e furono i fondi detti «mancipia» dallalegge delle XII Tavole, e detti «prædes» e «mancipes» gliobbligati in roba stabile, principalmente all’erario, e «iu-ra prædiorum» le servitù che si dicon «reali». Altrondedagli spagnoli fu detta «prenda» l’«impresa forte», per-ché le prime imprese forti del mondo furono di domare eridurre a coltura le terre: che si truoverà essere la mag-giore di tutte le fatighe d’Ercole. L’impresa, di nuovo,

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agl’italiani si disse «insegna» in concetto di «cosa signifi-cante» (onde agli stessi si venne detto «insegnare»); e sidice anco «divisa», perché l’insegne si ritruovarono persegni della prima division delle terre, ch’erano state in-nanzi, nell’usarle, a tutto il gener umano comuni; onde itermini, prima reali, di tali campi, poi dagli scolastici sipresero per termini vocali, o sia per voci significative, chesono gli estremi delle proposizioni. Qual uso appunto ditermini hanno appo gli americani, come si è veduto so-pra, i geroglifici, per distinguere tra essolor le famiglie.

Da tutto ciò si conchiude che all’insegne la gran ne-cessità di significare ne’ tempi delle nazioni mutole do-vette esser fatta dalla certezza de’ domìni, le quali poipassarono in insegne pubbliche in pace; onde vennero lemedaglie, le quali appresso, essendosi introdutte leguerre, si truovarono apparecchiate per l’insegne milita-ri, le quali hanno il primiero uso de’ geroglifici, faccen-dosi per lo più le guerre fra nazioni di voci articolate di-verse e ’n conseguenza mute tra loro. Le quali cose tuttequi ragionate, a maraviglia ci si conferma esser vere daciò: che, per uniformità d’idee, appo gli egizi, gli antichitoscani, romani e gl’inghilesi, che l’usano per fregio del-la lor arma reale, si formò questo geroglifico, appo tuttiuniforme: un’aquila in cima ad uno scettro, ch’appoqueste nazioni, tra loro per immensi spazi di terre e ma-ri divise, dovette egualmente significare ch’i reami ebbe-ro i loro incominciamenti da’ primi regni divini di Giovein forza de’ di lui auspìci. Finalmente, essendosi intro-dutti i commerzi con danaio coniato, si ritruovarono lemedaglie apparecchiate per l’uso delle monete, le quali,dall’uso di esse medaglie, furon dette «monetæ» a «mo-nendo» appresso i latini, come dall’insegne fu detto «in-segnare» appresso gl’italiani. Così da nómos venne nó-misma, lo che ci disse Aristotile; e indi ancor forse vennedetto a’ latini «numus», ch’i migliori scrivono con un«m»; e i francesi dicono «loy» la legge ed «aloy» la mo-

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neta; i quali parlari non possono altronde essere prove-nuti che dalla «legge» o «diritto», significato con gero-glifico, ch’è l’uso appunto delle medaglie. Tutto lo che amaraviglia si conferma dalle voci «ducato», detto a «du-cendo», ch’è propio de’ capitani; «soldo» ond’è detto«soldato»; e «scudo», arma di difesa, ch’innanzi significòil fondamento dell’armi gentilizie, che dapprima fu laterra colta di ciascun padre nel tempo delle famiglie, co-me appresso sarà dimostro. Quindi devon aver luce letante medaglie antiche, ove si vede o un altare, o un li-tuo, ch’era la verga degli àuguri con cui prendevan gliauspìci, come si è sopra detto, o un treppiedi, donde sirendevan gli oracoli, ond’e quel motto «dictum ex tripo-de», «detto d’oracolo».

Della qual sorta di medaglie dovetter esser l’ale, ch’igreci nelle loro favole attaccarono a tutti i corpi signifi-canti ragioni d’eroi fondate negli auspìci. Come Idantu-ra, tra gli geroglifici reali co’ quali rispose a Dario,mandò un uccello; e i patrizi romani, in tutte le conteseeroiche le quali ebbero con la plebe (come apertamentesi legge sulla storia romana), per conservarsi i loro dirittieroici, opponevano quella ragione: «auspicia esse sua».Appunto come nella barbarie ricorsa si osservano l’im-prese nobili caricate d’elmi con cimieri che si adornanodi pennacchi, e nell’Indie occidentali non si adornano dipenne ch’i soli nobili.

IV

Così quello che fu detto «Ious», Giove, e, contratto, sidisse «ius», prima d’ogni altro dovette significare il gra-scio delle vittime dovuto a Giove, conforme a ciò che sen’è sopra detto. Siccome nella barbarie ricorsa «cano-ne» si disse e la legge ecclesiastica e ciò che paga l’enfi-teuticario al padrone diretto, perocché forse le primeenfiteusi s’introdussero dagli ecclesiastici, che, non po-

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tendo essi coltivargli, davano i fondi delle chiese a colti-var ad altrui. Con le quali due cose qui dette convengo-no le due dette sopra: una de’ greci, appo i quali nómossignifica la legge e nómisma la moneta; l’altra de’ france-si, i quali dicono «loy» la legge ed «aloy» la moneta. Allastessa fatta e non altrimente, quel fu detto «Ious opti-mus» per «Giove fortissimo», che per la forza del fulmi-ne diede principio all’autorità divina nella primiera suasignificazione, che fu di «dominio», come sopra abbiamdetto, perocché ogni cosa fusse di Giove.

Perché quel vero di metafisica ragionata d’intornoall’ubiquità di Dio, ch’era stato appreso con falso sensodi metafisica poetica:... Iovis omnia plena, produsse l’au-torità umana a quelli giganti ch’avevano occupato le pri-me terre vacue del mondo, nello stesso significato di«dominio», che ’n ragion romana restò certamente detto«ius optimum»; ma nella sua significazione nativa, assaidiversa da quella nella quale poi restò a’ tempi ultimi.Perocché nacque in significazione nella quale, in un luo-go d’oro dell’orazioni, Cicerone il diffinisce «dominio diroba stabile, non soggetto a peso, non sol privato, maanche pubblico», detto «ottimo» – estimandosi il dirittodella forza, conforme ne’ primi tempi del mondo sitruoverà – nello stesso significato di «fortissimo», peroc-ché non fusse infievolito di niuno peso straniero. Il qualdominio dovett’essere de’ padri nello stato delle fami-glie, e ’n conseguenza il dominio naturale, che dovettenascere innanzi al civile; e, delle famiglie poi componen-dosi le città sopra tal dominio ottimo, che in greco si di-ce díkaion áriston, élleno nacquero di forma aristocrati-ca, come appresso si truoverà. Dalla stessa origine, appoi latini, dette repubbliche d’ottimati si dissero anco «re-pubbliche di pochi», perché le componevano que’

... pauci quos æquus amavitIupiter.

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E gli eroi nelle contese eroiche con le plebi sosteneva-no le loro ragioni eroiche con gli auspìci divini; e ne’tempi muti le significavano con l’uccello d’Idantura, conle ale delle greche favole; e con lingua articolata final-mente i patrizi romani, dicendo «auspicia esse sua».

Perocché Giove co’ fulmini, de’ quali sono i maggioriauspìci, aveva atterrato o mandato sotterra entro le grot-te de’ monti i primi giganti, e con atterrargli aveva lorodato la buona fortuna di divenire signori de’ fondi diquelle terre ove nascosti si ritruovaron fermati, e ne pro-vennero signori nelle prime repubbliche; per lo qual do-minio ogniuno di essi si diceva «fundus fieri» invece di«fieri auctor». E delle loro private autorità famigliari,dappoi unite, come appresso vedremo, se ne fece l’auto-rità civile ovvero pubblica de’ loro senati eroici regnanti,spiegata in quella medaglia (che si osserva sì frequentetra quelle delle repubbliche greche appo il Golzio) cherappresenta tre cosce umane le quali s’uniscono nel cen-tro e con le piante de’ piedi ne sostengono la circonfe-renza; che significa il dominio de’ fondi di ciascun orbeo territorio o distretto di ciascuna repubblica, ch’or sichiama «dominio eminente», ed è significato col gerogli-fico d’un pomo ch’oggi sostengono le corone delle civilipotenze, come appresso si spiegherà. Significato fortissi-mo col «tre» appunto, poiché i greci solevano usare i su-perlativi col numero del «tre», come parlan ora i france-si; con la qual sorta di parlare fu detto il fulmine trisulcodi Giove, che solca fortissimamente l’aria (onde forsel’idea di «solcare» fu prima di quello in aria, dipoi in ter-ra, e per ultimo in acqua); fu detto il tridente di Nettun-no, che, come vedremo, fu un uncino fortissimo da ad-dentare o sia afferrare le navi; e Cerbero detto trifauce,cioè d’una vastissima gola.

Le quali cose qui dette dell’imprese gentilizie sono dapremettersi a ciò che de’ lor princìpi si è ragionato inquest’opera la prima volta stampata; ch’è ’l terzo luogo

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di quel libro per lo quale non ci ’ncresce per altro d’es-ser uscito alla luce.

V

In conseguenza di tutto ciò, da queste lettere e questeleggi che truovò Mercurio Trimegisto agli egizi, da que-sti «caratteri» e questi «nomi» de’ greci, da questi «no-mi» che significano e «genti» e «diritti» a’ romani, gli treprincipi della lor dottrina, Grozio, Seldeno, Pufendor-fio, dovevan incominciar a parlare del diritto naturaldelle genti. E sì dovevano con intelligenza spiegarla co’geroglifici e con le favole, che sono le medaglie de’ tem-pi ne’ quali si fondarono le nazioni gentili; e sì accertar-ne i costumi con una critica metafisica sopra essi autoridelle nazioni, dalla quale doveva prendere i primi lumiquesta critica filologica sopra degli scrittori, i quali nonprovennero che assai più di mille anni dopo essersi lenazioni fondate.

7.ULTIMI COROLLARI D’INTORNO ALLA

LOGICA DEGLI ADDOTTRINATI.

I

Per le cose ragionate finora in forza di questa logicapoetica d’intorno all’origini delle lingue, si fa giustizia a’primi di lor autori d’essere stati tenuti in tutti i tempiappresso per sappienti, perocché diedero i nomi alle co-se con naturalezza e propietà; onde sopra vedemmoch’appo i greci e latini «nomen» e «natura» significaro-no una medesima cosa.

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II

Ch’i primi autori dell’umanità attesero ad una topicasensibile, con la quale univano le propietà o qualità orapporti, per così dire, concreti degl’individui o dellespezie, e ne formavano i generi loro poetici.

III

Talché questa prima età del mondo si può dire converità occupata d’intorno alla prima operazione dellamente umana.

IV

E primieramente cominciò a dirozzare la topica, ch’èun’arte di ben regolare la prima operazione della nostramente, insegnando i luoghi che si devono scorrer tuttiper conoscer tutto quanto vi è nella cosa che si vuol be-ne ovvero tutta conoscere.

V

La provvedenza ben consigliò alle cose umane colpromuovere nell’umane menti prima la topica che la cri-tica, siccome prima è conoscere, poi giudicar delle cose.Perché la topica è la facultà di far le menti ingegnose,siccome la critica è di farle esatte; e in que’ primi tempisi avevano a ritruovare tutte le cose necessarie alla vitaumana, e ’l ritruovare è propietà dell’ingegno. Ed in ef-fetto, chiunque vi rifletta, avvertirà che non solo le cosenecessarie alla vita, ma l’utili, le comode, le piacevoli edinfino alle superflue del lusso, si erano già ritruovatenella Grecia innanzi di provenirvi i filosofi, come il fa-rem vedere ove ragioneremo d’intorno all’età d’Omero.Di che abbiamo sopra proposto una Degnità: ch’«i fan-

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ciulli vagliono potentemente nell’imitare», e «la poesianon è che imitazione», e «le arti non sono che imitazionidella natura, e ’n conseguenza poesie in un certo modoreali». Così i primi popoli, i quali furon i fanciulli del ge-ner umano, fondarono prima il mondo dell’arti; poscia ifilosofi, che vennero lunga età appresso, e ’n conseguen-za i vecchi delle nazioni, fondarono quel delle scienze:onde fu affatto compiuta l’umanità.

VI

Questa storia d’umane idee a maraviglia ci è confer-mata dalla storia di essa filosofia. Ché la prima manierach’usarono gli uomini di rozzamente filosofare fu l’auto-psía o l’evidenza de’ sensi, della quale si servì poi Epicu-ro, che, come filosofo de’ sensi, era contento della isolasposizione delle cose all’evidenza de’ sensi, ne’ quali, co-me abbiam veduto nell’Origini della poesia, furono vivi-dissime le prime nazioni poetiche. Dipoi venne Esopo, oi morali filosofi che diremmo «volgari» (che, come ab-biam sopra detto, cominciò innanzi de’ sette savi dellaGrecia), il quale ragionò con l’esemplo, e, perché dura-va ancora l’età poetica, il prendeva da un qualche similefinto (con uno de’ quali il buono Menenio Agrippa ri-dusse la plebe romana sollevata all’ubbidienza); e tutta-via uno di sì fatti esempli, e molto più un esemplo vero,persuade il volgo ignorante assai meglio ch’ogni invittoraziocinio per massime. Appresso venne Socrate e intro-dusse la dialettica, con l’induzione di più cose certech’abbian rapporto alla cosa dubbia della quale si qui-stiona. Le medicine, per l’induzione dell’osservazioni,innanzi di Socrate avevano dato Ippocrate, principe ditutti i medici così per valore come per tempo, che me-ritò l’immortal elogio: «Nec fallit quenquam, nec falsusab ullo est». Le mattematiche, per la via unitiva detta«sintetica», avevan a’ tempi di Platone fatto i loro mag-

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giori progressi nella scuola italiana di Pittagora, come sipuò veder dal Timeo. Sicché, per questa via unitiva, a’tempi di Socrate e di Platone sfolgorava Atene di tuttel’arti nelle quali può esser ammirato l’umano ingegno,così di poesia, d’eloquenza, di storia, come di musica, difonderia, di pittura, di scoltura, d’architettura. Poi ven-nero Aristotile, che ’nsegnò il sillogismo, il qual è unmetodo che più tosto spiega gli universali ne’ loro parti-colari che unisce particolari per raccogliere universali; eZenone col sorite, il quale risponde al metodo de’ mo-derni filosofanti, ch’assottiglia, non aguzza, gl’ingegni; enon fruttarono alcuna cosa più di rimarco a pro del ge-ner umano. Onde a gran ragione il Verulamio, gran filo-sofo egualmente e politico, propone, commenda ed illu-stra l’induzione nel suo Organo; ed è seguito tuttaviadagl’inghilesi con gran frutto della sperimentale filoso-fia.

VII

Da questa storia d’umane idee si convincono ad evi-denza del loro comun errore tutti coloro i quali, occupa-ti dalla falsa comune oppenione della somma sapienzach’ebber gli antichi, han creduto Minosse, primo legisla-tor delle genti, Teseo agli ateniesi, Ligurgo agli spartani,Romolo ed altri romani re aver ordinato leggi universali.Perché l’antichissime leggi si osservano concepute co-mandando o vietando ad un solo, le quali poi correvanper tutti appresso (tanto i primi popoli eran incapacid’universali); e pure non le concepivano senonsé fusseroavvenuti i fatti che domandavanle. E la legge di TulloOstilio nell’accusa d’Orazio non è che la pena, la qual iduumviri per ciò criati dal re dettano contro l’inclitoreo, e «lex horrendi carminis» è acclamata da Livio; tal-ch’ella è una delle leggi che Dragone scrisse col sangue e«leges sanguinis» chiama la sagra storia. Perché la rifles-

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sione di Livio: che ’l re non volle esso pubblicarla pernon esser autore di giudizio sì tristo ed ingrato al popo-lo, ella è affatto ridevole, quando esso re ne prescrive laformola della condennagione a’ duumviri, per la qualequesti non potevan assolver Orazio, neppure ritruovatoinnocente. Dove Livio affatto non si fa intendere, per-ch’esso non intese che ne’ senati eroici, quali ritruovere-mo essere stati aristocratici, gli re non avevano altra po-testà che di criare i duumviri in qualità di commessari, iquali giudicassero delle pubbliche accuse, e che i popolidelle città eroiche eran di soli nobili, a’ quali i rei con-dennati si richiamavano.

Ora, per ritornar al proposito, cotal legge di Tullo infatti è uno di quelli che si dissero «exempla» in senso di«castighi esemplari», e dovetter esser i primi esemplich’usò l’umana ragione (lo che conviene con quelloch’udimmo da Aristotile sopra, nelle Degnità: che «nellerepubbliche eroiche non vi erano leggi d’intorno a’ tortied offese private»); e ’n cotal guisa, prima furono gliesempli reali, dipoi gli esempli ragionati de’ quali si ser-vono la logica e la rettorica. Ma, poi che furono intesi gliuniversali intelligibili, si riconobbe quella essenzialepropietà della legge: – che debba esser universale, – e sistabilì quella massima in giurisprudenza: che «legibus,non exemplis, est iudicandum».

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IIIMORALE POETICA.

DELLA MORALE POETICA, E QUIDELL’ORIGINI DELLE VOLGARI VIRTÙ

INSEGNATE DALLA RELIGIONE CO’MATRIMONI.

Siccome la metafisica de’ filosofi per mezzo dell’ideadi Dio fa il primo suo lavoro, ch’è di schiarire la menteumana, ch’abbisogna alla logica perché con chiarezza edistinzione d’idee formi i suoi raziocini, con l’uso de’quali ella scende a purgare il cuore dell’uomo con la mo-rale; così la metafisica de’ poeti giganti, ch’avevano fattoguerra al cielo con l’ateismo, gli vinse col terrore di Gio-ve, ch’appresero fulminante. E non meno che i corpi,egli atterrò le di loro menti, con fingersi tal idea sì spa-ventosa di Giove, la quale – se non co’ raziocini, de’quali non erano ancor capaci, co’ sensi, quantunque fal-si nella materia, veri però nella loro forma (che fu la lo-gica conforme a sì fatte loro nature) – loro germogliò lamorale poetica con fargli pii. Dalla qual natura di coseumane uscì quest’eterna propietà: che le menti, per farbuon uso della cognizione di Dio, bisogna ch’atterrinose medesime, siccome al contrario la superbia dellementi le porta nell’ateismo, per cui gli atei divengono gi-ganti di spirito, che deono con Orazio dire:

Coelum ipsum petimus stultitia.

Sì fatti giganti pii certamente Platone riconosce nelPolifemo d’Omero; e noi l’avvaloriamo da ciò ch’essoOmero narra dello stesso gigante, ove gli fa dire ch’unàugure, ch’era stato un tempo tra loro, gli aveva predet-

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to la disgrazia ch’egli poi sofferse da Ulisse: perché gliàuguri non possono vivere certamente tra gli atei. Quivila morale poetica incominciò dalla pietà, perch’era dallaprovvedenza ordinata a fondare le nazioni, appo le qualitutte la pietà volgarmente è la madre di tutte le morali,iconomiche e civili virtù; e la religione unicamente è effi-cace a farci virtuosamente operare, perché la filosofia èpiù tosto buona per ragionarne. E la pietà incominciòdalla religione, che propiamente è timore della divinità.L’origine eroica della qual voce si conservò appo i latiniper coloro che la voglion detta a «religando», cioè daquelle catene con le quali Tizio e Prometeo eran incate-nati sull’alte rupi, a’ quali l’aquila, o sia la spaventosa re-ligione degli auspìci di Giove, divorava il cuore e le vi-scere. E ne restò eterna propietà appo tutte le nazioni:che la pietà s’insinua a’ fanciulli col timore d’una qual-che divinità.

Cominciò, qual dee, la moral virtù dal conato, colqual i giganti dalla spaventosa religione de’ fulmini fu-ron incatenati per sotto i monti, e tennero in freno ilvezzo bestiale d’andar errando da fiere per la gran selvadella terra, e s’avvezzarono ad un costume, tutto contra-rio, di star in que’ fondi nascosti e fermi; onde poscia nedivennero gli autori delle nazioni e i signori delle primerepubbliche, come abbiamo accennato sopra e spieghe-remo più a lungo appresso. Ch’è uno de’ gran beneficiche la volgar tradizione ci conservò d’aver fatto il Cieloal gener umano, quando egli regnò in terra con la reli-gion degli auspìci; onde a Giove fu dato il titolo di «sta-tore» ovvero di «fermatore», come sopra si è detto. Colconato altresì incominciò in essi a spuntare la virtùdell’animo, contenendo la loro libidine bestiale di eser-citarla in faccia al cielo, di cui avevano uno spaventograndissimo; e ciascuno di essi si diede a strascinare persé una donna dentro le loro grotte e tenerlavi dentro inperpetua compagnia di lor vita; e si usarono con esse la

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venere umana al coverto, nascostamente, cioè a dire conpudicizia; e sì incominciarono a sentir pudore, che So-crate diceva esser il «colore della virtù». Il quale, dopoquello della religione, è l’altro vincolo che conserva uni-te le nazioni, siccome l’audacia e l’empietà son quelleche le rovinano.

In cotal guisa s’introdussero i matrimoni, che sonocarnali congiugnimenti pudichi fatti col timore di qual-che divinità, che furono da noi posti per secondo princi-pio di questa Scienza, e provennero da quello, che noine ponemmo per primo, della provvedenza divina. Euscirono con tre solennità.

La prima delle quali furono gli auspìci di Giove, presida que’ fulmini onde i giganti indutti furono a celebrar-gli: dalla qual sorte appo i romani restò il matrimoniodiffinito «omnis vitæ consortium», e ne furono il maritoe la moglie detti «consortes», e tuttavia da noi le donzel-le volgarmente si dicono «prender sorte» per «maritar-si». Da tal determinata guisa e da tal primo tempo delmondo restò quel diritto delle genti: che le mogli passi-no nella religion pubblica de’ lor mariti, perocché i ma-riti incominciarono a comunicare le loro prime umaneidee con le loro donne dall’idea d’una loro divinità, chegli sforzò a strascinarle dentro le loro grotte; e sì questavolgar metafisica incominciò anch’ella in Dio a conoscerla mente umana. E da questo primo punto di tutte leumane cose dovettero gli uomini gentili incominciar alodare gli dèi, nel senso, con cui parlò il diritto romanoantico, di «citare» e «nominatamente chiamare»; donderestò «laudare auctores», perché citassero in autori glidèi di tutto ciò che facevan essi uomini: che dovetter es-ser le lodi ch’apparteneva agli uomini di dar agli dèi.

Da questa antichissima origine de’ matrimoni è natoche le donne entrino nelle famiglie e case degli uominico’ quali son maritate; il qual costume natural delle gen-ti si conservò da’ romani, appo i quali le mogli erano a

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luogo di figliuole de’ lor mariti e sorelle de’ lor figliuoli.E quindi ancora i matrimoni dovettero incominciarenon solo con una sola donna, come fu serbato da’ roma-ni (e Tacito ammira tal costume ne’ germani antichi, cheserbavano, come i romani, intiere le prime origini delleloro nazioni, e ne danno luogo di congetturare lo stessodi tutte l’altre ne’ lor princìpi), ma anco in perpetuacompagnia di lor vita, come restò in costume a moltissi-mi popoli; onde appo i romani furono diffinite le nozze,per questa propietà, «individuæ vitæ consuetudo», e ap-po gli stessi assai tardi s’introdusse il divorzio.

Di sì fatti auspìci de’ fulmini osservati di Giove, lastoria favolosa greca narra Ercole (carattere di fondatoridi nazioni, come sopra vedemmo e più appresso ne os-serveremo), nato da Alcmena ad un tuono di Giove; al-tro grande eroe di Grecia Bacco, nato da Semele fulmi-nata. Perché questo fu il primo motivo onde gli eroi sidissero esser figliuoli di Giove; lo che con verità di sensidicevano, sull’oppenione, della quale vivevano persuasi,che facessero ogni cosa gli dèi, come sopra si è ragiona-to. E questo è quello che nella storia romana si legge:che, nelle contese eroiche, a’ patrizi, i quali dicevano«auspicia esse sua», la plebe rispondeva che i padri de’quali Romolo aveva composto il senato, da’ quali essipatrizi traevan l’origine, «non esse coelo demissos»; chese non significa che quelli non eran eroi cotal rispostanon s’intende come possavi convenire. Quindi, per si-gnificare che i connubi o sia la ragione di contrarre noz-ze solenni, delle quali la maggior solennità erano gli au-spìci di Giove, ella era propia degli eroi, fecero Amornobile alato e con benda agli occhi, per significarne lapudicizia (il quale si disse Eùros, col nome simile di essieroi), ed alato Imeneo, figliuolo di Urania, detta, dauranós, «coelum», «contemplatrice del cielo», affine diprender da quello gli auspìci; che dovette nascere la pri-ma dell’altre muse, diffinita da Omero, come sopra os-

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servammo, «scienza del bene e del male», ed anch’essa,come l’altre, descritta alata perché propia degli eroi, co-me si è sopra spiegato. D’intorno alla quale pur sopraspiegammo il senso istorico di quel motto:

A Iove principium musæ:

ond’ella come tutte le altre furon credute figliuole diGiove (perché dalla religione nacquero l’arti dell’uma-nità, delle quali è nume Apollo, che principalmente fucreduto dio della divinità), e cantano con quel «canere»o «cantare» che significa «predire» a’ latini.

La seconda solennità è che le donne si velino, in se-gno di quella vergogna che fece i primi matrimoni nelmondo. Il qual costume è stato conservato da tutte lenazioni; e i latini ne diedero il nome alle medesime noz-ze, che sono dette «nuptiæ» a «nubendo», che significa«cuoprire»; e da’ tempi barbari ritornati «vergini in ca-pillo» si dissero le donzelle, a differenza delle donne,ch’ivan velate.

La terza solennità fu (la qual si serbò da’ romani) diprendersi le spose con una certa finta forza, dalla forzavera con la quale i giganti strascinarono le prime donnedentro le loro grotte. E dopo le prime terre occupate da’giganti con ingombrarle coi corpi, le mogli solenni sidissero «manucaptæ».

I poeti teologi fecero de’ matrimoni solenni il secon-do de’ divini caratteri dopo quello di Giove: Giunone,seconda divinità delle genti dette «maggiori». La qual èdi Giove sorella e moglie, perché i primi matrimoni giu-sti ovvero solenni (che dalla solennità degli auspìci diGiove furono detti «giusti»), da fratelli e sorelle dovet-ter incominciare; – regina degli uomini e degli dèi, per-ché i regni poi nacquero da essi matrimoni legittimi; –tutta vestita, come s’osserva nelle statue, nelle medaglie,per significazion della pudicizia.

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Onde Venere eroica, in quanto nume anch’essa de’matrimoni solenni, detta «pronuba», si cuopre le vergo-gne col cesto; il quale, dopo, i poeti effemminati ricama-rono di tutti gl’incentivi della libidine. Ma poi, corrottala severa istoria degli auspìci, come Giove con le donne,così Venere fu creduta giacer con gli uomini, e di Anchi-se aver fatto Enea, che fu generato con gli auspìci diquesta Venere. Ed a questa Venere sono attribuiti i ci-gni, comuni a lei con Apollo, che cantano di quel «cane-re» o «cantare» che significa «divinari» o «predire»; informa d’uno de’ quali Giove giace con Leda, per direche Leda con tanti auspìci di Giove concepisce dalle uo-va Castore, Polluce ed Elena.

Ella è Giunone detta «giogale» da quel giogo ond’ilmatrimonio solenne fu detto «coniugium», e «coniuges»il marito e la moglie; – detta anco Lucina, ché porta iparti alla luce, non già naturale, la qual è comune ancoagli parti schiavi, ma civile, ond’i nobili son detti «illu-stri»; – è gelosa d’una gelosia politica, con la qual i ro-mani fin al trecento e nove di Roma tennero i connubichiusi alla plebe. Ma da’ greci fu detta Héra, dalla qualedebbono essere stati detti essi eroi, perché nascevano danozze solenni, delle quali era nume Giunone, e perciògenerati con Amor nobile (ché tanto Eùros significa),che fu lo stesso ch’Imeneo. E gli eroi si dovettero dire insentimento di «signori delle famiglie», a differenza de’famoli, i quali, come vedremo appresso, vi erano comeschiavi; siccome in tal sentimento «heri» si dissero da’latini, e indi «hereditas» detta l’eredità, la quale con vo-ce natia latina era stata detta «familia». Talché, da que-sta origine, «hereditas» dovette significare una «dispoti-ca signoria», come da essa legge delle XII Tavole a’padri di famiglla fu conservata una sovrana potestà didisponerne in testamento, nel capo «Uti paterfamiliassuper pecuniæ tutelæve rei suæ legassit, ita ius esto». Ildisponerne fu detto generalmente «legare», ch’è propio

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de’ sovrani; onde l’erede vien ad esser un legato, il qualenell’eredità rappresenta il padre di famiglia defonto, e ifigliuoli, non meno che gli schiavi, furono compresi ne’motti «rei suæ» e «pecuniæ». Lo che tutto troppo grave-mente n’appruova la monarchica potestà ch’avevanoavuto i padri nello stato di natura sopra le loro famiglie,la qual poi essi si dovettero conservare (come vedremoappresso che si conservarono di fatto) in quellodell’eroiche città; le quali ne dovettero nascere aristocra-tiche, cioè repubbliche di signori, perché la ritenneroanco dentro le repubbliche popolari. Le quali cose tutteappresso saranno pienamente da noi ragionate.

La dea Giunone comanda delle grandi fatighe ad Er-cole detto tebano, che fu l’Ercole greco (perché ogni na-zione gentile antica n’ebbe uno che la fondò, come si ènelle Degnità sopradetto), perché la pietà co’ matrimoniè la scuola dove s’imparano i primi rudimenti di tutte legrandi virtù; ed Ercole col favore di Giove, con gli cuiauspìci era stato generato, tutte le supera; e ne fu dettoHeraklés quasi Herakléis, «gloria di Giunone», estimatala gloria, con giusta idea, qual Cicerone la diffinisce, «fa-ma divolgata di meriti inverso il gener umano», quantadebbe essere stata avere gli Ercoli con le loro fatighefondato le nazioni.

Ma – oscuratesi col tempo queste severe significazio-ni, e con l’effemminarsi i costumi, e presa la sterilità diGiunone per naturale, e le gelosie come di Giove adulte-ro, ed Ercole per bastardo figliuolo di Giove – con no-me tutto contrario alle cose, Ercole tutte le fatighe, colfavore di Giove, a dispetto di Giunon superando, fu fat-to di Giunone tutto l’obbrobrio, e Giunone funne tenu-ta mortal nimica della virtù. E quel geroglifico o favoladi Giunone appiccata in aria con una fune al collo, conle mani pur con una fune legate, e con due pesanti sassiattaccati a’ piedi, che significavano tutta la santità de’

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matrimoni (in aria, per gli auspìci ch’abbisognavano allenozze solenni, onde a Giunone fu data ministra l’Irideed assegnato il pavone, che con la coda l’Iride rassomi-glia; – con la fune al collo, per significare la forza fattada’ giganti alle prime donne; – con la fune legate le ma-ni, la quale poi appo tutte le nazioni s’ingentilì conl’anello, per dimostrare la suggezione delle mogli a’ ma-riti; – co’ pesanti sassi a’ piedi, per dinotare la stabilitàdelle nozze, onde Virgilio chiama «coniugium stabile» ilmatrimonio solenne), essendo poi stato preso per crude-le castigo di Giove adultero, con sì fatti sensi indegniche le diedero i tempi appresso de’ corrotti costumi, hafinor tanto travagliato i mitologi.

Per queste cagioni appunto Platone, qual Maneto fe-ce de’ geroglifici egizi, egli aveva fatto delle favole gre-che, osservandone da una parte la sconcezza di dèi consì fatti costumi, e dall’altra parte l’acconcezza con le sueidee. Nella favola di Giove intruse l’idea del suo etere,che scorre e penetra tutto, per quel

... Iovis omnia plena,

come pur sopra abbiam detto, ma il Giove de’ poetiteologi non fu più alto de’ monti e della regione dell’ariadove s’ingenerano i fulmini. In quella di Giunone intru-se l’idea dell’aria spirabile: ma Giunone di Giove nongenera, e l’etere con l’aria produce tutto. (Tanto con talmotto i poeti teologi intesero quella verità in fisica,ch’insegna l’universo empiersi d’etere; e quell’altra inmetafisica, che dimostra l’ubiquità ch’i teologi naturalidicon di Dio!) Sull’eroismo poetico innalzò il suo filoso-fico: che l’eroe fusse sopra all’uomo, nonché alla bestia(la bestia è schiava delle passioni; l’uomo, posto in mez-zo, combatte con le passioni; l’eroe con piacere coman-da alle passioni), e sì esser l’eroica mezza tralla divinanatura ed umana. E truovò acconcio l’Amor nobile de’

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poeti (che fu detto Eùros dalla stessa origine ond’è dettoéros l’eroe), finto alato e bendato, e l’Amor plebeo, sen-za benda e senz’ali, per ispiegar i due amori, divino e be-stiale: quello bendato alle cose de’ sensi, questo alle cosede’ sensi intento; quello con l’ali s’innalza alla contem-plazione delle cose intelligibili, questo senz’ali nelle sen-sibili si rovescia. E di Ganimede, per un’aquila rapito incielo da Giove, ch’a’ poeti severi volle dire il contempla-tore degli auspìci di Giove, fatto poi da’ tempi corrottinefanda delizia di Giove, con bell’acconcezza egli fece ilcontemplativo di metafisica, il quale con la contempla-zione dell’ente sommo, per la via ch’egli appella «uniti-va», siesi unito con Giove.

In cotal guisa la pietà e la religione fecero i primi uo-mini naturalmente prudenti, che si consigliavano con gliauspìci di Giove: – giusti, della prima giustizia verso diGiove, che, come abbiam veduto, diede il nome al «giu-sto», e inverso gli uomini, non impacciandosi niuno del-le cose d’altrui, come de’ giganti, divisi per le spelonchedella Sicilia, narra Polifemo ad Ulisse (la qual, giustiziain comparsa, era, in fatti, selvatichezza); – di più, tempe-rati, contenti d’una sola donna per tutta la loro vita. E,come vedremo appresso, gli fecero forti, industriosi emagnanimi, che furono le virtù dell’età dell’oro: non giàquale la si finsero, dopo, i poeti effemminati, nella qualelicesse ciò che piacesse; perché, in quella de’ poeti teolo-gi, agli uomini, storditi ad ogni gusto di nauseante rifles-sione (come tuttavia osserviamo i costumi contadine-schi), non piaceva se non ciò ch’era lecito, né piaceva senon ciò che giovava (la qual origine eroica han serbato ilatini in quell’espressione con cui dicono «iuvat» per dir«è bello»); – né come la si finsero i filosofi, che gli uomi-ni leggessero in petto di Giove le leggi eterne del giusto,perché dapprima leggerono nel cospetto del cielo le leg-gi lor dettate da’ fulmini. E, in conchiusione, le virtù dital prima età furono come quelle che tanto sopra,

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nell’Annotazioni alla Tavola cronologica, udimmo lodardegli sciti, i quali ficcavano un coltello in terra e l’adora-van per dio (con che poi giustificavano gli ammazza-menti): cioè virtù per sensi, mescolate di religione ed im-manità; i quali costumi come tra loro si comportino sipuò tuttavia osservar nelle streghe, come nelle Degnità siè avvisato.

Da tal prima morale della superstiziosa e fiera genti-lità venne quel costume di consagrare vittime umaneagli dèi, come si ha dagli più antichi fenici, appo i quali,quando loro sovrastava alcuna grande calamità, come diguerra, fame, peste, gli re consagravano i loro propi fi-gliuoli per placare l’ira celeste, come narra Filone biblio;e tal sagrifizio facevano di fanciulli ordinariamente a Sa-turno, al riferire di Quinto Curzio. Che, come raccontaGiustino, fu conservato poi da’ cartaginesi, gente senzadubbio colà pervenuta dalla Fenicia (come qui dentro siosserva), e fu da essi praticato infin agli ultimi loro tem-pi, come il conferma Ennio in quel verso:

Et poinei solitei sos sacruficare puellos,

i quali dopo la rotta ricevuta da Agatocle sagrificaro-no dugento nobili fanciulli a’ loro dèi per placarli. E co’fenici e cartaginesi in tal costume empiamente pio con-vennero i greci col voto e sagrifizio che fece Agamenno-ne della sua figliuola Ifigenia. Lo che non dee recar ma-raviglia a chiunque rifletta sulla ciclopica paternapotestà de’ primi padri del gentilesimo, la quale fu prati-cata dagli più dotti delle nazioni, quali furon i greci, edagli più saggi, quali sono stati i romani, i quali entram-bi, fin dentro i tempi della loro più colta umanità, ebbe-ro l’arbitrio d’uccidere i loro figliuoli bambini di fresconati. La qual riflessione certamente dee scemarci l’orro-re che ’n questa nostra mansuetudine ci si è fatto finorsentire di Bruto, che decapita due suoi figliuoli ch’ave-

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vano congiurato di riporre nel regno romano il tirannoTarquinio, e di Manlio detto «l’imperioso», che mozzala testa al suo generoso figliuolo ch’aveva combattuto evinto contro il suo ordine. Tali sagrifizi di vittime umaneessere stati celebrati da’ galli l’afferma Cesare; e Tacitonegli Annali narra degl’inghilesi che, con la scienza divi-na de’ druidi (i quali la boria de’ dotti vuol esser statiricchi di sapienza riposta), dall’entragne delle vittimeumane indovinavano l’avvenire: la qual fiera ed immanereligione da Augusto fu proibita ai romani i quali viveva-no in Francia, e da Claudio fu interdetta a’ galli medesi-mi, al narrare di Suetonio nella vita di questo cesare.Quindi i dotti delle lingue orientali vogliono ch’i feniciavessero sparso per le restanti parti del mondo i sagrifizidi Moloch (che ’l Morneo, il Drusio, il Seldeno diconoessere stato Saturno), co’ quali gli bruciavano un uomovivo. Tal umanità i fenici, che portarono ai greci le lette-re, andavano insegnando per le prime nazioni della piùbarbara gentilità! D’un cui simile costume immanissimodicono ch’Ercole avesse purgato il Lazio: di gittare nelTevere uomini vivi sagrificati ed avesse introdotto di git-tarlivi fatti di giungo. Ma Tacito narra i sagrifizi di vitti-me umane essere stati solenni appo gli antichi germani, iquali certamente per tutti i tempi de’ quali si ha memo-ria furono chiusi a tutte le nazioni straniere, talché i ro-mani, con tutte le forze del mondo, non vi poterono pe-netrare. E gli spagnuoli gli ritruovarono in America,nascosta fin a due secoli fa a tutto il resto del mondo;ove que’ barbari si cibavano di carni umane (all’osserva-re di Lascoboto, De Francia nova), che dovevan essered’uomini da essi consagrati ed uccisi (quali sagrifizi sononarrati da Oviedo, De historia indica). Talché, mentre igermani antichi vedevano in terra gli dèi, gli americanialtrettanto (come sopra da noi l’un e l’altro si è detto), egli antichissimi sciti erano ricchi di tante auree virtù diquante l’abbiamo testé uditi lodare dagli scrittori; in tali

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tempi medesimi celebravano tal inumanissima umanità!Queste tutte furono quelle che da Plauto son dette «Sa-turni hostiæ», nel cui tempo vogliono gli autori che ful’età dell’oro del Lazio. Tanto ella fu mansueta, benigna,discreta, comportevole e doverosa!

Dallo che tutto ha a conchiudersi quanto sia stata fi-nora vana la boria de’ dotti d’intorno all’innocenza delsecol d’oro, osservata dalle prime nazioni gentili; che, ’nfatti, fu un fanatismo di superstizione, ch’i primi uomi-ni, selvaggi, orgogliosi, fierissimi, del gentilesimo tenevain qualche ufizio con un forte spavento d’una da essi im-maginata divinità. Sulla qual superstizione riflettendo,Plutarco pone in problema: se fusse stato minor malecosì empiamente venerare gli dèi, o non creder affattoagli dèi. Ma egli non contrapone con giustizia tal fierasuperstizione con l’ateismo: perché con quella surseroluminosissime nazioni, ma con l’ateismo non se nefondò al mondo niuna, conforme sopra ne’ Princìpi si èdimostrato.

E ciò sia detto della morale divina de’ primi popolidel gener umano perduto: della morale eroica appressoragioneremo a suo luogo.

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IVDELL’ECONOMICA POETICA.

1.DELL’ICONOMICA POETICA, E QUI DELLE

FAMIGLIE CHE PRIMA FURONO DE’FIGLIUOLI.

Sentirono gli eroi per umani sensi quelle due veritàche compiono tutta la dottrina iconomica, che le gentilatine conservarono con queste due voci di «educere» edi «educare»; delle quali con signoreggiante eleganza laprima s’appartiene all’educazione dell’animo, e la secon-da a quella del corpo. E la prima fu, con dotta metafora,trasportata da’ fisici al menar fuori le forme dalla mate-ria; perciocché con tal educazione eroica s’incominciò amenar fuori in un certo modo la forma dell’anima uma-na, che ne’ vasti corpi de’ giganti era affatto seppellitadalla materia, e s’incominciò a menar fuori la forma diesso corpo umano di giusta corporatura dagli smisuraticorpi lor giganteschi.

E, per ciò che riguarda la prima parte, dovettero i pa-dri eroi, come nelle Degnità si è avvisato, essere, nellostato che dicesi «di natura», i sappienti in sapienza d’au-spìci o sia sapienza volgare; e, ’n séguito di cotal sapien-za, esser i sacerdoti, che, come più degni, dovevano sa-grificare per proccurare o sia ben intender gli auspìci; efinalmente gli re, che dovevano portar le leggi dagli dèialle loro famiglie, nel propio significato di tal voce «legi-slatori», cioè «portatori di leggi», come poi lo furono iprimi re nelle città eroiche, che portavano le leggi da’ se-nati regnanti a’ popoli, come noi l’osservammo sopra,nelle due spezie dell’adunanze eroiche d’Omero, unadetta bulé e l’altra agorá, nell’Annotazioni alla Tavola

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cronologica. E come in quella gli eroi a voce ordinavanole leggi, in questa a voce le pubblicavano (perocché lelettere volgari non si erano ancor truovate); onde gli reeroici portavano le leggi da essi senati regnanti a’ popolinelle persone de’ duumviri, i quali essi avevano per ciòcriati che le dettassero, come Tullo Ostilio quellanell’accusa d’Orazio. Talché essi duumviri venivan adessere leggi vive e parlanti; che è ciò che non intendendoLivio, non si fa intendere, come sopra osservammo, ovenarra del giudizio d’Orazio.

Cotal tradizione volgare sulla falsa oppenione dellasapienza innarrivabile degli antichi diede la tentazione aPlatone di vanamente disideraRe que’ tempi ne’ quali ifilosofi regnavano o filosofavano i re. E certamente cota-li padri, come nelle Degnità si è avvisato, dovetter esserere monarchi famigliari, superiori a tutti nelle loro fami-glie e solamente soggetti a Dio, forniti d’imperi armatidi spaventose religioni e consegrati con immanissimepene, quanto dovetter essere quelli de’ polifemi, ne’quali Platone riconosce i primi padri di famiglia delmondo. La qual tradizione, mal ricevuta, diede la graveoccasione del comun errore a tutti i politici: di credereche la prima forma de’ governi civili fusse ella nel mon-do stata monarchica; onde sono dati in quelli ingiustiprincìpi di rea politica: che i regni civili nacquero o daforza aperta o da froda, che poi scoppiò nella forza. Main que’ tempi, tutti orgoglio e fierezza per la fresca origi-ne della libertà bestiale (di che abbiamo, pur sopra, po-sto una Degnità), nella somma semplicità e rozzezza dicotal vita, ch’eran contenti de’ frutti spontanei della na-tura, dell’acqua delle fontane e di dormir nelle grotte;nella naturale egualità dello stato, nel quale tutti i padrierano sovrani nelle loro famiglie; non si può affatto in-tendere né froda né forza, con la quale uno potesse as-soggettir tutti gli altri ad una civil monarchia: la qualpruova si farà più spiegata appresso.

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Solamente ora sia lecito qui di riflettere quanto vi vol-le acciocché gli uomini del gentilesimo dalla ferina loronatia libertà, per lunga stagione di ciclopica famigliar di-sciplina, si ritruovassero addimesticati, negli Statich’avevano da venir appresso civili, ad ubbidire natural-mente alle leggi. Di che restò quell’eterna propietà:ch’ivi le repubbliche sono più beate di quella ch’ideòPlatone, ove i padri insegnano non altro che la religione,e da’ figliuoli vi sono ammirati come lor sappienti, rive-riti come lor sacerdoti e vi sono temuti da re. Tanta for-za divina e tale vi abbisognava per ridurre a’ doveriumani i quanto goffi altrettanto fieri giganti! La qualforza non potendo dir in astratto, la dissero in concretocon esso corpo d’una corda, che chordá si dice in greco,ed in latino da prima si disse «fides», la qual, prima epropiamente, s’intese in quel motto «fides deorum»,«forza degli dèi». Della qual poi, come la lira dovette co-minciare dal monocordo, ne fecero la lira d’Orfeo, alsuon della quale egli, cantando loro la forza degli dèi ne-gli auspìci, ridusse le fiere greche all’umanità, ed Anfio-ne de’ sassi semoventi innalzò le mura di Tebe: cioè dique’ sassi che Deucalione e Pirra, innanzi al templo diTemi (cioè col timore della divina giustizia), co’ capi ve-lati (con la pudicizia de’ matrimoni), posti innanzi i pie-di (ch’innanzi erano stupidi, come a’ latini per «istupi-do» restò «lapis»), essi, col gittargli dietro le spalle (conintrodurvi gli ordini famigliari per mezzo della discipli-na iconomica), fecero divenir uomini, come questa favo-la fu sopra, nella Tavola cronologica, così spiegata.

Per ciò ch’attiensi all’altra parte della disciplina ico-nomica, ch’è l’educazione de’ corpi, tai padri, con lespaventose religioni e co’ lor imperi ciclopici e con le la-vande sagre, incominciaron ad edurre o menar fuori dal-le corporature gigantesche de’ lor figliuoli la giusta for-ma corporea umana, in conformità di ciò che sopran’abbiamo detto. Ov’è da sommamente ammirare la

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provvedenza, la qual dispose che, finché poi succedessel’educazione iconomica, gli uomini perduti provenisserogiganti, acciocché nel loro ferino divagamento potesserocon le robuste complessioni sopportare l’inclemenza delcielo e delle stagioni, e con le smisurate forze penetrarela gran selva della terra (che per lo recente diluvio dove-va esser foltissima), per la quale (affinché si truovassetutta popolata a suo tempo), fuggendo dalle fiere e se-guitando le schive donne, e quindi sperduti, cercandopascolo ed acqua, si dispergessero; ma, dappoi che inco-minciarono con le loro donne a star fermi, prima nellespelonche, poi ne’ tuguri, presso le fontane perenni (co-me or ora diremo), e ne’ campi, che, ridutti a coltura,davano loro il sostentamento della loro vita, per le ca-gioni ch’ora qui ragioniamo, degradassero alle giustestature delle quali ora son gli uomini.

Quivi, in esso nascere dell’iconomica, la compierononella sua idea ottima, la qual è ch’i padri col travaglio econ l’industria lascino a’ figliuoli patrimonio, ov’abbia-no e facile e comoda e sicura la sossistenza, anco man-cassero gli stranieri commerzi, anco mancassero tutti ifrutti civili, anco mancassero esse città, acciocché in talicasi ultimi almeno si conservino le famiglie, dalle qualisia speranza di risurger le nazioni; – che debbano lasciarloro patrimonio in luoghi di buon’aria, con propia ac-qua perenne, in siti naturalmente forti, ove, nella dispe-razione delle città, possan aver la ritirata, ed in campi dilarghi fondi ove possano mantenere de’ poveri contadi-ni, da essi, nella rovina delle città, rifuggiti, con le fati-ghe de’ quali vi si possano mantenere signori. Tali ordinila provvedenza (secondo il detto di Dione che noi rife-rimmo tralle Degnità), non da tiranna con leggi, ma, daregina, qual è, delle cose umane, con costumanze poseallo stato delle famiglie. Perché si truovaron i forti pian-tate le loro terre sull’alture de’ monti, e quivi in aria ven-tilata e per questo sana; ed in siti per natura anco forti,

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che furono le prime «arces» del mondo, che poi con lesue regole l’architettura militare fortificò (come in italia-no si dissero «rocce» gli scoscesi e ripidi monti, ondepoi «ròcche» se ne dissero le fortezze); e finalmente sitruovarono presso alle fontane perenni, che per lo piùmettono capo ne’ monti, presso alle quali gli uccelli dirapina fanno i lor nidi (onde presso a tali fontane i cac-ciatori tendono loro le reti). I quali uccelli per ciò forsedagli antichi latini furono tutti chiamati «aquilæ», quasi«aquilegæ» (come certamente «aquilex» ci restò detto il«ritruovatore o raccoglitore dell’acqua»), perocché sen-za dubbio gli uccelli, de’ quali osservò gli auspìci Romo-lo per prender il luogo alla nuova città, dalla storia ci sinarrano essere stati avvoltoi, che poi divennero aquile efuron i numi di tutti i romani eserciti. Così gli uominisemplici e rozzi, seguendo l’aquile, le quali credevanoesser uccelli di Giove perché volan alto nel cielo, ritruo-varono le fontane perenni, e ne venerarono quest’altrogran beneficio che fece loro il Cielo quando regnava interra. E dopo quello de’ fulmini, gli più augusti auspìcifuron osservati i voli dell’aquile, che Messala e Corvinodissero «auspìci maggiori» ovvero «pubblici», de’ qualiintendevano i patrizi romani quando nelle contese eroi-che replicavano alla plebe «auspicia esse sua». Tutto ciò,dalla provvedenza ordinato per dar principio all’umangenere gentilesco, Platone stimò essere stati scorti prov-vedimenti umani de’ primi fondatori delle città. Ma nel-la barbarie ricorsa, che dappertutto distruggeva le città,nella stessa guisa si salvarono le famiglie, onde proven-nero le novelle nazioni d’Europa; e ne restarono agl’ita-liani dette «castella» tutte le signorie che novellamentevi sursero, perché generalmente s’osserva le città più an-tiche e quasi tutte le capitali de’ popoli essere postesull’alto de’ monti, ed al contrario i villaggi sparsi per lepianure: onde debbono venire quelle frasi latine «sum-mo loco», «illustri loco nati» per significar «nobili», e

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«imo loco», «obscuro loco nati» per dir «plebei», perché,come vedremo appresso, gli eroi abitavano le città, i fa-moli le campagne.

Però, sopra tutt’altro, per le fontane perenni fu dettoda’ politici che la comunanza dell’acqua fusse stata l’oc-casione che da presso vi si unissero le famiglie, e chequindi le prime comunanze si dicessero phratríai da’greci, siccome le prime terre vennero dette «pagi» a’ lati-ni, come da’ greci dori fu la fonte chiamata peghé: ch’èl’acqua, prima delle due principali solennità delle nozze.Le quali da’ romani si celebravano aqua et igni, perché iprimi matrimoni naturalmente si contrassero tra uominie donne ch’avevano l’acqua e ’l fuoco comune, e sì era-no d’una stessa famiglia; onde, come sopra si è detto, da’fratelli e sorelle dovettero incominciare. Del qual fuocoera dio il lare di ciascheduna casa; dalla qual originevien detto «focus laris» il fuocolaio, dove il padre di fa-miglia sagrificava agli dèi della casa, i quali nella leggedelle XII Tavole, al capo De parricidio, secondo la lezio-ne di Giacomo Revardo, son detti «deivei parentum»; enella sagra storia si legge sì frequente una simil espres-sione: «Deus parentum nostrorum», come più spiegata-mente: «Deus Abraham, Deus Isaac, Deus Iacob». D’in-torno a che è quella tralle leggi di Cicerone cosìconceputa: «Sacra familiaria perpetua manento»; ond’èla frase, sì spessa nelle leggi romane, con la quale un fi-gliuol di famiglia si dice essere «in sacris paternis», e sidice «sacra patria» essa paterna potestà, le cui ragionine’ primi tempi, come si dimostra in quest’opera, eranotutte credute sagre. Cotal costume si ha a dire essere sta-to osservato da’ barbari i quali vennero appresso: per-ché in Firenze, a’ tempi di Giovanni Boccaccio (comel’attesta nella Geanologia degli dèi), nel principio di cia-scun anno il padre di famiglia, assiso nel focolaio a capodi un ceppo a cui s’appiccava il fuoco, gli dava l’incensoe vi spargeva del vino; lo che dalla nostra bassa plebe na-

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poletana si osserva la sera della vigilia del santo Natale,che ’l padre di famiglia solennemente deve appiccare ilfuoco ad un ceppo sì fatto nel fuocolaio; e per lo Reamedi Napoli le famiglie dicono noverarsi per fuochi. Quin-di, fondate le città, venne l’universal costume che i ma-trimoni si contraggono tra’ cittadini; e finalmente restòquello: che, ove si contraggono con istranieri, abbianoalmen tra loro la religione comune.

Ora, ritornando dal fuoco all’acqua, Stige, per cuigiuravano i dèi, fu la sorgiva delle fontane: ove gli dèidebbon esser i nobili dell’eroiche città (come si è sopradetto), perché la comunanza di tal acqua aveva fatto lo-ro i regni sopra degli uomini; onde fin al CCCIX di Ro-ma i patrizi tennero i connubi incomunicati alla plebe,come se n’è detto alquanto sopra e più appresso se nedirà. Per tutto ciò nella storia sagra si leggono sovente o«pozzo del giuramento» o «giuramento del pozzo»:ond’esso nome serba questa tanto grande antichità allacittà di Pozzuoli, che fu detto «Puteoli» da più picciolipozzi uniti; ed è ragionevole congettura, fondata sul di-zionario mentale ch’abbiamo detto, che tante città spar-se per le antiche nazioni che si dicono nel numero delpiù, da questa cosa, una in sostanza, si appellarono, confavella articolata, diversamente.

Quivi si fantasticò la terza deità maggiore, la qual fuDiana, che fu la prima umana necessità, la quale si fecesentir a’ giganti fermati in certe terre e congionti in ma-trimonio con certe donne. Ci lasciarono i poeti teologidescritta la storia di queste cose con due favole di Dia-na. Delle quali una ce ne significa la pudicizia de’ matri-moni: ch’è quella di Diana, la quale, tutta tacita, al buiodi densa notte, si giace con Endimione dormente; tal-ch’è casta Diana di quella castità onde una delle leggi diCicerone comanda «Deos caste adeunto» (che si andassea sagrificare, fatte le sagre lavande prima). L’altra ce nenarra la spaventosa religione de’ fonti, a’ quali restò il

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perpetuo aggiunto di «sagri»: ch’è quella d’Atteone, ilquale, veduta Diana ignuda (la fontana viva), dalla deaspruzzato d’acqua (per dire che la dea gli gittò sopra ilsuo grande spavento), divenne cervo (lo più timido deglianimali) e fu sbranato da’ suoi cani (da’ rimorsi dellapropia coscienza per la religion violata); talché «lympha-ti» (propiamente «spruzzati d’acqua pura», ché tantovuol dire «lympha») dovettero dapprima intendersi co-tali Atteoni impazzati di superstizioso spavento. La qualistoria poetica serbarono i latini nella voce «latices» (chedebbe venire a «latendo»), c’hanno l’aggiunto perpetuodi «puri», e significano l’acqua che sgorga dalla fontana;e tali «latices» de’ latini devon essere le ninfe compagnedi Diana appo i greci, a’ quali «nymphæ» significavanolo stesso che «lymphæ»; e tali ninfe furon dette da’ tem-pi ch’apprendevano tutte le cose per sostanze animate e,per lo più, umane, come sopra si è nella Metafisica ragio-nato.

Appresso, i giganti pii, che furon i postati ne’ monti,dovettero risentirsi del putore che davano i cadaveri de’lor trappassati, che marcivano loro da presso sopra laterra; onde si diedero a seppellirgli (de’ quali si sonotruovati e tuttavia si ritruovano vasti teschi ed ossa perlo più sopra l’alture de’ monti; ch’è un grand’argomentoche de’ giganti empi, dispersi per le pianure e le vallidappertutto, i cadaveri marcendo inseppolti, furono iteschi e l’ossa o portati in mar da’ torrenti o macerati al-fin dalle piogge), e sparsero i sepolcri di tanta religione,o sia divino spavento, che «religiosa loca» per eccellenzarestaron detti a’ latini i luoghi ove fussero de’ sepolcri. Equivi cominciò l’universale credenza, che noi pruovam-mo sopra ne’ Princìpi (de’ quali questo era il terzo chenoi abbiamo preso di questa Scienza), cioè dell’immor-talità dell’anime umane, le quali si dissero «dii manes» enella legge delle XII Tavole, al capo De parricidio, «dei-vei parentum» si appellano. Altronde essi dovettero, in

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segno di seppoltura, o sopra o presso a ciascun tumulo,che altro dapprima non poté essere propiamente cheterra alquanto rilevata (come de’ germani antichi, i qualici dan luogo di congetturare lo stesso costume di tuttel’altre prime barbare nazioni, al riferire di Tacito, stima-vano di non dover gravare i morti di molta terra; ond’èquella preghiera per gli difonti: «Sit tibi terra levis»); do-vettero, diciamo, in segno di seppoltura ficcar un ceppo,detto da’ greci phúlax, che significa «custode», perchécredevano, i semplici, che cotal ceppo il guardasse; e«cippus» a’ latini restò a significare «sepolcro», edagl’italiani «ceppo» significa «pianta d’albero geanologi-co». Onde dovette venir a’ greci phulé, che significa«tribù»: e i romani descrivevano le loro geanologie di-sponendo le statue de’ lor antenati nelle sale delle lorocase per fili, che dissero «stemmata» (che dev’aver origi-ne da «temen», che vuol dir «filo»; ond’è «subtemen»,«filato», che si stende sotto nel tessersi delle tele); i qua-li fili geanologici poi da’ giureconsulti si dissero «lineæ»,e quindi «stemmata» restarono in questi tempi a signifi-care «insegne gentilizie». Talch’è forte congettura che leprime terre con tali seppelliti sieno stati i primi scudidelle famiglie; onde dev’intendersi il motto della madrespartana, che consegna lo scudo al figliuolo che va allaguerra, dicendo: «aut cum hoc, aut in hoc», volendo dire«ritorna o con questo o sopra una bara»; siccome oggiin Napoli tuttavia la bara si chiama «scudo». E perchétai sepolcri erano nel fondo de’ campi, che prima furonda semina, quindi gli scudi nella scienza del blasone sondiffiniti il «fondamento del campo», che poi fu dettodell’«armi».

Da sì fatta origine dee esser venuto detto «filius», ilquale, distinto col nome o casato del padre, significò«nobile»; appunto come il patrizio romano udimmo so-pra diffinito «qui potest nomine ciere patrem»: il qual«nome» de’ romani vedemmo sopra esser a livello il pa-

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tronimico, il quale sì spesso usarono i primi greci, ondeda Omero si dicono «filii Achivorum» gli eroi, siccomenella sagra storia «filii Isræl» sono significati i nobili delpopolo ebreo. Talché è necessario che, se le tribù dap-prima furono de’ nobili, dapprima di soli nobili si com-posero le città, come appresso dimostreremo.

Così con essi sepolcri de’ loro seppelliti i giganti di-mostravano la signoria delle loro terre; lo che restò in ra-gion romana di seppellire il morto in un luogo propio,per farlo religioso. E dicevano con verità quelle frasieroiche: «noi siamo figliuoli di questa terra», «siamo na-ti da queste roveri»; come i capi delle famiglie da’ latinisi dissero «stirpes» e «stipites», e la discendenza di cia-scheduno fu chiamata «propago»; ed esse famigliedagl’italiani furon appellate «legnaggi»; e le nobilissimecase d’Europa e quasi tutte le sovrane prendono i co-gnomi dalle terre da esse signoreggiate. Onde, tanto ingreco quanto in latino, egualmente, «figliuol della Ter-ra» significò lo stesso che «nobile»: ed a’ latini«ingenui» significano «nobili», quasi «indegeniti» e piùspeditamente «ingeniti»; come certamente «indigenæ»restaron a significare i natii d’una terra, e «dii indigetes»si dissero i dèi natii, che debbon essere stati i nobilidell’eroiche città, che si appellarono «dèi», come soprasi è detto, de’ quali dèi fu gran madre la Terra. Onde daprincipio «ingenuus» e «patricius» significarono «nobi-le», perché le prime città furono de’ soli nobili: e questi«ingenui» devon essere stati gli aborigini, detti quasi«senza origini» ovvero «da sé nati», a’ quali rispondonoa livello gli autóchthones che dicono i greci. E gli abori-gini furon giganti, e «giganti» propiamente significano«figliuoli della Terra»; e così la Terra ci fu fedelmentenarrata dalle favole essere stata madre de’ giganti e deidèi.

Le quali cose tutte sopra si sono da noi ragionate, equi, ch’era luogo loro propio, si son ripetute per dimo-

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strare che Livio mal attaccò cotal frase eroica a Romoloe a’ padri, di lui compagni, ove ai ricorsi nell’asilo apertonel luco gli fa dire «esser essi figliuoli di quella terra», e’n bocca loro fa divenire sfacciata bugia quella che ne’fondatori de’ primi popoli era stata un’eroica verità: traperché Romolo era conosciuto reale d’Alba, e perché talmadre era stata loro pur troppo iniqua a produrre de’soli uomini, tanto ch’ebbero bisogno di rapir le sabineper aver donne. Onde hassi a dire che, per la maniera dipensare de’ primi popoli per caratteri poetici, a Romolo,guardato come fondatore di città, furon attaccate le pro-pietà de’ fondatori delle città prime del Lazio, in mezzoa un gran numero delle quali Romolo fondò Roma. Colqual errore va di concerto la diffinizione che lo stessoLivio dà dell’asilo: che fusse stato «vetus urbes conden-tium consilium», che ne’ primi fondatori delle città,ch’erano semplici, non già consiglio, ma fu natura cheserviva alla provvedenza.

Quivi si fantasticò la quarta divinità delle genti dette«maggiori», che fu Apollo, appreso per dio della luce ci-vile; onde gli eroi si dissero kleitói («chiari») da’ greci,da kléos («gloria»), e si chiamarono «inclyti» da’ latini,da «cluer», «splendore d’armi», ed in conseguenza daquella luce alla quale Giunone Lucina portava i nobiliparti. Talché, dopo Urania – che sopra abbiam vedutoesser la musa ch’Omero diffinisce «scienza del bene edel male», o sia la divinazione, come si è sopra detto,per la quale Apollo è dio della sapienza poetica ovverodella divinità – quivi dovette fantasticarsi la seconda del-le muse, che dev’essere stata Clio, la quale narra la storiaeroica; e la prima storia sì fatta dovette incominciaredalle geanologie di essi eroi, siccome la sagra storia co-mincia dalle discendenze de’ patriarchi. A sì fatta storiadà Apollo il principio da ciò: che perseguita Dafne, don-zella vagabonda che va errando per le selve (nella vitanefaria); e questa con l’aiuto ch’implorò degli dèi (de’

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quali bisognavano gli auspìci ne’ matrimoni solenni),fermandosi, diventa lauro (pianta che sempre verdeggianella certa e conosciuta sua prole, in quella stessa signifi-cazione ch’i latini «stipites» dissero i ceppi delle fami-glie; e la barbarie ricorsa ci riportò le stesse frasi eroiche,ove dicono «alberi» le discendenze delle medesime, e ifondatori chiamano «ceppi» e «pedali», e le discenden-ze de’ provenuti dicono «rami», ed esse famiglie dicon«legnaggi»). Così il seguire d’Apollo fu propio di nume,il fuggire di Dafne propio di fiera; ma poi, sconosciuto ilparlare di tal istoria severa, avvenne che ’l seguired’Apollo fu d’impudico, il fuggire di Dafne fu di Diana.

Di più Apollo è fratello di Diana, perché con le fonta-ne perenni ebbero l’agio di fondarsi le prime genti soprade’ monti; ond’egli ha la sua sede sopra il monte Parna-so, dove abitano le muse (che sono l’arti dell’umanità), epresso il fonte Ippocrene, delle cui acque bevono i cigni,uccelli canori di quel «canere» o «cantare» che significa«predire» a’ latini; con gli auspìci d’un de’ quali, come siè sopra detto, Leda concepisce le due uova, e da unopartorisce Elena, e dall’altro Castore e Polluce ad unparto.

Ed Apollo e Diana sono figliuoli di Latona, detta daquel «latere» o «nascondersi» onde si disse «conderegentes», «condere regna», «condere urbes», e particolar-mente in Italia fu detto «Latium». E Latona gli partorìpresso l’acque delle fontane perenni, ch’abbiamo detto,al cui parto gli uomini diventaron ranocchie, le qualinelle piogge d’està nascono dalla terra, la qual fu detta«madre de’ giganti», che sono propiamente della Terrafigliuoli. Una delle quali ranocchie è quella che a Dariomanda Idantura; e devon essere le tre ranocchie e nonrospi nell’arme reale di Francia, che poi si cangiarono ingigli d’oro, dipinte col superlativo del «tre», che restòad essi francesi per significare una ranocchia grandissi-

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ma, cioè un grandissimo figliuolo, e quindi signor dellaterra.

Entrambi son cacciatori, che con alberi spiantati, unode’ quali è la clava d’Ercole, uccidono fiere, prima perdifenderne sé e le loro famiglie (non essendo loro più le-cito, come a’ vagabondi della vita eslege, di camparnefuggendo), di poi per nudrirsene essi con le loro fami-glie. Come Virgilio di tali carni fa cibare gli eroi, e i ger-mani antichi, al riferire di Tacito, per tal fine con le loromogli ivano cacciando le fiere.

Ed è Apollo dio fondatore dell’umanità e delle di leiarti, che testé abbiam detto esser le muse, le quali artida’ latini si dicono «liberales» in significato di «nobili»,una delle quali è quella di cavalcare: onde il Pegaso volasopra il monte Parnaso, il quale è armato d’ali, perch’èin ragione de’ nobili; e nella barbarie ricorsa, perch’essisoli potevano armare a cavallo, i nobili dagli spagnuolise ne dissero «cavalieri». Essa umanità ebbe incomincia-mento dall’«humare», «seppellire» (il perché le seppol-ture furono da noi prese per terzo principio di questaScienza); onde gli ateniesi, che furono gli umanissimi ditutte le nazioni, al riferire di Cicerone, furon i primi aseppellire i lor morti.

Finalmente Apollo è sempre giovine (siccome la vitadi Dafne sempre verdeggia, cangiata in lauro), perchéApollo, coi «nomi» delle prosapie, eterna gli uomini nel-le loro famiglie. Egli porta la chioma in segno di nobiltà;e ne restò costume a moltissime nazioni di portar chio-ma i nobili, e si legge tralle pene de’ nobili appo i persia-ni e gli americani di spiccare uno o più capelli dalla lorchioma, e forse quindi dissero la «Gallia comata» da’ no-bili che fondarono tal nazione, come certamente appotutte le nazioni agli schiavi si rade il capo.

Ma – stando essi eroi fermi dentro circoscritte terre,ed essendo cresciute in numero le lor famiglie, né ba-stando loro i frutti spontanei della natura, e temendo

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per averne copia d’uscire da’ confini che si avevano essimedesimi circoscritti per quelle catene della religioneond’i giganti erano incatenati per sotto i monti, ed aven-do la medesima religione insinuato loro di dar fuoco alleselve per aver il prospetto del cielo, onde venissero lorogli auspìci, – si diedero con molta, lunga dura fatiga a ri-durre le terre a coltura e seminarvi il frumento, il quale,brustolito tra gli dumeti e spinai, avevano forse osserva-to utile per lo nutrimento umano. E qui, con bellissimonaturale necessario trasporto, le spighe del frumentochiamarono «poma d’oro», portando innanzi l’idea del-le poma, che sono frutte della natura che si raccoglionol’està, alle spighe, che pur d’està si raccogliono dall’in-dustria.

Da tal fatiga, che fu la più grande e più gloriosa ditutte, spiccò altamente il carattere d’Ercole, che ne fatanta gloria a Giunone, che comandolla per nutrir le fa-miglie. E, con altrettanto belle quanto necessarie me-tafore, fantasticarono la terra per l’aspetto d’un grandragone, tutto armato di squame e spine (ch’erano i dilei dumeti e spinai), finto alato (perché i terreni erano inragion degli eroi), sempre vegghiante (cioè sempre fol-ta), che custodiva le poma d’oro negli Orti esperidi, edall’umidore dell’acque del diluvio fu poi il dragonecreduto nascere in acqua. Per un altro aspetto fantasti-carono un’idra (che pur viene detta da húdor, «acqua»),che, recisa ne’ suoi capi, sempre in altri ripullulava; can-giante di tre colori: di nero (bruciata), di verde (in erbe),d’oro (in mature biade); de’ quali tre colori la serpe hadistinta la spoglia, e invecchiando la rinnovella. Final-mente, per l’aspetto della ferocia ad esser domata, fufinta un animale fortissimo (onde poi al fortissimo deglianimali fu dato nome «lione»), ch’è ’l lione nemeo, che ifilologi pur vogliono essere stato uno sformato serpente.E tutti vomitan fuoco, che fu il fuoco ch’Ercole diede al-le selve.

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Queste furono tre storie diverse in tre diverse parti diGrecia, significanti una stessa cosa in sostanza. Come inaltra fu quell’altra pur d’Ercole, che bambino uccide leserpi in culla (cioè nel tempo dell’eroismo bambino). Inaltra Bellerofonte uccide il mostro detto Chimera, con lacoda di serpe, col petto di capra (per significar la terraselvosa) e col capo di lione, che pur vomita fiamme. InTebe è Cadmo ch’uccide pur la gran serpe e ne semina identi (con bella metafora chiamando «denti della serpe»i legni curvi più duri, co’ quali, innanzi di truovarsi l’usodel ferro, si dovette arare la terra); e Cadmo divien essoanco serpe (che gli antichi romani arebbero detto cheCadmo, «fundus factus est»), come alquanto si è spiega-to sopra e sarà spiegato molto più appresso; ove vedre-mo le serpi nel capo di Medusa e nella verga di Mercu-rio aver significato «dominio di terreni»; e ne restòophéleia (da óphis, «serpe») detto il terratico, che fu purdetto «decima d’Ercole». Nel qual senso l’indovino Cal-cante appo Omero si legge che la serpe, la qual si divoragli otto passarini e la madre altresì, interpetra la terratroiana ch’a capo di nove anni verrebbe in dominio de’greci; e i greci, mentre combattono co’ troiani, una serpeuccisa in aria da un’aquila, che cade in mezzo alla lorobattaglia, prendono per buon augurio, in conformitàdella scienza dell’indovino Calcante. Perciò Proserpina,che fu la stessa che Cerere, si vede ne’ marmi rapita inun carro tratto da serpi; e le serpi si osservano sì spessenelle medaglie delle greche repubbliche.

Quindi per lo dizionario mentale (ed è cosa degna diriflettervi) gli re americani, al cantare di Fracastoro lasua Sifilide, furono ritruovati, invece di scettro, portaruna spoglia secca di serpe. E i chinesi caricano di undragone la lor arme reale e portano un dragone per inse-gna dell’imperio civile, che dev’essere stato Dragonech’agli ateniesi scrisse le leggi col sangue; e noi sopra di-cemmo tal Dragone esser una delle serpi della Gorgone,

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che Perseo inchiovò al suo scudo, che fu quello poi diMinerva, dea degli ateniesi, col cui aspetto insassiva ilpopolo riguardante, che truoverassi essere stato gerogli-fico dell’imperio civile d’Atene. E la Scrittura sagra, inEzechiello, dà al re di Egitto il titolo di «gran dragone»che giace in mezzo a’ suoi fiumi, appunto come sopra siè detto i dragoni nascer in acqua e l’idra aver dall’acquapreso tal nome. L’imperador del Giappone ne ha fattoun ordine di cavalieri, che portano per divisa un drago-ne. E de’ tempi barbari ritornati narrano le storie cheper la sua gran nobiltà fu chiamata al ducato di Melanola casa Visconti, la quale carica lo scudo d’uno dragoneche divora un fanciullo, ch’è appunto il Pitone, il qualedivorava gli uomini greci e fu ucciso da Apollo, ch’ab-biamo ritruovato dio della nobiltà: nella qual impresadee far maraviglia l’uniformità del pensar eroico degliuomini di questa barbarie seconda con quella degli anti-chissimi della prima. Questi adunque devon essere i duedragoni alati, che sospendono la collana delle pietre fo-caie, ch’accesero il fuoco che essi vomitano, e sono duetenenti del Toson d’oro, che ’l Chiflezio, il quale scrissel’istoria di quell’insigne ordine, non poté intendere, on-de il Pietrasanta confessa esserne oscura l’istoria.

Come in altre parti di Grecia fu Ercole ch’uccise leserpi, il lione, l’idra, il dragone; in altra Bellerofontech’ammazzò la Chimera: così in altra fu Bacco ch’addi-mestica tigri, che dovetter esser le terre vestite così divari colori come le tigri han la pelle, e passonne poi ilnome di «tigri» agli animali di tal fortissima spezie. Per-ché aver Bacco dome le tigri col vino è un’istoria fisica,che nulla apparteneva a sapersi dagli eroi contadinich’avevano da fondare le nazioni: oltreché nommai Bac-co ci fu narrato andar in Affrica o in Ircania a domarlein que’ tempi, ne’ quali, come dimostreremo nella Geo-grafia poetica, non potevano saper i greci se nel mondo

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fusse l’Ircania e molto meno l’Affrica, nonché tigri nelleselve d’Ircania o ne’ deserti dell’Affrica.

Di più le spighe del frumento dissero «poma d’oro»,che dovett’essere il primo oro del mondo, nel tempo chel’oro metallo era in zolle, né se ne sapeva ancor l’arte diridurlo purgato in massa, nonché di dargli lustro esplendore; né, quando si beveva l’acqua dalle fontane, sene poteva punto pregiare l’uso: il quale poi, dalla somi-glianza del colore e sommo pregio di cotal cibo in que’tempi, per trasporto fu detto «oro»; onde dovette Plau-to dire «thesaurum auri», per distinguerlo dal «granaio».Perché certamente Giobbe, tralle grandezze dalle qualiegli era caduto, novera quella: ch’esso mangiava pan difrumento, siccome ne’ contadi delle nostre più rimoteprovincie si ha, a luogo di quello che sono nelle città lepozioni gemmate, gli ammalati cibarsi di pan di grano, esi dice «l’infermo si ciba di pan di grano» per significarelui essere nell’ultimo di sua vita.

Appresso, spiegando più l’idea di tal pregio e carezza,dovettero dire «d’oro» le belle lane; onde appo Omerosi lamenta Atreo che Tieste gli abbia le pecore d’oro ru-bato; e gli argonauti rubarono il vello d’oro da Ponto.Perciò lo stesso Omero appella i suoi re o eroi col perpe-tuo aggiunto di polúmelos, ch’interpetrano «ricchi digreggi»; siccome dagli antichi latini, con tal uniformitàd’idee, il patrimonio si disse «pecunia», ch’i latini gra-matici vogliono esser detta a «pecude», come appo i ger-mani antichi, al narrare di Tacito, i greggi e gli armenti«solæ et gratissimæ opes sunt»: il qual costume deve es-ser lo stesso degli antichi romani, da’ quali il patrimoniosi diceva «pecunia», come l’attesta la lettera delle XIITavole, al capo De’ testamenti. E mélon significa e «po-mo» e «pecora» ai greci, i quali, forse anche con l’aspet-to di pregevole frutto, dissero méli il mèle; e gl’italianidicono «meli» esse poma.

Talché queste del frumento devon essere state le po-

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ma d’oro, le quali prima di tutt’altri Ercole riporta ovve-ro raccoglie da Esperia; e l’Ercole gallico con le catenedi quest’oro, le quali gli escon di bocca, incatena gli uo-mini per gli orecchi, come appresso si truoverà esserun’istoria d’intorno alla coltivazione de’ campi. QuindiErcole restò nume propizio a ritruovare tesori, de’ qualiera dio Dite, ch’è ’l medesimo che Plutone, il quale rapi-sce nell’inferno Proserpina, che truoverassi la stessa cheCerere (cioè il frumento), e la porta nell’Inferno narra-toci da’ poeti, appo i quali il primo fu dov’era Stige, ilsecondo dov’erano i seppelliti, il terzo il profondo de’solchi, come a suo luogo si mostrerà. Dal qual dio Diteson detti «dites» i ricchi; e i ricchi eran i nobili, ch’appogli spagnuoli si dicono «ricos hombres», ed appo i nostrianticamente si dissero «benestanti»; ed appo i latini sidisse «ditio» quella che noi diciamo «signoria d’uno Sta-to», perché i campi colti fanno la vera ricchezza agli Sta-ti, onde da’ medesimi latini si disse «ager» il distrettod’una signoria, ed «ager», propiamente, è la terra che«aratro agitur». Così dev’esser vero che ’l Nilo fu dettochrusorróas, «scorrente oro», perché allaga i larghi cam-pi d’Egitto, dalle cui innondazioni vi proviene la grandeabbondanza delle raccolte: così «fiumi d’oro» detti ilPattolo, il Gange, l’Idaspe, il Tago, perché fecondano lecampagne di biade. Di queste poma d’oro certamenteVirgilio, dottissimo dell’eroiche antichità, portando in-nanzi il trasporto, fece il ramo d’oro che porta Eneaall’inferno; la qual favola, qui appresso, ove sarà suo piùpieno luogo, si spiegherà. Del rimanente, l’oro metallonon si tenne a’ tempi eroici in maggior pregio del ferro:come Tearco, re di Etiopia, agli ambasciadori di Cambi-se, i quali gli avevano presentato da parte del loro remolti vasi d’oro, rispose non riconoscerne esso alcunuso e molto meno necessità, e ne fece un rifiuto natural-mente magnanimo; appunto come degli antichi germani(ch’in tali tempi si truovarono essere anche questi anti-

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chissimi eroi i quali ora stiam ragionando) Tacito narra:«Est videre apud illos argentea vasa legatis et principibuseorum muneri data, non alia vilitate quam quæ humo fin-guntur». Perciò appo Omero nell’armarie degli eroi siconservano con indifferenza armi d’oro e di ferro, per-ché il primo mondo dovette abbondare di sì fatte minie-re (siccome fu ritruovata nel suo scuoprimento l’Ameri-ca), e che poi dall’umana avarizia fussero esauste.

Da tutto lo che esce questo gran corollario: che la di-visione delle quattro età del mondo, cioè d’oro, d’argen-to, di rame e di ferro, è ritruovato de’ poeti de’ tempibassi; perché quest’oro poetico, che fu il frumento, die-de appo i primi greci il nome all’età dell’oro, la cui inno-cenza fu la somma selvatichezza de’ polifemi (ne’ qualiriconosce i primi padri di famiglia, come altre volte si èsopra detto, Platone), che si stavano tutti divisi e soli perle loro grotte con le loro mogli e figliuoli, nulla impac-ciandosi gli uni delle cose degli altri, come appo Omeroraccontava Polifemo ad Ulisse.

In confermazione di tutto ciò che finora dell’oro poe-tico si è qui detto, giova arrecare due costumi, che ancorsi celebrano, de’ quali non si possono spiegar le cagionise non sopra questi princìpi. Il primo è del pomo d’oro,che si pone in mano agli re tralle solennità della lor co-ronazione; il quale dev’esser lo stesso che nelle lor im-prese sostengono in cima alle loro corone reali: il qualcostume non può altronde aver l’origine che dalle pomad’oro, che diciamo qui, del frumento, che anco qui sitruoveranno essere stato geroglifico del dominio ch’ave-vano gli eroi delle terre (che forse i sacerdoti egizi signi-ficarono col pomo, se non è uovo, in bocca del loroCnefo, del quale appresso ragionerassi), e che tal gero-glifico ci sia stato portato da’ barbari, i quali invaserotutte le nazioni soggette all’imperio romano. L’altro co-stume è delle monete d’oro, che tralle solennità delle lo-ro nozze gli re donano alle loro spose regine; che devo-

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no venire da quest’oro poetico del frumento che qui di-ciamo (tanto che esse monete d’oro significano appuntole nozze eroiche che celebrarono gli antichi romani«coemptione et farre»), in conformità degli eroi, che rac-conta Omero che con le doti essi comperavan le mogli:in una pioggia del qual oro dovette cangiarsi Giove conDanae, chiusa in una torre (che dovett’esser il granaio),per significare l’abbondanza di questa solennità; conche si confà a maraviglia l’espression ebrea «et abundan-tia in turribus tuis». E ne fermano tal congettura i bri-tanni antichi, appo i quali gli sposi, per solennità dellenozze, alle spose rigalavano le focacce.

Al nascere di queste cose umane, nelle greche fantasiesi destarono tre altre deitadi delle genti maggiori, conquest’ordine d’idee, corrispondente all’ordine d’esse co-se: prima Vulcano, appresso Saturno (detto a «satis»,da’ seminati; onde l’età di Saturno de’ latini rispondeall’età dell’oro de’ greci) e in terzo luogo fu Cibele o Be-recinzia, la terra colta. E perciò si pinge assisa sopra unlione (ch’è la terra selvosa, che ridussero a coltura glieroi, come si è sopra spiegato); detta «gran madre deglidèi», e «madre» detta ancor «de’ giganti» (che, propia-mente, così furon detti nel senso di «figliuoli della Ter-ra», come sopra si è ragionato); talché è madre degli dèi(cioè de’ giganti, che nel tempo delle prime città s’arro-garono il nome di «dèi», come pur sopra si è detto), e l’èconsegrato il pino (segno della stabilità onde gli autoride’ popoli, stando fermi nelle prime terre, fondarono lecittà, dea delle quali è Cibele). Fu ella detta Vesta, deadelle divine cerimonie appresso i romani, perché le ter-re, in tal tempo arate, furono le prime are del mondo(come vedremo nella Geografia poetica), dove la dea Ve-sta, con fiera religione armata, guardava il fuoco e ’l far-ro, che fu il frumento degli antichi romani: onde appogli stessi si celebrarono le nozze «aqua et igni» e col far-ro, che si chiamavano «nuptiæ confarreatæ», che restaro-

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no poi a’ soli lor sacerdoti, perché le prime famiglie era-no state tutte di sacerdoti (come si sono ritruovati i regnide’ bonzi nell’Indie orientali); e l’acqua e ’l fuoco e ’lfarro furono gli elementi delle divine cerimonie romane.Sopra queste prime terre Vesta sagrificava a Giove gliempi dell’infame comunione, i quali violavano i primialtari (che abbiam sopra detto esser i primi campi delgrano, come appresso si spiegherà); che furono le primeostie, le prime vittime delle gentilesche religioni: detti«Saturni hostiæ», come si è osservato sopra, da Plauto;detti «victimæ» a «victis», dall’esser deboli, perché soli(ch’in tal sentimento di «debole» è pur rimasto a’ latini«victus»); e detti «hostes», perché furon tali empi, congiusta idea, riputati nimici di tutto il gener umano; e re-stonne a’ romani e le vittime e l’ostie impastarsi e lafronte e le corna di farro. Da tal dea Vesta i medesimiromani dissero «vergini vestali» quelle che guardavanoil fuoco eterno, il quale, se per mala sorte spegnevasi, sidoveva riaccender dal sole, perché dal sole, come vedre-mo appresso, Prometeo rubò il primo fuoco e portolloin terra tra’ greci, dal quale appiccato alle selve, inco-minciaron a coltivar i terreni. E per ciò Vesta è la deadelle divine cerimonie a’ romani, perché il primo «cole-re» che nacque nel mondo della gentilità fu il coltivare laterra, e ’l primo culto fu ergere sì fatti altari, accendervital primo fuoco e farvi sopra sacrifici, come testé si èdetto, degli uomini empi.

Tal è la guisa con la quale si posero e si custodirono itermini ai campi. La qual divisione, come ci è narratatroppo generalmente da Ermogeniano giureconsulto –che si è immaginata fatta per deliberata convenzione de-gli uomini, e riuscita con tanta giustizia e osservata conaltrettanto di buona fede, in tempi che non vi era ancoraforza pubblica d’armi, e ’n conseguenza niuno imperiocivile di leggi, – non può affatto intendersi che con l’es-sere stata fatta tra uomini sommamente fieri ed osser-

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vanti d’una qualche spaventosa religione, che gli avessefermi e circoscritti entro di certe terre, e con queste san-guinose cerimonie avessero consagrato le prime mura,che pur i filologi dicono essere state descritte da’ fonda-tori delle città con l’aratro, la cui curvatura, per le origi-ni delle lingue che si sono sopra scoverte, dovette dirsidapprima «urbs», ond’è l’antico «urbum», che vuol dire«curvo»: dalla quale stessa origine forse è «orbis»; talchédapprima «orbis terræ» dovett’essere ogni ricinto sì fat-to, così basso che Remo passò con un salto e vi fu uccisoda Romolo, e gli storici latini narrano aver consegratocol suo sangue le prime mura di Roma. Talché tal ricintodovetter esser una siepe (ed appo i greci «séps» significa«serpe», nel suo significato eroico di «terra colta»); dallaquale origine deve venir detto «munire viam», lo che sifa con afforzare le siepi a’ campi; onde le mura son dette«moenia», quasi «munia», come «munire» certamenterestò per «fortificare». Tali siepi dovetter esser piantatedi quelle piante ch’i latini dissero «sagmina», cioè disanginelli, sambuci, che finoggi ne ritengono e l’uso e ’lnome; e si conservò tal voce «sagmina» per significarl’erbe di che si adornavan gli altari, e dovettero così dir-si dal «sangue» degli ammazzati, che come Remo, tra-scese l’avessero. Di che venne la santità alle mura, comesi è detto; ed agli araldi altresì, che, come vedremo ap-presso, si coronavano di sì fatt’erbe, come certamentegli antichi ambasciadori romani il facevano con quellecòlte dalla ròcca del Campidoglio; e finalmente alle leggich’essi araldi portavano o della guerra o della pace:ond’è detta «sanctio» quella parte della legge ch’imponla pena a’ di lei trasgressori. E quindi comincia quelloche noi pruoviamo in quest’opera: che ’l diritto naturaldelle genti fu dalla divina provvedenza ordinato tra’ po-poli privatamente, il quale, nel conoscersi tra di loro, ri-conobbero esser loro comune: ché, perché gli araldi ro-mani consagrati con sì fatt’erbe fussero inviolati tra gli

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altri popoli del Lazio, è necessario che quelli, senza sa-per nulla di questi, celebrassero lo stesso costume.

Così i padri di famiglia apparecchiarono la sussisten-za alle loro famiglie eroiche con la religione, la qual essecon la religione si dovessero conservare. Onde fu perpe-tuo costume de’ nobili d’esser religiosi, come osservaGiulio Scaligero nella Poetica: talché dee esser un gransegno che vada a finire una nazione, ove i nobili disprez-zano la loro religione natia.

Si è comunemente oppinato, e da’ filologi e da’ filoso-fi, che le famiglie nello stato che dicesi «di natura» sienostate non d’altri che di figliuoli; quando elleno furonofamiglie anco de’ famoli, da’ quali principalmente furondette «famiglie»: onde sopra tal manca iconomica stabi-lirono una falsa politica, come si è sopra accennato epienamente appresso si mostrerà. Però noi da questaparte de’ famoli, ch’è propia della dottrina iconomica,incominceremo qui della politica a ragionare.

2.DELLE FAMIGLIE DE’ FAMOLI INNANZI

DELLE CITTÀ SENZA LE QUALI NONPOTEVANO AFFATTO NASCERE LE CITTÀ.

Perché finalmente, a capo di lunga età, de’ gigantiempi, rimasti nell’infame comunione delle cose e delledonne, nelle risse ch’essa comunion produceva, come igiureconsulti pur dicono, gli scempi di Grozio, gli ab-bandonati di Pufendorfio, per salvarsi da’ violenti diObbes (come le fiere, cacciate da intensissimo freddo,vanno talor a salvarsi dentro ai luoghi abitati), ricorseroalle are de’ forti; e quivi questi feroci, perché già uniti insocietà di famiglie, uccidevano i violenti ch’avevano vio-lato le loro terre, e ricevevano in protezione i miseri daessolor rifuggiti. E oltre l’eroismo di natura, d’esser natida Giove, o sia generati con gli auspìci di Giove, spiccò

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principalmente in essi l’eroismo della virtù, nel quale so-pra tutti gli altri popoli della terra fu eccellente il roma-no, in usarne appunto queste due pratiche:

Parcere subiectis et debellare superbos.

E qui si offre cosa degna di riflessione, per intenderequanto gli uomini dello stato ferino fossero stati feroci eindomiti dalla loro libertà bestiale a venire all’umana so-cietà: che, per venir i primi alla prima di tutte, che fuquella de’ matrimoni, v’abbisognarono, per farglivi en-trare, i pugnentissimi stimoli della libidine bestiale e,per tenerglivi dentro, v’abbisognarono i fortissimi frenidi spaventose religioni, come sopra si è dimostrato. Dache provennero i matrimoni, i quali furono la primaamicizia che nacque al mondo; onde Omero, per signifi-care che Giove e Giunone giacquero insieme, dice coneroica gravità che tra loro «celebrarono l’amicizia», det-ta da’ greci philía dalla stessa origine ond’è philéo,«amo», e dond’è da’ latini detto «filius»; e phílios a’ gre-ci ioni è l’«amico», e quindi a’ greci, con la mutazioned’una lettera vicina di suono, è phulé la «tribù»; ondeancora vedemmo sopra «stemmata» essere stati detti i«fili geanologici», che da’ giureconsulti sono chiamati«lineæ». Da questa natura di cose umane restòquest’eterna propietà: che la vera amicizia naturale egli è’l matrimonio, nella quale naturalmente si comunicanotutti e tre i fini de’ beni, cioè l’onesto, l’utile e ’l dilette-vole; onde il marito e la moglie corrono per natura lastessa sorte in tutte le prosperità e avversità della vita(appunto come per elezione è quello: «amicorum omniasunt communia»), per lo che da Modestino fu il matri-monio diffinito «omnis vitæ consortium».

I secondi non vennero a questa seconda, ch’ebbe, peruna certa eccellenza, il nome di «società», come quindi apoco farem conoscere, che per l’ultime necessità della

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vita. Ov’è degno pur di riflessione che, perché i primivennero all’umana società spinti dalla religione e da na-tural istinto di propagare la generazione degli uomini(l’una pia, l’altra propiamente detta gentil cagione), die-dero principio ad un’amicizia nobile e signorile; e per-ché i secondi vi vennero per necessità di salvare la vita,diedero principio alla «società» che propiamente si dice,per comunicare principalmente l’utilità, e, ’n conse-guenza, vile e servile. Perciò tali rifuggiti furono daglieroi ricevuti con la giusta legge di protezione, onde so-stentassero la naturale lor vita con l’obbligo di servir es-si da giornalieri agli eroi. Qui dalla «fama» di essi eroi(che principalmente s’acquista con praticar le due partiche testé dicemmo usare l’eroismo della virtù) e da talmondano romore, ch’è la kléos o «gloria» de’ greci, chevien detta «fama» a’ latini (come phéme pur si dice da’greci), i rifuggiti s’appellarono «famoli», da’ quali prin-cipalmente si dissero le «famiglie». Dalla qual fama cer-tamente la sagra storia, narrando de’ giganti che furoninnanzi il diluvio, gli diffinisce «viros famosos»: appuntocome Virgilio ne descrisse la Fama starsi assisa sopra diun’alta torre (che sono le terre poste in alto de’ forti),che mette il capo entro il cielo (la cui altezza cominciòdalle cime de’ monti), alata (perch’era in ragion deglieroi; onde nel campo posto a Troia la Fama vola permezzo alle schiere de’ greci eroi, non per mezzo alle ca-terve de’ lor plebei), [e] con la tromba (la qual dee esse-re la tromba di Clio, ch’è la storia eroica) celebra i nomigrandi (quanto lo furono di fondatori di nazioni).

Or, in sì fatte famiglie innanzi delle città vivendo i fa-moli in condizione di schiavi (che furono gli abbozzi de-gli schiavi che poi si fecero nelle guerre, che nacquerodopo delle città; che sono quelli che da’ latini detti furo-no «vernæ», da’ quali provennero le lingue da’ medesi-mi dette «vernaculæ», come sopra si è ragionato), i fi-gliuoli degli eroi, per distinguersi da quelli de’ famoli, si

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dissero «liberi», da’ quali infatti non si distinguevanopunto: come de’ germani antichi, i quali ci danno ad in-tendere lo stesso costume di tutti i primi popoli barbari,Tacito narra che «dominum ac servum nullis educationisdeliciis dignoscas»; come certamente tra’ romani antichiebbero i padri delle famiglie una potestà sovrana soprala vita e la morte de’ lor figliuoli ed un dominio dispoti-co sopra gli acquisti, onde infin a’ romani princìpi i fi-gliuoli dagli schiavi di nulla si distinguevano ne’ peculi.Ma cotal voce «liberi» significò dapprima anco «nobili»;onde «artes liberales» sono «arti nobili», e «liberalis» re-stò a significare «gentile», e «liberalitas» «gentilezza»,dalla stessa antica origine onde «gentes» erano state det-te le «case nobili», da’ latini; perché, come vedremo ap-presso, le prime genti si composero di soli nobili, e i solinobili furono liberi nelle prime città. Altronde i famolifuron detti «clientes», e dapprima «cluentes», dall’anticoverbo «cluere», «risplendere di luce d’armi» (il qualesplendore fu detto «cluer»), perché rifulgevano con losplendore dell’armi ch’usavano i lor eroi, che dalla stes-sa origine si dissero dapprima «incluti» e dappoi «incly-ti»: altrimente non erano ravvisati, come se non fussertra gli uomini, com’appresso si spiegherà.

E qui ebbero principio le clientele e i primi dirozza-menti de’ feudi, de’ quali abbiamo molto, appresso, daragionare; delle quali clientele e clienti si leggono sullastoria antica sparse tutte le nazioni, come nelle Degnitàsta proposto. Ma Tucidide narra che nell’Egitto, anco a’suoi tempi, le dinastie di Tane erano tutte divise tra pa-dri di famiglie, principi pastori di famiglie sì fatte; edOmero, quanti eroi canta, tanti chiama «re», e gli diffi-nisce «pastori de’ popoli», che dovetter esser innanzi divenire i pastori de’ greggi, come appresso dimostrere-mo. Tuttavia in Arabia, com’erano stati in Egitto, or nesono in gran numero; e nell’Indie occidentali si truovò lamaggior parte, in tale stato di natura, governarsi per fa-

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miglie sì fatte, affollate di tanto numero di schiavi, chediede da pensare all’imperador Carlo V, re delle Spa-gne, di porvi modo e misura. E con una di queste fami-glie dovette Abramo far guerre co’ re gentili; i cui servi,co’ quali le fece, troppo al nostro proposito, dotti di lin-gua santa traducono «vernaculos», come poc’anzi«vernæ» si sono da noi spiegati.

Sul nascere di queste cose incominciò con verità il fa-moso nodo erculeo, col quale i clienti si dissero «nexi»,«annodati» alle terre, che dovevano coltivare per gl’in-cliti; che passò poi in un nodo finto, come vedremo, nel-la legge delle XII Tavole, che dava la forma alla manci-pazione civile, che solennizzava tutti gli atti legittimi de’romani. Ora, perché non si può intendere spezie di so-cietà né più ristretta per parte di chi ha copia di beni,né, per chi ne ha bisogno, più necessaria, quivi dovette-ro incominciare i primi soci nel mondo, che, come l’av-visammo nelle Degnità, furon i soci degli eroi, ricevutiper la vita, come quelli ch’avevano arresa alla discreziondegli eroi la lor vita. Onde ad Antinoo, il capo de’ suoisoci, per una parola, quantunque dettagli a buon fine,perché non gli va all’umore, Ulisse vuol mozzare la testa;e ’l pio Enea uccide il socio Miseno, che gli bisognavaper far un sagrifizio. Di che pure ci fu serbata una volga-re tradizione; ma Virgilio, perché nella mansuetudinedel popolo romano era troppo crudo ad udirsi di Enea,ch’esso celebra per la pietà, il saggio poeta finge che uc-ciso fu da Tritone, perché avesse osato con quello con-tendere in suon di tromba: ma nello stesso tempo ne dàtroppo aperti motivi d’intenderlo, narrando la morte diMiseno tralle solennità prescritte dalla Sibilla ad Enea,delle quali una era che gli bisognava innanzi seppellireMiseno per poter poi discendere nell’inferno; e aperta-mente dice che la Sibilla gliene aveva predetto la morte.

Talché questi erano soci delle sole fatighe, ma non giàdegli acquisti e molto meno della gloria, della quale ri-

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fulgevano solamente gli eroi, che se ne dicevano kleitóiovvero «chiari» da’ greci, e «inclyti» da’ latini (quali re-starono le provincie dette «socie» da’ romani); ed Esopose ne lamenta nella favola della società leonina, come si èsopra detto. Perché certamente degli antichi germani, iquali ci permettono fare una necessaria congettura ditutti gli altri popoli barbari, Tacito narra che di tali fa-moli o clienti o vassalli quello «suum principem defende-re et tueri, sua quoque fortia facta gloriæ eius adsignare,præcipuum iuramentum est»; ch’è una delle propietà piùrisentite de’ nostri feudi. E quindi, e non altronde, deeessere provenuto che sotto la «persona» o «capo» (che,come vedremo appresso, significarono la stessa cosa che«maschera») e sotto il «nome» (ch’ora si direbbe «inse-gna») d’un padre di famiglia romano si contenevano, inragione, tutti i figliuoli e tutti gli schiavi; e ne restò a’ ro-mani dirsi «clypea» i mezzi busti, che rappresentavanol’immagini degli antenati, riposte ne’ tondi incavati den-tro i pareti de’ lor cortili, e, con troppa acconcezza allecose che qui si dicono dell’origini delle medaglie, dallanovella architettura si dicono «medaglioni». Talché do-vette con verità dirsi, ne’ tempi eroici così de’ greci, qualOmero il racconta, Ajace «torre de’ greci», che solocombatte con intere battaglie troiane; come de’ latini,ch’Orazio solo sul ponte sostiene un esercito di toscani:cioè Aiace, Orazio co’ lor vassalli. Appunto come nellastoria barbara ritornata quaranta normanni eroi, i qualiritornavano da Terra Santa, discacciano un esercito disaraceni, che tenevano assediato Salerno. Onde bisognadire che da queste prime antichissime protezioni, le qua-li gli eroi presero de’ rifuggiti alle loro terre, dovetteroincominciar i feudi nel mondo, prima rustici personali,per gli quali tali vassalli debbon esser stati i primi «va-des», ch’erano obbligati nella persona a seguir i loroeroi, ove gli menassero a coltivare i di loro campi (chepoi restarono detti i rei, obbligati di seguir i lor attori in

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giudizio); onde, come «vas» a’ latini, bás ai greci, così«was» e «wassus» restaron a’ feudisti barbari a significa-re «vassallo», dappoi dovettero venire i feudi rustici rea-li, per gli quali i vassalli dovetter essere i primi «prædes»o «mancipes», gli obbligati in roba stabile; e «mancipes»,propiamente, restaron detti tali obbligati all’erario. Diche più ragioneremo in appresso.

Quindi devon altresì incominciare le prime colonieeroiche che noi diciamo «mediterranee», a differenza dialtre, le quali vennero appresso, che furon le marittime,le quali vedremo essere state drappelli di rifuggiti damare, che si salvarono in altre terre (che nelle Degnità sison accennate): perché il nome, propiamente, altro nonsuona che «moltitudine di giornalieri, che coltivano icampi (come tuttavia fanno) per lo vitto diurno». Dellequali due spezie di colonie son istorie quelle due favole:cioè, delle mediterranee, è ’l famoso Ercole gallico, ilquale con catene d’oro poetico (cioè del frumento), chegli escono di bocca, incatena per gli orecchi moltitudined’uomini e gli si mena, dove vuol, dietro; il quale è statofinora preso per simbolo dell’eloquenza, la qual favolanacque ne’ tempi che non sapevano ancora gli eroi arti-colar la favella, come si è appieno sopra dimostro. Dellecolonie marittime è la favola della rete, con la quale Vul-cano eroico strascina da mare Venere e Marte plebei (laqual distinzione sarà qui appresso generalmente spiega-ta), e ’l Sole gli scuopre tutti nudi (cioè non vestiti dellaluce civile, della quale rifulgevan gli eroi, come si è testédetto), e gli dèi (cioè i nobili dell’eroiche città, quali sisono sopra spiegati) ne fanno scherno (come fecero i pa-trizi della povera plebe romana antica).

E finalmente quindi ebbero gli asili la loro primieraorigine: onde Cadmo con l’asilo fonda Tebe, antichissi-ma città della Grecia; – Teseo fonda Atene sull’altaredegl’infelici, detti con giusta idea «infelici» gli empi va-gabondi, ch’erano privi di tutti i divini ed umani beni

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ch’aveva produtto a’ pii l’umana società; – Romolo fon-da Roma con l’asilo aperto nel luco; se non, più tosto,come fondatore di città nuova, esso co’ suoi compagni lafonda sulla pianta degli asili, ond’erano surte l’antichecittà del Lazio, che generalmente Livio in tal propositodiffinisce «vetus urbes condentium consilium», e perciòmale gli attacca, come abbiam veduto sopra, quel detto:ch’esso e i suoi compagni erano figliuoli di quella terra.Ma, per ciò che ’l detto di Livio fa al nostro proposito,egli ci dimostra che gli asili furono l’origini delle città,delle quali è propietà eterna che gli uomini vi vivono si-curi da violenza. In cotal guisa dalla moltitudine degliempi vagabondi, dappertutto riparati e salvi nelle terrede’ forti pii, venne a Giove il grazioso titolo d’«ospita-le»: perocché sì fatti asili furono i primi «ospizi» delmondo, e sì fatti «ricevuti», come appresso vedremo, fu-rono i primi «ospiti» ovvero «stranieri» delle primecittà; e ne conservò la greca storia poetica, tralle moltefatighe d’Ercole, queste due: ch’egli andò per lo mondospegnendo mostri, uomini nell’aspetto e bestie ne’ lorcostumi, e che purgò le lordissime stalle d’Augia.

Quivi le genti poetiche fantasticarono due altre mag-giori divinità, una di Marte, un’altra di Venere: quello,per un carattere degli eroi, che, prima e propiamente,combatterono «pro aris et focis»; la qual sorta di com-battere fu sempre eroica: combattere per la propia reli-gione, a cui ricorre il gener umano ne’ disperati soccorsidella natura; onde le guerre di religione sono sanguino-sissime, e gli uomini libertini, invecchiando, perché sisentono mancar i soccorsi della natura, divengon religio-si; onde noi sopra prendemmo la religione per primoprincipio di questa Scienza. Quivi Marte combatté inveri campi reali e dentro veri reali scudi, che da «cluer»prima «clupei» e poi «clypei» si dissero da’ romani; sic-come a’ tempi barbari ritornati i pascoli e le selve chiusesono dette «difese». E tali scudi si caricavano di vere ar-

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mi, le quali dapprima, che non v’erano armi ancora diferro, furon aste d’alberi bruciate in punta e poi ritonda-te ed aguzzate alla cote per renderle atte a ferire; che so-no l’«aste pure», o non armate di ferro, che si davanoper premi militari a’ soldati romani i quali si erano eroi-camente portati in guerra. Onde appo i greci son armated’aste Minerva, Bellona, Pallade; ed appo i latini da«quiris», «asta», Giunone detta «Quirina», e «Quirino»Marte, e Romolo, perché valse vivo coll’asta, morto fuappellato «Quirino»; e ’l popolo romano, che armò dipili (come lo spartano, che fu il popolo eroico di Grecia,armò d’aste), fu detto, in adunanza, «quirites». Ma dellenazioni barbare la storia romana ci narra aver guerreg-giato con le prime aste ch’ora diciamo, e le ci descrive«præustas sudes», «aste bruciate in punta», come furonoritruovati armeggiare gli americani; e a’ tempi nostri inobili con l’aste armeggiano ne’ tornei, le quali primaadoperarono nelle guerre. La qual sorta d’armadura furitruovata da una giusta idea di fortezza, d’allungar ilbraccio e col corpo tener lontana l’ingiuria dal corpo,siccome l’armi che più s’appressano al corpo son più dabestie.

Sopra ritruovammo i fondi de’ campi ov’erano i sep-pelliti essere stati i primi scudi del mondo; onde nellascienza del blasone restò che lo scudo è ’l fondamentodell’armi. I colori de’ campi furono veri: il nero, dellaterra bruciata, a cui Ercole diede il fuoco; – il verde, del-le biade in erba; – e con errore per metallo fu presol’oro, che fu il frumento, che, biondeggiando nelle sec-che sue biade, fu il terzo color della terra, com’altra vol-ta si è detto; siccome i romani, tra’ premi militari eroici,caricavano di frumento gli scudi di que’ soldati che sierano segnalati nelle battaglie, e «adorea» loro si disse la«gloria militare», da «ador», «grano brustolito», di cheprima cibavansi, che gli antichi latini dissero «adur» da«uro», «bruciare»; talché forse il primo «adorare» de’

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tempi religiosi fu brustolire frumento; – l’azzurro fu ilcolor del cielo, del quale eran essi luci coverti (il perch’ifrancesi dissero «bleu» per l’«azzurro», per lo «cielo» eper «Dio», come sopra si è detto); – il rosso era il sanguede’ ladroni empi, che gli eroi uccidevano, ritruovati den-tro de’ loro campi. L’imprese nobili venuteci dalla bar-barie ritornata si osservano caricate di tanti lioni neri,verdi, d’oro, azzurri e finalmente rossi, i quali, per ciòche sopra abbiam veduto de’ campi da semina, che poipassarono in campi d’armi, deono essere le terre colte,guardate con l’aspetto, che sopra si ragionò, del lionevinto da Ercole, e de’ lor colori, che si sono testé novera-ti; – tante caricate di vari, che deon essere i solchi ondeda’ denti della gran serpe, da esso uccisa, di che avevagliseminati, uscirono gli uomini armati di Cadmo; – tantecaricate di pali, che devon essere l’aste con le quali ar-meggiarono i primi eroi; – e tante caricate alfin di rastel-li, che sono stromenti certamente di villa. Per lo che tut-to si ha a conchiudere che l’agricoltura, come ne’ tempibarbari primi, de’ quali ci accertano essi romani, così ne’secondi fece la prima nobiltà delle nazioni.

Gli scudi poi degli antichi furon coverti di cuoio, co-me si ha da’ poeti che di cuoio vestirono i vecchi eroi,cioè delle pelli delle fiere da essi cacciate ed uccise. Diche vi ha un bel luogo in Pausania ove riferisce di Pela-sgo (antichissimo eroe di Grecia, che diede il primo no-me, che quella nazione portò, di «pelasgi»; talché Apol-lodoro, De origine deorum, il chiama autóchthona,«figliuol della Terra», che si diceva in una parola «gi-gante») ch’egli «ritruovò la veste di cuoio». E, con mara-vigliosa corrispondenza de’ tempi barbari secondi co’primi, de’ grandi personaggi antichi parlando, Dante di-ce che vestivan «di cuoio e d’osso», e Boccaccio narrach’ivan impacciati nel cuoio: dallo che dovette venireche l’imprese gentilizie fussero di cuoio coverte, nellequali la pelle del capo e de’ piedi, rivolta in cartocci, vi

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fa acconci finimenti. Furon gli scudi ritondi, perché leterre sboscate e colte furono i primi «orbes terrarum»,come sopra si è detto; e ne restò la propietà a latini, concui «clypeus» era tondo, a differenza di «scutum», ch’eraangolare. Il perché ogni luco si disse nel senso di «oc-chio», come ancor oggi si dicon «occhi» l’apertureond’entra il lume nelle case: la qual frase eroica vera, es-sendosi poi sconosciuta, quindi alterata e finalmentecorrotta: ch’«ogni gigante aveva il suo luco», era già di-venuta falsa quando giunse ad Omero, e fu appreso cia-scun gigante con un occhio in mezzo la fronte. Co’ qualigiganti monocoli ci venne Vulcano, nelle prime fucine –che furono le selve, alle quali Vulcano aveva dato il fuo-co e dove aveva fabbricato le prime armi, che furono,come abbiam detto, l’aste bruciate in punta, – stesal’idea di tal’armi, fabbricar i fulmini a Giove; perchéVulcano aveva dato fuoco alle selve, per osservar a cieloaperto donde i fulmini fussero mandati da Giove.

L’altra divinità, che nacque tra queste antichissimecose umane, fu quella di Venere, la quale fu un caratteredella bellezza civile; onde «honestas» restò a significare e«nobiltà» e «bellezza» e «virtù». Perché con quest’ordi-ne dovettero nascere queste tre idee: che prima fussesiintesa la bellezza civile, ch’apparteneva agli eroi; – dopo,la naturale, che cade sotto gli umani sensi, però di uomi-ni di menti scorte e comprendevoli, che sappiano discer-nere le parti e combinarne la convenevolezza nel tuttod’un corpo, nello che la bellezza essenzialmente consi-ste; onde i contadini e gli uomini della lorda plebe nullao assai poco s’intendono di bellezza (lo che dimostral’errore de’ filologi, i quali dicono che, in questi tempiscempi e balordi ch’ora qui ragioniamo, si eleggevanogli re dall’aspetto de’ loro corpi belli e ben fatti; perchétal tradizione è da intendersi della bellezza civile, ch’erala nobiltà d’essi eroi, come or ora diremo); finalmente,s’intese la bellezza della virtù, la quale si appella «hone-

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stas» e s’intende sol da’ filosofi. Laonde della bellezzacivile dovetter esser belli Apollo, Bacco, Ganimede, Bel-lerofonte, Teseo con altri eroi, per gli quali forse fu im-maginata Venere maschia.

Dovette nascere l’idea della bellezza civile in mentede’ poeti teologi dal veder essi gli empi rifuggiti alle lorterre esser uomini d’aspetto e brutte bestie di costumi.Di tal bellezza, e non d’altra, vaghi furono gli spartani,gli eroi della Grecia, che gittavano dal monte Taigeta iparti brutti e deformi, cioè fatti da nobili femmine senzala solennità delle nozze; che debbon esser i «mostri» chela legge delle XII Tavole comandava gittarsi in Tevere.Perché non è punto verisimile ch’i decemviri, in quellaparsimonia di leggi propia delle prime repubbliche,avessero pensato a’ mostri naturali, che sono sì radi chele cose rade in natura si dicon «mostri»; quando, in que-sta copia di leggi della qual or travagliamo, i legislatorilasciano all’arbitrio de’ giudicanti le cause ch’avvengonorade volte: talché questi dovetter esser i mostri detti, pri-ma e propiamente, «civili» (d’un de’ quali intese Panfiloove, venuto in falso sospetto che la donzella Filumenafusse gravida, dice:

... Aliquid monstri alunt)

; e così restaron detti nelle leggi romane, le quali dovet-tero parlare con tutta propietà come osserva AntonioFabro nella Giurisprudenza papinianea. Lo che sopra si èaltra volta ad altro fine osservato.

Laonde questo dee essere quello che, con quanto dibuona fede, con altrettanta ignorazione delle romaneantichità ch’egli scrive, dice Livio: che, se comunicatifussero da’ nobili i connubi a’ plebei, ne nascerebbe laprole «secum ipsa discors», ch’è tanto dire quanto «mo-stro mescolato di due nature»: una, eroica, de’ nobili; al-tra, ferina, d’essi plebei, che «agitabant connubia more

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ferarum»: il qual motto prese Livio da alcuno anticoscrittor d’annali, e l’usò senza scienza, perocché egli ilrapporta in senso: «se i nobili imparentassero co’ ple-bei». Perché i plebei, in quel loro misero stato di quasischiavi, nol potevano pretendere da’ nobili, ma doman-darono la ragione di contrarre nozze sollenni (ché tantosuona «connubium»): la qual ragione era solo de’ nobili;ma, delle fiere, niuna spezie usa con altra di altra spezie.Talché è forza dire ch’egli fu un motto, col quale, inquella eroica contesa, i nobili volevano schernir i plebei,che, non avendo auspìci pubblici, i quali con la lor so-lennità facevano le nozze giuste, niuno di loro aveva pa-dre certo (come in ragion romana restonne quella diffi-nizione, ch’ognun sa, che «nuptiæ demonstrantpatrem»); talché, in sì fatta incertezza, i plebei si dicevanda’ nobili ch’usassero con le loro madri, con le loro fi-gliuole, come fanno le fiere.

Ma a Venere plebea furon attribuite le colombe, nongià per significare svisceratezze amorose, ma perché so-no, qual’Orazio le diffinisce, «degeneres», uccelli vili apetto dell’aquile (che lo stesso Orazio diffinisce«feroces»), e sì per significare ch’i plebei avevano auspìciprivati o minori, a differenza di quelli dell’aquile e de’fulmini, ch’erano de’ nobili e Varrone e Messala dissero«auspìci maggiori» ovvero «pubblici», de’ quali eranodipendenze tutte le ragioni eroiche de’ nobili, come lastoria romana apertamente lo ci conferma. Ma a Venereeroica, qual fu la «pronuba», furon attribuiti i cigni, pro-pi anco d’Apollo, il quale sopra vedemmo essere lo diodella nobiltà, con gli auspìci di uno de’ quali Leda con-cepisce di Giove l’uova, come si è sopra spiegato.

Fu la Venere plebea ella descritta nuda, perocché lapronuba era col cesto coverta, come si è detto sopra(quindi si veda quanto d’intorno a queste poetiche anti-chità si sieno contorte l’idee!): che poi fu creduto fintoper incentivo della libidine quello che fu ritruovato con

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verità per significar il pudor naturale, o sia la puntualitàdella buona fede con la quale si osservavano tra’ plebeile naturali obbligazioni; perocché, come quindi a pocovedremo nella Politica poetica, i plebei non ebbero niu-na parte di cittadinanza nell’eroiche città, e sì non con-traevano tra loro obbligazioni legate con alcun vincolodi legge civile, che lor facesse necessità. Quindi furon aVenere attribuite le Grazie ancor nude; e appo i latini«caussa» e «gratia» significano una cosa stessa: talché leGrazie a’ poeti significar dovettero i «patti nudi», cheproducono la sola obbligazion naturale. E quindi i giu-reconsulti romani dissero «patti stipulati» quelli che poifuron detti «vestiti» dagli antichi interpetri: perché, in-tendendo quelli i patti nudi esser i patti non stipulati,non deve «stipulatio» venir detta da «stipes» (che, pertal origine, si dovrebbe dire «stipatio»), con la sforzataragione «perocché ella sostenga i patti»; ma dee venireda «stipula», detta da’ contadini del Lazio perocch’ella«vesta il frumento»: com’al contrario i «patti vestiti» inprima da’ feudisti furono detti dalla stessa origine ondeson dette l’«investiture» de’ feudi, de’ quali certamentesi ha «exfestucare» il «privare della degnità». Per lo cheragionato, «gratia» e «caussa» s’intesero essere una cosastessa da’ latini poeti d’intorno a’ contratti che si cele-bravano da’ plebei delle città eroiche: come, introduttipoi i contratti «de iure naturali gentium», ch’Ulpiano di-ce «humanarum», «causa» e «negocium» significaronouna cosa medesima; perocché, in tali spezie di contratti,essi negozi quasi sempre sono «caussæ» o «cavissæ» o«cautele», che vagliono per stipulazioni le quali ne cau-telino i patti.

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3.COROLLARI D’INTORNO A’ CONTRATTI CHE

SI COMPIONO COL SOLO CONSENSO.

Perché, per l’antichissimo diritto delle genti eroiche,le quali non curavano che le cose necessarie alla vita, enon raccogliendosi altri frutti che naturali, né intenden-do ancora l’utilità del danaio, ed essendo quasi tutti cor-po, non potevano conoscere certamente i contratti cheoggi dicono compiersi col solo consenso; ed essendosommamente rozzi, de’ quali è propio l’essere sospetto-si, perché la rozzezza nasce dall’ignoranza ed è propietàdi natura umana che chi non sa sempre dubita: per tuttociò non conoscevano buona fede, e di tutte l’obbligazio-ni si assicuravano con la mano o vera o finta, però que-sta accettata, nell’atto del negozio, con le stipulazionisolenni; ond’è quel celebre capo nella legge delle XIITavole: «Si quis nexum faciet mancipiumque, uti linguanuncupassit, ita ius esto». Dalla qual natura di cose uma-ne civili escono queste verità.

I

Che quello che dicono, che l’antichissime vendite ecompere furono permutazioni, ove fussero di robe stabi-li, elleno dovetter esser quelli che nella barbarie ricorsafuron detti «livelli»; de’ quali s’intese l’utilità, perch’altriabbondasse di fondi i quali dassero copia di frutti, de’quali altri avesse scarsezza, e così a vicenda.

II

Le locazioni di case non potevano celebrarsiquand’erano picciole le città e l’abitazioni ristrette: tal-ché si dovettero da’ padroni de’ suoli quelli darsi per-

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ch’altri vi fabbricasse; e sì non poteron esser altri checensi.

III

Le locazioni de’ terreni dovetter essere enfiteusi, cheda’ latini furono dette «clientelæ»; ond’i gramatici disse-ro, indovinando, che «clientes» fussero stati detti quasi«colentes».

IV

Talché questa dev’esser la cagione onde, per la barba-rie ricorsa, negli antichi archivi non si leggon altri con-tratti che censi di case o poderi, o in perpetuo o a tem-po.

V

Ch’è forse la ragione perché l’enfiteusi è contratto«de iure civili»; che, per questi princìpi, si truoverà esse-re lo stesso che «de iure heroico romanorum», a cui Ul-piano oppone il «ius naturale gentium humanarum», chedisse «umane» in rapporto al gius delle genti barbareche furon prima, non delle genti barbare ch’a’ suoi tem-pi erano fuori dell’imperio romano, il quale nulla impor-tava a’ romani giureconsulti.

VI

Le società non erano conosciute, per quel costume ci-clopico ch’ogni padre di famiglia curava solamente lecose sue e nulla impacciavasi di quelle d’altrui, come,sopra, Omero ci ha fatto udire nel racconto che fa Poli-femo ad Ulisse.

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VII

E per questa stessa ragione non erano conosciuti imandati; onde restò quella regola di diritto civile antico:«Per extraneam personam acquiri nemini».

VIII

Ma, a quello dell’eroiche essendo poi succeduto il di-ritto delle genti umane che diffinisce Ulpiano, si fecetanto rivolgimento di cose, che la vendita e compera, laqual anticamente, se, nell’atto del contrarsi, non si stipu-lava la «dupla», non produceva l’evizione, oggi è la regi-na de’ contratti i quali si dicono «di buona fede», e na-turalmente, anco non patteggiata, la deve.

4.CANONE MITOLOGICO.

Ora, ritornando agli tre caratteri di Vulcano, Marte eVenere, è qui d’avvertire (e tal avvertimento dee tenersia luogo d’un importante canone di questa mitologia)che questi furono tre divini caratteri significanti essieroi, a differenza di altrettanti che significarono plebei:come Vulcano, che fende il capo a Giove con un colpodi scure, onde nasce Minerva, e, volendosi frapporre inuna contesa tra Giove e Giunone, con un calcio da Gio-ve è precipitato dal cielo e restonne zoppo; – Marte, acui Giove, in una forte riprensione che gli fa appo Ome-ro, dice essere lo più vile di tutti i dèi, e Minerva, nellacontesa degli dèi, appo lo stesso poeta, il ferisce con uncolpo di sasso (che devon essere stati i plebei, che servi-vano agli eroi nelle guerre); – e Venere (che deon esserestate le mogli naturali di sì fatti plebei), che, con questoMarte plebeo, sono còlti entrambi nella rete da Vulcano

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eroico, e, scoverti ignudi dal Sole, sono presi a schernodagli altri dèi. Quindi Venere fu poi con error credutaesser moglie di Vulcano: ma noi sopra vedemmo che ’ncielo non vi fu altro matrimonio che di Giove e Giuno-ne, il quale pure fu sterile; e Marte fu detto non «adulte-ro», ma «concubino» di Venere, perché tra’ plebei nonsi contraevano che matrimoni naturali, come appresso simostrerà, che da’ latini furon detti «concubinati».

Come questi tre caratteri qui, così altri saranno ap-presso, a’ luoghi loro, spiegati. Quali si truoverannoTantalo plebeo, che non può afferrare le poma che s’al-zano né toccare l’acqua che bassasi; Mida plebeo, il qua-le, perché tutto ciò che tocca è oro, si muore di fame; Li-no plebeo, che contende con Apollo nel canto, e, vinto,è da quello ucciso.

Le quali favole, ovvero caratteri doppi, devon esserestati necessari nello stato eroico, ch’i plebei non avevanonomi e portavano i nomi de’ loro eroi, come si è sopradetto: oltre alla somma povertà de’ parlari, chedovett’essere ne’ primi tempi; quando, in questa copiadi lingue, uno stesso vocabolo significa spesso diverse e,alcuna volta, due tra loro contrarie cose.

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VDELLA POLITICA POETICA.

1.DELLA POLITICA POETICA CON LA QUALE

NACQUERO LE PRIME REPUBBLICHE ALMONDO DI FORMA SEVERISSIMA

ARISTOCRATICA.

In cotal guisa si fondarono le famiglie di sì fatti famo-li, ricevuti in fede o forza o protezione dagli eroi, che fu-ron i primi soci del mondo, quali sopra abbiamo veduti.De’ quali le vite erano in balia de’ loro signori, e, ’n con-seguenza delle vite, eran anco gli acquisti; quando essieroi, con gl’imperi paterni ciclopici, sopra i loro propifigliuoli avevano il diritto della vita e della morte, e, ’nconseguenza di tal diritto sopra le persone, avevan ancoil diritto dispotico sopra tutti i di lor acquisti. Lo che in-tese Aristotile ove diffinì i figliuoli di famiglia esser «ani-mati strumenti de’ loro padri»; e la legge delle XII Tavo-le, fin dentro la più prosciolta libertà popolare, serbò a’padri di famiglia romani entrambe queste due parti mo-narchiche: e di potestà sopra le persone e di dominio so-pra gli acquisti; e, finché vennero gl’imperadori, i fi-gliuoli, come gli schiavi, ebbero una sola spezie dipeculio, che fu il profettizio; e i padri, ne’ primi tempi,dovettero avere la potestà di vendere veramente i fi-gliuoli fin a tre volte; che poi, invigorendo la mansuetu-dine de’ tempi umani, il fecero con tre vendite finte,quando volevano liberare i figliuoli dalla paterna pote-stà. Ma i galli e i celti si conservarono un’egual potestàsopra i figliuoli e gli schiavi; e ’l costume di vendere converità i padri i loro figliuoli fu ritruovato nell’Indie occi-dentali, e nell’Europa si pratica infin a quattro volte da’

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moscoviti e da’ tartari. Tanto è vero che l’altre nazionibarbare non hanno la paterna potestà «talem qualem ha-bent cives romani»! La qual aperta falsità esce dal comu-ne volgar errore, con cui i dottori hanno ricevuto talmotto: ma ciò fu da’ giureconsulti detto in rapporto del-le nazioni vinte dal popolo romano; alle quali, come piùa lungo appresso dimostreremo, tolto tutto il diritto ci-vile con la ragione delle vittorie, non restarono che natu-rali paterne potestà e, ’n lor conseguenza, naturali vin-coli di sangue, che si dicono «cognazioni», e, dall’altraparte, naturali domìni, che son i bonitari, e, per tuttociò, naturali obbligazioni, che si dicono «de iure naturaligentium», ch’Ulpiano ci specificò sopra con l’aggiunto«humanarum». Le quali ragioni tutte i popoli posti fuoridell’imperio dovettero avere civili, e appunto tali qualil’ebbero essi romani.

Ma, ripigliando il ragionamento, con la morte de’ loropadri restando liberi i figliuoli di famiglia di tal monar-chico imperio privato, anzi riassumendolo ciascun fi-gliuolo intieramente per sé (onde ogni cittadino roma-no, libero dalla paterna potestà, in romana ragione egli è«padre di famiglia» appellato), e i famoli dovendo sem-pre vivere in tale stato servile, a capo di lunga età natu-ralmente se ne dovettero attediare, per la Degnità da noisopra posta: che «l’uomo soggetto naturalmente bramasottrarsi alla servitù». Talché costoro debbono esserestati Tantalo, che testé dicemmo plebeo, che non puòaddentare le poma (che devon essere le poma d’oro delfrumento sopra spiegate, le quali s’alzano sulle terre de’lor eroi), e (per ispiegarne l’ardente sete) non può pren-der un picciol sorso dell’acqua, che gli si appressa fin al-le labbra e poi fugge; – Issione, che volta sempre la ruo-ta; – e Sisifo, che spinge sù il sasso, che gittò Cadmo (laterra dura, che, giunta al colmo, rovescia giù, come restòa’ latini «vertere terram» per «coltivarla» e «saxum vol-vere» per «far con ardore lunga e aspra fatiga»). Per tut-

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to ciò i famoli dovettero ammutinarsi contro essi eroi. Equesta è la «necessità», che generalmente si congetturònelle Degnità esser stata fatta da’ famoli ai padri eroi nel-lo stato delle famiglie, onde nacquero le repubbliche.

Perché quivi, al grand’uopo, dovettero per natura es-ser portati gli eroi ad unirsi in ordini, per resistere allemoltitudini de’ famoli sollevati, dovendo loro far capoalcun padre più di tutti feroce e di spirito più presente; etali se ne dissero i «re» dal verbo «regere», ch’è propia-mente «sostenere» e «dirizzare». In cotal guisa, per dirlacon la frase troppo ben intesa di Pomponio giureconsul-to, «rebus ipsis dictantibus, regna condita», detto conve-nevolmente alla dottrina della romana ragione, che sta-bilisce «ius naturale gentium divina providentiaconstitutum». Ed ecco la generazione de’ regni eroici. E,perché i padri erano sovrani re delle lor famiglie,nell’ugualità di sì fatto stato e, per la feroce natura de’polifemi, niuno di tutti naturalmente dovendo cederall’altro, uscirono da se medesimi i senati regnanti, o siadi tanti re delle lor famiglie; i quali, senza umano scorgi-mento o consiglio, si truovaron aver uniti i loro privatiinteressi a ciascun loro comune, il quale si disse «pa-tria», che, sottointesovi «res», vuol dir «interesse di pa-dri», e i nobili se ne dissero «patricii»: onde dovettero isoli nobili esser i cittadini delle prime patrie. Così puòesser vera la tradizione che ce n’è giunta: che ne’ primitempi si eleggevano gli re per natura; della quale vi sonodue luoghi d’oro appo Tacito, De moribusGermanorum, i quali ci danno luogo di congetturare es-sere stato lo stesso costume di tutti gli altri primi popolibarbari. Uno è quello: «Non casus, non fortuita conglo-batio turmam aut cuneum facit, sed familiæ et propinqui-tates». L’altro è: «Duces exemplo potius quam imperio; siprompti, si conspicui, si ante aciem agant, admirationepræsunt».

Tali essere stati i primi re in terra ci si dimostra da

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ciò: che tal i poeti eroi immaginarono essere Giove incielo re degli uomini e degli dèi, per quell’aureo luogo diOmero dove Giove si scusa con Teti ch’esso non può farnulla contro a ciò che gli dèi avevano una volta determi-nato nel gran consiglio celeste; ch’è parlare di vero rearistocratico: dove poi gli stoici ficcarono il loro dogmadi Giove soggetto al fato; ma Giove e gli altri dèi tenne-ro consiglio d’intorno a tai cose degli uomini, e sì le de-terminarono con libera volontà. Il qual luogo qui riferitone spiega due altri del medesimo Omero, ne’ quali conerrore i politici fondano ch’Omero avesse inteso la mo-narchia. Uno è di Agamennone, che riprende la contu-macia d’Achille; l’altro è di Ulisse, che i greci, ammuti-nati di ritornar alle loro case, persuade di continuarel’assedio incominciato di Troia: dicendo entrambi che«uno è ’l re», perché l’un e l’altro è detto in guerra, nellaquale uno è ’l general capitano, per quella massima av-vertita da Tacito ove dice: «eam esse imperandi conditio-nem, ut non aliter ratio constet quam si uni reddatur».Del rimanente, lo stesso Omero in quanti luoghi de’ duepoemi mentova eroi dà loro il perpetuo aggiunto di«re»: col quale si confà a maraviglia un luogo d’oro delGenesi, ove quanti Mosè narra discendenti d’Esaù tantine appella «re», o dir vogliamo capitani, che la Volgatalegge «duces»; e gli ambasciadori di Pirro gli riferisconod’aver veduto in Roma un senato di tanti re. Perché in-vero non si può affatto intendere in natura civile niunacagione, per la qual i padri, in tal cangiamento di stati,avessero dovuto altro mutare, da quello ch’avevano avu-to nello stato già di natura, che di assoggettire le loro so-vrane potestà famigliari ad essi ordini loro regnanti: per-ché la natura de’ forti, come abbiamo nelle Degnitàsopra posto, è di rimettere, degli acquisti fatti con virtù,quanto meno essi possono, e tanto quanto bisogna per-ché loro si conservin gli acquisti; onde si legge sì spessosulla storia romana quell’eroico disdegno de’ forti, che

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mal soffre «virtute parta per flagitium amittere». Né, tratutti i possibili umani, una volta che gli Stati civili nonnacquero né da froda né da forza d’un solo (come ab-biam sopra dimostro e si dimostrerà più in appresso),come dalle potestà famigliari poté formarsi la civil pote-stà, e de’ domìni naturali paterni (che noi sopra accen-nammo essere stati «ex iure optimo», in significato di «li-beri d’ogni peso privato e pubblico») si fusse formato ildominio eminente di essi Stati civili, si può immaginarein altra guisa che questa.

La quale, così meditata, ci si appruova a maravigliacon esse origini delle voci. Ché, perché sopra esso domi-nio ottimo ch’avevano i padri (detto da’ greci díkaionáriston) si formarono esse repubbliche, come altra voltasi è detto sopra, da’ greci si dissero «aristocratiche», eda’ latini si chiamarono «repubbliche d’ottimati», detteda Opi, dea detta della potenza: onde perciò forse Opi(dalla quale dev’essere stato detto «optimus», ch’è ári-stos a’ greci, e quindi «optimus» a’ latini) funne dettamoglie di Giove, cioè dell’ordine regnante di quelli eroi,i quali, come sopra si è detto, s’avevano arrogato il nomedi «dèi» (perché Giunone per la ragion degli auspìci eramoglie di Giove, preso per lo cielo che fulmina); de’quali dèi, come si è detto sopra, fu madre Cibele, detta«madre» ancor «de’ giganti», propiamente detti in signi-ficazione di «nobili», e la quale, come vedremo appressonella Cosmografia poetica, fu appresa per la regina dellecittà. Da Opi adunque si dissero gli «ottimati», perchétali repubbliche sono tutte ordinate a conservare la po-tenza de’ nobili, e, per conservarla, ritengono per eternepropietà quelle due principali custodie, delle quali una èdegli ordini e l’altra è de’ confini. E dalla custodia degliordini venne prima la custodia de’ parentadi, per la quali romani fin al CCCIX di Roma tennero chiusi i connubialla plebe; dipoi, la custodia de’ maestrati, onde tanto i

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patrizi contrastarono alla plebe la pretenzione del con-solato; appresso, la custodia de’ sacerdozi e, per questa,la custodia alfin delle leggi, che tutte le prime nazioniguardarono con aspetto di cose sagre: onde fin alla leggedelle XII Tavole i nobili governarono Roma con costu-manze, come nelle Degnità ce n’accertò Dionigi d’Ali-carnasso, e fino a cento anni dopo essa legge ne tennerochiusa l’interpetrazione dentro il collegio de’ pontefici,al narrar di Pomponio giureconsulto, perché fin a queltempo entrati v’erano i soli nobili. L’altra principal cu-stodia ella è de’ confini; onde i romani, fin a quella chefecero di Corinto, avevan osservato una giustizia incom-parabile nelle guerre, per non agguerrire, ed una sommaclemenza nelle vittorie, per non arricchir i plebei, comesopra se ne sono proposte due Degnità.

Tutto questo grande ed importante tratto di storiapoetica è contenuto in questa favola: che Saturno si vuoldivorare Giove bambino, e i sacerdoti di Cibele glielonascondono e col romore dell’armi non gliene fannoudire i vagiti; ove Saturno dev’essere carattere de’ famo-li, che da giornalieri coltivano i campi de’ padri signorie, con un’ardente brama di desiderio, vogliono da’ padricampi per sostentarvisi. E così questo Saturno è padredi Giove, perché da questo Saturno, come da occasione,nacque il regno civile de’ padri, che, come dianzi si èdetto, si spiegò col carattere di quel Giove del qual fumoglie Opi. Perché Giove, preso per lo dio degli auspì-ci, de’ quali gli più solenni erano in fulmine e l’aquila(del qual Giove era moglie Giunone), egli è «padre deglidèi», cioè degli eroi, che si credevano figliuoli di Giove,siccome quelli ch’erano generati con gli auspìci di Gioveda nozze solenni (delle quali è nume Giunone), e si pre-sero il nome di «dèi», de’ quali è madre la Terra, ovveroOpi moglie di questo Giove, come tutto si è detto sopra;e ’l medesimo fu detto «re degli uomini», cioè de’ famo-li nello stato delle famiglie e de’ plebei in quello

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dell’eroiche città: i quali due divini titoli, per ignorazio-ne di quest’istoria poetica, si sono tra lor confusi, quasiGiove fusse anco padre degli uomini; i quali fin dentroa’ tempi della repubblica romana antica «non poterantnomine ciere patrem», come narra Livio, perché nasce-vano da’ matrimoni naturali, non da nozze solenni; onderestò in giurisprudenza quella regola: «Nuptiæ demon-strant patrem».

Siegue la favola ch’i sacerdoti di Cibele, o sieno d’Opi(perché i primi regni furono dappertutto di sacerdoti,come alquanto se n’è detto sopra e pienamente appressosi mostrerà), nascondono Giove (dal qual nascondimen-to i filologi latini, indovinando, dissero essere stato ap-pellato «Latium», e la lingua latina ne conservò la storiain questa sua frase: «condere regna» – lo che altra volta siè detto, – perché i padri si chiusero in ordine contro i fa-moli ammutinati, dal qual segreto incominciarono a ve-nir quelli ch’i politici dicono «arcana imperii»), e, col ro-more dell’armi non faccendo a Saturno udire i vagiti diGiove (testé nato all’union di quell’ordine), in cotal gui-sa il salvarono. Con la qual guisa si narra distintamenteciò che ’n confuso Platone disse: «le repubbliche essernate sulla pianta dell’armi»; a cui dev’unirsi ciò ch’Ari-stotile ci disse sopra nelle Degnità: che nelle repubblicheeroiche i nobili giuravano d’esser eterni nimici alla ple-be; e ne restò propietà eterna, per la quale ora diciamo iservidori esser nimici pagati de’ loro padroni. La qualistoria i greci ci conservarono in questa etimologia, perla quale, appo essi, da pólis, «città», pólemos è appellatala «guerra».

Quivi le nazioni greche immaginarono la decima divi-nità delle genti dette maggiori, che fu Minerva. E la sifinsero nascere con questa fantasia, fiera ugualmente egoffa: che Vulcano con una scure fendette il capo diGiove, onde nacque Minerva; volendo essi dire che lamoltitudine de’ famoli ch’esercitavan arti servili, che,

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come si è detto, venivano sotto il genere poetico di Vul-cano plebeo, essi ruppero (in sentimento d’«infievoliro-no» o «scemarono») il regno di Giove (come restò a’ la-tini «minuere caput» per «fiaccare la testa», perché, nonsappiendo dir in astratto «regno», in concreto dissero«capo»), che stato era, nello stato delle famiglie, monar-chico, e cangiarono in aristocratico in quello delle città.Talché non è vana la congettura che da tal «minuere»fusse stata da’ latini detta Minerva; e da questa lontanis-sima poetica antichità restasse a’ medesimi, in romanaragione, «capitis deminutio» per significare «mutazionedi stato», come Minerva mutò lo stato delle famiglie inquello delle città.

In cotal favola i filosofi poi ficcarono il più sublimedelle loro meditazioni metafisiche: che l’idea eterna inDio è generata da esso Dio, ove l’idee criate sono in noiprodutte da Dio. Ma i poeti teologi contemplarono Mi-nerva con l’idea di ordine civile, come restò per eccel-lenza a’ latini «ordo» per lo «senato» (lo che forse diedemotivo a’ filosofi di crederla idea eterna di Dio, ch’altronon è che ordine eterno); e ne restò propietà eterna: chel’ordine de’ migliori è la sapienza delle città. Ma Miner-va appo Omero è sempre distinta con gli aggiunti perpe-tui di «guerriera» e di «predatrice», e due volte sole ciricordiamo di averlavi letto con quello di «consigliera»;e la civetta e l’oliva le furono consagrate, non già per-ch’ella mediti la notte e legga e scriva al lume della lu-cerna, ma per significare la notte de’ nascondigli, co’quali si fondò, com’abbiamo sopra detto, l’umanità, eforse per più propiamente significare che i senati eroici,che componevano le città, concepivano in segreto le leg-gi, e ne restò certamente agli areopagiti di dir i voti albuio nel senato d’Atene, che fu la città di Minerva, laqual fu detta Athenã. Dal qual eroico costume appo i la-tini fu detto «condere leges», talché «legum conditores»furono propiamente i senati che comandavan le leggi,

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siccome «legum latores» coloro che da’ senati portavanole leggi alle plebi de’ popoli, come sopra, nell’accusad’Orazio, si è detto. E tanto da’ poeti teologi fu conside-rata Minerva esser dea della sapienza, che nelle statue enelle medaglie si osserva armata; e la stessa fu «Miner-va» nella curia, «Pallade» nell’adunanze plebee (come,appo Omero, Pallade mena Telemaco nell’adunanzadella plebe, ch’egli chiama «altro popolo», ove vuol par-tire per andar truovando Ulisse, suo padre), ed è «Bello-na», per ultimo, nelle guerre.

Talché è da dirsi che, con l’errore che Minerva fussestata intesa da’ poeti teologi per la sapienza, vada diconcerto quell’altro che «curia» fusse stata detta a «cu-randa republica», in que’ tempi che le nazioni erano stor-dite e stupide. La qual dovette a’ greci antichissimi venirdetta churía da chéir, la «mano», e indi «curia» simil-mente a’ latini, per uno di questi due grandi rottamid’antichità, che (come si è detto nella Tavola cronologicae nelle ivi scritte Annotazioni) per buona nostra venturaDionigi Petavio truova gittati dentro la storia greca in-nanzi l’età degli eroi di Grecia e, ’n conseguenza, in que-sta, da noi qui seguita, età degli dèi degli egizi.

Uno è che gli Eraclidi, ovvero discendenti d’Ercole,erano stati sparsi per tutta Grecia, anco nell’Attica, ovefu Atene, e che poi si ritirarono nel Peloponneso, ove fuSparta, repubblica o regno aristocratico di due re dellarazza d’Ercole, detti Eraclidi, ovvero nobili, che ammi-nistravano le leggi e le guerre sotto la custodia degli efo-ri. I quali erano custodi della libertà non già popolarema signorile, che fecero strozzare il re Agide, perchéaveva attentato di portar al popolo una legge di contonuovo, la quale Livio diffinisce «facem ad accendendumadversus optimates plebem», ed un’altra testamentaria, laquale divolgava i retaggi fuori dell’ordine de’ nobili, tra’quali soli innanzi si erano conservati con le successionilegittime, perché essi soli avevano dovuto avere suità,

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agnazioni, gentilità; della qual fatta erano state in Romainnanzi della legge delle XII Tavole, come appresso saràdimostro: onde, come i Cassi, i Capitolini, i Gracchi edaltri principali cittadini, per volere, con qualche legge sìfatta, d’un poco sollevare la povera oppressa plebe ro-mana, furono dal senato dichiarati ed uccisi come rubel-li; così Agide fu fatto strozzare dagli efori. Tanto gli efo-ri di Sparta, per Polibio, furono custodi della libertàpopolare di Lacedemone! Laonde Atene, così appellatada Minerva, la qual si disse Athenã, dovette essere, ne’primi suoi tempi, di stato aristocratica; e la storia grecal’hacci narrato fedelmente più sopra, ove ci disse cheDragone regnò in Atene nel tempo ch’era occupata da-gli ottimati, e cel conferma Tucidide, narrando che, fin-ch’ella fu governata da’ severissimi areopagiti, che Gio-venale traduce «giudici di Marte», in senso di «giudiciarmati» (che, da Aùres, «Marte», peghé, ond’è «pagus»a’ latini, meglio arebbe trasportato «popolo di Marte»,come fu detto il romano; perché, nel loro nascimento, ipopoli si composero di soli nobili, che soli avevano il di-ritto dell’armi), ella sfolgorò delle più belle eroiche virtùe fece dell’eccellentissime imprese (appunto come Ro-ma, nel tempo nel quale, come appresso vedremo, ellafu repubblica aristocratica); dal quale stato Pericle edAristide (appunto come Sestio e Canuleo, tribuni dellaplebe, incominciarono a fare di Roma) la rovesciarononella libertà popolare.

L’altro gran rottame egli è ch’i greci, usciti di Grecia,osservarono i cureti, ovvero sacerdoti di Cibele, sparsiin Saturnia (o sia l’antica Italia), in Creta ed in Asia; tal-ché dovettero dappertutto nelle prime nazioni barbarecelebrarsi regni di cureti, corrispondenti a’ regni degliEraclidi, sparsi per l’antichissima Grecia: i quali curetifuron que’ sacerdoti armati, che col battere dell’armi at-tutarono i vagiti di Giove bambino, che Saturno voleva-si divorare; la qual favola è stata testé spiegata.

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Per tutto lo che ragionato, da questo antichissimopunto di tempo e con questa guisa nacquero i primi co-mizi curiati, che sono gli più antichi che si leggono sullastoria romana; i quali si dovettero tener sotto l’armi, erestarono poi per trattare le cose sagre, perché con talaspetto ne’ primi tempi si guardarono tutte le cose pro-fane. Delle quali adunanze si maraviglia Livio ch’a’ tem-pi d’Annibale, che vi passa per mezzo, si tenevano nelleGallie; ma Tacito ne’ Costumi de’ germani ci narra quel-lo: che si tenevano anco da’ sacerdoti, ove comandavanole pene in mezzo dell’armi, come se ivi fussero presenti ilor dèi (e con giusto senso: si armavano le adunanzeeroiche per comandare le pene, perché il sommo impe-rio delle leggi va di séguito al sommo imperio dell’armi);e generalmente narra che armati trattavano tutti i loropubblici affari e presiedendovi i sacerdoti, com’or si èdetto. Laonde tra gli antichi germani, i quali ci dannoluogo d’intendere lo stesso costume di tutti i primi po-poli barbari, si rincontra il regno de’ sacerdoti egizi; sirincontrano i regni de’ cureti ovvero de’ sacerdoti arma-ti, che, come abbiam veduto, i greci osservarono in Sa-turnia (o sia l’antica Italia), in Creta ed in Asia; si rin-contrano i quiriti dell’antichissimo Lazio.

Per le quali cose ragionate, il «diritto de’ quiriti» deeessere stato il diritto naturale delle genti eroiche d’Italia,che, per distinguersi da quello degli altri popoli, si disse«ius quiritium romanorum»; non già per patto convenu-to tra’ sabini e romani, che si fussero detti «quiriti» daCure, capital città de’ sabini, perché, così, dovrebbonessere stati detti «cureti», che osservarono i greci in Sa-turnia. Ma, se tal città de’ sabini si disse Cere (lo che vo-gliono i latini gramatici), deono (qui vedasi che contor-cimento d’idee!) più tosto esser i «ceriti», ch’eranocittadini romani condennati da’ censori a portar i pesisenza aver alcuna parte degli onori civili; appunto comefurono le plebi, che poi si composero de’ famoli nel na-

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scere, come or or vedremo, dell’eroiche città, nel corpodelle quali dovettero venir i sabini, in que’ tempi barba-ri che le città vinte si smantellavano (lo che i romani nonrisparmiarono ad essa Alba, lor madre), e gli arresi si di-sperdevano per le pianure, obbligati a coltivar i campiper gli popoli vincitori: che furono le prime provincie,così dette quasi «prope victæ» (onde Marcio, da Coriolich’aveva vinto, fu detto Coriolano); per l’opposto ondefuron dette le «provincie ultime», perché fussero «pro-cul victæ». Ed in tali campagne si menarono le prime co-lonie mediterranee, che con tutta propietà si dissero «co-loniæ deductæ», cioè drappelli di contadini giornalierimenati, da su, giù; che poi nelle colonie ultime significa-rono tutto il contrario, ché, da’ luoghi bassi e gravi diRoma, ove dovevan abitar i plebei poveri, erano questimenati in luoghi alti e forti delle provincie, per tenerlein dovere, a far essi i signori e cangiarvi i signori de’campi in poveri giornalieri. In cotal guisa, al riferire diLivio, che ne vide solamente gli effetti, cresce Roma conle rovine di Alba, e i sabini portano in Roma a’ generi, indote delle loro rapite figliuole, le ricchezze di Cere, co-me sopra ciò vanamente riflette Floro. E queste sono lecolonie innanzi a quelle che vennero dopo l’agrarie de’Gracchi, le quali lo stesso Livio riferisce che la plebe ro-mana, nelle contese eroiche che esercita con la nobiltà, osdegna o più con esse si aizza, perché non erano dellafatta dell’ultime; e perché di nulla sollevavano la pleberomana, e Livio truova pure con quelle seguir le conte-se, vi fa tali sue vane riflessioni.

Finalmente che Minerva significato avesse ordini ari-stocratici armati, ci si appruova da Omero ove, nellacontesa, narra che Minerva con un colpo di sasso ferisceMarte, che noi sopra vedemmo carattere de’ plebei cheservivano agli eroi nelle guerre; e ove riferisce che Mi-nerva vuol congiurare contro Giove: che può convenirall’aristocrazie, ove i signori con occulti consigli oppri-

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mono i loro principi, ove n’affettano la tirannide. Delqual tempo e non d’altro si legge agli uccisori de’ tiranniessersi alzate le statue; ché, se gli supponiamo re monar-chi, essi sarebbono stati rubelli.

Così si composero le prime città di soli nobili, che vicomandavano. Ma però, bisognandovi che vi fussero an-che color che servissero, gli eroi furono da un senso co-mune d’utilità costretti di far contenta la moltitudine de’sollevati clienti, e mandarono loro le prime ambasciarie,che per diritto delle genti si mandano da’ sovrani. E lemandarono con la prima legge agraria che nacque almondo, con la quale, da forti, rillasciarono a’ clienti ilmen che potevano, che fu il dominio bonitario de’ cam-pi ch’arebbon assegnato loro gli eroi; e così può esservero che Cerere ritruovò e le biade e le leggi. Cotal leggefu dettata da questo diritto natural delle genti: ch’an-dando il dominio di séguito alla potestà, ed avendo i fa-moli la vita precaria da essi eroi, i quali l’avevano lorosalvata ne’ lor asili, diritto era e ragione ch’avessero undominio similmente precario, il qual essi godessero fin-tanto ch’agli eroi fusse piaciuto di mantenergli nel pos-sesso de’ campi ch’avevano lor assegnati. Così conven-nero i famoli a comporre le prime plebi dell’eroichecittà, senza avervi niuno privilegio di cittadini; appuntocome un de’ quali dice Achille essere stato trattato daAgamennone, il quale gli aveva tolto a torto la sua Bri-seide, ove dice avergli fatto un oltraggio che non si sa-rebbe fatto ad un giornaliere che non ha niuno diritto dicittadino.

Tali furon i plebei romani fin alla contesa de’ connu-bi. Imperciocché essi – per la seconda agraria, accordataloro da’ nobili con la legge delle XII Tavole, avendo ri-portato il dominio quiritario de’ campi, come si è dimo-strato da molti anni fa ne’ Princìpi del Diritto universale(il qual è uno de’ due luoghi per gli quali non c’incresced’esser uscita alla luce quell’opera), e per diritto delle

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genti [non] essendo gli stranieri capaci di dominio civi-le, e così i plebei non essendo ancor cittadini, – comeivan morendo, non potevano lasciare i campi ab intesta-to a’ congionti, perché non avevano suità, agnazioni,gentilità, ch’erano dipendenze tutte delle nozze solenni;nemmeno disponerne in testamento, perché non eranocittadini: talché i campi lor assegnati ne ritornavano ainobili, da’ quali avevan essi la cagion del dominio. Av-vertiti di ciò, subito fra tre anni fecero la pretension de’connubi, nella quale non pretesero, in quello stato dimiseri schiavi quale la storia romana apertamente ci nar-ra, d’imparentare co’ nobili, ch’in latino arebbe dovutodirsi «pretendere connubia cum patribus»; ma domanda-rono di contrarre nozze solenni, quali contraevano i pa-dri, e sì pretesero «connubia patrum», la solennità mag-gior delle quali erano gli auspìci pubblici, che Varrone eMessala dissero «auspìci maggiori», quali i padri diceva-no «auspicia esse sua». Talché i plebei con tal pretensio-ne domandarono la cittadinanza romana, di cui eranonatural principio le nozze, le quali perciò da Modestinogiureconsulto son diffinite «omnis divini et humani iuriscommunicatio», che diffinizione più propia non può as-segnarsi di essa cittadinanza.

2.LE REPUBBLICHE TUTTE SON NATE DA CERTI

PRINCÌPI ETERNI DE’ FEUDI.

In cotal guisa, per la natura de’ forti di conservare gliacquisti e per l’altra de’ benefizi che si possono sperarenella vita civile, sopra le quali due nature di cose umanedicemmo nelle Degnità esser fondati i princìpi eterni de’feudi, nacquero al mondo le repubbliche con tre speziedi domìni per tre spezie di feudi, che tre spezie di perso-ne ebbero sopra tre spezie di cose.

Il primo fu dominio bonitario di feudi rustici ovvero

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umani, che gli «uomini», i quali nelle leggi de’ feudi, alritornare della barbarie, si maraviglia Ottomano dirsi i«vassalli», cioè i plebei, ebbero de’ frutti sopra i poderide’ lor eroi.

Il secondo fu dominio quiritario di feudi nobili, o siaeroici, ovvero armati, oggi detti «militari», che gli eroi,in unirsi in ordini armati, si conservarono sovrani soprai loro poderi; che, nello stato di natura, era stato il domi-nio ottimo che Cicerone, come altra volta si è detto,nell’orazione De aruspicum responsis riconosce d’al-quante case ch’erano a’ suoi tempi restate in Roma, e ’ldiffinisce «dominio di roba stabile, libera d’ogni pesoreale, non solo privato, ma anche pubblico». Di che viha un luogo d’oro ne’ cinque libri sagri, ove Mosè narrach’a’ tempi di Giuseffo i sacerdoti egizi non pagavano alre il tributo de’ loro campi; e noi abbiamo poco sopradimostro che tutti i regni eroici furono di sacerdoti, eappresso dimostreremo che da prima i patrizi romaninon pagaron all’erario il tributo nemmeno dei loro. Iquali feudi sovrani privati, nel formarsi delle repubbli-che eroiche, si assoggettirono naturalmente alla maggio-re sovranità di essi ordini eroici regnanti (ciascun comu-ne de’ quali si disse «patria», sottointesovi «res», cioè«interesse di padri»), a doverla difendere e mantenere,perch’ella aveva conservato loro gl’imperi sovrani fami-gliari, e questi stessi tutti eguali tra lor medesimi; lo cheunicamente fa la libertà signorile.

Il terzo, con tutta la propietà detto «dominio civile»,che esse città eroiche, compostesi sul principio di solieroi, avevano de’ fondi, per certi feudi divini ch’essi pa-dri di famiglia avevano innanzi ricevuto da essa divinitàprovvedente, com’abbiamo sopra dimostro (onde si era-no truovati sovrani nello stato delle famiglie, e si compo-sero in ordini regnanti nello stato delle città), e sì diven-nero regni civili sovrani, soggetti al solo sommo sovranoDio, in cui tutte le civili sovrane potestà riconoscono

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provvedenza. Lo che ben per sensi umani si professadalle sovrane potenze, ch’a’ lor maestosi titoli aggiugno-no quello «per la divina provvedenza» ovvero quello«per la grazia di Dio», dalla quale devono pubblicamen-te professare di aver ricevuto i regni; talché, se ne proi-bissero l’adorazione, esse anderebbero naturalmente acaderne, perché nazione di fatisti o casisti o d’atei nonfu al mondo giammai, e ne vedemmo sopra tutte le na-zioni del mondo, per quattro religioni primarie e nonpiù, credere in una divinità provvedente. Perciò i plebeigiuravano per gli eroi (di che sonci rimasti i giuramenti«mehercules!», «mecastor!», «ædepol!» e«mediusfidius!», «per lo dio Fidio!», che, come vedre-mo, fu l’Ercole de’ romani), altronde gli eroi giuravanper Giove: perché i plebei furono dapprima in forza de-gli eroi (come i nobili romani, fin al CCCCXIX di Ro-ma, esercitarono la ragione del carcere privato sopra iplebei debitori); gli eroi, che formarono gli ordini lororegnanti, eran in forza di Giove, per la ragion degli au-spìci: i quali, se loro sembravano di permetterlo, davanoi maestrati, comandavan le leggi ed esercitavano altri so-vrani diritti; se parevano di vietarlo, se n’astenevano. Loche tutto è quella «fides deorum et hominum», a cuis’appartengono quell’espressioni latine «implorare fi-dem», «implorar soccorso ed aiuto»; «recipere in fidem»,«ricevere sotto la protezione o l’imperio»; e quella escla-mazione «proh deûm atque hominum fidem imploro!»,con la quale gli oppressi imploravano a lor favore la«forza degli dèi e degli uomini», che, con esso sensoumano, gl’italiani voltarono «poter del mondo!». Per-ché questo potere, onde le somme civili potestà sonodette «potenze»; questa forza, questa fede, di cui i giura-menti testé osservati attestano l’ossequio de’ soggetti; equesta protezione, ch’i potenti debbono avere de’ debo-li (nelle quali due cose consiste tutta l’essenza de’ feudi),è quella forza che sostiene e regge questo mondo civile;

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il cui centro fu sentito, se non ragionato, da’ greci (comel’abbiamo sopra avvertito nelle medaglie delle loro re-pubbliche) e da’ latini (come l’abbiamo osservato nelleloro frasi eroiche) esser il fondo di ciascun orbe civile:com’oggi le sovranità sulle loro corone sostengono unorbe ov’è innalberata la divinità della croce, il quale or-be sopra abbiamo dimostrato esser il pomo d’oro, ilquale significa il dominio alto che le sovranità hannodelle terre da essoloro signoreggiate, e perciò tralle mag-giori solennità delle loro incoronazioni si pone nella lorosinistra mano. Laonde hassi a dire che le civili potestàsono signore della sostanza de’ popoli, la qual sostiene,contiene e mantiene tutto ciò che vi è sopra e s’appog-gia: per cagione d’una cui parte, «pro indiviso», per dirlaalla scolastica, per una distinzion di ragione, nelle roma-ne leggi il patrimonio di ciascun padre di famiglia viendetto «patris» o «paterna substantia»; ch’è la profondaragione perché le civili sovrane potestà possono dispor-re di tutto l’aggiunto a cotal subbietto, così nelle perso-ne, come negli acquisti, opere e lavori, ed imporvi tribu-ti e dazi, ov’abbiano da essercitar esso dominio de’fondi, ch’ora per un riguardo opposto (il quale significain sostanza lo stesso) i teologi morali e gli scrittori de iu-re publico chiamano «dominio eminente», siccome leleggi, che tal dominio riguardano, dicono pur ora «fon-damentali» de’ regni. Il qual dominio, perch’è di essifondi, da’ sovrani naturalmente non si può esercitareche per conservare la sostanza de’ loro Stati, allo starede’ quali stanno, al rovinare rovinano tutte le cose parti-colari de’ popoli.

Che i romani avessero sentito, se non inteso, questagenerazione di repubbliche sopra tali princìpi eterni de’feudi, ci si dimostra nella formola che ci han lasciatodella revindicazione, così conceputa: «Aio hunc fundummeum esse ex iure quiritium», nella qual attaccarono co-tal azione civile al dominio del fondo, ch’è di essa città e

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proviene da essa forza, per così dire, centrale, per laqual ogni cittadino romano è certo signore di ciascunsuo podere, con un dominio «pro indiviso» che uno sco-lastico direbbe, per una mera distinzion di ragione, eperciò detta «ex iure quiritium», i quali, per mille pruo-ve fatte e da farsi, furono dapprima i romani armatid’aste in pubblica ragunanza, che facevan essa città.Tanto che questa è la profonda ragione ch’i fondi e tuttii beni (i quali tutti da essi fondi provengono), ove sonovacanti, ricadono al fisco: perché ogni patrimonio priva-to pro indiviso è patrimonio pubblico, onde, in mancan-za de’ privati padroni, perdono la disegnazione di partee restano con quella di tutto. Che dee essere la cagionedi quella elegante frase legale: ch’i retaggi, particolar-mente leggittimi, si dicono «redire agli eredi», a’ quali,in verità, vengono una sol volta, perché da’ fondatori deldiritto romano, ch’essi fondarono nel fondare della ro-mana repubblica, tutti i patrimoni privati si ordinaronofeudi, quali da’ feudisti si dicono «ex pacto et providen-tia», che tutti escono dal patrimonio pubblico e, perpatto e provvedenza delle civili leggi, girano sotto certesolennità da privati in privati, in difetto de’ quali debba-no ritornare al lor principio, dond’essi eran usciti. Tuttolo che qui detto ad evidenza vien confermato dalla leggePapia Poppea d’intorno a’ caduci, la quale puniva i celi-bi con la giusta pena: ch’i cittadini i quali avevano tra-scurato di propagare co’ matrimoni il loro nome roma-no, se avessero fatto testamenti, questi si rendesseroinefficaci, ed altronde si stimassero non avere congiontiche loro succedessero ab intestato, e sì, né per l’una néper l’altra via, avessero eredi, i quali conservassero i no-mi loro; e i patrimoni ricadessero al fisco, con qualitànon di retaggi ma di peculi, e, per dirla con Tacito, an-dassero al popolo, «tanquam omnium parentem». Ove ilprofondo scrittore richiama la ragione delle pene cadu-carie fino dagli antichissimi tempi ch’i primi padri del

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gener umano occuparono le prime terre vacue, la qualoccupazione è ’l fonte originario di tutti i domìni delmondo; i quali padri poi, unendosi in città, delle loropotestà paterne fecero la potestà civile, e de’ loro privatipatrimoni fecero il patrimonio pubblico, il quale s’ap-pella «erario»; e che i patrimoni de’ cittadini vadano diprivato in privato con qualità di retaggi, ma, ricadendoal fisco, riprendano l’antichissima prima qualità di pecu-li.

Qui, nella generazione delle loro repubbliche eroiche,fantasticarono i poeti eroi l’undecima divinità maggiore,che fu Mercurio. Il quale porta a’ famoli ammutinati lalegge nella verga divina (parola reale degli auspìci), ch’èla verga con cui Mercurio richiama l’anime dall’Orco,come narra Virgilio (richiama a vita socievole i clienti,che, usciti dalla protezione degli eroi, erano tornati a di-sperdersi nello stato eslege, ch’è l’Orco de’ poeti, il qua-le divoravasi il tutto degli uomini, come appresso si spie-gherà). Tal verga ci vien descritta con una o due serpiavvoltevi (che dovetter esser spoglie di serpi, significantiil dominio bonitario che si rillasciava lor dagli eroi, e ’ldominio quiritario che questi si riserbavano), con dueali in capo alla verga (per significar il dominio eminentedegli ordini) e con un cappello pur alato (per raffermar-ne l’alta ragione sovrana libera, come il cappello restògeroglifico di libertà); oltre di ciò, con l’ali a’ talloni (insignificazione che ’l dominio de’ fondi era de’ senati re-gnanti), e tutto il rimanente si porta nudo (perché porta-va loro un dominio nudo di civile solennità, e che tuttoconsisteva nel pudor degli eroi, appunto quali nude ve-demmo sopra essere state finte Venere con le Grazie).Talché dall’uccello d’Idantura, col quale voleva dir aDario ch’esso era sovrano signor della Scizia per gli au-spìci che v’aveva, i greci ne spiccarono l’ali, per signifi-care ragioni eroiche; e finalmente, con lingua articolata,i romani in astratto dissero «auspicia esse sua», per gli

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quali volevano dimostrar alla plebe ch’erano propie lorotutte le civili eroiche ragioni e diritti. Sicché questa ver-ga alata di Mercurio de’ greci, toltane la serpe, è l’aquilasullo scettro degli egizi, de’ toscani romani e, per ultimo,degl’inghilesi, che sopra abbiam detto. La qual da’ grecisi chiamò kerúkeion, perché portò tal legge agraria a’ fa-moli degli eroi, i quali da Omero sono kérukes appellati;portò l’agraria di Servio Tullio, con la quale ordinò ilcenso, per lo quale i contadini con tal qualità dalle leggiromane sono detti «censiti»; portò in queste serpi il do-minio bonitario de’ campi, per lo quale da ophéleia (cheviene da óphis, «serpe») fu detto il terratico, il quale, co-me sopra abbiam dimostrato, da’ plebei si pagava aglieroi; portò finalmente il famoso nodo erculeo, per loquale gli uomini pagavano agli eroi la decima d’Ercole, ei romani debitori plebei fin alla legge Petelia furono«nessi» o vassalli ligi de’ nobili: delle quali cose tutte ab-biamo appresso molto da ragionare.

Quindi ha a dirsi che questo Mercurio de’ greci fu ilTheut o Mercurio che dà le leggi agli egizi, significatonel geroglifico dello Cnefo: descritto serpente, per dino-tare la terra colta; col capo di sparviere o d’aquila, comegli sparvieri di Romolo poi divennero l’aquile de’ roma-ni, con che intendevano gli auspìci eroici; stretto da uncinto, segno del nodo erculeo; con in mano uno scettro,che voleva dire il regno de’ sacerdoti egizi; con un cap-pello pur alato, ch’additava il loro alto dominio de’ fon-di; e alfin con un uovo in bocca, che dava ad intenderel’orbe egiziaco, se non è forse il pomo d’oro, che sopraabbiamo dimostrato significare il dominio alto ch’i sa-cerdoti avevano delle terre d’Egitto. Dentro il qual gero-glifico Maneto ficcò la generazione dell’universo mon-dano; e giunse tanto ad impazzare la boria de’ dotti,ch’Atanagio Kirckero nell’Obelisco panfilio dice signifi-care la santissima Trinità.

Qui incominciarono i primi commerzi nel mondo,

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ond’ebbe il nome esso Mercurio, e poi funne tenuto diodelle mercatanzie; come da questa prima imbasciata fulo stesso creduto dio degli ambasciadori, e, con verità disensi, fu detto dagli dèi (che noi sopra truovammo esser-si appellati gli eroi delle prime città) esser mandato agliuomini (qual’Ottomano avverte con maraviglia essersidetti dalla ricorsa barbarie i vassalli); e le ali, che qui ab-biam veduto significare ragioni eroiche, furono poi cre-dute usarsi da Mercurio per volare da cielo in terra, equinci rivolare da terra in cielo. Ma, per ritornar a’ com-merzi, eglino incominciarono d’intorno a questa speziedi beni stabili; e la prima mercede fu, come dovett’esse-re, la più semplice e naturale, qual è de’ frutti che si rac-cogliono dalla terra; la qual mercede, sia o di fatighe o dirobe, si costuma tuttavia ne’ commerzi de’ contadini.

Tutta questa istoria canservarono i greci nella vocenómos, con la quale significano e «legge» e «pascolo»;perché la prima legge fu quest’agraria, per la quale gli reeroici furono detti «pastori de’ popoli», come qui si èaccennato e più appresso si spiegherà.

Così i plebei delle prime barbare nazioni (appuntocome Tacito gli narra appresso i germani antichi, ove,con errore, gli crede servi, perché, come si è dimostro, isoci eroici erano come servi) si dovettero dagli eroi spar-ger per le campagne, e ivi soggiornare con le lor case ne’campi assegnati loro e, co’ frutti delle ville, contribuirequanto faceva d’uopo al sostentamento de’ lor signori.Con le quali condizioni si congiunga il giuramento, chepur da Tacito udimmo sopra, di dover essi e guardarglie difendergli e servir alla loro gloria, e tal spezie di dirit-ti si pensi di diffinirsi con un nome di legge: che si vedràcon evidenza che non può convenir loro altro nome chedi questi i quali da noi si dicono «feudi».

Di tal maniera si truovarono le prime città fondate so-pra ordini di nobili e caterve di plebei, con due contra-rie eterne propietà, le quali escono da questa natura di

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cose umane civili che si è qui da noi ragionata: de’ plebeidi voler sempre mutar gli Stati, come sempre essi gli mu-tano; e de’ nobili, sempre di conservargli. Onde, nellemosse de’ civili governi, se ne dicono «ottimati» tutti co-loro che si adoperano per mantenere gli Stati, ch’ebberotal nome da questa propietà di star fermi ed in piedi.

Quivi nacquero le due divisioni: una di sappienti e divolgo, perocché gli eroi fondavano i loro regni nella sa-pienza degli auspìci, come si è detto nelle Degnità e mol-to sopra si è ragionato. In séguito di questa divisione, re-stò al volgo l’aggiunto perpetuo di «profano»; perché glieroi, ovvero i nobili, furono i sacerdoti dell’eroiche città,come certamente lo furono tra’ romani fin a cent’annidopo la legge delle XII Tavole, come sopra si è detto;onde i primi popoli, con certa spezie di scomunica, to-glievano la cittadinanza, qual fu tra’ romani l’interdettodell’acqua e fuoco, come appresso si mostrerà. Perciò leprime plebi delle nazioni si tennero per istranieri, comeor ora vedremo (e ne restò propietà eterna che non si dàla cittadinanza ad un uomo di diversa religione); e da tal«volgo» restaron detti «vulgo quæsiti» i figliuoli fatti nelchiasso, per ciò che sopra abbiam ragionato, che le plebinelle prime città, perocché non vi avevano la comunan-za delle cose sagre o divine, per molti secoli non con-trassero matrimoni solenni.

L’altra divisione fu di «civis» e «hostis». E «hostis» si-gnificò «ospite o straniero» e «nimico», perché le primecittà si composero di eroi e di ricevuti a’ di lor asili (nelqual senso s’hanno a prendere tutti gli ospizi eroici); co-me, da’ tempi barbari ritornati, agl’italiani restò «oste»per «albergatore» e per gli «alloggiamenti di guerra», e«ostello» dicesi per «albergo». Così Paride fu ospite del-la real casa d’Argo, cioè nimico, che rapiva donzelle no-bili argive, rappresentate col carattere d’Elena. Così Te-seo fu ospite d’Arianna, Giasone di Medea, che poiabbandonano e non vi contraggono matrimoni: ch’era-

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no riputate azioni eroiche, che, co’ sensi nostri presenti,sembrano, come lo sono, azioni d’uomini scellerati. Cosìhassi a difendere la pietà d’Enea, ch’abbandona Didonech’aveva stuprato (oltre a’ grandissimi benefizi chen’avea ricevuti, e la magnanima profferta che quella gliaveva fatto del regno di Cartagine in dote delle sue noz-ze), per ubbidir a’ fati, i quali, benché fusse straniera an-ch’essa, gli avevano destinata Lavinia moglie in Italia. Ilqual eroico costume serbò Omero nella personad’Achille, il massimo degli eroi della Grecia, il quale ri-fiuta qualunque delle tre figliuole ch’Agamennone glioffre in moglie con la regal dote di sette terre ben popo-late di bifolchi e pastori, rispondendo di voler prenderein moglie quella che nella sua padria gli darebbe Peleo,suo padre. Insomma, i plebei eran «ospiti» delle cittàeroiche, contro i quali udimmo più volte Aristotile che«gli eroi giuravano d’esser eterni nimici». Questa stessadivisione ci è dimostrata con quelli estremi di «civis» e«peregrinus», preso il «peregrino» con la sua natia pro-pietà d’«uomo che divaga per la campagna», detta«ager» in significazione di «territorio» o «distretto» (co-me «ager neapolitanus», «ager nolanus»), detto così qua-si «peragrinus», perocché gli stranieri che viaggiano perlo mondo non divagano per gli campi, ma tengon drittoper le vie pubbliche.

Tali origini ragionate degli ospiti eroici danno ungran lume alla storia greca ove narra de’ sami, sibariti,trezeni, anfiboliti, calcidoni, gnidi e scii, che dagli stra-nieri vi furono cangiate le repubbliche da aristocratichein popolari; e danno l’ultimo lustro a ciò ch’abbiamopubblicato molti anni fa con le stampe, ne’ Princìpi delDiritto universale, d’intorno alla favola delle leggi delleXII Tavole venute da Atene in Roma; ch’è un de’ dueluoghi per gli quali stimiamo non esser inutile affattoquell’opera: che nel capo De forti sanate nexo soluto, chenoi pruovammo essere stato il subbietto di tutta quella

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contesa, per ciò che vi han detto i latini filologi che ’l«forte sanate» era lo straniero ridutto all’ubbidienza, el-la fu la plebe romana, la quale si era rivoltata perché nonpoteva da’ nobili riportar il dominio certo de’ campi;che certo non poteva durare, se non ne fusse stata fissaeternalmente la legge in una pubblica tavola, con la qua-le determinatosi il gius incerto, manifestatosi il gius na-scosto, fusse legata a’ nobili la mano regia di ripigliargli-si: ch’è ’l vero di ciò che ne racconta Pomponio. Per loche fece tanti romori che fu bisogno criare i decemviri, iquali diedero altra forma allo Stato e ridussero la plebesollevata all’ubbidienza, con dichiararla, con questo ca-po, prosciolta dal nodo vero del dominio bonitario, perlo quale erano stati «glebæ addicti» o «adscriptitii» o«censiti» del censo di Servio Tullio, come sopra si è di-mostrato, e restasse obbligata col nodo finto del domi-nio quiritario: ma se ne serbò un vestigio fin alla leggePetelia nel diritto, ch’avevano i nobili, della prigion pri-vata sopra i plebei debitori. I quali stranieri, con le «ten-tazioni tribunizie» ch’elegantemente dice Livio (e noil’abbiamo noverate, nell’annotazioni alla legge Publilia,sopra, nella Tavola cronologica), lo stato di Roma da ari-stocratico finalmente cangiarono in popolare.

Non essersi Roma fondata sopra le prime rivolte agra-rie egli ci dimostra essere stata una città nuova, comecanta la storia. Fu ella bensì fondata sopra l’asilo, dove,durando ancora dappertutto le violenze, avevano dovu-to prima farsi forti Romolo e i suoi compagni, e poi rice-vervi i rifuggiti, e quivi fondare le clientele, quali sonostate sopra da noi spiegate: onde dovette passare un du-gento anni perch’i clienti s’attediassero di quello stato:quanto tempo vi corse appunto perché il re Servio Tul-lio vi portasse la prima agraria. Il qual tempo aveva do-vuto correre nelle antiche città per un cinquecento anni,per questo istesso: che quelle si composero d’uomini piùsemplici, questa di più scaltriti; ch’è la cagione perché i

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romani manomisero il Lazio, quindi Italia, e poi il mon-do, perché più degli altri latini ebbero giovine l’eroismo.La qual istessa è la ragione più propia (la qual si dissenelle Degnità) ch’i romani scrissero in lingua volgare laloro storia eroica, ch’i greci avevano scritta con favole.

Tutto ciò ch’abbiamo meditato de’ princìpi della po-litica poetica e veduto nella romana storia, a maravigliaci è confermato da questi quattro caratteri eroici: primo,dalla lira d’Orfeo ovvero d’Apollo; secondo, dal teschiodi Medusa; terzo, da’ fasci romani; quarto ed ultimo,dalla lutta d’Ercole con Anteo.

E, primieramente, la lira fu ritruovata dal Mercuriode’ greci, quale da Mercurio egizio fu ritruovata la legge.E tal lira gli fu data da Apollo, dio della luce civile o siadella nobiltà, perché nelle repubbliche eroiche i nobilicomandavan le leggi, e con tal lira Orfeo, Anfione ed al-tri poeti teologi, che professavano scienza di leggi, fon-darono e stabilirono l’umanità della Grecia, come piùspiegatamente diremo appresso. Talché la lira fu l’unio-ne delle corde o forze de’ padri, onde si compose la for-za pubblica, che si dice «imperio civile», che fece cessa-re finalmente tutte le forze e violenze private. Onde lalegge con tutta propietà restò a’ poeti diffinita «lyra re-gnorum», nella quale s’accordarono i regni famigliari de’padri, i quali stati erano innanzi scordati, perché tuttisoli e divisi tra loro nello stato delle famiglie, come dice-va Polifemo ad Ulisse; e la gloriosa storia nel segno diessa lira fu poi con le stelle descritta in cielo, e ’l regnod’Irlanda nell’arme degli re d’Inghilterra ne carica loscudo d’un’arpa. Ma, appresso, i filosofi ne fecero l’ar-monia delle sfere, la qual è accordata dal sole; ma Apol-lo suonò in terra quella la quale, nonché poté,dovett’udire, anzi esso stesso suonare Pittagora, presoper poeta teologo e fondatore di nazione, il quale finoran’è stato d’impostura accusato.

Le serpi unite nel teschio di Medusa, caricato d’ale

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nelle tempia, son i domìni alti famigliari ch’avevano i pa-dri nello stato delle famiglie, ch’andarono a comporre ildominio eminente civile. E tal teschio fu inchiovato alloscudo di Perseo, ch’è lo stesso del qual è armata Miner-va, che tra l’armi, o sia nelle adunanze armate delle pri-me nazioni, tralle quali truovammo ancor la romana,detta le spaventose pene ch’insassiscono i riguardanti.Una delle quali serpi sopra dicemmo essere stato Drago-ne, il quale fu detto scriver le leggi col sangue, perché sen’era armata quell’Atene (qual si disse Minerva Athenã)nel tempo ch’era occupata dagli ottimati, come pur so-pra si è detto; e ’l dragone appo i chinesi, i quali ancorascrivono per geroglifici, egli, com’anco sopra si è vedu-to, è l’insegna dell’imperio civile.

I fasci romani sono i litui de’ padri nello stato delle fa-miglie. Una qual sì fatta verga in mano d’uno di essiOmero con peso di parole chiama «scettro», ed esso pa-dre appella «re», nello scudo ch’egli descrive d’Achille,nel quale si contiene la storia del mondo; e in tal luogo èfissata l’epoca delle famiglie innanzi a quella delle città,come appresso sarà pienamente spiegato. Perché, contali litui presi gli auspìci che le comandassero, i padridettavano le pene de’ loro figliuoli, come nella legge del-le XII Tavole ne passò quella del figliuol empio che ab-biamo sopra veduto. Onde l’unione di tali verghe a lituisignifica la generazione dell’imperio civile, la quale si èqui ragionata.

Finalmente Ercole (carattere degli Eraclidi ovveronobili dell’eroiche città) lutta con Anteo (carattere de’famoli ammutinati) e, innalzandolo in cielo (rimenando-li nelle prime città poste in alto), il vince e l’annoda aterra. Di che restò un giuoco a’ greci detto del «nodo»;ch’è ’l nodo erculeo, col qual Ercole fondò le nazionieroiche, e per lo quale da’ plebei si pagava agli eroi ladecima d’Ercole, che dovett’esser il censo pianta dellerepubbliche aristocratiche. Ond’i plebei romani per lo

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censo di Servio Tullio furono nexi de’ nobili e, per logiuramento che narra Tacito darsi da’ germani antichi a’loro principi, dovevano lor servire come vassalli peran-garii a propie spese nelle guerre: di che la plebe romanasi lamenta dentro cotesta stessa sognata libertà popola-re. Che dovetter esser i primi assidui, che «suis assibusmilitabant»: però soldati non di ventura, ma di dura ne-cessità.

3.DELL’ORIGINI DEL CENSO E DELL’ERARIO.

Ma finalmente dalle gravi usure e spesse usurpazionich’i nobili facevano de’ loro campi (a tal segno ch’a capodi età Filippo, tribuno della plebe, ad alta voce gridavache duemila nobili possedevano tutti i campi che dove-van essere ripartiti tra ben trecentomila cittadini, ch’asuo tempo in Roma si noveravano), perché fin da qua-rant’anni dopo la discacciata di Tarquinio Superbo, perla di lui morte assicurata, la nobiltà aveva ricominciatoad insolentire sopra la povera plebe; e ’l senato di que’tempi aveva dovuto incominciar a praticar quell’ordina-mento: ch’i plebei pagassero all’erario il censo, che pri-ma privatamente avevano dovuto pagar a’ nobili, accioc-ché esso erario potesse somministrar loro le spese indi inpoi nelle guerre; dal qual tempo comparisce di nuovosulla storia romana il censo, ch’i nobili sdegnavano am-ministrare, al riferire di Livio, come cosa non convene-vole alla lor degnità (perché Livio non poté intenderech’i nobili nol volevano, perché non era il censo ordina-to da Servio Tullio, ch’era stato pianta della libertà de’signori, il qual si pagava privatamente ad essi nobili, in-gannato con tutti gli altri che ’l censo di Servio Tulliofusse stato pianta della libertà popolare: perché certa-mente non fu maestrato di maggior degnità di quella diche fu la censura, e fin dal suo primo anno fu ammini-

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strato da’ consoli): così i nobili, per le loro avare arti me-desime, vennero da se stessi a formar il censo, che poi fupianta della popolar libertà. Talché, essendone venuti icampi tutti in loro potere, eglino a’ tempi di Filippo tri-buno dovevano duemila nobili pagar il tributo per tre-centomila altri cittadini ch’allora si numeravano (appun-to come in Isparta era divenuto di pochi tutto il campospartano), perché si erano descritti nell’erario i censich’i nobili avevano privatamente imposto a’ campi, iquali, incolti, ab antiquo avevano assegnati a coltivar a’plebei. Per cotanta inegualità dovetter avvenire de’grandi movimenti e rivolte della plebe romana, le qualiFabio, con sappientissimo ordinamento, onde meritò ilsopranome di Massimo, rassettò, con ordinare che tuttoil popolo romano si ripartisse in tre classi, di senatori,cavalieri e plebei, e i cittadini vi si allogassero secondo lefacultà; e consolò i plebei: perocché, quando, innanzi,que’ dell’ordine senatorio, ch’era prima stato tutto de’nobili, vi prendevano i maestrati, indi in poi vi potesseropassare ancora con le ricchezze i plebei, e quindi fusseaperta a’ plebei la strada ordinaria a tutti gli onori civili.

Tal è la guisa che fa vera la tradizione che ’l censo diServio Tullio (perché da quello se ne apparecchiò la ma-teria e da quella ne nacquero l’occasioni) fu egli piantadella libertà popolare, come sopra si ragionò per ipotesinell’Annotazioni alla Tavola cronologica, ov’è il luogodella legge Publilia. E tal ordinamento, nato dentro Ro-ma medesima, fu invero quello che ordinovvi la repub-blica democratica, non già la legge delle XII Tavole colàvenuta da Atene: tanto che Bernardo Segni quellach’Aristotile chiama «repubblica democratica», egli intoscano trasporta «repubblica per censo», per dire «re-pubblica libera popolare». Lo che si dimostra con essoLivio, che, quantunque ignorante dello Stato romano diquelli tempi, pur narra ch’i nobili si lagnavano avere piùperduto con quella legge in città che guadagnato fuori

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con l’armi in quell’anno, nel quale pur avevano riporta-to molte e grandi vittorie. Ch’è la cagione onde Publilio,che ne fu autore, fu detto «dittator popolare».

Con la libertà popolare, nella quale tutto il popolo èessa città, avvenne che ’l dominio civile perdé il propiosignificato di «dominio pubblico» (che, da essa città, erastato detto «civile»), e si disperdé per tutti i domìni pri-vati di essi cittadini romani, che poi tutti facevano la ro-mana città. Il dominio ottimo s’andò ad oscurare nellasua significazione natia di «dominio fortissimo», comesopra abbiam detto, «non infievolito da niun real peso,anche pubblico», e restò a significare «dominio di robalibera da ogni peso privato». Il dominio quiritario nonpiù significò dominio di fondo, dal cui possesso se fussecaduto il cliente o plebeo, il nobile, da cui aveva la ca-gion del dominio, doveva venir a difenderlo; che furonoi primi «autores iuris» in romana ragione, i quali, perqueste e non altre clientele ordinate da Romolo, doveva-no insegnar a’ plebei queste e non altre leggi. Impercioc-ché quali leggi dovevan i nobili insegnar a’ plebei, i qua-li fin al CCCIX di Roma non ebbero privilegio dicittadini, e fin a cento anni dopo la legge delle XII Tavo-le, dentro il lor collegio de’ pontefici, i nobili tennero ar-cane alla plebe? Sicché i nobili furon in tali tempi quelli«autores iuris», ch’ora sono rimasti nella spezie ch’i pos-sessori de’ fondi comperati, ove ne sono convenuti conrevindicazione da altri, «lodano in autori», perché loroassistano e gli difendano: ora tal dominio quiritario è ri-masto a significare dominio civile privato assistito da re-vindicazione, a differenza del bonitario, che si mantienecon la sola possessione.

Nella stessa guisa, e non altrimenti, queste cose sullanatura eterna de’ feudi ritornarono a’ tempi barbari ri-tornati. Prendiamo, per esemplo, il regno di Francia, nelquale le tante provincie, ch’ora il compongono, furonosovrane signorie de’ principi soggetti al re di quel regno,

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dove que’ principi avevano dovuto avere i loro beni nonsoggetti a pubblico peso veruno: dipoi, o per successionio per ribellioni o caduci, s’incorporarono a quel reame,e tutti i beni di que’ principi ex iure optimo furono sot-toposti a’ pubblici pesi. Perché le case e i fondi di essire, de’ quali avevano la Camera reale lor propia, o perparentadi o per concessioni essendo passati a’ vassalli,oggi si truovono assoggettiti a’ dazi e tributi: tanto chene’ regni di successione tale s’andò a confondere il do-minio ex iure optimo col dominio privato soggetto a pe-so pubblico, qual il fisco, ch’era patrimonio del romanoprincipe, si fusse andato a confondere con l’erario.

La qual ricerca del censo e dell’erario è stata la piùaspra delle nostre meditazioni sulle cose romane, sicco-me nell’Idea dell’opera l’avvisammo.

4.DELL’ORIGINE DE’ COMIZI ROMANI.

Per le quali cose così meditate la bulé e l’agorá, chesono le due ragunanze eroiche ch’Omero narra e noi so-pra abbiam osservato, dovetter essere tra’ romani le ra-gunanze curiate, le quali si leggono le più antiche sottogli re, e le ragunanze tribute. Le prime furono dette «cu-riate» da «quir», «asta», il cui obbliquo è «quiris», chepoi restò retto, conforme ne abbiamo ragionato nell’Ori-gini della lingua latina, siccome da chéir, «la mano»,ch’appo tutte le nazioni significò «potestà», dovette a’greci dapprima venir detta kuría, nello stesso sentimen-to nel qual è appresso i latini «curia»: onde vennero i cu-reti, ch’erano i sacerdoti armati d’aste, perché tutti i po-poli eroici furon di sacerdoti, e i soli eroi avevan ildiritto dell’armi; i quali cureti, com’abbiamo sopra ve-duto, i greci osservarono in Saturnia (o sia antica Italia),in Creta ed in Asia. E kuría, in tal antico significato, do-vette intendersi per «signoria»; come «signorie» ora pur

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si dicono le repubbliche aristocratiche: da’ quali senatieroici si disse kûros «autorità»; ma, come sopra abbiamosservato e più appresso n’osserveremo, «autorità di do-minio»; dalle qual’origini poi restarono kúrios e kuríaper «signore» e «signora». E, come da chéir i «cureti»da’ greci, così sopra vedemmo da «quir» essere stati det-ti i «quiriti» romani; che fu il titolo della romana maestà,che si dava al popolo in pubblica ragunanza, come si èaccennato pur sopra, dove osservammo de’ galli e degliantichi germani, combinati con quel de’ cureti che dice-vano i greci, che tutti i primi popoli barbari tennero lepubbliche ragunanze sotto dell’armi.

Quindi cotal maestoso titolo dovette incominciare daquando il popolo era di soli nobili, i quali soli avevano ildiritto dell’armi; e che poi passò al popolo composto an-cor di plebei, divenuta Roma repubblica popolare. Per-ché della plebe, la qual non ebbe dapprima cotal diritto,le ragunanze furon dette «tribute» da «tribus», «latribù»; ed appo i romani, siccome nello stato delle fami-glie esse «famiglie» furon dette da’ «famoli», così inquello poi delle città la tribù intesesi de’ plebei, i quali visi ragunavano per ricevere gli ordini del regnante sena-to; tra’ quali, perché fu principale e più frequente quellodi dover i plebei contribuir all’erario, dalla voce «tribù»venne detto «tributum».

Ma, poi che Fabio Massimo introdusse il censo, chedistingueva tutto il popolo romano in tre classi secondoi patrimoni de’ cittadini – perché, innanzi, i soli senatorierano stati cavalieri, perché i soli nobili a’ tempi eroiciavevano il diritto dell’armeggiare, perciò la repubblicaromana antica sopra essa storia si legge divisa tra «pa-tres» e «plebem»; talché tanto aveva innanzi significato«senatore» quanto «patrizio», ed all’incontro tanto«plebeo» quanto «ignobile»: quindi, siccom’erano in-nanzi state due sole classi del popolo romano antico, co-sì erano state due sole sorte di ragunanze: una, la curia-

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ta, di padri o nobili o senatori; l’altra, tributa, di plebeiovvero d’ignobili; – ma, poi che Fabio ripartì i cittadini,secondo le loro facultà, per tre classi, di senatori, cava-lieri e plebei, essi nobili non fecero più ordine nellacittà, e secondo le loro facultà si allogavano per sì fattetre classi. Dal qual tempo in poi si vennero a distinguere«patrizio» da «senatore» e da «cavaliere», e «plebeo» da«ignobile»; e «plebeo» non più s’oppose a «patrizio»,ma a «cavaliere» e «senatore»; né «plebeo» significò«ignobile», ma «cittadino di picciolo patrimonio»,quantunque nobile egli si fusse; ed al contrario «senato-re» non più significò «patrizio», ma «cittadino d’amplis-simo patrimonio», quantunque si fusse ignobile.

Per tutto ciò indi in poi si dissero «comitia centuriata»le ragunanze nelle quali per tutte e tre le classi conveni-va tutto il popolo romano, per comandare, tra l’altrepubbliche faccende, le leggi consolari; e ne restaronodette «comitia tributa» quelle dove la plebe sola coman-dava le leggi tribunizie, che furon i plebisciti, innanzidetti in sentimento nel quale Cicerone gli direbbe «plebinota», cioè «leggi pubblicate alla plebe» (una delle qualiera stata quella di Giunio Bruto, che narra Pomponio,con cui Bruto pubblicò alla plebe gli re eternalmente di-scacciati da Roma); siccome nelle monarchie s’arebbona dire «populo nota», con somigliante propietà, le leggireali. Di che, quanto poco erudito tanto assai acuto, Bal-do si maraviglia esserci stata lasciata scritta la voce «ple-biscitum» con una «s», perché, nel sentimento di «leggech’aveva comandato la plebe», dovrebbe essere statoscritto con due: «plebisscitum», venendo egli da«sciscor» e non da «scio».

Finalmente, per la certezza delle divine cerimonie, re-staron dette «comitia curiata» le ragunanze de’ soli capidelle curie, ove si trattava di cose sagre. Perché ne’ tem-pi di essi re si guardavano con aspetto di sagre tutte lecose profane, e gli eroi erano dappertutto cureti ovvero

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sacerdoti, come sopra si è detto, armati; onde infin agliultimi tempi romani, essendo rimasta con aspetto di co-sa sagra la paterna potestà (le cui ragioni nelle leggispesso «sacra patria» son dette): per tal cagione in tali ra-gunanze con le leggi curiate si celebravano l’arrogazioni.

5.COROLLARIO CHE LA DIVINA PROVVEDENZA

È L’ORDINATRICE DELLE REPUBBLICHE ENELLO STESSO TEMPO DEL DIRITTO

NATURAL DELLE GENTI.

Sopra questa generazion di repubbliche, scovertanell’età degli dèi – nella quale i governi erano stati teo-cratici, cioè governi divini, e poi uscirono ne’ primi go-verni umani, che furon gli eroici (che qui chiamiamo«umani» per distinguergli da’ divini), dentro a’ quali,come gran corrente di real fiume ritiene per lungo trattoin mare e l’impressione del corso e la dolcezza dell’ac-que, scorse l’età degli dèi, perché dovette durar ancoraquella maniera religiosa di pensare che gli dèi facesserotutto ciò che facevan essi uomini (onde de’ padri re-gnanti nello stato delle famiglie ne fecero Giove; de’ me-desimi, chiusi in ordine nel nascere delle prime città, nefecero Minerva; de’ lor ambasciadori mandati a’ solleva-ti clienti ne fecero Mercurio; e, come poco appresso ve-dremo, degli eroi corsali ne fecero finalmente Nettun-no), – è da sommamente ammirare la provvedenzadivina. La qual, intendendo gli uomini tutt’altro fare, el-la portògli in prima a temer la divinità (la cui religione èla prima fondamental base delle repubbliche); – indidalla religione furon fermi nelle prime terre vacue,ch’essi primi di tutt’altri occuparono (la qual occupazio-ne è ’l fonte di tutti i domìni); e, gli più robusti gigantiavendole occupate nell’alture de’ monti, dove sorgonole fontane perenni, dispose che si ritruovassero in luoghi

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sani e forti di sito e con copia d’acqua, poter ivi star fer-mi né più divagare: che sono le tre qualità che devonavere le terre per poi surgervi le città; – appresso, con lareligione medesima, gli dispose ad unirsi con certe don-ne in perpetua compagnia di lor vita: che son i matrimo-ni, riconosciuti fonte di tutte le potestà; – dipoi, conqueste donne si ritruovarono aver fondato le famiglie,che sono il seminario delle repubbliche; – finalmente,con l’aprirsi degli asili, si ritruovarono aver fondato leclientele, onde fussero apparecchiate le materie tali, chepoi, per la prima legge agraria, nascessero le città sopradue comuni d’uomini che le componessero: uno di no-bili che vi comandassero, altri di plebei ch’ubbidissero(che Telemaco, in una diceria appo Omero, chiama «al-tro popolo», cioè popolo soggetto, diverso dal popoloregnante, il qual si componeva d’eroi); ond’esce la mate-ria della scienza politica, ch’altro non è che scienza dicomandare e d’ubbidire nelle città. E, nel loro medesi-mo nascimento, fa nascere le repubbliche di forma ari-stocratica, in conformità della selvaggia e ritirata naturadi tai primi uomini; la qual forma tutta consiste, comepur i politici l’avvertiscono, in custodire i confini e gliordini, acciocché le genti di fresco venute all’umanità,anco per la forma de’ lor governi, seguitassero lungotempo a stare dentro di essolor chiuse, per disavvezzarledalla nefaria infame comunione dello stato bestiale e fe-rino. E, perché gli uomini erano di menti particolarissi-me, che non potevano intendere ben comune, per lo cheeran avvezzi a non impacciarsi nemmeno delle cose par-ticolari d’altrui, siccome Omero il fa dire da Polifemoad Ulisse (nel qual gigante Platone riconosce i padri difamiglia nello stato che chiamano «di natura», il qualefu innanzi a quello delle città), la provvedenza, con lastessa forma di tai governi, gli menò ad unirsi alle loropatrie, per conservarsi tanto grandi privati interessiquanto erano le loro monarchie famigliari (ch’era ciò

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ch’essi assolutamente intendevano); e sì, fuori d’ogni lo-ro proposito, convennero in un bene universale civile,che si chiama «repubblica».

Or qui, per quelle pruove divine ch’avvisammo sopranel Metodo, si rifletta, col meditarvi sopra, alla sempli-cità e naturalezza con che la provvedenza ordinò questecose degli uomini, che, per falsi sensi, gli uomini diceva-no con verità che tutte facessero i dèi; – e col combinar-vi sopra l’immenso numero degli effetti civili, che tuttirichiamerannosi a queste quattro loro cagioni, che, co-me per tutta quest’opera si osserverà, sono quasi quattroelementi di quest’universo civile: cioè religioni, matri-moni, asili e la prima legge agraria che sopra si è ragio-nata; – e poi, tra tutti i possibili umani, si vada in ricercase tante, sì varie e diverse cose abbian in altra guisa po-tuto aver incominciamenti più semplici e più naturali traquelli stessi uomini ch’Epicuro dice usciti dal caso e Ze-none scoppiati dalla necessità, che né ’l caso gli divertìné ’l fato gli strascinò fuori di quest’ordine naturale:ché, nel punto nel qual esse repubbliche dovevano na-scere, già si erano innanzi apparecchiate ed erano tuttepreste le materie a ricever la forma, e n’uscì il formatodelle repubbliche, composto di mente e di corpo. Lematerie apparecchiate furono propie religioni, propielingue, propie terre, propie nozze, propi nomi (ovverogenti o sieno case), propie armi, e quindi propi imperi,propi maestrati e per ultimo propie leggi; e, perché pro-pi, perciò dello ’n tutto liberi, e, perché dello ’n tutto li-beri, perciò costitutivi di vere repubbliche. E tutto ciòprovenne perché tutte l’anzidette ragioni erano state in-nanzi propie de’ padri di famiglia, nello stato di naturamonarchi; i quali, in questo punto, unendosi in ordine,andaron a generare la civil potestà sovrana, siccome,nello stato di natura, essi padri avevan avuto le potestàfamigliari, innanzi non ad altri soggette che a Dio. Que-sta sovrana civil persona si formò di mente e di corpo.

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La mente fu un ordine di sappienti, quali in quella som-ma rozzezza e semplicità esser per natura potevano, e nerestò eterna propietà che senza un ordine di sappientigli Stati sembrano repubbliche in vista, ma sono corpimorti senz’anima: dall’altra parte il corpo, formato colcapo ed altre minori membra. Onde alle repubbliche re-stonne quest’altra eterna propietà: ch’altri vi debbanesercitare la mente negl’impieghi della sapienza civile,altri il corpo ne’ mestieri e nell’arti che deon servire cosìalla pace come alla guerra; con questa terza eterna pro-pietà: che la mente sempre vi comandi e che ’l corpov’abbia perpetuamente a servire.

Ma ciò che dee recare più maraviglia è che la provve-denza come, trallo far nascere le famiglie (le quali tutteerano nate con qualche cognizione d’una divinità, ben-ché, per lor ignoranza e disordine, non conoscesse la ve-ra ciascuna, con aver ciascuna propie religioni, lingue,terre, nozze, nomi, armi, governi e leggi), aveva fattonello stesso tempo nascere il diritto naturale delle gentimaggiori, con tutte l’anzidette propietà, da usar poi i pa-dri di famiglia sopra i clienti; così, trallo far nascere lerepubbliche, per mezzo di essa forma aristocratica conla qual nacquero, ella il diritto naturale delle genti mag-giori (o sieno famiglie), che si era innanzi nello stato dinatura osservato, fece passare in quello delle genti mino-ri (o sia de’ popoli), da osservarsi nel tempo delle città.Perché i padri di famiglia, de’ quali tutte l’anzidette ra-gioni erano propie loro sopra i clienti, in tal punto, colchiudersi quelli in ordine naturale contro di questi, ven-nero essi a chiudere tutte l’anzidette propietà dentro ilor ordini civili contro le plebi; nello che consistette laforma aristocratica severissima delle repubbliche eroi-che.

In cotal guisa il diritto naturale delle genti, ch’ora tra ipopoli e le nazioni vien celebrato, sul nascere delle re-pubbliche nacque propio delle civili sovrane potestà.

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Talché popolo o nazione, che non ha dentro una potestàsovrana civile fornita di tutte l’anzidette propietà, eglipropiamente popolo o nazione non è, né può esercitarfuori contr’altri popoli o nazioni il diritto natural dellegenti; ma, come la ragione, così l’esercizio ne avrà altropopolo o nazione superiore.

Le quali cose qui ragionate, poste insieme con quelloche si è sopra avvertito, che gli eroi delle prime cittàs’appellarono «dèi», danno la spiegata significazione diquel motto, con cui «iura a diis posita» sono state dettele ordinazioni del diritto natural delle genti. Ma, succe-duto poi il diritto naturale delle genti umane ch’Ulpianopiù volte sopra ci ha detto, sopra il quale i filosofi e imorali teologi s’alzarono ad intendere il diritto naturaledella ragion eterna tutta spiegata, tal motto passò accon-ciamente a significare il diritto naturale delle genti ordi-nato dal vero Dio.

6.SIEGUE LA POLITICA DEGLI EROI.

Ma tutti gli storici danno il principio al secolo eroicocoi corseggi di Minosse e con la spedizione navale chefece Giasone in Ponto, il prosieguimento con la guerratroiana, il fine con gli error degli eroi, che vanno a termi-nare nel ritorno d’Ulisse in Itaca. Laonde in tali tempidovette nascere l’ultima delle maggiori divinità, la qualfu Nettunno, per questa autorità degli storici, la qual noiavvaloriamo con una ragion filosofica, assistita dai piùluoghi d’oro d’Omero. La ragion filosofica è che l’artinavale e nautica sono gli ultimi ritruovati delle nazioni,perché vi bisognò fior d’ingegno per ritruovarle; tantoche Dedalo, che funne il ritruovatore, restò a significaresso ingegno, e da Lucrezio ne fu detta «dædala tellus»per «ingegnosa». I luoghi d’Omero sono nell’Odissea,ch’ovunque Ulisse o approda o è da tempesta portato,

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monta alcun poggio per veder entro terra fummo, chegli significhi ivi abitare degli uomini. Questi luoghid’Omero sono avvalorati da quel luogo d’oro di Plato-ne, ch’udimmo riferirsici da Strabone sopra nelle De-gnità, del lungo orrore ch’ebbero del mare le prime na-zioni; e la ragione fu avvertita da Tucidide: che per lotimor de’ corseggi le nazioni greche tardi scescero adabitare sulle marine. Perciò Nettunno ci si narra aver ar-mato il tridente col quale faceva tremar la terra, che do-vett’esser un grande uncino da afferrar navi, detto conbella metafora «dente», e col superlativo del «tre»,com’abbiam sopra detto, col quale faceva tremare le ter-re degli uomini col terrore de’ suoi corseggi: che poi, giàa’ tempi d’Omero, fu creduto far tremare le terre dellanatura, nella qual oppenione Omero fu seguìto poi daPlatone col suo abisso dell’acque, che pose nelle visceredella terra, ma con quanto accorgimento, appresso saràdimostro.

Questi deon essere stati il toro con cui Giove rapisceEuropa, il minotauro o toro di Minosse, con cui rapiscegarzoni e fanciulle dalle marine dell’Attica (come resta-rono le vele dette «corna delle navi», ch’usò poi Virgi-lio); e i terrazzani spiegavano con tutta verità divorargli-si il minotauro, che vedevano con ispavento e dolore lanave ingoiarglisi. Così l’Orca vuol divorare Andromedaincatenata alla rupe, per lo spavento divenuta di sasso(come restò a’ latini «terrore defixus», «divenuto immo-bile per lo spavento»); e ’l cavallo alato, con cui Perseola libera, dev’essere stata altra nave da corso, siccome levele restaron dette «ali delle navi». E Virgilio, coniscienza di quest’eroiche antichità, parlando di Dedalo,che fu il ritruovator della nave, dice che vola con la mac-china che chiama «alarum remigium»; e Dedalo pur cifu narrato esser fratello di Teseo. Talché Teseo dee essercarattere di garzoni ateniesi, che, per la legge della forzafatta lor da Minosse, sono divorati dal di lui toro o nave

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da corso; al qual Arianna (l’arte marinaresca) insegnacol filo (della navigazione) uscire dal labirinto di Dedalo(che, prima di questi, che sono ricercate delizie delle vil-le reali, dovett’esser il mar Egeo, per lo gran numerodell’isole che bagna e circonda), e, appresa l’arte da’ cre-tesi, abbandona Arianna e si torna con Fedra, di lei so-rella (cioè con un’arte somigliante), e sì uccide il mino-tauro e libera Atene della taglia crudele che l’avevaimposto Minosse (col darsi a far essi ateniesi i corsali). Ecosì, qual Fedra sorella fu d’Arianna, tale Teseo fu fra-tello di Dedalo.

Con l’occasione di queste cose, Plutarco nel Teseo di-ce che gli eroi si recavano a grande onore e si riputavanoin pregio d’armi con l’esser chiamati «ladroni» siccome,a’ tempi barbari ritornati, quello di «corsale» era titoloriputato di signoria. D’intorno a’ quali tempi, venutoSolone, si dice aver permesso nelle sue leggi le societàper cagion di prede: tanto Solone ben intese questa no-stra compiuta umanità, nella quale costoro non godonodel diritto natural delle genti! Ma quel che fa più mara-viglia è che Platone ed Aristotile posero il ladronecciofralle spezie della caccia; e con tali e tanti filosofi d’unagente umanissima convengono, con la loro barbarie, igermani antichi, appo i quali, al riferire di Cesare, i la-dronecci non solo non eran infami, ma si tenevano tragli esercizi della virtù, siccome tra quelli che, per costu-me non applicando ad arte alcuna, così fuggivano l’ozio.Cotal barbaro costume durò tant’oltre appo luminosissi-me nazioni, ch’al narrar di Polibio si diede la pace da’romani a’ cartaginesi, tra l’altre leggi, con questa: chenon potessero passare il capo di Peloro in Sicilia per ca-gion di prede o di traffichi. Ma egli è meno de’ cartagi-nesi e romani, i quali essi medesimi si professavano d’es-ser barbari in tali tempi, come si può osservare appressoPlauto, in più luoghi, ove dice aver esso vòlte le grechecommedie in «lingua barbara», per dir «latina». Quello

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è più: che dagli umanissimi greci, ne’ tempi della loropiù colta umanità, si celebrava cotal costume barbaro,onde sono tratti quasi tutti gli argomenti delle loro com-medie; dal qual costume questa costa d’Affrica a noi op-posta, perché tuttavia l’esercita contro de’ cristiani, for-se dicesi Barbaria.

Principio di cotal antichissimo diritto di guerra ful’inospitalità de’ popoli eroici che sopra abbiam ragiona-to, i quali guardarono gli stranieri con l’aspetto di per-petui nimici e riponevano la riputazione de’ lor imperiin tenergli quanto si potesse lontani da’ lor confini (co-me il narra Tacito degli svevi, la nazione più riputatadell’antica Germania); e sì guardavano gli stranieri comeladroni, quali abbiamo ragionato poc’anzi. Di che vi haun luogo d’oro appresso Tucidide: che, fin al suo tem-po, ove s’incontrassero viandanti per terra o passaggieriper mare, si domandava scambievolmente tra loro sefusser essi ladroni, in significazion di «stranieri». Ma,troppo avacciandosi la Grecia all’umanità, prestamentesi spogliò di tal costume barbaro, e chiamarono «barba-re» tutte l’altre nazioni che ’l conservavano; nel qual si-gnificato restò ad essi detta barbaría la Troglodizia, chedoveva uccidere tal sorta d’ospiti ch’entravano ne’ suoiconfini, siccome ancor oggi vi sono nazioni barbare che’l costumano. Certamente le nazioni umane non ammet-tono stranieri senza che n’abbiano da esse riportato li-cenza.

Tra queste per tal costume da’ greci dette «barbarenazioni», una fu la romana per due luoghi d’oro dellalegge delle XII Tavole. Uno: «Adversus hostem æternaauctoritas esto»; l’altro è rapportato da Cicerone: «Si sta-tus dies sit, cum hoste venito». E qui prendono la voce«hostis», indovinando con termini generali, come permetafora così detto l’«avversario che litiga»; ma sullostesso luogo Cicerone riflette, troppo al nostro proposi-to, che «hostis», appresso gli antichi si disse quello che

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fu detto poi «peregrinus». I quali due luoghi, compostiinsieme, danno ad intendere ch’i romani da principiotennero gli stranieri per eterni nimici di guerra.

Ma i detti due luoghi si deon intendere di quelli chefurono i primi «hostes» del mondo, che, come sopra si èdetto, furono gli stranieri ricevuti agli asili, i quali poivennero in qualità di plebei nel formarsi dell’eroichecittà, come si sono dimostrati più sopra. Talché il luogoappresso Cicerone significa che, nel giorno stabilito,«venga il nobile col plebeo a vendicargli il podere», co-me anco si è sopra detto. Perciò l’«eterna autorità», chesi dice dalla medesima legge, dev’essere stata contro iplebei, contro i quali ci disse Aristotile nelle Degnità chegli eroi giuravano esser eterni nimici; per lo quale dirittoeroico i plebei, con quantunque corso di tempo, non po-tevan usucapere niuno fondo romano, perché tali fondierano nel commerzio de’ soli nobili; ch’è buona partedella ragione perché la legge delle XII Tavole non rico-nobbe nude possessioni: onde poi, incominciando a di-susarsi il diritto eroico e invigorendo l’umano, i pretoriassistevan essi alle nude possessioni fuori d’ordine, per-ché né apertamente né per alcuna interpetrazione avea-no da essa legge alcun motivo di costituirne giudizi ordi-nari né diretti né utili; e tutto ciò, perché la medesimalegge teneva le nude possessioni de’ plebei esser tutteprecarie de’ nobili. Altronde non s’impacciava delle fur-tive o violente de’ nobili medesimi, per quell’altra pro-pietà delle prime repubbliche (che lo stesso Aristotilenelle Degnità pur ci disse), che non avevano leggi d’in-torno a’ privati torti ed offese, delle quali essi privati lasi dovevano vedere con la forza dell’armi, com’appienodimostreremo nel libro IV; dalla qual vera forza restòpoi per solennità nelle revindicazioni quella forza fintach’Aulo Gellio dice «di paglia». Si conferma tutto ciòcon l’interdetto «Unde vi», che si dava dal pretore, efuori d’ordine, perché la legge delle XII Tavole non ave-

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va inteso nulla, nonché parlato, delle violenze private; econ l’azioni «De vi bonorum raptorum» e «Quod metuscaussa», le quali vennero tardi e furon anco pretorie.

Ora cotal costume eroico d’avere gli stranieri pereterni nimici, osservato privatamente da ciascun popoloin pace, portatosi fuori, si riconobbe comune a tutte legenti eroiche di esercitare tra loro le guerre eterne concontinove rube e corseggi. Così, dalle città, che Platondice nate sulla pianta dell’armi, come sopra abbiam ve-duto, e incominciate a governarsi a modo di guerra in-nanzi di venir esse guerre, le quali si fanno delle città,provenne che da pólis, «città», fusse pólemos essa guerraappellata.

Ove, in pruova del detto, è da farsi questa importanteosservazione: che i romani stesero le conquiste e spiega-rono le vittorie, che riportaron del mondo, sopra quat-tro leggi, ch’avevano co’ plebei praticate dentro di Ro-ma. Perché con le provincie feroci praticarono leclientele di Romolo, con mandarvi le colonie romane,ch’i padroni de’ campi cangiavano in giornalieri; con leprovincie mansuete praticarono la legge agraria di Ser-vio Tullio, col permetter loro il dominio bonitario de’campi; con l’Italia praticarono l’agraria della legge delleXII Tavole, col permetterle il dominio quiritario, chegodevano i fondi detti «soli italici»; co’ municìpi o cittàbenemerite praticarono le leggi del connubio e del con-solato comunicato alla plebe.

Tal nimicizia eterna tralle prime città non richiedevache fussero le guerre intimate, e sì tali ladronecci si ripu-tarono giusti; come, per lo contrario, disavvezzate poi dibarbaro costume sì fatto le nazioni, avvenne che le guer-re non intimate son ladronecci, non conosciuti ora daldiritto natural delle genti che da Ulpiano son dette«umane». Questa stessa eterna inimicizia de’ primi po-poli dee spiegarci che ’l lungo tempo ch’i romani aveva-no guerreggiato con gli albani fu egli tutto il tempo in-

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nanzi, ch’entrambi avevano esercitato gli uni contro de-gli altri a vicenda i ladronecci che qui diciamo: ond’èpiù ragionevole che Orazio uccida la sorella perché pia-gne il suo Curiazio che l’aveva rapita, che essergli statasposata; quando esso Romolo non poté aver moglie daessi albani, nulla giovandogli l’essere uno de’ reali di Al-ba, né ’l gran beneficio che, discacciatone il tirannoAmulio, aveva loro renduto il legittimo re Numitore. Èmolto da avvertirsi che si patteggia la legge della vittoriasulla fortuna dell’abbattimento di essi, che principal-mente erano interessati; qual, dell’albana, fu quello deglitre Orazi e degli tre Curiazi, e, della troiana, quello diParide e Menelao, ch’essendo rimasto indiciso, i greci etroiani poi seguitarono a terminarla: siccome, a’ tempibarbari ultimi, similmente essi principi con gli abbatti-menti delle loro persone terminavano le loro controver-sie de’ regni, alla fortuna de’ quali si assoggettivano i po-poli. Ed ecco che Alba fu la Troia latina, e l’Elenaromana fu Orazia (di che vi ha un’istoria affatto la stessatra greci, ch’è rapportata da Gerardo Giovanni Vossionella Rettorica), e i diece anni dell’assedio di Troia a’greci devon essere i diece anni dell’assedio di Vei a’ lati-ni, cioè un numero finito per un infinito di tutto il tem-po innanzi, che le città avevano esercitato l’ostilità eter-ne tra loro.

Perché la ragione de’ numeri, perciocch’è astrattissi-ma, fu l’ultima ad intendersi dalle nazioni (come in que-sti libri se ne ragiona ad altro proposito): di che, spie-gandosi più la ragione, restò a’ latini «sexcenta» (e cosìappresso gl’italiani prima si disse «cento» e poi «cento emille») per dir un numero innumerabile, perché l’idead’infinito può cader in mente sol de’ filosofi. Quindi èforse che, per dire un gran numero, le prime genti disse-ro «dodeci»: come dodeci gli dèi delle genti maggiori,che Varrone e i greci numerarono trentamila; anco do-deci le fatighe d’Ercole, che dovetter essere innumerabi-

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li; e i latini dissero dodeci le parti dell’asse, che si può ininfinite parti dividere; della qual sorta dovetter esserestate dette le XII Tavole, per l’infinito numero delle leg-gi che furono in tavole, di tempo in tempo, appresso in-tagliate.

Però ne’ tempi della guerra troiana bisogna che, inquella parte di Grecia dove fu fatta, i greci si dicessero«achivi» (ch’innanzi si erano detti «pelasgi», di Pelasgo,uno degli più antichi eroi della Grecia, del quale sopra siè ragionato), e che poi tal nome d’«achivi» si fusse anda-to per tutta Grecia spandendo (che durò fin a’ tempi diLucio Mummio, all’osservare di Plinio), come indi pertutto il tempo appresso restarono detti «elleni». E sì lapropagazione del nome «achivi» vi fece truovare a’ tem-pi di Omero in quella guerra essersi alleata tutta la Gre-cia; appunto come il nome di «Germania», al riferire diTacito, egli ultimamente si sparse per tutta quella granparte di Europa, la quale così rimase appellata dal nomedi coloro che, passato il Reno, indi cacciarono i galli es’incominciarono a dir «germani»; e così la gloria di taipopoli diffuse tal nome per la Germania, come il romo-re della guerra troiana sparse il nome d’«achivi» per tut-ta Grecia. Perché tanto i popoli nella loro prima barba-rie intesero leghe, che nemmeno i popoli d’essi re offesisi curavano prender l’armi per vendicargli, come si è os-servato del principio della guerra troiana.

Dalla qual natura di cose umane civili, e non altronde,si può solvere questo maraviglioso problema: come laSpagna, che fu madre di tante che Cicerone acclama for-tissime e bellicosissime nazioni (e Cesare le sperimentò,che ’n tutte l’altre parti del mondo, che tutte vinse, essocombatté per l’imperio: solamente in Ispagna combattéper la sua salvezza); come, diciamo, al fragor di Sagunto(il quale per otto mesi continui fece sudar Annibale, contutte le fresche intiere forze dell’Affrica, con le quali poi– di quanto scemate e stanche! – poco mancò che, dopo

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la rotta di Canne, non trionfasse di Roma sopra il di leimedesimo Campidoglio) ed allo strepito di Numanzia(la qual fece tremare la romana gloria, ch’aveva già diCartagine trionfato, e pose la mente a partito alla stessavirtù e sapienza di Scipione, trionfatore dell’Affrica); co-me non unì tutti i suoi popoli in lega per istabilire sullerive del Tago l’imperio dell’universo, e diede luogoall’infelice elogio che le fa Lucio Floro: che s’accorsedelle sue forze dopo esser stata tutta per parti vinta? (ETacito nella Vita d’Agricola, avvertendo lo stesso costu-me negl’inghilesi, a’ tempi di quello ferocissimi ritruova-ti, riflette con quest’altra ben intesa espressione: «dumsinguli pugnant, universi vincuntur»). Perché, non tòc-chi, se ne stavano come fiere dentro le tane de’ lor confi-ni, seguitando a celebrare la vita selvaggia e solitaria de’polifemi, la qual sopra si è dimostrata.

Però gli storici, tutti desti dal romore della bellicaeroica navale e da quello tutti storditi, non avvertironoalla bellica eroica terrestre, molto meno alla politicaeroica, con la qual i greci in tali tempi si doveano gover-nare. Ma Tucidide, acutissimo e sappientissimo scritto-re, ce ne lasciò un grande avviso ove narra che le cittàeroiche furono tutte smurate, come restò Sparta in Gre-cia e Numanzia, che fu la Sparta di Spagna; e, posta lalor orgogliosa e violenta natura, gli eroi tuttodì si caccia-vano di sedia l’un l’altro, come Amulio cacciò Numito-re, e Romolo cacciò Amulio e rimise Numitore nel re-gno d’Alba. Tanto le discendenze delle case realieroiche di Grecia ed una continuata di quattordici re la-tini assicurano a’ cronologi la lor ragione de’ tempi! Per-ché nella barbarie ricorsa, quando ella fu più cruda inEuropa, non si legge cosa più incostante e più varia chela fortuna de’ regni, come si avvertì sopra nell’Annota-zioni alla Tavola cronologica. E invero Tacito, avvedutis-simo, lo ci avvisò in quel primo motto degli Annali: «Ur-bem Romam principio reges habuere», usando il verbo

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che significa la più debole spezie delle tre che della pos-sessione fanno i giureconsulti, che sono «habere», «tene-re», «possidere».

Le cose civili celebrate sotto sì fatti regni ci sono nar-rate dalla storia poetica con le tante favole le quali con-tengono contese di canto (presa la voce «canto» di quel«canere» o «cantare» che significa «predire»), e, ’n con-seguenza, contese eroiche d’intorno agli auspìci.

Così Marsia satiro (il quale, «secum ipse discors», è ’lmostro che dice Livio), vinto da Apollo in una contesadi canto, egli vivo è dallo dio scorticato (si veda fierezzadi pene eroiche!); Lino, che dee essere carattere de’ ple-bei (perché certamente l’altro Lino fu egli poeta eroe,ch’è noverato con Anfione, Orfeo, Museo ed altri), inuna simil contesa di canto, è da Apollo ucciso. Ed in en-trambe tali favole le contese sono con Apollo, dio delladivinità o sia della scienza della divinazione, ovveroscienza d’auspìci; e noi il truovammo sopra esser ancodio della nobiltà, perché la scienza degli auspìci, come atante pruove si è dimostrato, era de’ soli nobili.

Le sirene, ch’addormentano i passaggieri col canto edipoi gli scannano; la Sfinge, che propone a’ viandantigli enimmi, che non sappiendo quelli sciogliere, uccide;Circe, che con gl’incantesimi cangia in porci i compagnid’Ulisse (talché «cantare» fu poi presa per «fare dellestregonerie», com’è quello:

... cantando rumpitur anguis:

onde la magia, che ’n Persia dovett’essere dapprima sa-pienza in divinità d’auspìci, restò a significare l’arte de-gli stregoni, ed esse stregonerie restaron dette «incante-simi»): sì fatti passaggieri, viandanti, vagabondi sono glistranieri delle città eroiche ch’abbiam sopra detto, i ple-bei che contendono con gli eroi per riportarne comuni-

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cati gli auspìci, e sono in tali mosse vinti e ne sono cru-delmente puniti.

Della stessa fatta, Pane satiro vuol afferrare Siringa,ninfa, com’abbiam sopra detto, valorosa nel canto, e sitruova aver abbracciato le canne; e, come Pane di Sirin-ga, così Issione, innamorato di Giunone, dea delle nozzesolenni, invece di lei abbraccia una nube. Talché signifi-cano le canne la leggerezza, la nube la vanità de’ matri-moni naturali; onde da tal nube si dissero nati i centauri,cioè a dire i plebei, i quali sono i mostri di discordantinature che dice Livio, i quali a’ lafiti, mentre celebranotra loro le nozze, rapiscono loro le spose. Così Mida (ilquale qui sopra abbiam truovato plebeo) porta nascostel’orecchie d’asino, e le canne ch’afferra Pane (cioè i ma-trimoni naturali) le scuoprono: appunto come i patriziromani appruovano a’ lor plebei ciascun di loro essermostro, perché essi «agitabant connubia more ferarum».

Vulcano (che pur dee essere qui plebeo) si vuol frap-porre in una contesa tra Giove e Giunone, e con un cal-cio da Giove è precipitato dal cielo e restonne zoppo.Questa dev’esser una contesa ch’avesser fatto i plebeiper riportarne dagli eroi comunicati gli auspìci di Giovee i connubi di Giunone, nella qual vinti, ne restaronzoppi, in senso d’«umiliati».

Così Fetonte, della famiglia d’Apollo, e quindi credu-to figliuol del Sole, vuol reggere il carro d’oro del padre(il carro dell’oro poetico, del frumento), e divertisce ol-tre le solite vie (che menavano al granaio del padre disua famiglia: fa la pretensione del dominio de’ campi),ed è precipitato dal cielo.

Ma sopra tutte cade dal cielo il pomo della Discordia(cioè il pomo ch’abbiamo sopra dimostro significare ildominio de’ terreni, perché la prima discordia nacqueper la cagione de’ campi che volevano per sé coltivar iplebei), e Venere (che dev’essere qui plebea) contendecon Giunone de’ connubi e con Minerva degl’imperi.

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Perché, d’intorno al giudizio di Paride, per buona fortu-na, Plutarco nel suo Omero avvertisce che que’ due versiverso il fin dell’Iliade, che ne fan motto, non son d’Ome-ro, ma di mano che venne appresso.

Atalanta, col gittare le poma d’oro, vince i proci nelcorso, appunto com’Ercole lutta con Anteo e, innalzan-dolo in cielo, il vince, come si è sopra spiegato. Atalantarillascia a’ plebei prima il dominio bonitario, dappoi ilquiritario de’ campi, e si riserba i connubi: appunto co-me i patrizi romani, con la prima agraria di Servio Tullioe con la seconda della legge delle XII Tavole, serbaronancor i connubi dentro il lor ordine, in quel capo: «Con-nubia incommunicata plebi sunto», ch’era primaria con-seguenza di quell’altro: «Auspicia incommunicata plebisunto»; onde, di là a tre anni, la plebe ne incominciò afar la pretensione e, dopo tre anni di contesa eroica, gliriportò.

I proci di Penelope invadono la reggia d’Ulisse (perdire il regno degli eroi) e se n’appellano re, se ne divora-no le regie sostanze (s’hanno appropiato il dominio de’campi), pretendono Penelope in moglie (fanno la pre-tension de’ connubi). In altre parti Penelope si mantiencasta e Ulisse appicca i proci, come tordi, alla rete, diquella spezie con la quale Vulcano eroico trasse Vener eMarte plebei (gli annoda a coltivar i campi da giornalierid’Achille, come Coriolano i plebei romani, non contentidell’agraria di Servio Tullio, voleva ridurre a’ giornalieridi Romolo, come sopra si è detto). Quivi ancor Ulissecombatté con Iro, povero, e l’ammazzò (che dev’esserestata contesa agraria, nella qual i plebei si divoravano lesostanze d’Ulisse). In altre parti Penelope si prostituiscea’ proci (communica i connubi alla plebe), e ne nascePane, mostro di due discordanti nature, umana e bestia-le: ch’è appunto il «secum ipse discors» appresso Livio,qual dicevano i patrizi romani a’ plebei che nascerebbechiunque fusse provenuto da essi plebei, comunicati lor

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i connubi de’ nobili, simigliante a Pane, mostro di duediscordanti nature, che partorì Penelope prostituita a’plebei.

Da Pasife, la quale si giace col toro, nasce il minotau-ro, mostro di due nature diverse. Che dev’esser un’isto-ria che dagli eroi cretesi si comunicarono i connubi astranieri che dovettero venir in Creta con la nave la qua-le fu detta «toro», con cui noi sopra spiegammo che Mi-nosse rapiva garzoni e donzelle dall’Attica, e Giove in-nanzi aveva rapito Europa.

A questo genere d’istorie civili è da richiamarsi la fa-vola d’Io. Giove se n’innamora (l’è favorevole con gliauspìci); Giunone n’è gelosa (con la gelosia civile, chenoi sopra spiegammo, di serbare tra gli eroi le nozze so-lenni) e la dà a guardare ad Argo con cento occhi (a’ pa-dri argivi, ognuno col suo luco, con la sua terra colta,come sopra l’interpetrammo); Mercurio (che qui dev’es-sere carattere de’ plebei mercenari), col suono del piffe-ro, o piuttosto col canto, addormenta Argo (vince i pa-dri argivi in contesa d’auspìci, da’ quali si cantavan lesorti nelle nozze solenni), ed Io quivi si cangia, in vacca,che si giace col toro col quale s’era giaciuta Pasife, e vaerrando in Egitto (cioè tra quelli egizi stranieri, co’ qualiDanao aveva cacciato gl’Inachidi dal regno d’Argo).

Ma Ercole, a capo di età, si effemmina e fila sotto icomandi di Iole ed Onfale: va ad assoggettire il dirittoeroico de’ campi a’ plebei, a petto de’ quali gli eroi si di-cevano «viri». Ché tanto a’ latini suona «viri» quanto a’greci significa «eroi», come Virgilio incomincia l’Enei-de, con peso usando tal voce:

Arma virumque cano,

ed Orazio trasporta il primo verso dell’Odissea:

Dic mihi, Musa, virum;

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e «viri» restaron a’ romani per significare mariti solen-ni, maestrati, sacerdoti e giudici, perché nelle aristocra-zie poetiche e nozze ed imperi e sacerdozi e giudizi era-no tutti chiusi dentro gli ordini eroici.

E così fu accomunato il diritto de’ campi eroico a’plebei della Grecia, come fu da’ patrizi romani a’ plebeicomunicato il diritto quiritario per la seconda agraria,combattuta e riportata con la legge delle XII Tavole,qual si è sopra dimostro: appunto come ne’ tempi bar-bari ritornati i beni feudali si dicevano «beni della lan-cia» e i burgensatici si chiamavano «beni del fuso», co-me si ha nelle leggi inghilesi; onde l’arme reale diFrancia (per significare la legge salica, ch’esclude dallasuccessione di quel regno le donne) è sostenuta da dueangioli vestiti di dalmatiche e armati d’aste, e si adornadi questo motto eroico: «Lilia non nent». Talché, comeBaldo, per nostra bella ventura, la legge salica chiamò«ius gentium gallorum», così noi la legge delle XII Tavo-le (per quanto serbava, nel suo rigore, le successioni abintestato dentro i suoi, gli agnati e finalmente i gentili)possiamo chiamare «ius gentium romanarum»; perchéappresso si mostrerà quanto sia vero che ne’ primi tempidi Roma vi fusse stata costumanza onde le figliuole ve-nissero ab intestato alla successione de’ loro padri, e chepoi fusse passata in legge nelle XII Tavole.

Finalmente Ercole esce in furore col tingersi del san-gue di Nesso centauro – appunto il mostro delle plebi didue discordi nature che dice Livio, – cioè tra’ furori civi-li communica i connubi alla plebe e si contamina delsangue plebeo, e ’n tal guisa si muore: qual muore per lalegge Petelia, detta De nexu, l’Ercole romano, il dio Fi-dio. Con la qual legge «vinculum fidei victum est», quan-tunque Livio il rapporti con l’occasione d’un fatto da undiece anni avvenuto dopo, il qual in sostanza è lo stessoche quello il quale aveva dato la cagione alla legge Pete-

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lia, nel quale si dovette eseguire, non ordinare, ciò ch’ècontenuto in tal motto, che dee essere stato di alcunoantico scrittor d’annali, che Livio, con quanta fede conaltrettanta ignorazione, rapporta: perché, col liberarsi iplebei del carcere privato de’ nobili creditori, si costrin-sero pur i debitori con le leggi giudiziarie a pagar i debi-ti; ma fu sciolto il diritto feudale, il diritto del nodo er-culeo, nato dentro i primi asili del mondo, col qualeRomolo dentro il suo aveva Roma fondato. Perciò è for-te congettura che dall’autor degli annali fusse stato scrit-to «vinculum Fidii», «del dio Fidio», che Varrone diceessere stato l’Ercole de’ romani; il qual motto gli altri,che vennero appresso, non intendendo, per errore cre-dettero scritto «fidei». Il qual diritto natural eroico si ètruovato lo stesso tra gli americani, e tuttavia dura nelmondo nostro tra gli abissini nell’Affrica e tra’ moscovi-ti e tartari nell’Europa e nell’Asia; ma fu praticato conpiù mansuetudine tra gli ebrei, appo i quali i debitorinon servivano più che sette anni.

E, per finirla, così Orfeo, finalmente, il fondatore del-la Grecia, con la sua lira o corda o forza, che significanola stessa cosa che ’l nodo d’Ercole (il nodo della leggePetelia), egli è morto ucciso dalle baccanti (dalle plebiinfuriate), le quali gliene fecero andar in pezzi la lira(che, a tante pruove fatte sopra, significava la legge):ond’a tempi d’Omero già gli eroi menavano in moglidonne straniere e i bastardi venivano alle successionireali; lo che dimostra che già la Grecia aveva incomin-ciato a celebrare la libertà popolare.

Per tutto ciò hassi a conchiudere che queste conteseeroiche fecero il nome all’età degli eroi; e che in essemolti capi, vinti e premuti, con quelli delle lor fazioni sifussero dati ad andar errando in mare per ritruovar altreterre; e che altri fussero finalmente ritornati alle loro pa-trie, come Menelao ed Ulisse; altri si fussero fermati interre straniere, come Cecrope, Cadmo, Danao, Pelope

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(perocché tali contese eroiche eran avvenute da moltisecoli innanzi nella Fenicia, nell’Egitto, nella Frigia, sic-come in tali luoghi aveva prima incominciato l’umanità),i quali si fermarono nella Grecia. Come una d’essidev’essere stata Didone, che, da Fenicia fuggendo la fa-zione del cognato, dal qual era perseguitata, si fermò inCartagine, che fu detta «Punica», quasi «Phoenica»; e, ditutt’i troiani, distrutta Troia, Capi si fermò in Capova,Enea approdò nel Lazio, Antenore penetrò in Padova.

In cotal guisa finì la sapienza de’ poeti teologi, o siade’ sappienti o politici dell’età poetica de’ greci, qualifurono Orfeo, Anfione, Lino, Museo ed altri; i quali, colcantare alle plebi greche la forza degli dèi negli auspìci(ch’erano le lodi che tali poeti dovettero cantar deglidèi, cioè quelle della provvedenza divina, ch’appartene-va lor di cantare), tennero esse plebi in ossequio de’ lorordini eroici. Appunto come Appio, nipote del decem-viro, circa il trecento di Roma, com’altra volta si è detto,cantando a’ plebei romani la forza degli dèi negli auspì-ci, de’ quali i nobili dicevano aver la scienza, gli mantie-ne nell’ubbidienza de’ nobili. Appunto come Anfione,cantando sulla lira, de’ sassi semoventi innalza le muradi Tebe, che trecento anni innanzi aveva Cadmo fonda-to, cioè vi conferma lo stato eroico.

7.COROLLARI D’INTORNO ALLE COSE ROMANE

ANTICHE E PARTICOLARMENTE DELSOGNATO REGNO ROMANO MONARCHICO E

DELLA SOGNATA LIBERTÀ POPOLAREORDINATA DA GIUNIO BRUTO.

Queste tante convenienze di cose umane civili tra ro-mani e greci, onde la storia romana antica a tante pruovesi è qui truovata esser una perpetua mitologia istorica ditante, sì varie e diverse favole greche, chiunque ha inten-

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dimento (che non è né memoria né fantasia) pongono innecessità di risolutamente affermare che, da’ tempi deglire infino a’ connubi comunicati alla plebe, il popolo ro-mano (il popolo di Marte) si compose di soli nobili; ech’a tal popolo di nobili il re Tullo, incominciandodall’accusa d’Orazio, permise a’ rei condennati o da’duumviri o da’ questori l’appellagione a tutto l’ordine,quando i soli ordini eran i popoli eroici, e le plebi eranoaccessioni di tali popoli (quali poi le provincie restaronoaccessioni delle nazioni conquistatrici, come l’avvertìben il Grozio); ch’appunto è l’«altro popolo» che chia-mava Telemaco i suoi plebei nell’adunanza che noi quisopra notammo. Onde, con forza d’un’invitta criticametafisica sopra essi autori delle nazioni, si dee scuoterequell’errore: che tal caterva di vilissimi giornalieri, tenu-ti da schiavi, fin dalla morte di Romolo avessero l’elezio-ne degli re, la qual poi fusse appruovata da’ padri. Ilqual dee esser un anacronismo de’ tempi ne’ quali la ple-be aveva già parte nella città e concorreva a criare i con-soli (lo che fu dopo comunicati ad essolei i connubi da’padri), tirato da trecento anni indietro fin all’interregnodi Romolo.

Questa voce «popolo», presa de’ tempi primi delmondo delle città nella significazione de’ tempi ultimi(perché non poterono né filosofi né filologi immaginaretali spezie di severissime aristocrazie), portò di séguitodue altri errori in queste due altre voci: «re» e «libertà»;onde tutti han creduto il regno romano essere stato mo-narchico e la ordinata da Giunio Bruto essere stata li-bertà popolare. Ma Gian Bodino, quantunque entratonel volgare comun errore, nel qual eran entrati innanzitutti gli altri politici, che prima furono le monarchie, ap-presso le tirannidi, quindi le repubbliche popolari e alfi-ne l’aristocrazie (e qui vedasi, ove mancano i veri princì-pi, che contorcimenti si possono fare, e fansi di fatto,d’umane idee!), pure, osservando nella sognata libertà

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popolare romana antica che gli effetti erano di repubbli-ca aristocratica, puntella il suo sistema con quella distin-zione: che ne’ tempi antichi Roma era popolare di Stato,ma che aristocraticamente fussesi governata. Con tuttociò, pur riuscendogli contrari gli effetti e che, anco contal puntello, la sua macchina politica pur crollava, co-stretto finalmente dalla forza del vero, con brutta inco-stanza confessa ne’ tempi antichi la repubblica romanaessere stata di Stato, nonché governo, aristocratica.

Tutto ciò vien confermato da Tito Livio, il quale, innarrando l’ordinamento fatto da Giunio Bruto de’ dueconsoli annali, dice apertamente e professa non essersidi nulla affatto mutato lo Stato (come dovette da sap-piente far Bruto, di richiamare da tal corrottella a’ suoiprincìpi lo Stato), e coi due consoli annali «nihil quic-quam de regia potestate deminutum»: tanto che vennero iconsoli ad essere due re aristocratici annali, quali Cice-rone nelle Leggi gli appella «reges annuos» (com’eran avita quelli di Sparta, repubblica senza dubbio aristocra-tica); i quali consoli, com’ognun sa, erano soggettiall’appellagione durante esso loro regno (siccome gli respartani erano soggetti all’emenda degli efori), e, finito ilregno annale, erano soggetti all’accuse (conforme gli respartani erano fatti morire dagli efori). Per lo qual luogodi Livio ad un colpo si dimostra e che ’l regno romanofu aristocratico e che la ordinata da Bruto ella fu libertà,non già popolare, cioè del popolo da’ signori, ma signo-rile, cioè de’ signori da’ tiranni Tarquini. Lo che certa-mente Bruto non arebbe potuto fare, se non gli si offeri-va il fatto di Lugrezia romana, ch’esso saggiamenteafferrò; la qual occasione era vestita di tutte le circostan-ze sublimi per commuovere la plebe contro il tirannoTarquinio, il qual aveva fatto tanto mal governo dellanobiltà, ch’a Bruto fu d’uopo di riempier il senato, giàesausto per tanti senatori fatti morir dal Superbo. Nelloche conseguì, con saggio consiglio, due pubbliche uti-

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lità: e rinforzò l’ordine de’ nobili già cadente, e si con-servò il favor della plebe; perché del corpo di quella do-vette scegliere moltissimi, e forse gli più feroci, ch’areb-bon ostato a riordinarsi la signoria, e gli fece entrarenell’ordine de’ nobili, e così compose la città, la qual eraa que’ tempi tutta divisa «inter patres et plebem».

Se ’l precorso di tante, sì varie e diverse cagioni,quante si sono qui meditate fin dall’età di Saturno; se ’lséguito di tanti, sì vari e diversi effetti della repubblicaromana antica, i quali osserva il Bodino; e se la perpe-tuità o continuazione con cui quelle cagioni influisconoin questi effetti, la quale considera Livio, non sono vale-voli a stabilire che ’l regno romano fu aristocratico e chela ordinata da Bruto fu la libertà de’ signori (e ciò per at-tenersi alla sola autorità), bisogna dire ch’i romani, gen-te barbara e rozza, avesser avuto il privilegio da Dio, chenon poteron aver essi greci, gente acuta umanissima, iquali, al narrar di Tucidide, non seppero nulla dell’anti-chità loro propie fin alla guerra peloponnesiaca, che fu iltempo più luminoso di Grecia, come osservammo sopranella Tavola cronologica: ove dimostrammo il medesimode’ romani fin dentro alla seconda guerra cartaginese,dalla quale Livio professa scrivere la romana storia conpiù certezza, e pur apertamente confessa di non sapernetre circostanze, che sono le più considerabili nella storia,le qual’ivi si sono ancor osservate. Ma, con tutto che siconceda tal privilegio a’ romani, pure resterà di ciòun’oscura memoria, una confusa fantasia; e pertanto lamente non potrà rinniegare i raziocinî che si son fatti so-pra tai cose romane antiche.

8.COROLLARIO D’INTORNO ALL’EROISMO DE’

PRIMI POPOLI.

Ma l’età eroica del primo mondo di cui trattiamo ci

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tragge con dura necessità a ragionare dell’eroismo de’primi popoli. Il quale, per le Degnità che se ne sono so-pra proposte e qui hanno il lor uso, e per gli princìpi quistabiliti della politica eroica, fu di gran lunga diverso daquello che, ’n conseguenza della sapienza innarrivabiledegli antichi, è stato finor immaginato da’ filosofi, in-gannati da’ filologi, in quelle tre voci non diffinite lequali sopra abbiam avvertito: «popolo», «re» e «li-bertà»; avendo preso i popoli eroici – ne’ quali fusseroanco entrati i plebei, preso gli re, monarchi e preso la li-bertà popolare; ed al contrario, applicandovi tre lor ideedi menti ingentilite ed addottrinate – una di giustizia ra-gionata con massime di morale socratica, l’altra di gloria(ch’è fama di benefizi fatti inverso il gener umano) e laterza di disiderio d’immortalità: – laonde su questi treerrori e con queste tre idee han creduto che re o altrigrandi personaggi de’ tempi antichi avessero consagratoe sé e le loro famiglie, nonché gl’intieri patrimoni e so-stanze, per far felici i miseri, che sono sempre gli piùnelle città e nelle nazioni.

Però di Achille, ch’è ’l massimo de’ greci eroi, Omeroci narra tre propietà dello ’n tutto contrarie a cotali treidee de’ filosofi. E, d’intorno alla giustizia, egli ad Ettor-re, che con esso vuol patteggiare la seppoltura senell’abbattimento l’uccida, nulla riflettendo all’egualitàdel grado, nulla alla sorte comune (le quali due conside-razioni naturalmente inducono gli uomini a riconoscergiustizia), feroce risponde: – Quando mai gli uominipatteggiarono co’ lioni, o i lupi e l’agnelle ebberouniformità di voleri? – Anzi: – Se t’avrò ucciso, ti stra-scinerò nudo, legato al mio cocchio, per tre giorni d’in-torno alle mura di Troia – siccome fece, – e finalmente tidarò a mangiare a’ miei cani da caccia; – lo che arebbepur fatto, se l’infelice padre Priamo non fusse venuto daessolui a riscattarne il cadavere. D’intorno alla gloria,egli per un privato dolore (perocché Agamennone gli

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aveva tolto a torto la sua Briseide) se ne richiama offesocon gli uomini e con gli dèi; e fanne querela a Gioved’essere riposto in onore, ritira dall’esercito alleato lesue genti e dalla comune armata le propie navi, e soffrech’Ettorre faccia scempio della Grecia, e, contro il det-tame della pietà che si deve alla patria, si ostina di vendi-care una privata sua offesa con la rovina di tutta la suanazione; anzi non si vergogna di rallegrarsi con Patroclodelle straggi ch’Ettorre fa de’ suoi greci, e col medesimo(ch’è molto più), colui che portava ne’ suoi talloni i fatidi Troia, fa quello indegnissimo voto: che ’n quella guer-ra morissero tutti, e troiani e greci, ed essi due soli ne ri-manessero vivi. D’intorno alla terza, egli nell’inferno,domandato da Ulisse come vi stava volentieri, rispondeche vorrebbe più tosto, vivo, essere un vilissimo schiavo.Ecco l’eroe che Omero con l’aggiunto perpetuo d’«irre-prensibile» canta a’ greci popoli in esemplo dell’eroicavirtù! Il qual aggiunto, acciocché Omero faccia profittocon l’insegnar dilettando (lo che debbon far i poeti),non si può altrimente intendere che per un uomo orgo-glioso, il qual or direbbesi che non si faccia passare lamosca per innanzi alla punta del naso; e sì predica lavirtù puntigliosa, nella quale a’ tempi barbari ritornatitutta la loro morale riponevano i duellisti, dalla qualeuscirono le leggi superbe, gli ufizi altieri e le soddisfazio-ni vendicative de’ cavalieri erranti che cantano i roman-zieri.

Allo ’ncontro si rifletta al giuramento, che dice Ari-stotile, che giuravano gli eroi d’esser eterni nimici allaplebe. Si rifletta quindi sulla storia romana nel tempodella romana virtù, che Livio determina ne’ tempi dellaguerra con Pirro, a cui acclama con quel motto: «nullaætas virtutum feracior», e noi (con Sallustio, apposant’Agostino, De civitate Dei) stendiamo dalla cacciatadegli re fin alla seconda guerra cartaginese. Bruto checonsagra con due suoi figliuoli la sua casa alla libertà;

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Scevola che, col punire del fuoco la sua destra, la qualenon seppe ucciderlo, atterrisce e fuga Porsena, re de’ to-scani; Manlio detto «l’imperioso» che, per un felice pec-cato di militar disciplina, istigatogli da stimoli di valor edi gloria, fa mozzare la testa al suo figliuolo vittorioso; iCurzi che si gittano armati a cavallo nella fossa fatale; iDeci, padre e figliuolo, che si consagrano per la salvezzade’ lor eserciti; i Fabrizi, i Curi, che rifiutano le somed’oro da’ sanniti, le parti offerte de’ regni da Pirro; gliAttili Regoli che vanno a certa crudelissima morte inCartagine per serbare la santità romana de’ giuramenti:che pro fecero alla misera ed infelice plebe romana? cheper più angariarla nelle guerre, per più profondamentesommergerla in mar d’usure, per più a fondo seppellirlanelle private prigioni de’ nobili, ove gli battevano con lebacchette a spalle nude a guisa di vilissimi schiavi? e chivoleva di un poco sollevarla con una qualche legge fru-mentaria o agraria, da quest’ordine di eroi, nel tempo diessa romana virtù, egli era accusato e morto come rubel-lo. Qual avvenne, per tacer d’altri, a Manlio Capitolino,che aveva serbato il Campidoglio dall’incendio degl’im-manissimi galli senoni; qual in Isparta (la città degli eroidi Grecia, come Roma lo fu degli eroi del mondo) il ma-gnanimo re Agide, perché aveva attentato di sgravare lapovera plebe di Lacedemone, oppressa dall’usure de’nobili, con una legge di conto nuovo, e di sollevarla conun’altra testamentaria, come altra volta si è detto, funnefatto strozzare dagli efori: onde, come il valoroso Agidefu il Manlio Capitolino di Sparta, così Manlio Capitoli-no fu l’Agide di Roma, che, per lo solo sospetto di sov-venir alquanto alla povera oppressa plebe romana, fufatto precipitare giù dal monte Tarpeo. Talché per que-st’istesso ch’i nobili de’ primi popoli si tenevano pereroi, ovvero di superior natura a quella de’ lor plebei,come appieno sopra si è dimostrato, facevano tanto mal-governo della povera moltitudine delle nazioni. Perché

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certamente la storia romana sbalordisce qualunque scor-tissimo leggitore, che la combini sopra questi rapporti:che romana virtù dove fu tanta superbia? che modera-zione dove tanta avarizia? che mansuetudine dove tantafierezza? che giustizia dove tanta inegualità?

Laonde i princìpi, i quali possono soddisfare una sìgran maraviglia, debbono necessariamente esser questi:

I

Sia, in séguito di quella ferina che sopra si ragionò de’giganti, l’educazion de’ fanciulli severa, aspra, crudele,quale fu quella degl’illiterati lacedemoni, che furono glieroi della Grecia, i quali nel templo di Diana battevano iloro figliuoli fin all’anima, talché cadevano sovente mor-ti, convulsi dal dolore, sotto le bacchette de’ padri, ac-ciocché s’avvezzassero a non temere dolori e morte; e nerestarono tal’imperi paterni ciclopici così a’ greci comea’ romani, co’ quali permettevano uccidersi gl’innocentibambini di fresco nati. Perché le delizie, ch’or facciamode’ nostri figliuoli fanciulli, fanno oggi tutta la dilicatez-za delle nostre nature.

II

Si comperino con le doti eroiche le mogli, le quali re-starono poscia per solennità a’ sacerdoti romani, i qualicontraevano le nozze «coëmptione et farre» (che fu an-che, al narrar di Tacito, costume degli antichi germani, iquali ci danno luogo di stimare lo stesso di tutti i primipopoli barbari); e le mogli si tengano, come per una ne-cessità di natura, in uso di far figliuoli: del rimanente, sitrattino come schiave, conforme in molte parti del no-stro e quasi universalmente nel mondo nuovo è costumedi nazioni: quando le doti sono compere che fan le don-ne della libertà da’ mariti e pubbliche confessioni ch’i

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mariti non bastano a sostenere i pesi del matrimonio,onde sono forse i tanti privilegi co’ quali gl’imperatorihan favorito le doti.

III

I figliuoli acquistino, le mogli risparmino per gli loromariti e padri: non, come si fa oggi, tutto a rovescio.

IV

I giuochi e i piaceri sien faticosi, come lutta, corso(onde Omero dà ad Achille l’aggiunto perpetuo di «pièveloce»); sieno ancor con pericolo, come giostre, caccedi fiere, onde s’avvezzino a fermare le forze e l’animo e astrappazzare e disprezzare la vita.

V

Non s’intendano affatto lussi, lautezze ed agi.

VI

Le guerre, come l’eroiche antiche, sieno tutte di reli-gione, la quale, per la ragione ch’abbiamo preso per pri-mo principio di questa scienza, le rende tutte atrocissi-me.

VII

Si celebrino le schiavitù pur eroiche, che van di ségui-to a tali guerre, nelle quali i vinti si tengano per uominisenza Dio, onde con la civile si perda ancora la naturallibertà. E qui abbia uso quella Degnità sopra posta: che«la libertà naturale ella è più feroce ov’i beni sono più a’

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nostri corpi attaccati, e la civil servitù s’inceppa co’ benidi fortuna non necessari alla vita».

[VIII]

Per tutto ciò sieno, le repubbliche, aristocratiche pernatura o sia di naturalmente fortissimi, che schiudano a’pochi padri nobili tutti gli onori civili; e ’l ben pubblicosieno monarchie famigliari conservate lor dalla patria;che sarebbe la vera patria, com’abbiamo più volte detto,interesse di pochi padri, per lo quale sieno i cittadini na-turalmente patrizi. E con tali nature, tali costumi, tali re-pubbliche, tali ordini e tali leggi si celebrerà l’eroismode’ primi popoli, il quale, per le cagioni a queste che sisono noverate tutte contrarie (che dappoi produsserol’altre due spezie degli Stati civili, che sopra pruovammoesser entrambi umani, cioè le repubbliche libere popola-ri e, più che queste, le monarchie), egli è ora per civil na-tura impossibile. Perché per tutto il tempo della romanalibertà popolare fa romor d’eroe il solo Catone uticese, elasciò tal romore per uno spirito di repubblica aristocra-tica: che, caduto Pompeo e rimasto esso capoparte dellanobiltà, per non poter sofferire di vederla umiliata a Ce-sare, si ammazzò. Nelle monarchie gli eroi son coloroche si consagrano per la gloria e grandezza de’ lor sovra-ni. Ond’ha a conchiudersi ch’un tal eroe i popoli afflittiil disiderano, i filosofi il ragionano, i poeti l’immagina-no; ma la natura civile, come n’abbiamo una Degnità,non porta tal sorta di benefizi.

Tutte le quali cose qui ragionate dell’eroismo de’ pri-mi popoli ricevono lustro e splendore dalle Degnità so-pra poste d’intorno all’eroismo romano, le quali si truo-veranno comuni all’eroismo degli antichi ateniesi neltempo che, come narra Tucidide, furono governati da’severissimi areopagiti (che, come abbiam veduto, fu unsenato aristocratico), ed all’eroismo degli spartani, che

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furono repubblica di Eraclidi o di signori, come a millepruove sopra si è dimostrato.

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VIREPILOGAMENTI DELLA STORIA POETICA.

I

Tutta quest’istoria divina ed eroica de’ poeti teologicon troppo d’infelicità ci fu nella favola di Cadmo de-scritta. Egli uccide la gran serpe (sbosca la gran selva an-tica della terra); ne semina i denti (con bella metafora,come sopra si è detto, con curvi legni duri) – ch’innanzidi truovarsi l’uso del ferro dovettero servire per dentide’ primi aratri, che «denti» ne restarono detti – egli arai primi campi del mondo; gitta una gran pietra (ch’è laterra dura, che volevano per sé arare i clienti ovvero fa-moli, come si è sopra spiegato); nascono da’ solchi uo-mini armati (per la contesa eroica della prima agrariach’abbiamo detto, gli eroi escono da’ loro fondi, per di-re ch’essi sono signori de’ fondi, e si uniscono armaticontro le plebi, e combattono, non già tra di loro, ma co’clienti ammutinati contro essoloro; e coi solchi sono si-gnificati essi ordini, ne’ quali s’uniscono e co’ quali for-mano e fermano le prime città sulla pianta dell’armi, co-me tutto si è detto sopra); e Cadmo si cangia in serpe (ene nasce l’autorità de’ senati aristocratici, che gli anti-chissimi latini arebbono detto: «Cadmus fundus factusest», e i greci dissero Cadmo cangiato in Dragone, chescrive le leggi col sangue). Lo che tutto è quello che noisopra promettemmo di far vedere: – che la favola diCadmo conteneva più secoli di storia poetica, – ed è ungrand’esemplo dell’infanzia, onde la fanciullezza delmondo travagliava a spiegarsi; che, degli sette ch’ap-presso novereremo, è un gran fonte della difficultà dellefavole. Tanto felicemente seppe Cadmo lasciare scrittacotal istoria con le sue lettere volgari, ch’esso aveva a’

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greci dalla Fenicia portato! E Desiderio Erasmo, conmille inezie, indegne dell’uomo eruditissimo che fu det-to il «Varron cristiano», vuol che contenga la storia del-le lettere ritruovate da Cadmo. Così la chiarissima isto-ria d’un tanto benefizio d’aver ritruovato le lettere allenazioni, che per se stessa doveva esser romorosissima,Cadmo nasconde al gener umano di Grecia dentro l’in-viluppo di cotal favola, ch’è stata oscura fin a’ tempi diErasmo, per tener arcano al volgo uno sì grande ritruo-vato di volgare sapienza, che da esso «volgo» tali letterefuron dette «volgari».

II

Ma con maravigliosa brevità ed acconcezza narraOmero questa medesima istoria, tutta ristretta nel gero-glifico dello scettro lasciato ad Agamennone. Il qualeVulcano fabbricò a Giove (perché Giove, co’ primi ful-mini dopo il diluvio, fondossi il regno sopra gli dèi e gliuomini, che furon i regni divini, nello stato delle fami-glie); – poi Giove il diede a Mercurio (che fu il caduceo,con cui Mercurio portò la prima legge agraria alle plebi,onde nacquero i regni eroici delle prime città); – poiMercurio il diede a Pelope, Pelope a Tieste, Tieste adAtreo, Atreo ad Agamennone (ch’è tutta la successionedella casa reale d’Argo).

III

Però più piena e spiegata è la storia del mondo, che ’lmedesimo Omero ci narra essere stata descritta nelloscudo d’Achille.

I. Nel principio vi si vedeva il cielo, la terra, il mare, ilsole, la luna, le stelle: – questa è l’epoca della criazionedel mondo.

II. Dipoi due città. In una erano canti, imenei e noz-

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ze: questa è l’epoca delle famiglie eroiche de’ figliuolinati dalle nozze solenni. Nell’altra non si vedeva niunadi queste cose: questa è l’epoca delle famiglie eroichede’ famoli, i quali non contraevano che matrimoni natu-rali, senza niuna solennità di quelle con le quali si con-traevano le nozze eroiche. Sicché entrambe queste cittàrappresentavano lo stato di natura, o sia quello delle fa-miglie; ed eran appunto le due città, ch’Eumeo, castaldod’Ulisse, racconta ch’erano nella sua padria, entramberette da suo padre, nelle qual’i cittadini avevano divisa-mente tutte le loro cose divise (cioè che non avevanoniuna parte di cittadinanza tra essoloro comune). Ondela città senza imenei è appunto l’«altro popolo» che Te-lemaco in adunanza chiama la plebe d’Itaca; ed Achille,lamentandosi dell’oltraggio fattogli da Agamennone, di-ce che l’aveva trattato da un giornaliere, che non avevaniuna parte al governo.

III. Appresso, in questa medesima città delle nozze, sivedevano parlamenti, leggi, giudizi, pene. Appunto co-me i patrizi romani nelle contese eroiche replicavano al-la plebe che e le nozze e gl’imperi e i sacerdozi, de’ qua-li ultimi era dipendenza la scienza delle leggi, e, conqueste, i giudizi, erano tutte ragioni loro propie,perch’erano loro propi gli auspìci, che facevano la mag-gior solennità delle nozze: onde «viri» (che tanto appo ilatini suonava quanto «eroi» appo i greci) se ne dissero imariti solenni, i maestrati, i sacerdoti e per ultimo i giu-dici, come altra volta sopra si è detto. Sicché questa èl’epoca delle città eroiche, che sopra le famiglie de’ fa-moli sursero di stato severissimo aristocratico.

IV. L’altra città è assediata con armi, e, a vicenda conla prima, menano prede l’una dall’altra; e quivi la cittàsenza nozze (ch’erano le plebi delle città eroiche) diven-ta un’altra intiera città nimica. Il qual luogo a maravigliaconferma ciò che sopra abbiam ragionato: che i primistranieri, i primi «hostes» furono le plebi de’ popoli

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eroici, contro le quali, come n’abbiamo più volte uditoAristotile, gli eroi giuravano d’esser eterni nimici; ondepoi l’intiere città, perché tra loro straniere, co’ ladronec-ci eroici, esercitavano eterne ostilità tra di loro, come so-pra si è ragionato.

V. E finalmente vi si vedeva descritta la storia dell’artidell’umanità, dandole incominciamento dall’epoca dellefamiglie; perché, prima di ogni altra cosa, vi si vedeva ilpadre re, che con lo scettro comanda il bue arrosto divi-dersi a’ mietitori; dappoi vi si vedevano piantate vigne;appresso, armenti, pastori e tuguri; e in fine di tuttov’erano descritte le danze. La qual immagine, con trop-po bello e vero ordine di cose umane, sponeva ritruova-te prima l’arti del necessario: la villereccia, e prima delpane, dipoi del vino; appresso, quelle dell’utile: la pasto-reccia; quindi quelle del comodo: l’architettura urbana;finalmente quelle del piacere: le danze.

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VIIFISICA POETICA.

1.DELLA FISICA POETICA.

Passando ora all’altro ramo del tronco metafisicopoetico, per lo quale la sapienza poetica si dirama nellafisica e quindi nella cosmografia e, per questa,nell’astronomia, di cui son frutte la cronologia e la geo-grafia, diamo, a quest’altra parte che resta di ragiona-mento, principio dalla fisica.

I poeti teologi considerarono la fisica del mondo dellenazioni; e perciò primieramente diffinirono il Cao essereconfusione de’ semi umani, nello stato dell’infame co-munione delle donne: dal quale poi i fisici furono desti apensare alla confusione de’ semi universali della natura,e, a spiegarla, n’ebbero da’ poeti già ritruovato e quindiacconcio il vocabolo. Egli era confuso, perché non vi eraniun ordine d’umanità; era oscuro, perché privo dellaluce civile (onde «incliti» furon detti gli eroi). L’immagi-narono ancora l’Orco, un mostro informe che divorasse-si tutto, perché gli uomini nell’infame comunione nonavevano propie forme d’uomini, ed eran assorti dal nul-la, perché per l’incertezza delle proli non lasciavano disé nulla: questo poi da’ fisici fu preso per la prima mate-ria delle naturali cose, che, informe, è ingorda di forme esi divora tutte le forme. Ma i poeti gli diedero anco laforma mostruosa di Pane, dio selvaggio ch’è nume ditutti i satiri, che non abitano le città ma le selve; caratte-re al quale riducevano gli empi vagabondi per la granselva della terra, ch’avevano aspetto d’uomini e costumidi bestie nefande: che poi, con allegorie sforzate ch’os-serveremo più appresso, i filosofi, ingannati dalla voce

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pãn, che significa «tutto», l’appresero per l’universo for-mato. Han creduto ancor i dotti ch’i poeti avesser intesola prima materia con la favola di Proteo, con cui, immer-so nell’acque, Ulisse da fuori l’acqua lutta in Egitto, népuò afferrarlo, perché sempre in nuove forme si cangia.Ma tal loro sublimità di dottrina fu una gran goffagginee semplicità de’ primi uomini, i quali (come i fanciulli,quando si guardano negli specchi, vogliono afferrare lelor immagini) dalle varie modificazioni de’ lor atti esembianti credevano esser un uomo nell’acqua, che can-giassesi in varie forme.

Finalmente fulminò il cielo, e Giove diede principioal mondo degli uomini dal poner questi in conato, ch’èpropio della libertà della mente, siccome dal moto, ilqual è propio de’ corpi, che son agenti necessari, comin-ciò il mondo della natura; perocché que’, che ne’ corpisembran esser conati, sono moti insensibili, come si èdetto sopra nel Metodo. Da tal conato uscì la luce civile,di cui è carattere Apollo, alla cui luce si distinse la civilebellezza onde furono belli gli eroi; della quale fu caratte-re Venere, che poi fu presa da’ fisici per la bellezza dellanatura, anzi per tutta la natura formata, la qual è bella eadorna di tutte le sensibili forme.

Uscì il mondo de’ poeti teologi da quattro elementisagri: dall’aria, dove fulmina Giove, dall’acqua dellefonti perenni, di cui è nume Diana; dal fuoco, onde Vul-cano accese le selve; e dalla terra colta, ch’è Cibele o Be-recintia. Che tutti e quattro sono gli elementi delle divi-ne cerimonie: cioè auspìci, acqua, fuoco e farro, cheguarda Vesta, che, come si è detto sopra, è la stessa cheCibele o Berecintia, la quale delle terre colte afforzate disiepi, con le ville poste in alto in figura di torri (onde a’latini è «extorris», quasi «exterris»), ella va Coronata;con la qual corona si chiude quello che ci restò detto«orbis terrarum», ch’è propiamente il mondo degli uo-mini. Quindi poi i fisici ebbero il motivo di meditare ne’

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quattro elementi de’ quali è composto il mondo dellanatura.

Gli stessi poeti teologi e agli elementi e alle indi usciteinnumerabili speziali nature diedero forme viventi e sen-sibili, ed alla maggior parte umane, e ne finsero tante e sìvarie divinità, come abbiamo ragionato sopra nella Me-tafisica; onde riuscì acconcio a Platone d’intrudervi ilplacito delle sue «menti» o «intelligenze»: che Giovefusse la mente dell’etere, Vulcano del fuoco, e altri so-miglianti. Ma i poeti teologi tanto intesero tal’intelligen-ti sostanze, che fin ad Omero non s’intendeva essa men-te umana, in quanto, per forza di riflessione, resiste alsenso; di che vi sono due luoghi d’oro nell’Odissea, dovevien detta o «forza sagra» o «vigor occulto», che son lostesso.

2.DELLA FISICA POETICA INTORNO ALL’UOMO

O SIA DELLA NATURA EROICA.

Ma la maggior e più importante parte della fisica è lacontemplazione della natura dell’uomo. Come gli autoridel gener umano gentilesco s’abbiano essi in un certomodo generato e produtto la propia lor forma umanaper entrambe le di lei parti, cioè con le spaventose reli-gioni e coi terribili imperi paterni; e con le sagre lavandeessi edussero da’ loro corpi giganteschi la forma dellenostre giuste corporature, e con la stessa disciplina ico-nomica eglino, da’ lor animi bestiali, edussero la formade’ nostri animi umani: tutto ciò sopra, nell’Iconomicapoetica, si è ragionato, e questo è luogo propio da quidoversi ripetere.

Or i poeti teologi, con aspetto di rozzissima fisica,guardarono nell’uomo queste due metafisiche idee: d’es-sere e di sossistere. Certamente gli eroi latini sentironol’«essere», assai grossolanamente, con esso «mangiare»,

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che dovett’esser il primo significato di «sum», che poi si-gnificò l’uno e l’altro; conforme anch’oggi i nostri conta-dini, per dire che l’ammalato vive, dicono ch’«ancormangia»: perché «sum» in significato d’«essere» egli èastrattissimo, che trascende tutti gli esseri; scorrevolissi-mo, che per tutti gli esseri penetra; purissimo, che daniun essere è circoscritto. Sentirono la «sostanza», chevuol dire «cosa che sta sotto e sostiene» star ne’ talloni,perocché sulle piante de’ piedi l’uomo sussiste;ond’Achille portava i suoi fati sotto il tallone, perché ivistasse il suo fato, o sia la sorte del vivere e del morire.

La compagine del corpo riducevano a’ solidi e liquidi.I solidi richiamavano a viscere o sieno carni (come appoi romani si disse «visceratio» la divisione che da’ sacer-doti si faceva al popolo delle carni delle vittime sagrifi-cate), talché «vesci» intesero «nudrirsi», quando del ci-bo si faccia carne; – ad ossa e giunture, che si dicono«artus» (ov’è da osservare che «artus» è detto da «ars»,ch’agli antichi latini significò la «forza del corpo», ond’è«artitus», «atante della persona»: poi fu detta «ars» ognicompagine di precetti che ferma qualche facultà dellamente); – a’ nervi, che, quando, mutoli, parlavan percorpi, presero per le forze (da un qual nervo, detto «fi-des», in senso di «corda», fu detta «fede» la «forza deglidèi», del qual nervo o corda o forza poi fecero il liutod’Orfeo), e con giusto senso riposero ne’ nervi le forze,poiché questi tendono i muscoli, che bisognano tendersiper far forza; – e finalmente a midolle, e nelle midolle ri-posero, con senso ancor giusto, il fior fior della vita (on-de «medulla» era detta dall’innamorato l’amata donna, e«medullitus» ciò che diciamo «di tutto cuore», e amore,ov’è grande, si dice «bruciar le midolla»). I liquidi ridu-cevano al solo sangue, perciocché la sostanza nervea ospermale pur chiamavano «sangue» (come la frase poe-tica lo ci dimostra: «sanguine cretus» per «generato»), econ giusto senso ancora, perché tal sostanza è ’l fior fio-

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re del sangue. E, pure con senso giusto, stimarono ilsangue sugo delle fibre delle quali si compone la carne;onde restò a’ latini «succiplenus» per dir «carnuto», «in-suppato di buono sangue».

Per altra parte poi dell’anima, i poeti teologi la ripo-sero nell’aria (che «anima» pur da’ latini vien detta), e lastimarono il veicolo della vita (come restò a’ latini lapropietà della frase «anima vivimus», e a’ poeti quellefrasi: «ferri ad vitales auras», «nascere»; «ducere vitalesauras», «vivere»; «vitam referri in auras», «morire»; e involgar latino restarono «animam ducere» per «vivere»,«animam trahere» per «agonizzare», «animam efflare,emittere» per «morire»); onde forse i fisici ebbero il mo-tivo di riporre l’anima del mondo nell’aria. E i poeti teo-logi, con giusto senso ancora, mettevano il corso dellavita nel corso del sangue, nel cui giusto moto consiste lanostra vita.

Dovetter, ancora con giusto senso, sentir che l’animo’l veicolo sia del senso, perché restò a’ latini la propietàdell’espressione «animo sentimus». E, con giusto sensoaltresì, fecero l’animo maschio, femmina l’anima, perchél’animo operi nell’anima (ch’è l’«igneus vigor» che diceVirgilio); talché l’animo debba avere il suo subbietto neinervi e nella sostanza nervea, e l’anima nelle vene e nelsangue: e così i veicoli sieno, dell’animo, l’etere e,dell’anima, l’aere, con quella proporzione con la qualegli spiriti animali son mobilissimi, alquanto tardi i vitali.E, come l’anima è la ministra del moto, così l’animo siadel conato, e ’n conseguenza il principio; ch’è l’«igneusvigor» che testé ci ha detto Virgilio. E i poeti teologi ilsentivano e non intendevano, e appresso Omero il disse-ro «forza sagra» e «vigor occulto» e un «dio sconosciu-to»; come i greci e i latini, quando dicevano o facevanocosa di che sentivano in sé un principio superiore, dice-vano che un qualche dio avesse sì fatta cosa voluto: ilqual principio fu da’ medesimi latini detta «mens ani-

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mi». E sì, rozzamente, intesero quell’altissima verità, chepoi la teologia naturale de’ metafisici, in forza d’invittiraziocinî contro gli epicurei, che le vogliono esser risaltide’ corpi, dimostra che l’idee vengono all’uomo da Dio.

Intesero la generazione con una guisa che non sappia-mo se più propia n’abbiano potuto appresso giammai ri-truovar i dotti. La guisa tutta si contiene in questa voce«concipere», detta quasi «concapere», che spiega l’eserci-zio che celebrano della loro natura le forme fisiche(ch’ora si dee supplire con la gravità dell’aria, dimostra-ta ne’ tempi nostri), di prendere d’ogn’intorno i corpiloro vicini, e vincere la lor resistenza, e adagiargli econformargli alla loro forma.

La corrozione spiegarono troppo sappientemente conla voce «corrumpi», che significa il rompimento di tuttele parti che compongono il corpo; per l’opposto di «sa-num», perché la vita consista in tutte le parti sane: tantoche dovettero stimare i morbi portar la morte col guastode’ solidi.

Riducevano tutte le funzioni interne dell’animo a treparti del corpo: al capo, al petto, al cuore. E dal capo ri-chiamavano tutte le cognizioni; che perciocch’erano tut-te fantastiche, collocarono nel capo la memoria, la qualeda’ latini fu detta per «fantasia». E a’ tempi barbari ri-tornati fu detta «fantasia» per «ingegno», e, ’n vece didir «uomo d’ingegno», dicevan «uomo fantastico»; qualnarra essere stato Cola di Rienzo l’autore dello stessotempo, il qual in barbaro italiano ne descrisse la vita, laqual contiene nature e costumi somigliantissimi a que-st’eroici antichi che ragioniamo: ch’è un grande argo-mento del ricorso che, ’n nature e costumi, fanno le na-zioni. Ma la fantasia altro non è che risalto direminiscenze, e l’ingegno altro non è che lavoro d’intor-no a cose che si ricordano. Ora, perché la mente umanade’ tempi che ragioniamo non era assottigliata da ve-run’arte di scrivere, non spiritualezzata da alcuna prati-

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ca di conto e ragione, non fatta astrattiva da tanti voca-boli astratti di quanti or abbondan le lingue, come si èdetto sopra nel Metodo, ella esercitava tutta la sua forzain queste tre bellissime facultà, che le provengon dalcorpo; e tutte e tre appartengono alla prima operaziondella mente, la cui arte regolatrice è la topica, siccomel’arte regolatrice della seconda è la critica; e, come que-sta è arte di giudicare, così quella è arte di ritruovare,conforme si è sopra detto negli Ultimi corollari della Lo-gica poetica. E, come naturalmente prima è ’l ritruovare,poi il giudicar delle cose, così conveniva alla fanciullezzadel mondo di esercitarsi d’intorno alla prima operaziondella mente umana, quando il mondo aveva di bisognodi tutti i ritruovati per le necessità ed utilità della vita, lequali tutte si erano provvedute innanzi di venir i filosofi,come più pienamente il dimostreremo nella Discovertadel vero Omero. Quindi a ragione i poeti teologi disserola Memoria esser «madre delle muse», le quali sopra sisono truovate essere l’arti dell’umanità.

È, in questa parte, da punto non trallasciare quest’im-portante osservazione, che molto rileva per quello chenel Metodo si è sopra detto: ch’or intender appena sipuò, affatto immaginar non si può come pensassero iprimi uomini che fondarono l’umanità gentilesca,ch’erano di menti così singolari e precise, ch’ad ogninuov’aria di faccia ne stimavano un’altra nuova, com’ab-biam osservato nella favola di Proteo; ad ogni nuovapassione stimavano un altro cuore, un altro petto, un al-tr’animo: onde sono quelle frasi poetiche, usate, non giàper necessità di misure, ma per tal natura di cose umane,quali sono «ora», «vultus», «animi», «pectora», «corda»,prese per gli numeri loro del meno.

Fecero il petto stanza di tutte le passioni, a cui congiusti sensi ne sottoposero i due fomenti o princìpi: cioèl’irascibile nello stomaco, perocché ivi, per superare ilmal che ci preme, ci si faccia sentire la bile contenuta ne’

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vasi biliari, sparsi per lo ventricolo, il quale, con invigo-rire il suo moto peristaltico, spremendogli, la vi diffon-de: – posero la concupiscibile, più di tutt’altro, nel fega-to, ch’è diffinito l’«ufficina del sangue», ch’i poetidissero «precordi», ove Titane impastò le passioni deglialtri animali, le quali fussero in ciascuna specie più insi-gni; e abbozzatamente intesero che la concupiscenza è lamadre di tutte le passioni e che le passioni sieno dentrode’ nostri umori.

Richiamavano al cuore tutti i consigli, onde gli eroi«agitabant, versabant, volutabant corde curas», perchénon pensavano d’intorno alle cose agibili senonsé scossida passioni, siccome quelli ch’erano stupidi ed insensati.Quindi da’ latini «cordati» furono detti i saggi, e «vecor-des» al contrario gli scempi; e le risoluzioni si dissero«sententiæ», perché, come sentivano così giudicavano,onde i giudizi eroici erano tutti con verità nella loro for-ma, quantunque spesso falsi nella materia.

3.COROLLARIO: DELLE SENTENZE EROICHE.

Ora, perché i primi uomini del gentilesimo erano dimenti singolarissime, poco meno che di bestie, alle qualiogni nuova sensazione cancella affatto l’antica (ch’è laragione perché non possono combinar e discorrere),perciò le sentenze tutte dovevan essere singolarizzate dachi sentivale. Onde quel sublime, ch’ammira DionigiLongino nell’oda di Saffo che poi trasportò in latino Ca-tullo, che l’innamorato, alla presenza della sua amatadonna, spiega per somiglianza:

Ille mi par esse deo videtur

manca del sommo grado della sublimità, perché non

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singolarizza la sentenza in se stesso, come fa Terenzio,con dire:

Vitam deorum adepti sumus;

il qual sentimento, quantunque sia propio di chi lo dice,per la maniera latina d’usare nella prima persona il nu-mero del più per quello del meno, però ha un’aria disentimento comune. Ma dallo stesso poeta, in altra com-media, il medesimo sentimento è innalzato al sommogrado della sublimità, ove, singolarizzandolo, l’appropiaa chi ’l sente:

Deus factus sum.

Perciò queste sentenze astratte son di filosofi, perchécontengono universali, e le riflessioni sopra esse passionisono di falsi e freddi poeti.

4.COROLLARIO: DELLE DESCRIZIONI EROICHE.

Finalmente riducevano le funzioni esterne dell’animoai cinque sensi del corpo, ma scorti, vividi e risentiti, sic-come quelli ch’erano nulla o assai poco ragione e tuttirobustissima fantasia. Di ciò sieno pruove i vocaboli chediedero ad essi sensi.

Dissero «audire», quasi «haurire», perché gli orecchibevano l’aria da altri corpi percossa. Dissero «cernereoculis» il vedere distintamente (onde forse venne «scer-nere» agl’italiani), perché gli occhi sieno come un vaglioe le pupille due buchi – che, come da quello escon i ba-stoni di polvere, che vanno a toccare la terra, così dagliocchi, per le pupille, escano bastoni di luce, che vanno atoccare le cose, le quali distintamente si vedono (ch’è ’lbaston visuale che poi ragionarono gli stoici, e felice-

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mente a’ nostri tempi ha dimostrato il Cartesio); – e dis-sero «usurpare oculis» generalmente il vedere, quasi che,con la vista, s’impossessassero delle cose vedute. Con lavoce «tangere» dissero anco il rubare, perché, col tocca-re, da’ corpi che si toccano si porta via qualche cosa,ch’or appena s’intende da’ fisici più avveduti. Dissero«olfacere» l’odorare, quasi, odorando, facessero essi gliodori; lo che poi, con gravi osservazioni, truovaron veroi naturali filosofi, che i sensi facciano le qualità che sonodette «sensibili». E finalmente dissero «sapere» il gusta-re, e «sapere», propiamente, è delle cose che dan sapore,perché assaggiassero nelle cose il sapor propio delle co-se; onde poi con bella metafora fu detta «sapienza», chefa usi, delle cose, i quali hanno in natura, non già quelliche ne finge l’oppenione.

Nello che è da ammirare la provvedenza divina:ch’avendoci dato ella i sensi per la custodia de’ nostricorpi – i quali i bruti hanno maravigliosamente più finidegli uomini, – in tempo ch’erano gli uomini caduti inuno stato di bruti, da tal loro natura istessa avessero sen-si scortissimi per conservarsi; i quali, venendo l’età dellariflessione, con cui potessero consigliarsi per guardar ilor corpi, s’infievolirono. Per tutto ciò le descrizionieroiche, quali sono quelle d’Omero, diffondono tantolume e splendor d’evidenza, che non si è potuto imitare,nonché uguagliare, da tutti i poeti appresso.

5.COROLLARIO: DE’ COSTUMI EROICI.

Da tali eroiche nature, fornite di tali sensi eroici, siformarono e fermarono somiglianti costumi. Gli eroi,per la fresca origine gigantesca, erano in sommo gradogoffi e fieri, quali ci sono stati detti los patacones, di cor-tissimo intendimento, di vastissime fantasie, di violentis-sime passioni. Per lo che dovetter essere zotici, crudi,

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aspri, fieri, orgogliosi, difficili ed ostinati ne’ loro propo-siti e, nello stesso tempo, mobilissimi al presentarsi lorode’ nuovi contrari obbietti: siccome tuttodì osserviamo icontadini caparbi, i quali ad ogni motivo di ragion dettaloro vi si rimettono; ma, perché sono deboli di riflessio-ne, la ragione, che gli aveva rimossi, tosto dalle loromenti sgombrando, si richiamano al lor proposito. E,per lo stesso difetto della riflessione, eran aperti, risenti-ti, magnanimi e generosi, qual è da Omero descrittoAchille, il massimo di tutti gli eroi della Grecia. Sopra iquali esempli di costumi eroici Aristotile alzò in precet-to d’arte poetica che gli eroi, i quali si prendono persubbietti delle tragedie, eglino non sieno né ottimi népessimi, ma di grandi vizi e di grandi virtù mescolati.Perché cotesto eroismo di virtù, la qual sia compiuta so-pra la sua idea ottima, egli è di filosofi, non di poeti; ecotesto eroismo galante è di poeti che vennero dopoOmero, i quali o ne finsero le favole di getto nuove, o lefavole, nate dapprima gravi e severe, quali convenivanoa fondatori di nazioni, poscia, effemminandosi col tem-po i costumi, essi alterarono e finalmente corruppero.Gran pruova è di ciò (e la stessa dee essere un gran ca-none di questa mitologia istorica che ragioniamo) cheAchille, il quale per quella Briseide ad essolui tolta daAgamennone fa tanti romori che n’empie la terra e ’l cie-lo e ne porge la materia perpetua a tutta l’Iliade, non nemostra, in tutta l’Iliade, pur un menomo senso di pas-sion amorosa d’esserne rimasto privo; e Menelao, cheper Elena muove tutta la Grecia contro di Troia, non nemostra, per tutta quella lunga e gran guerra, un segno,pur picciolo, d’amoroso cruccio di gelosia che la si godaParide, il quale gliel’aveva rapita. Tutto ciò che si è inquesti tre corollari detto delle sentenze, delle descrizionie de’ costumi eroici, appartiene alla discoverta del veroOmero, che si farà nel libro seguente.

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VIIIDELLA COSMOGRAFIA POETICA.

I poeti teologi, siccome posero per princìpi in fisica lesostanze da essi immaginate divine, così descrissero unaa cotal fisica convenevole cosmografia, ponendo il mon-do formato di dèi del cielo, dell’inferno (che da’ latini sidissero «dii superi» e «dii inferi») e di dèi che tra ’l cieloe la terra si frapponessero (che dovetter esser appo i lati-ni dapprima i dèi detti «medioxumi»).

Del mondo in primo luogo contemplarono il cielo, lecui cose dovetter esser a greci i primi mathémata, o sie-no «sublimi cose», e i primi theorémata, o sieno «divinecose da contemplarsi». La contemplazione delle quali fudetta così da’ latini da quelle regioni del cielo che dise-gnavano gli àuguri per prender gli augùri (che dicevano«templa coeli», onde nell’Oriente venne il nome de’ zo-roasti, che ’l Bocarto vuol detti quasi «contemplatori de-gli astri»), per indovinare dal tragitto delle stelle cadentila notte.

Fu a’ poeti il primo cielo non più in suso delle alturedelle montagne, ov’i giganti da’ primi fulmini di Giovefurono dal loro ferino divagamento fermati; ch’è quelCielo che regnò in terra e, quindi incominciando, fecede’ grandi benefìci al gener umano, come si è sopra pie-namente spiegato. Laonde dovetter estimar il cielo la ci-ma d’esse montagne (dall’acutezza delle quali a’ latinivenne «coelum» detto ancor il bolino, istrumento d’inta-gliar in pietre o metalli); appunto come i fanciulli imma-ginano ch’i monti sieno le colonne che sostengono il so-laio del cielo (siccome gli arabi tali princìpi dicosmografia diedero all’Alcorano): delle quali colonne,due restarono «d’Ercole», come più giuso vedremo; chedovettero dapprima dirsi i puntelli o sostegni, da «colu-men», e che poi l’abbia ritondati l’architettura; sopra un

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cui solaio sì fatto Teti dice ad Achille, appo Omero, cheGiove con gli altri dèi era ito da Olimpo a banchettarein Atlante. Tanto che, come sopra dicemmo, ove si ra-gionò de’ giganti, la favola della guerra ch’essi fanno alcielo, e impongono gli altissimi monti, a Pelio Ossa, adOssa Olimpo, per salirvi e scacciarne gli dèi, dev’esserestata ritruovata dopo d’Omero; perché nell’Iliade certa-mente egli sempre narra gli dèi starsi sulla cima delmonte Olimpo, onde bastava che crollasse l’Olimpo so-lo, per farne cadere gli dèi. Né tal favola, quantunque siariferita nell’Odissea, ella ben vi conviene: perché in quelpoema l’inferno non è più profondo d’un fosso, doveUlisse vede e ragiona con gli eroi trappassati; laondequanto corta idea aveva l’Omero dell’Odissea dell’infer-no è necessario ch’a proporzione altrettanta ne avesseavuto del cielo, in conformità di quanta ne aveva avutol’Omero autor dell’Iliade. E, ’n conseguenza, si è dimo-stro che tal favola non è d’Omero, come promettemmosopra di dimostrare.

In questo cielo dapprima regnarono in terra gli dèi epraticarono con gli eroi, secondo l’ordine della teogonianaturale che sopra si è ragionata, incominciando daGiove. In questo cielo rendette in terra ragione Astrea,coronata di spighe e fornita altresì di bilancia, perché ilprimo giusto umano fu ministrato dagli eroi agli uominicon la prima legge agraria ch’abbiamo sopra veduto: pe-rocché gli uomini sentirono prima il peso, poi la misura,assai tardi il numero, nel quale finalmente si fermò la ra-gione; tanto che Pittagora, non intendendo cosa piùastratta da’ corpi, pose l’essenza dell’anima umana ne’numeri. Per questo cielo van correndo a cavallo gli eroi,come Bellerofonte sul Pegaso, e ne restò a’ latini «volita-re equo», «andar correndo a cavallo». In questo cieloGiunone imbianca la via lattea del latte, non suo, perchéfu sterile, ma delle madri di famiglia, che lattavano i par-ti legittimi per quelle nozze eroiche delle quali era nume

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Giunone. Su per questo cielo gli dèi sono portati sui car-ri d’oro poetico (di frumento), onde fu detta l’etàdell’oro. In questo cielo s’usarono l’ali, non già per vola-re o significare speditezza d’ingegno – onde son alatiImeneo (ch’è lo stesso ch’Amor eroico), Astrea, le muse,il Pegaso, Saturno, la Fama, Mercurio (come nelle tem-pie così ne’ talloni, e alato il di lui caduceo, con cui daquesto cielo porta la prima legge agraria a’ plebei,ch’ammutinati erano nelle valli, come si è sopra detto);alato il dragone (perché la Gorgone è pur nelle tempiealata, né significa ingegno né vola); – ma l’ali si usaronoper significare diritti eroici, che tutti erano fondati nellaragion degli auspìci, come pienamente sopra si è dimo-strato. In questo cielo ruba Prometeo il fuoco dal sole,che dovettero gli eroi fare con le pietre focaie ed attac-carlo agli spinai secchi per sopra i monti dagli accesi solid’està, onde la fiaccola d’Imeneo ci viene fedelmentenarrata essere stata fatta di spine. Da questo cielo è Vul-cano precipitato con un calcio da Giove; da questo cieloprecipita, col carro del Sole, Fetonte; da questo cielo ca-de il pomo della Discordia: le quali favole si sono tuttesopra spiegate. E da questo cielo finalmente dovetterocadere gli ancili, o scudi sagrati, a’ romani.

Delle deitadi infernali in primo luogo i poeti teologifantasticarono quella dell’acqua; e la prima acqua fuquella delle fontane perenni, che chiamarono «Stige»,per cui giuravano i dèi, come si è sopra detto: onde forsePlatone poi oppinò che nel centro della terra fussel’abisso dell’acque. Ma Omero, nella contesa degli dèi,fa temere Plutone che Nettunno co’ tremuoti non iscuo-pra l’inferno agli uomini ed agli dèi, con aprir loro la ter-ra; ma, posto l’abisso nelle più profonde viscere dellaterra, e che egli facesse i tremuoti, avverrebbe tutto ilcontrario: che l’inferno sarebbe sommerso e tutto rico-verto dall’acque. Lo che sopra avevamo promesso di di-mostrare: che tal allegoria di Platone mal conveniva a tal

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favola. Per ciò che si è detto, il primo inferno non do-vett’essere più profondo della sorgiva delle fontane; e laprima deitade funne creduta Diana, di cui pur ci raccon-ta la storia poetica essere stata detta triforme, perché fuDiana in cielo, Cintia cacciatrice, col suo fratello Apollo,in terra, e Proserpina nell’inferno.

Si stese l’idea dell’inferno con le seppolture; ond’ipoeti chiamano «inferno» il sepolcro (la qual espressio-ne è anco usata ne’ libri santi). Talché l’inferno non fupiù profondo d’un fosso, dove Ulisse, appo Omero, ve-de l’inferno e quivi l’anime degli eroi trappassati: perchéin tal inferno furon immaginati gli Elisi, ove, con le sep-polture, godono eterna pace l’anime de’ difonti; e gliElisi sono la stanza beata degli dèi mani o sia dell’animebuone de’ morti.

Appresso, l’inferno pur fu di bassa profondità quantoè l’altezza d’un solco, ove Cerere, ch’è la stessa che Pro-serpina (il seme del frumento), è rapita dal dio Plutone,e vi sta dentro sei mesi, e poi ritorna a veder la luce delcielo; onde appresso si spiegherà il ramo d’oro con cuiEnea scende all’inferno, che Virgilio finse continuandola metafora eroica delle poma d’oro, che noi sopra ab-biam truovato esser le spighe del grano.

Finalmente l’inferno fu preso per le pianure e le valli(opposte all’altezza del cielo, posto ne’ monti), ove re-starono i dispersi nell’infame comunione. Onde di talinferno è lo dio Erebo, detto figliuolo del Cao, cioè del-la confusione de’ semi umani, ed è padre della notte ci-vile (della notte de’ nomi); siccome il cielo è allumato dicivil luce, onde gli eroi sono incliti. Vi scorre il fiumeLete, il fiume, cioè, dell’obblio, perché tali uomini nonlasciavano niun nome di sé nelle loro posterità; siccomela gloria in cielo eterna i nomi de’ chiari eroi. QuindiMercurio, come si è detto di sopra nel di lui carattere,con la sua verga, in cui porta la legge agraria, richiama

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l’anime dall’Orco, il quale tutto divora: ch’è la storia ci-vile conservataci da Virgilio in quel motto:

hac ille animas evocat Orco:

chiama le vite degli uomini eslegi e bestiali dallo stato fe-rino, il quale si divora il tutto degli uomini, perché nonlasciano essi nulla di sé nella loro posterità. Onde poi laverga fu adoperata da’ maghi, sulla vana credenza checon quella si risuscitassero i morti; e ’l pretore romanocon la bacchetta batteva sulla spalla gli schiavi e gli face-va divenir liberi, quasi con quella gli faceva ritornar damorte in vita. Se non pure i maghi stregoni usano la ver-ga nelle loro stregonerie, ch’i maghi sappienti di Persiaavevan usato per la divinazion degli auspìci: onde allaverga fu attribuita la divinità, e fu dalle nazioni tenutaper dio e che facesse miracoli, come Trogo Pompeo cen’accerta appresso il suo breviatore Giustino.

Quest’inferno è guardato da Cerbero, dalla sfaccia-tezza canina d’usar la venere senza vergogna d’altrui. ÈCerbero trifauce, cioè d’una sformata gola, col superlati-vo del «tre» ch’abbiamo più volte sopra osservato, per-ché, come l’Orco, tutto divora; e, uscito sopra la terra, ilsole ritorna indietro (e, salito sulle città eroiche, la lucecivil degli eroi ritorna alla notte civile).

Nel fondo di tal inferno scorre il fiume Tartaro, dovesi tormentano i dannati: Issione a girar la ruota, Sisifo avoltar il sasso, Tantalo a morirsi e di fame e di sete, co-me si sono sopra queste favole tutte spiegate; e ’l fiumedove brucian di sete è lo stesso fiume «senza contento»,ché tanto Acheronte e Flegetonte significano. Inquest’inferno poi, per ignorazione di cose, furono gittatida’ mitologi e Tizio e Prometeo: ma costoro furon incielo incatenati alle rupi, a’ quali divora le viscere l’aqui-la che vola ne’ monti (la tormentosa superstizion degliauspìci, ch’abbiamo sopra spiegati).

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Le quali favole tutte poscia i filosofi ritruovaron ac-concissime a meditarvi e spiegare le loro cose morali emetafisiche; e se ne destò Platone ad intendere le tre pe-ne divine, che solamente danno gli dèi e non possonodare gli uomini: la pena dell’obblio, dell’infamia e i ri-morsi co’ quali ci tormenta la rea coscienza; e che, per lavia purgativa delle passioni dell’animo, le quali tormen-tano gli uomini (ch’esso intende per l’inferno de’ poetiteologi), si entra nella via unitiva, per dove va ad unirsila mente umana con Dio per mezzo della contemplazio-ne dell’eterne divine cose (la qual egli interpetra aver in-teso i poeti teologi coi lor Elisi).

Ma, con idee tutte diverse da queste morali e metafisi-che (perocché i poeti teologi l’avevano detto con ideepolitiche, com’era loro necessario naturalmente di fare,siccome quelli che fondavano nazioni), scesero nell’in-ferno tutti i gentili fondatori de’ popoli. Scesevi Orfeo,che fondò la nazion greca; e, vietato, nel salirne, di vol-tarsi indietro, voltandosi, perde la sua moglie Euridice(ritorna all’infame comunion delle donne). Scesevi Er-cole (ch’ogni nazione ne racconta uno da cui fusse statafondata), e scesevi per liberar Teseo, che fondò Atene, ilquale vi era sceso per rimenarne Proserpina, ch’abbia-mo detto essere la stessa che Cerere (per riportarne il se-minato frumento in biade). Ma, più spiegatamente ditutti, appresso, Virgilio (il quale nei primi sei libridell’Eneide canta l’eroe politico, negli altri restanti seicanta l’eroe delle guerre), con quella sua profondascienza dell’eroiche antichità, narra ch’Enea, con gli av-visi e con la condotta della Sibilla cumana, delle qualidicemmo ch’ogni nazione gentile n’ebbe una, e ce ne so-no giunte nominate pur dodici (talché vuol dire con ladivinazione, che fu la sapienza volgare della gentilità),con sanguinosa religione pio (di quella pietà che profes-sarono gli antichissimi eroi nella fierezza ed immanitàdella loro fresca origine bestiale che sopra sì è dimostra-

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ta), sagrifica il socio Miseno (come pure abbiam sopradetto, per lo diritto crudele che gli eroi ebbero sopra ilor primi soci ch’abbiamo ancor ragionato), si portanell’antica selva (qual era la terra dappertutto incolta eboscosa), gitta il boccone sonnifero a Cerbero e l’addor-menta (ch’Orfeo aveva addormentato col suono dellasua lira, che sopra a tante pruove abbiamo truovato es-ser la legge; ed Ercole incatenò col nodo con cui avvinseAnteo nella Grecia, cioè con la prima legge agraria, inconformità di ciò che se n’è sopra detto); per la cui insa-ziabil fame Cerbero fu finto trifauce – d’una vastissimagola – col superlativo del tre, come si è sopra spiegato.Così Enea scende nell’inferno (che truovammo dappri-ma non più profondo dell’altezza de’ solchi), e a Dite(dio delle ricchezze eroiche, dell’oro poetico, del fru-mento; il quale Dite lo stesso fu che Plutone, che rapìProserpina, che fu la stessa che Cerere, la dea delle bia-de) presenta il ramo d’oro (ove il gran poeta la metaforadelle poma d’oro, che sopra truovammo essere le spighedel grano, porta più innanzi al ramo d’oro, alle messe).Ad un tal ramo svelto succede l’altro (perché non pro-viene la seconda raccolta senonsé l’anno dopo essersifatta la prima); ch’ove gli dèi si compiacciono, volentierie facile siegue la mano di chi l’afferra, altrimente non sipuò svellere con niuna forza del mondo (perché le bia-de, ove Dio voglia, naturalmente provengono; ove nonvoglia, con niuna umana industria si posson raccoglie-re). Quindi, per mezzo dell’inferno, si porta ne’ CampiElisi (perché gli eroi, con lo star fermi ne’ campi colti,morti poi godevano, con le seppolture, la pace eterna,com’abbiamo sopra spiegato), e quivi egli vede i suoi an-tenati e vegnenti (perché con la religione delle seppoltu-re, ch’i poeti dissero «inferno», come sopra si è pur ve-duto, si fondarono le prime geanologie, dalle quali pursopra si è detto aver incominciato la storia).

La terra da’ poeti teologi fu sentita con la guardia de’

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confini, ond’ella ebbe sì fatto nome di «terra». La qualorigin eroica serbaron i latini nella voce «territorium»,che significa «distretto», da ivi dentro esercitare l’impe-rio; che, con errore, i latini gramatici credono esser det-to a «terrendo» de’ littori, che col terrore de’ fasci face-vano sgombrare la folla, per far largo a’ maestratiromani. Ma, in que’ tempi che nacque la voce «territo-rium», non vi era troppa folla in Roma, che, in dugen-cinquant’anni di regno, ella manomise più di venti po-poli e non distese più di venti miglia l’imperio, comesopra l’udimmo dir da Varrone. Però l’origine di tal vo-ce è perché tali confini di campi colti, dentro i quali poisursero gl’imperi civili, erano guardati da Vesta con san-guinose religioni, come si è sopra veduto, ove truovam-mo tal Vesta de’ latini esser la stessa che Cibele o Bere-cintia de’ greci, che va coronata di torri, o sia di terreforti di sito. Dalla qual corona cominciò a formarsi quel-lo che si dice «orbis terrarum», cioè «mondo delle nazio-ni», che poi da’ cosmografi fu ampliato e detto «orbismundanus» e, in una parola, «mundus», ch’è ’l mondodella natura.

Cotal mondo poetico fu diviso in tre regni, ovvero intre regioni: una di Giove in cielo; l’altra di Saturno interra; la terza di Plutone nell’inferno, detto Dite, diodelle ricchezze eroiche, del primo oro, del frumento,perché i campi colti fanno le vere ricchezze de’ popoli.

Così formossi il mondo de’ poeti teologi di quattroelementi civili, che poi furono da’ fisici appresi per natu-rali, come poco più sopra si è detto: cioè di Giove ovve-ro l’aria, di Vulcano o sia il fuoco, di Cibele ovvero laterra e di Diana infernale o sia l’acqua. Perché Nettunnotardi da’ poeti fu conosciuto, perché, come si è sopradetto, le nazioni tardi scesero alle marine; e fu dettoOceano ogni mare di prospetto interminato che cinges-se una terra, che si dice «isola», come Omero dice l’isolaEolia circondata dall’Oceano: dal quale Oceano dovet-

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tero venire ingravidate da Zefiro, vento occidentale diGrecia, come quindi a poco dimostreremo, le giumentedi Reso, e, ne’ lidi del medesimo Oceano, pur da Zefironati i cavalli d’Achille. Doppo, i geografi osservaronotutta la terra, com’una grand’isola, esser cinta dal mare,e chiamarono tutto il mare che cinge la terra «oceano».

Quivi finalmente, con l’idea con la quale ogni brieveproclive era detto «mundus» (onde sono quelle frasi: «inmundo est», «in proclivi est», per dir «egli è facile», edappresso tutto ciò che monda, pulisce e raffazzona unadonna si disse «mundus muliebris»), poi che s’intese laterra e ’l cielo essere di figura orbicolare, ch’in ogni par-te della circonferenza verso ogni parte è proclive, e chel’oceano d’ogn’intorno la bagna, e che ’l tutto è adornod’innumerabili, varie, diverse forme sensibili, quest’uni-verso fu detto «mundus», del quale, con bellissimo su-blime trasporto, la natura s’adorna.

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IXDELL’ASTRONOMIA POETICA.

1.

Questo sistema mondano egli durava a’ tempid’Omero alquanto spiegato più, il quale nell’Iliade narrasempre gli dèi allogati sul monte Olimpo, e udimmo chefa dire dalla madre Teti ad Achille che gli dèi eran iti daOlimpo a banchettare in Atlante. Sicché gli più altimonti della terra dovetter a’ tempi d’Omero esser cre-duti le colonne che sostenessero il cielo, siccome Abila eCalpe nello stretto di Gibilterra ne restaron dette «co-lonne d’Ercole», il quale succedette ad Atlante, stancodi più sostenere sopra i suoi ómeri il cielo.

2.DIMOSTRAZIONE ASTRONOMICA FISICO-

FILOLOGICA DELL’UNIFORMITÀ DE’ PRINCÌPIIN TUTTE L’ANTICHE NAZIONI GENTILI.

Ma, l’indiffinita forza delle menti umane spiegandosivieppiù, e la contemplazione del cielo affin di prendergli augùri obbligando i popoli a sempre osservarlo, nellementi delle nazioni alzossi più in suso il cielo, e col cieloalzaronsi più in suso e gli dèi e gli eroi. Qui ci giovino,per lo ritruovamento dell’astronomia poetica, far uso diqueste tre erudizioni filologiche: la prima, che l’astrono-mia nacque al mondo dalla gente caldea; la seconda, ch’ifenici portarono da’ caldei agli egizi la pratica del qua-drante e la scienza dell’elevazione del polo; la terza, chei fenici, che ’l dovettero aver appreso innanzi dagli stessicaldei, portarono a’ greci i dèi affissi alle stelle. Con que-ste tre filologiche erudizioni si compongano queste due

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filosofiche verità: una, civile, che le nazioni, se non sonoprosciolte in una ultima libertà di religione (lo che nonavviene se non nella lor ultima decadenza), sono natu-ralmente rattenute di ricevere deitadi straniere; l’altra,fisica, che, per un inganno degli occhi, le stelle errantipiù grandi ci sembrano delle fisse.

Posti i quali princìpi, diciamo che appo tutte le nazio-ni gentili e d’Oriente e di Egitto e di Grecia (e vedremoanco del Lazio) nacque da origini volgari uniformil’astronomia, per tal allogamento uniforme, con esseregli dèi saliti ai pianeti e gli eroi affissi alle costellazioni,perché l’erranti paiono grandi molto più delle fisse. On-de i fenici truovarono tra greci già gli dèi apparecchiati agirar ne’ pianeti e gli eroi a comporre le costellazioni,con la stessa facilità con la quale i greci gli ritruovaronopoi tra’ latini; ed è da dirsi su questi esempli ch’i fenici,quale tra’ greci, tale ancora truovarono sì fatta facilitàtra gli egizi. In cotal guisa, gli eroi, e i geroglifici signifi-canti o le loro ragioni o le lor imprese, e buon numerodegli dèi maggiori furono innalzati al cielo e apparec-chiati per l’astronomia addottrinata di dar alle stelle, cheinnanzi non avevano nomi, com’a loro materia, la formacosì degli astri, o sia delle costellazioni, come degli er-ranti pianeti.

Così, cominciando dall’astronomia volgare, fu da’primi popoli scritta in cielo la storia de’ loro dèi, de’ loreroi. E ne restò quest’eterna propietà: che materia de-gna d’istoria sieno memorie d’uomini piene di divinità od’eroismo, quelle per opere d’ingegno e di sapienza ri-posta, queste per opere di virtù e di sapienza volgare;siccome la storia poetica diede agli astronomi addottri-nati i motivi di dipignere nel cielo gli eroi e i geroglificieroici più con questi che con quelli gruppi di stelle, epiù in queste che ’n quelle parti del cielo, e più a questache a quella stella errante di attaccarvi gli dèi maggiori,coi nomi de’ quali poi ci sono venuti detti i pianeti.

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E, per parlar alcuna cosa più de’ pianeti che delle co-stellazioni, certamente Diana, dea della pudicizia, serba-ta ne’ concubiti nozziali, che tutta tacita di notte si giacecon gli Endimioni dormenti, fu attaccata alla luna, chedà lume alla notte.

Venere, dea della bellezza civile, attaccata alla stellaerrante più ridente, gaia e bella di tutte. Mercurio, divi-no araldo, vestito di civil luce, con tante ali (geroglificidi nobiltà), delle quali va ornato (mentre porta la leggeagraria a’ sollevati clienti), è allogato in un’errante, chetutta di raggi solari è coverta, talché di rado è veduta.Apollo, dio d’essa luce civile (onde «incliti» si dicon glieroi), attaccato al sole, fonte della luce naturale. Marte,sanguinoso, ad una stella di somigliante colore. Giove,re e padre degli uomini e degli dèi, superior a tutti e in-ferior a Saturno, che, perch’è padre e di Giove e delTempo, corre lo più lungo anno di tutti gli altri pianeti:talché mal gli convengono l’ali, se, con allegoria sforzata,vogliano significare la velocità d’esso tempo, poiché cor-re più tardo di tutti i pianeti il suo anno; ma le si portòin cielo con la sua falce, in significazione, non di mieterevite d’uomini, ma mieter biade, con le quali gli eroi nu-meravano gli anni, e che i campi colti erano in ragiondegli eroi. Finalmente i pianeti coi carri d’oro (cioè difrumento), co’ quali andavano in cielo quand’era in ter-ra, ora girano l’orbite lor assegnate.

Per lo che tutto qui ragionato hassi a dire che ’l pre-dominio degl’influssi, che sono credute avere sopra icorpi sublunari e le fisse e l’erranti, è stato lor attribuitoda ciò in che e gli dèi e gli eroi prevalsero quand’eran interra. Tanto essi dipendono da naturali cagioni!

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XDELLA CRONOLOGIA POETICA.

1.

In conformità di cotal astronomia diedero i poeti teo-logi gl’incominciamenti alla cronologia. Perché quel Sa-turno, che da’ latini fu detto a «satis», da’ seminati, e fuda’ greci detto Chrónos (appo i quali chrónos significa iltempo), ci dà ad intendere che le prime nazioni (le qualifurono tutte di contadini) incominciarono a noverare glianni con le raccolte ch’essi facevano del frumento (ch’èl’unica o almeno la maggior cosa per la quale i contadinitravagliano tutto l’anno), e, prima mutole, dovettero, ocon tante spighe o pure tanti fili di paglia, far tanti atti dimietere quanti anni volevan essi significare. Onde sonoappo Virgilio (dottissimo quant’altri mai dell’eroicheantichità) prima quell’espressione infelice e, con sommaarte d’imitazione, infelicemente contorta, per ispiegarel’infelicità de’ primi tempi a spiegarsi:

Post aliquot mea regna videns mirabor aristas,

per dire «post aliquot annos»; poi quella, con alquantodi maggior spiegatezza:

Tertia messis erat.

Siccome fin oggi i contadini toscani, in una nazione lapiù riputata in pregio di favellare che sia in tutta Italia,invece di dire «tre anni», per esemplo, dicono «abbiamotre volte mietuto». E i romani conservarono questa sto-

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ria eroica, che si ragiona qui, dell’anno poetico che si-gnificavasi con le messi, i quali la cura dell’abbondanzaprincipalmente del grano dissero «annona».

Quindi Ercole fucci narrato fondatore dell’olimpiadi,celebre epoca de’ tempi appo i greci (da’ quali abbiamotutto ciò ch’abbiamo dell’antichità gentilesche),perch’egli diede il fuoco alle selve per ridurle a terrenida semina, onde furon raccolte le messi, con le qualidapprima si numeravano gli anni. E tali giuochi dovetterincominciar da’ nemei, per festeggiare la vittoria che ri-portò del lione nemeo vomitante fuoco, che noi sopraabbiamo interpetrato il gran bosco della terra, al qual,appreso con l’idea d’un animale fortissimo (tanta fatigavi bisognò per domarla!), diedero nome di «lione»: ilquale poi passò al più forte degli animali, siccome soprasi è ragionato ne’ Princìpi dell’armi gentilizie; ed al Lionefu dagli astronomi assegnata nel zodiaco una casa, attac-cata a quella d’Astrea, coronata di spighe. Questa è lacagione onde nei circi si vedevano spessi simulacri dilioni, simulacri del sole; si vedevano le mete con in cimale uova, che dovetter esser dapprima mete di grano, e iluci, ovvero gli occhi sboscati, che sopra si ragionaronode’ giganti: dove poi gli astronomi ficcarono la significa-zione della figura ellittica, che descrive in un anno il so-le, col cammino che fa per l’eclittica; la quale significa-zione sarebbe stata più acconcia a Maneto di darall’uovo che porta in bocca lo Cnefo, che quella che si-gnificasse la generazione dell’universo.

Però con la teogonia naturale sopra qui ragionata sidetermina da noi la scorsa de’ tempi, ne’ quali, all’occa-sioni di certe prime necessità o utilità del gener umano,che dappertutto incominciò dalle religioni (la qualescorsa è l’età degli dèi), ella deve almeno aver durato no-vecento anni da che tralle nazioni gentili incominciaro-no i Giovi, o sia dal tempo che ’ncominciò a fulminar ilcielo dopo l’universale diluvio. E i dodici dèi maggiori,

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incominciando da Giove, dentro questa scorsa a’ lorotempi fantasticati, si pongano per dodici minute epoche,da ridurvi a certezza de’ tempi la storia poetica. Come,per cagion d’esemplo, Deucalione, che dalla storia favo-losa si narra immediatamente dopo il diluvio e i giganti,che fonda con la sua moglie Pirra le famiglie per mezzodel matrimonio, sia egli nato nelle fantasie grechenell’epoca di Giunone, dea delle nozze solenni. Elleno,che fonda la greca lingua e, per tre suoi figliuoli, la ripar-tisce in tre dialetti, nacque nell’epoca d’Apollo, dio delcanto, dal cui tempo dovette incominciare la favellapoetica in versi. Ercole, che fa la maggior fatiga d’ucci-der l’idra o ’l lione nemeo (o sia di ridurre la terra a cam-pi da semina), e ne riporta da Esperia le poma d’oro (lemessi, ch’è impresa degna di storia; non gli aranci diPortogallo, fatto degno di parasito), si distinse nell’epo-ca di Saturno, dio de’ seminati. Così Perseo dee essersifatto chiaro nell’epoca di Minerva, o sia degli già natiimperi civili, poich’ha caricato lo scudo del teschio diMedusa, ch’è lo scudo d’essa Minerva. E deve, per finir-la, Orfeo esser nato dopo l’epoca di Mercurio, che, colcantar alle fiere greche la forza degli dèi negli auspìci,de’ quali avevano la scienza gli eroi, ristabilisce le nazio-ni greche eroiche ed al «tempo eroico» ne diede il voca-bolo, perché in tal tempo avvennero siffatt’eroiche con-tese. Onde con Orfeo fioriscono Lino, Anfione, Museoed altri poeti eroi; de’ quali Anfione, de’ sassi (come re-stonne a’ latini «lapis» per dir «balordo»: degli scempiplebei), innalza le mura di Tebe dopo trecento annich’avevala Cadmo fondata; appunto come da un trecen-to anni dopo la fondazione di Roma egli avvenne cheAppio, nipote del decemviro, come altra volta sopra ab-biam detto, la plebe romana, che «agitabat connubia mo-re ferarum» (che sono le fiere d’Orfeo), cantandole laforza degli dèi negli auspìci (de’ quali avevano la scienza

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i nobili), riduce in ufizio, e ferma lo Stato romano eroi-co.

Oltracciò, qui si deon avvertire quattro spezie d’ana-cronismi, contenute sotto il genere, ch’ogniun sa, ditempi prevertiti e posposti. La prima è di tempi vuoti difatti de’ quali debbon esser ripieni; come l’età degli dèi,nella quale abbiamo truovato quasi tutte l’origini dellecose umane civili, e al dottissimo Varrone corre per«tempo oscuro». La seconda è di tempi pieni di fatti de’quali debbon esser vuoti; come l’età degli eroi, che correper dugento anni, e, sulla falsa oppenione che le favolefussero state ritruovati di getto de’ poeti eroici, e sopratutti di Omero, s’empie di tutti i fatti dell’età degli dèi, iquali da questa in quella si devono rovesciare. La terza èdi tempi uniti che si devon dividere, acciocché nella vitad’un solo Orfeo la Grecia da fiere bestie non sia portataal lustro della guerra troiana; ch’era quel gran mostro dicronologia che facemmo vedere nell’Annotazioni allaTavola cronologica. La quarta ed ultima è di tempi divisiche debbon esser uniti; come le colonie greche menatein Sicilia ed in Italia più di trecento anni dopo gli errordegli eroi, le quali vi furono menate con gli errori e pergli errori de’ medesimi eroi.

2.CANONE CRONOLOGICO PER DAR I PRINCÌPI

ALLA STORIA UNIVERSALE, CHE DEONOPRECORRERE ALLA MONARCHIA DI NINO,

DALLA QUAL ESSA STORIA UNIVERSALEINCOMINCIA.

In forza adunque alla detta teogonia naturale, chen’ha dato la detta cronologia poetica ragionata, e con lascoverta delle anzidette spezie d’anacronismi notati so-pra essa storia poetica, ora, per dar i princìpi alla storiauniversale, che deon precorrere alla monarchia di Nino,

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dalla qual essa storia universale incomincia, stabiliamoquesto canone cronologico: che dalla dispersione del ge-ner umano perduto per la gran selva della terra, che’ncominciò a farsi dalla Mesopotamia (come tralle De-gnità n’abbiamo fatta una discreta domanda), per la raz-za empia di Sem nell’Asia orientale soli cento anni, e du-gento per l’altre due di Cam e Giafet nelle restanti partidel mondo, vi corsero di divagamento ferino. Da che,con la religione di Giove (che tanti, sparsi per le primenazioni gentili, ci appruovarono, sopra, l’universale di-luvio), incominciarono i principi delle nazioni a fermarsiin ciascheduna terra, dove per fortuna dispersi si ritruo-vavano, vi corsero i novecento anni dell’età degli dèi, nelcui fine – perché quelli si erano per la terra dispersi percercar pasco ed acqua, che non si truovano ne’ lidi delmare, le nazioni si eran fondate tutte mediterranee – do-vettero scender alle marine; onde se ne destò in mentede’ greci l’idea di Nettunno, che truovammo l’ultimadelle dodici maggiori divinità; e così, tra’ latini, dall’etàdi Saturno, o sia secolo dell’oro del Lazio, vi corsero danovecento anni che Anco Marzio calasse al mare a pren-dervi Ostia. Finalmente vi corsero i dugento anni ch’igreci noverano del secolo eroico, ch’incomincia da’ cor-seggi del re Minosse, séguita con la spedizione navaleche fece Giasone in Ponto, s’innoltra con la guerratroiana e termina con gli error degli eroi fin al ritornod’Ulisse in Itaca. Tanto che Tiro, capitale della Fenicia,si dovette portare da mezzo terra a lido, e quindi inun’isola vicina del mar fenicio, da più di mille anni dopoil diluvio; ed essendo già ella celebre, per la navigazionee per le colonie sparse nel Mediterraneo e fin fuorinell’Oceano, innanzi al tempo eroico de’ greci, vien adevidenza pruovato che nell’Oriente fu il principio di tut-to il gener umano, e che prima l’error ferino per gli luo-ghi mediterranei della terra, dipoi il diritto eroico e perterra e per mare, finalmente i traffichi marittimi de’ feni-

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ci sparsero le prime nazioni per le restanti parti delmondo. I quali princìpi della commigrazione de’ popoli(conforme ne proponemmo una Degnità) sembrano piùragionati di quelli i quali Wolfango Lazio n’ha immagi-nati.

Or, per lo corso uniforme che fanno tutte le nazioni,il quale si è sopra pruovato coll’uniformità degli dèi in-nalzati alle stelle, ch’i fenici portarono dall’Oriente inGrecia e in Egitto, hassi a dire che altrettanto tempocorse a’ caldei d’aver essi regnato nell’Oriente, talché daZoroaste si fusse venuto a Nino, che vi fondò la primamonarchia del mondo, che fu quella d’Assiria; altrettan-to che da Mercurio Trimegisto si venisse a Sesostride, osia il Ramse di Tacito, che vi fondò una monarchia purgrandissima. E, perch’erano entrambe nazioni mediter-ranee, vi dovettero da’ governi divini, per gli eroici, equindi per la libertà popolare, provenire le monarchie,ch’è l’ultimo degli umani governi, acciocché gli egizi co-stino nella loro divisione degli tre tempi del mondoscorsi loro dinanzi. Perché, come appresso dimostrere-mo, la monarchia non può nascere che sulla libertà sfre-nata de’ popoli, alla quale gli ottimati vanno nelle guerrecivili ad assoggettire la loro potenza; la qual poi, divisain menome parti tra’ popoli, facilmente richiamano tuttaa sé coloro che, col parteggiare la popolar libertà, vi sur-gono finalmente monarchi. Ma la Fenicia, perché nazio-ne marittima, per le ricchezze de’ traffichi si dovette fer-mare nella libertà popolare, ch’è ’l primo degli umanigoverni.

Così con l’intendimento, senz’uopo della memoria, laquale non ha che fare ov’i sensi non le somministrano ifatti, sembra essersi supplita la storia universale ne’ suoiprincìpi e dell’antichissimo Egitto e dell’Oriente, ch’èdell’Egitto più antico, e, in esso Oriente, i princìpi dellamonarchia degli assiri; la quale finora, senza il precorsodi tante e sì varie cagioni, che le dovevano precedere per

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provenirvi la forma monarchica, ch’è l’ultima delle treforme de’ governi civili, esce sulla storia tutta nata ad untratto, come nasce, piovendo l’està, una ranocchia.

In questa guisa la cronologia ella ci vien accertata de’suoi tempi col progresso de’ costumi e de’ fatti, co’ qua-li ha dovuto camminare il gener umano. Perché, per unaDegnità sopra posta, ella qui ha incominciato la sua dot-trina dond’ebbe incominciamento la sua materia: daChrónos, Saturno (onde da’ greci fu detto chrónos iltempo), numeratore degli anni con le raccolte, e da Ura-nia, contemplatrice del cielo affin di prender gli augùri,e da Zoroaste, contemplatore degli astri per dar gli ora-coli dal tragitto delle stelle cadenti (che furon i primimathémata, i primi theorémata, le prime cose sublimi odivine che contemplarono ed osservaron le nazioni, co-me si è sopra detto); e poi, col salire Saturno nella setti-ma sfera, indi Urania divenne contemplatrice de’ pianetie degli astri, e i caldei, con l’agio delle lor immense pia-nure, divennero astronomi ed astrolaghi, col misurarne ilor moti e contemplarne i di lor aspetti, ed immaginarnegl’influssi sopra i corpi che dicono «sublunari» ed anco,vanamente, sopra le libere volontà degli uomini. Allaqual scienza restaron i primi nomi, che l’erano stati daticon tutta propietà: uno di «astronomia» o sia scienzadelle leggi degli astri, l’altro di «astrologia» o sia scienzadel parlare degli astri, l’uno e l’altro in significato di «di-vinazione», come da que’ «teoremi» funne detta «teolo-gia» la scienza del parlar degli dèi ne’ lor oracoli, auspìcie augùri. Onde, finalmente, la mattematica scese a misu-rare la terra, le cui misure non si potevan accertare cheda quelle dimostrate del cielo, e la prima e principalesua parte si portò il propio nome, col qual è detta «geo-metria».

Perché, adunque, non ne incominciarono la dottrinadonde aveva incominciato la materia ch’essi trattavano –perché incominciano dall’anno astronomico, il quale,

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come sopra si è detto, non nacque tralle nazioni che do-po almeno un mille anni, e che non poteva accertarglid’altro che delle congiunzioni ed opposizioni che le co-stellazioni e i pianeti si avessero fatti nel cielo, ma nulladelle cose che con proseguito corso fussero succedutequi in terra (nello che andò a perdersi il generoso sforzodi Piero cardinal d’Alliac), – perciò tanto poco han frut-tato a pro de’ princìpi e della perpetuità della storia uni-versale (de’ quali dopo essi tuttavia pur mancava) i duemaravigliosi ingegni, con la loro stupenda erudizione,Giuseppe Giusto Scaligero nella sua Emendazione eDionigi Petavio nella sua Dottrina de’ tempi.

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XIDELLA GEOGRAFIA POETICA.

1.

Or ci rimane finalmente di purgare l’altr’occhio dellastoria poetica, ch’è la poetica geografia, la quale, perquella propietà di natura umana, che noi noverammotralle Degnità, che «gli uomini le cose sconosciute e lon-tane, ov’essi non ne abbian avuto la vera idea o la deb-bano spiegar a chi non l’ha, le descrivono per somiglian-ze di cose conosciute e vicine», ella, nelle sue parti ed intutto il suo corpo, nacque con picciol’idee dentro la me-desima Grecia, e, coll’uscirne i greci poi per lo mondo,s’andò ampliando nell’ampia forma nella qual ora ci è ri-masta descritta. E i geografi antichi convengono in que-sta verità, ma poi non ne sepper far uso; i quali afferma-no che le antiche nazioni, portandosi in terre straniere elontane, diedero i nomi natii alle città, a’ monti, a’ fiumi,colli di terra, stretti di mare, isole e promontori.

Nacquero, adunque, entro Grecia la parte orientale,detta Asia o India; l’occidentale, detta Europa o Espe-ria; il settentrione, detto Tracia o Scizia; il mezzodì, det-to Libia o Mauritania; e furono così appellate le partidel mondo co’ nomi delle parti del picciol mondo diGrecia per la simiglianza de’ siti, ch’osservaron i greci inquelle, a riguardo del mondo, simili a queste, a riguardodi Grecia. Pruova evidente di ciò sieno i vènti cardinali,i quali, nella loro geografia, ritengono i nomi che dovet-tero certamente avere la prima volta dentro essa Grecia:talché le giumente di Reso debbono ne’ lidi dell’Oceano(qual or or vedremo detto dapprima ogni mare d’inter-

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minato prospetto) essere state ingravidate da Zefiro,vento occidentale di Grecia; e pur ne’ lidi dell’Oceano(nella prima significazione, la quale testé si è detta) de-von essere da Zefiro generati i cavalli d’Achille; come legiumente d’Erictonio dic’Enea ad Achille essere stateingravidate da Borea, dal vento settentrionale della Gre-cia medesima. Questa verità de’ vènti cardinali ci è con-fermata in un’immensa distesa: che le menti greche, inun’immensa distesa spiegandosi, dal loro monte Olim-po, dove a’ tempi d’Omero se ne stavano i dèi, diedero ilnome al cielo stellato, che gli restò.

Posti questi princìpi, alla gran penisola situatanell’oriente di Grecia restò il nome d’Asia minore, poiche ne passò il nome d’«Asia» in quella gran parteorientale del mondo ch’Asia ci restò detta assolutamen-te. Per lo contrario, essa Grecia, ch’era occidente a ri-guardo dell’Asia, fu detta «Europa», che Giove, cangia-to in toro, rapì: poi il nome d’«Europa» si stese inquest’altro gran continente fin all’oceano occidentale.Dissero «Esperia» la parte occidentale di Grecia, dovedentro la quarta parte dell’orizonte sorge la sera la stellaEspero; poi videro l’Italia nel medesimo sito, ma moltomaggiore di quella di Grecia, e la chiamaron «Esperiamagna»; si stesero finalmente nella Spagna nel medesi-mo sito, e la chiamaron «Esperia ultima». I greci d’Ita-lia, al contrario, dovettero chiamar «Ionia» la parte a lorriguardo orientale di Grecia oltramare, e restonne il no-me, tra l’una e l’altra Grecia, di «mar Ionio»: poi, per lasomiglianza del sito delle due Grecie, natia ed asiatica, igreci natii chiamaron «Ionio» la parte a lor riguardoorientale dell’Asia minore. E dalla prima Ionia è ragio-nevole che fusse in Italia venuto Pittagora da Samo, unadell’isole signoreggiate da Ulisse, non da Samo dell’Io-nia seconda.

Dalla Tracia natia venne Marte, che fu certamente

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deità greca; e quindi dovette venir Orfeo, un de’ primipoeti greci teologi.

Dalla Scizia greca venne Anacarsi, che lasciò in Gre-cia gli oracoli scitici, che dovetter esser simili agli oraco-li di Zoroaste (che bisognò fusse stata dapprima una sto-ria d’oracoli), onde Anacarsi è stato ricevuto tra gliantichissimi dèi fatidici: i quali oracoli dall’imposturapoi furono trasportati in dogmi di filosofia; siccome gliOrfici ci furon supposti versi fatti da Orfeo, i quali, co-me gli oracoli di Zoroaste, nulla sanno di poetico e dan-no troppo odore di scuola platonica e pittagorica. Per-ciò da questa Scizia, per gl’iperborei natii, dovetterovenir in Grecia i due famosi oracoli delfico e dodoneo,come ne dubitammo nell’Annotazioni alla Tavola crono-logica; per che Anacarsi nella Scizia, cioè tra questi iper-borei natii di Grecia, volendo ordinare l’umanità con legreche leggi, funne ucciso da Cadvido, suo fratello: tan-to egli profittò nella filosofia barbaresca dell’Ornio, chenon seppe ritruovargliele dappersé! Per le quali ragioni,quindi, dovett’essere pur scita Abati, che si dice averescritto gli oracoli scitici, che non poteron esser altri chegli detti testé d’Anacarsi; e gli scrisse nella Scizia, nellaquale Idantura, molto tempo venuto dopo, scriveva conesse cose: onde necessariamente è da credersi essere sta-ti scritti da un qualche impostore de’ tempi dopo esserestate introdutte le greche filosofie. E quindi gli oracolid’Anacarsi dalla boria de’ dotti furono ricevuti per ora-coli di sapienza riposta, i quali non ci son pervenuti.

Zamolsci fu geta (come geta fu Marte), il qual, al rife-rire d’Erodoto, portò a’ greci il dogma dell’immortalitàdell’anima.

Così da alcun’India greca dovette Bacco veniredall’indico Oriente trionfatore (da alcuna greca terraricca d’oro poetico), e Bacco ne trionfa sopra un carrod’oro (di frumento); onde lo stesso è domatore di ser-

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penti e di tigri, qual Ercole d’idre e lioni, come si è so-pra spiegato.

Certamente il nome, che ’l Peloponneso serba fin a’nostri dì, di «Morea» troppo ci appruova che Perseo,eroe certamente greco, fece le sue imprese nella Mauri-tania natia; perché ’l Peloponneso tal è per rapportoall’Acaia qual è l’Affrica per rapporto all’Europa. Quin-di s’intenda quanto nulla Erodoto seppe delle sue pro-pie antichità (come gliene riprende Tucidide), il qualenarra ch’i mori un tempo furono bianchi, quali certa-mente erano i mori della sua Grecia, la quale fin oggi sidice «Morea bianca».

Così dev’esser avvenuto che dalla pestilenza di questaMauritania avesse Eusculapio con la sua arte preservatola sua isola di Coo; che se la doveva preservare da quellade’ popoli di Marocco, egli l’arebbe dovuto preservareda tutte le pestilenze del mondo.

In cotal Mauritania dovett’Ercole soccombere al pesodel cielo, che ’l vecchio Atlante era già stanco di sostene-re: che dovette dapprima dirsi così il monte Ato, che,per un collo di terra, che Serse dappoi forò, divide laMacedonia dalla Tracia, e vi restò pur quivi, tralla Gre-cia e la Tracia, un fiume appellato Atlante; poscia, nellostretto di Gibilterra, osservati i monti Abila e Calpe cosìper uno stretto di mare dividere l’Affrica dall’Europa,furono dette da Ercole ivi piantate colonne, che, comeabbiamo sopra detto, sostenevano il cielo, e ’l montenell’Affrica quivi vicino fu detto «Atlante». E ’n cotalguisa può farsi verisimile la risposta ch’appo Omero fala madre Teti ad Achille: che non poteva portare la di luiquerela a Giove, perch’era da Olimpo ito con gli altridèi a banchettare in Atlante (sull’oppenione, che sopraabbiam osservato, che gli dèi se ne stassero sulle cimedegli altissimi monti); ché, se fusse stato il monte Atlan-te nell’Affrica, era troppo difficile a credersi, quando ilmedesimo Omero dice che Mercurio, quantunque alato,

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difficilissimamente pervenne nell’isola di Calipso, postanel mar Fenicio, ch’era molto più vicino alla Grecia chenon lo regno ch’or dicesi di Marocco.

Così dall’Esperia greca dovett’Ercole portare le pomad’oro nell’Attica, ove furono pure le ninfe esperidi(ch’eran figliuole d’Atlante), che le serbavano.

Così l’Eridano, dove cadde Fetonte, dev’essere stato,nella Tracia greca, il Danubio che va a mettere nel marEusino: poi, osservato da’ greci il Po, che, come il Danu-bio, è l’altro fiume al mondo che corre da occidente ver-so oriente, fu da essi il Po detto «Eridano», e i mitologifecero cader Fetonte in Italia. Ma le cose della storiaeroica solamente greca, e non dell’altre nazioni, furonoaffisse alle stelle, tralle quali è l’Eridano.

Finalmente, usciti i greci nell’Oceano, vi distesero labrieve idea d’ogni mare che fosse d’interminato pro-spetto (onde Omero diceva l’isola Eolia esser cintadall’Oceano) e, con l’idea, il nome, ch’or significa il ma-re che cinge tutta la terra, che si crede esser unagrand’isola. E si ampliò all’eccesso la potestà di Nettun-no, che dall’abisso dell’acque, che Platone pose nelle dilei viscere, egli col gran tridente faccia tremare la terra: irozzi princìpi della qual fisica sono stati sopra da noispiegati.

Tali princìpi di geografia assolutamente possono giu-stificar Omero di gravissimi errori, che gli sono a tortoimputati.

I. Ch’i lotofagi d’Omero, che mangiavano cortecced’una pianta ch’è detto «loto», fussero stati più vicini,ove dice che Ulisse da Malea a’ lotofagi pose un viaggiodi nove giorni: che se sono i lotofagi, quali restaron det-ti, fuori dello stretto di Gibilterra, doveva in nove giornifar un viaggio impossibile, nonché difficile a credersi: ilqual errore gli è notato da Eratostene.

II. Ch’i lestrigoni, a’ tempi d’Omero, fussero stati po-poli di essa Grecia, ch’ivi avessero i giorni più lunghi,

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non quelli che l’avessero più lunghi sopra tutti i popolidella terra; il qual luogo indusse Arato a porgli sotto ilcapo del Dragone. Certamente Tucidide, scrittore graveed esatto, narra i lestrigoni in Sicilia, che dovetter esser ipopoli più settentrionali di quell’isola.

III. Per quest’istesso, i cimmeri ebbero le notti piùlunghe sopra tutti i popoli della Grecia, perch’erano po-sti nel di lei più alto settentrione, e perciò, per le lorolunghe notti, furono detti abitare presso l’inferno (de’quali poi si portò lontanissimo il nome a’ popoli abitato-ri della palude Meotide): e quindi i cumani, perch’eranposti presso la grotta della Sibilla, che portava all’infer-no, per la creduta somiglianza di sito dovettero dirsi«cimmeri». Perché non è credibile che Ulisse, mandatoda Circe senz’alcun incantesimo (perché Mercurio gliaveva dato un segreto contro le stregonerie di Circe,com’abbiamo sopra osservato), in un giorno fusse anda-to da’ cimmeri i quali restarono così detti a vedere l’in-ferno, e nello stesso giorno fusse ritornato da quella inCircei, ora detto Monte Circello, che non è molto di-stante da Cuma.

Con questi stessi princìpi della geografia poetica gre-ca si possono solvere molte grandi difficultà della storiaantica dell’Oriente, ove son presi per lontanissimi popo-li, particolarmente verso settentrione e mezzodì, quelliche dovettero dapprima esser posti dentro l’Oriente me-desimo.

Perché questo, che noi diciamo della geografia poeti-ca greca, si truova lo stesso nell’antica geografia de’ lati-ni. Il Lazio dovette dapprima essere ristrettissimo, ché,per dugencinquanta anni di regno, Roma manomise benventi popoli e non distese più che venti miglia, come so-pra abbiam detto, l’imperio. L’Italia fu certamente cir-coscritta da’ confini della Gallia cisalpina e da quelli diMagna Grecia: poi, con le romane conquiste, ne disteseil nome nell’ampiezza nella quale tuttavia dura. Così il

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mar Toscano dovett’esser assai picciolo nel tempo cheOrazio Coclite solo sostenne tutta Toscana sul ponte:poi, con le vittorie romane, si è disteso quanto è lungaquesta inferior costa d’Italia.

Alla stessa fatta e non altrimente, il primo Ponto, do-ve fece la sua spedizione navale Giasone, dovett’esserela terra più vicina all’Europa, da cui la divide lo strettodi mare detto Propontide; la qual terra dovette dar il no-me al mar Pontico, che poi si distese dove più s’adden-tra nell’Asia, ove fu poi il regno di Mitridate: perché Ee-ta, padre di Medea, da questa stessa favola ci si narraesser nato in Calcide, città d’Eubea, isola posta dentroessa Grecia, la qual ora chiamasi Negroponto, che do-vette dare il primo nome a quel mare, il quale certamen-te Mar Nero ci restò detto. La prima Creta dovett’esserun’isola dentro esso Arcipelago, dov’è il labirintodell’isole ch’abbiamo sopra spiegato, e quindi dovetteMinosse celebrare i corseggi sopra gli ateniesi: poi Cretauscì nel Mediterraneo, che ci restò.

Or, così da’ latini avendoci richiamati i greci, essi, conuscir per lo mondo (gli uomini boriosi), sparsero dap-pertutto la fama della guerra troiana e degli error deglieroi, così troiani, quali d’Antenore, di Capi, d’Enea, co-me greci, quali di Menelao, di Diomede, d’Ulisse. Os-servarono per lo mondo sparso un carattere di fondatoridi nazioni simigliante a quello del lor Ercole che fu det-to tebano, e vi sparsero il nome del loro Ercole, de’ qua-li Varrone per le nazioni antiche noverò ben quaranta,de’ quali il latino afferma essere stato detto «dio Fidio».Così avvenne che, per la stessa boria degli egizi (che di-cevano il loro Giove Ammone essere lo più antico di tut-ti gli altri del mondo, e tutti gli Ercoli dell’altre nazioniaver preso il nome dal lor Ercole egizio, per due Degnitàche se ne sono sopra proposte, siccome quelli che conerrore credevano essere la nazione più antica di tuttel’altre del mondo), i greci fecero andar il lor Ercole per

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tutte le parti della terra, purgandola de’ mostri, per ri-portarne solamente la gloria in casa.

Osservarono esservi stato un carattere poetico di pa-stori che parlavano in versi, ch’appo essi era stato Evan-dro arcade; e così Evandro venne da Arcadia nel Lazio,e vi ricevette ad albergo l’Ercole suo natio, e vi preseCarmenta in moglie, detta da’ «carmi», da’ versi, la quala’ latini truovò le lettere, cioè le forme de’ suoni che sidicono «articolati», che sono la materia de’ versi. E fi-nalmente, in confermazione di tutte le cose qui dette,osservarono tai caratteri poetici dentro del Lazio, allastessa fatta, come sopra abbiam veduto, che truovaronoi loro cureti sparsi in Saturnia (o sia nell’antica Italia), inCreta ed in Asia.

Ma come tali greche voci e idee sieno pervenute a’ la-tini in tempi sommamente selvaggi, ne’ quali le nazionierano chiuse a stranieri, quando Livio niega ch’a’ tempidi Servio Tullio, nonché esso Pittagora, il di lui famosis-simo nome, per mezzo a tante nazioni, di lingue e di co-stumi diverse, avesse da Cotrone potuto giugner a Ro-ma; per questa difficultà appunto noi sopradomandammo in un postulato, perché ne portavamonecessaria congettura, che vi fusse stata alcuna città gre-ca nel lido del Lazio, e che poi si fusse seppellita nelletenebre dell’antichità, la qual avesse insegnato a’ latini lelettere, le quali, come narra Tacito, furono dapprima so-miglianti alle più antiche de’ greci. Lo che è forte argo-mento ch’i latini ricevettero le lettere greche da questigreci del Lazio, non da quelli di Magna Grecia, e moltomeno della Grecia oltramare, co’ quali non si conobbe-ro che dal tempo della guerra di Taranto, che portò ap-presso quella di Pirro: perché, altrimente, i latini areb-bono usato le lettere ultime de’ greci, e non ritenute leprime, che furono l’antichissime greche.

Così i nomi d’Ercole, d’Evandro, d’Enea da Grecia

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entrarono nel Lazio per questi seguenti costumi dellenazioni:

Prima, perché, siccome, nella loro barbarie, amano icostumi loro natii, così, da che incominciano a ingenti-lirsi, come delle mercatanzie e delle fogge straniere, cosìsi dilettano degli stranieri parlari; e perciò scambiaronoil loro dio Fidio con l’Ercole de’ greci, e, per lo giura-mento natio «medius fidius», introdusseo «mehercule»,«edepol», «mecastor».

Dipoi, per quella boria, tante volte detta, c’hanno lenazioni di vantar origini romorose straniere, particolar-mente ove ne abbian avuto da’ loro tempi barbari alcunmotivo di crederle (siccome, nella barbarie ritornata,Gian Villani narra Fiesole essere stata fondata da Atlan-te, e che in Germania regnò un re Priamo troiano), per-ciò i latini volontieri sconobbero Fidio, vero lor fonda-tore, per Ercole, vero fondatore de’ greci, escambiarono il carattere de’ loro pastori poeti con Evan-dro d’Arcadia.

In terzo luogo, le nazioni, ov’osservano cose straniere,che non possono certamente spiegare con voci loro na-tie, delle straniere necessariamente si servono.

Quarto e finalmente, s’aggiugne la propietà de’ primipopoli, che sopra nella Logica poetica si è ragionata, dinon saper astrarre le qualità da’ subbietti, e, non sap-piendole astrarre, per appellare le qualità appellavan es-si subbietti. Di che abbiamo ne’ favellari latini troppocerti argomenti.

Non sapevano i romani cosa fusse lusso: poi che l’os-servarono ne’ tarantini, dissero «tarantino» per «profu-mato». Non sapevano cosa fussero stratagemmi militari:poi che l’osservarono ne’ cartaginesi, gli dissero «puni-cas artes». Non sapevano cosa fusse fasto: poi che l’os-servarono ne’ capovani, dissero «supercilium campani-cum» per dire «fastoso» o «superbo». Così Numa edAnco furon «sabini», perché non sapevano dire «religio-

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so», nel qual costume eran insigni i sabini. Così ServioTullio fu «greco», perché non sapevano dir «astuto», laqual idea dovettero mutoli conservare finché poi conob-bero i greci della città da essi vinta ch’or noi diciamo; efu detto anco «servo», perché non sapevano dir «debo-le», che rillasciò il dominio bonitario de’ campi a’ plebeicon portar loro la prima legge agraria, come sopra si èdimostrato, onde forse funne fatto uccider da’ padri:perché l’astuzia è propietà che siegue alla debolezza, iquali costumi erano sconosciuti alla romana apertezza evirtù. Ché invero è una gran vergogna che fanno alla ro-mana origine, e di troppo offendono la sapienza di Ro-molo fondatore, [coloro che affermano] non aver avutoRoma dal suo corpo eroi da crearvi re, infino che dovet-te sopportare il regno d’un vil schiavo: onore che gli hanfatto i critici occupati sugli scrittori, somigliante all’al-tro, che seguì appresso, che, dopo aver fondato un po-tente imperio nel Lazio e difesolo da tutta la toscana po-tenza, han fatto andar i romani come barbari eslegi perl’Italia, per la Magna Grecia e per la Grecia oltramare,cercando leggi da ordinare la loro libertà, per sostenerela riputazione alla favola della legge delle XII Tavole ve-nuta in Roma da Atene.

2.COROLLARIO DELLA VENUTA D’ENEA IN

ITALIA

Per tutto lo fin qui ragionato si può dimostrare la gui-sa com’Enea venne in Italia e fondò la gente romana inAlba, dalla qual i romani traggon l’origine: che una sìfatta città greca posta nel lido del Lazio fusse città grecadell’Asia, dove fu Troia, sconosciuta a’ romani finché damezzo terra stendessero le conquiste nel mar vicino;ch’a far incominciarono da Anco Marzio, terzo re de’romani, il quale vi die’ principio da Ostia, la città marit-

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tima più vicina a Roma, tanto che, questa poscia a dismi-sura ingrandendo, ne fece finalmente il suo porto. E ’ncotal guisa, come avevano ricevuto gli arcadi latini,ch’erano fuggiaschi di terra, così poi ricevettero i frigi, iquali erano fuggiaschi di mare, nella loro protezione, eper diritto eroico di guerra demolirono la città. E cosìarcadi e frigi, con due anacronismi, gli arcadi con quellode’ tempi posposti e i frigi con quello de’ prevertiti, sisalvarono nell’asilo di Romolo.

Che se tali cose non andaron così, l’origine romana daEnea sbalordisce e confonde ogn’intendimento, comenelle Degnità l’avvisammo; talché, per non isbalordirsi econfondersi, i dotti, da Livio incominciando, la tengon aluogo di favola, non avvertendo che, com’abbiam nelleDegnità detto sopra, le favole debbon aver avuto alcunpubblico motivo di verità. Perché egli è Evandro sì po-tente nel Lazio, che vi riceve ad albergo Ercole da cin-quecento anni innanzi la fondazione di Roma; ed Eneafonda la casa reale d’Alba, la quale per quattordici recresce in tanto lustro, che diviene la capitale del Lazio; egli arcadi e i frigi, per tanto tempo vagabondi, si ripara-rono finalmente all’asilo di Romolo! Come da Arcadia,terra mediterranea di Grecia, pastori, che per naturanon sanno cosa sia mare, ne valicarono tanto tratto e pe-netrarono in mezzo del Lazio, quando Anco Marzio,terzo re dopo Romolo, fu egli il primo che menò una co-lonia nel mar vicino? e vi vanno, insieme co’ frigi disper-si, dugento anni innanzi che nemmeno il nome di Pitta-gora, celebratissimo nella Magna Grecia, a giudizio diLivio, arebbe, per mezzo a tante nazioni, di lingue e dicostumi diverse, da Cotrone potuto giugner a Roma? equattrocento anni innanzi ch’i tarantini non sapevanochi si fussero i romani, già potenti in Italia?

Ma pure, come più volte abbiam detto, per una delleDegnità sopra poste, queste tradizioni volgari dovetteroda principio avere de’ grandi pubblici motivi di verità,

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perché l’ha conservate per tanto tempo tutta una nazio-ne. Che dunque? Bisogna dire che alcuna città grecafusse stata nel lido del Lazio, come tante altre ve ne fu-rono e duraron appresso ne’ lidi del Mar Tirreno; laqual città innanzi della legge delle XII Tavole fusse statada’ romani vinta, e per diritto eroico delle vittorie bar-bare fussesi demolita, e i vinti ricevuti in qualità di socieroici; e che, per caratteri poetici, così cotesti greci dis-sero «arcadi» i vagabondi di terra ch’erravano per le sel-ve, «frigi» quelli per mare, come i romani i vinti ed arre-si loro dissero «ricevuti nell’asilo di Romolo», cioè inqualità di giornalieri, per le clientele ordinate da Romo-lo quando nel luco aprì l’asilo a coloro i quali vi rifuggi-vano. Sopra i quali vinti ed arresi (che supponiamo neltempo tra lo discacciamento degli re e la legge delle XIITavole) i plebei romani dovetter esser distinti con la leg-ge agraria di Servio Tullio, ch’aveva permesso loro il do-minio bonitario de’ campi; del quale non contentandosi,voleva Coriolano, come sopra si è detto, ridurre a’ gior-nalieri di Romolo. E poscia, buccinando dappertutto igreci la guerra troiana e gli errori degli eroi, e per l’Italiaquelli d’Enea, come vi avevano osservato innanzi il lorErcole, il lor Evandro, i loro cureti (conforme si è sopradetto), in cotal guisa, a capo di tempo, che tali tradizioniper mano di gente barbara s’eran alterate e finalmentecorrotte; in cotal guisa diciamo, Enea divenne fondatoredella romana gente nel Lazio: il quale il Bocharto vuoleche non mise mai piede in Italia, Strabone dice che nonuscì mai da Troia, ed Omero, c’ha qui più peso, narrach’egli ivi morì e vi lasciò il regno a’ suoi posteri. Così,per due borie diverse di nazioni – una de’ greci, che perlo mondo fecero tanto romore della guerra di Troia; l’al-tra de’ romani, di vantare famosa straniera origine, – igreci v’intrusero, i romani vi ricevettero finalmenteEnea fondatore della gente romana.

La qual favola non poté nascere che a’ tempi della

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guerra con Pirro, da’ quali i romani incominciarono adilettarsi delle cose de’ greci; perché tal costume osser-viamo celebrarsi dalle nazioni dopo c’hanno molto elungo tempo praticato con istranieri.

3.DELLA NOMINAZIONE E DESCRIZIONE DELLE

CITTÀ EROICHE.

Ora, perché sono parti della geografia la nomenclatu-ra e la corografia, o sieno nominazione e descrizione de’luoghi, principalmente delle città, per compimento dellasapienza poetica ci rimane di queste da ragionare.

Se n’è detto sopra che le città eroiche si ritruovaronodalla provvedenza fondate in luoghi di forti siti, che gliantichi latini con vocabolo sagro, ne’ loro tempi divini,dovettero chiamare «aras» e appellar anco «arces» tailuoghi forti di sito, perché ne’ tempi barbari ritornati da«rocce», rupi erte e scoscese, si dissero poi le «ròcche»,e quindi «castella» le signorie. E, alla stessa fatta, tal no-me di «are» si dovette stendere a tutto il distretto di cia-scun’eroica città, il quale, come sopra si è osservato, sidisse «ager» in ragionamento di «confini con istranieri»e «territorium» in ragionamento di «giurisdizione suicittadini». Di tutto ciò vi ha un luogo d’oro appo Tacito,ove descrive l’ara massima d’Ercole in Roma, il quale,perché troppo gravemente appruova questi princìpi,rapportiamo qui intiero: «Igitur a foro boario, ubiæneum bovis simulacrum adspicimus, quia id genius ani-malium aratro subditur, sulcus designandi oppidi captus,ut magnam Herculis aram complecteretur, ara Herculiserat»; – un altro pur d’oro appresso Sallustio, ove narrala famosa ara de’ fratelli Fileni rimasta per confinedell’imperio cartaginese e del cirenaico.

Di sì fatte are è sparsa tutta l’antica geografia. E, inco-minciando dall’Asia, osserva il Cellari nella sua Antica

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geografia che tutte le città della Siria si dissero «are» coninnanzi o dopo i loro propi vocaboli, ond’essa Siria se nedisse Aramea ed Aramia. Ma nella Grecia fondò Teseola città d’Atene sul famoso altare degl’infelici, estiman-do con la giusta idea d’«infelici» gli uomini eslegi ed em-pi, che dalle risse della infame comunione ricorrevanoalle terre forti de’ forti, come sopra abbiam detto, tuttisoli, deboli e bisognosi di tutti i beni ch’aveva a’ pii pro-dutto l’umanità; onde da’ greci si disse ára anco il «vo-to». Perché, come pur sopra abbiam ragionato, sopra ta-li prime are del gentilesimo le prime ostie, le primevittime (dette «Saturni hostiæ», come sopra vedemmo), iprimi anathémata (ch’in latino si trasportano «diris de-voti»), che furono gli empi violenti, ch’osavano entrarenelle terre arate de’ forti per inseguire i deboli, che percampare da essi vi rifuggivano (ond’è forse detto «cam-pare» per «salvarsi»), quivi essi da Vesta vi erano consa-grati ed uccisi; e ne restò a’ latini «supplicium» per signi-ficare «pena» e «sagrifizio», ch’usa fra gli altri Sallustio.Nelle quali significazioni troppo acconciamente a’ latinirispondono i greci, a’ quali la voce ára, che, come si èdetto, vuol dire «votum», significa altresì «noxa», ch’è ’lcorpo c’ha fatto il danno, e significa «diræ» che son esseFurie, quali appunto erano questi primi devoti che quiabbiam detto (e più ne diremo nel libro IV), ch’eranoconsagrati alle Furie e dappoi sagrificati sopra questiprimi altari della gentilità. Talché la voce «hara», che cirestò a significare la «mandria», dovette agli antichi lati-ni significare la «vittima»; dalla qual voce certamente èdetto «aruspex» l’indovinatore, dall’interiore delle vitti-me uccise innanzi agli altari.

E da ciò che testé si è detto dell’ara massima d’Ercole,dovette Romolo sopra un’ara somigliante a quella di Te-seo fondar Roma dentro l’asilo aperto nel luco, perchérestò a’ latini che nommai mentovassero luco o boscosagro, ch’ivi non fusse alcun’ara alzata a qualche divi-

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nità: talché per quello che Livio ci disse sopra general-mente, che gli asili furono «vetus urbes condentium con-silium», ci si scuopre la ragione perché nell’antica geo-grafia si leggono tante città col nome di «are». Laondebisogna confessare che da Cicerone con iscienza di que-st’antichità il senato fu detto «ara sociorum», perocchéal senato portavano le provincie le querele di sindacatocontro i governadori ch’avaramente l’avevano governa-te, richiamandone l’origine da questi primi soci delmondo.

Già dunque abbiamo dimostro dirsi «are» le cittàeroiche nell’Asia e, per l’Europa, in Grecia e in Italia.Nell’Affrica restò, appo Sallustio, famosa l’ara de’ fratel-li Fileni poc’anzi detta. Nel Settentrione, ritornando inEuropa, tuttavia si dicono «are de’ cicoli», nella Transil-vania, le città abitate da un’antichissima nazione unna,tutta di nobili contadini e pastori, che con gli ungheri esassoni compongono quella provincia. Nella Germania,appo Tacito, si legge l’«ara degli ubi». In Ispagna ancordura a molte il nome di «ara». Ma in lingua siriaca la vo-ce «ari» vuol dir «lione»; e noi sopra, nella teogonia na-turale delle dodici maggiori divinità, dimostrammo chedalla difesa dell’are nacque a’ greci l’idea di Marte, cheloro si dice Aùres; talché, per la stessa idea di fortezza,ne’ tempi barbari ritornati tante città e case nobili cari-cano di lioni le lor insegne. Cotal voce, di suono e signi-ficato uniforme in tante nazioni, per immensi tratti diluoghi e tempi e costumi tra lor divise e lontane, dovettedar a’ latini la voce «aratrum», la cui curvatura si disse«urbs»; quindi a’ medesimi dovettero venire e «arx» e«arceo», dond’è «ager arcifinius» agli scrittori de limiti-bus agrorum, e dovettero venir altresì le voci «arma» e«arcus», riponendo, con giusta idea, la fortezza in arre-trare e tener lontana l’ingiuria.

Ed ecco la sapienza poetica dimostrata meritar congiustizia quelle due somme e sovrane lodi: delle quali

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una certamente e con costanza l’è attribuita, d’aver fon-dato il gener umano della gentilità, che le due borie,l’una delle nazioni, l’altra de’ dotti, quella con l’idee diuna vana magnificenza, questa con l’idee d’un’importu-na sapienza filosofica, volendogliele affermare, gliel’han-no più tosto niegata; l’altra, della quale pure una volgartradizione n’è pervenuta, che la sapienza degli antichifaceva i suoi saggi, con uno spirito, egualmente grandi efilosofi e legislatori e capitani ed istorici ed oratori epoeti, ond’ella è stata cotanto disiderata. Ma quella glifece o, più tosto, gli abbozzò tali, quali l’abbiamo truo-vati dentro le favole, nelle quali, com’in embrioni o ma-trici, si è discoverto essere stato abbozzato tutto il sape-re riposto; che puossi dire dentro di quelle per sensiumani essere stati dalle nazioni rozzamente descritti iprincìpi di questo mondo di scienze, il quale poi con ra-ziocinî e con massime ci è stato schiarito dalla particola-re riflessione de’ dotti. Per lo che tutto, si ha ciò che ’nquesto libro dovevasi dimostrare: che i poeti teologi fu-rono il senso, i filosofi furono l’intelletto dell’umana sa-pienza.

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LIBRO TERZO

DELLA DISCOVERTA DEL VERO OMERO.

Quantunque la sapienza poetica, nel libro precedentegià dimostrata essere stata la sapienza volgare de’ popolidella Grecia, prima poeti teologi e poscia eroici, debbaella portare di séguito necessario che la sapienza d’Ome-ro non sia stata di spezie punto diversa; però, perchéPlatone ne lasciò troppo altamente impressa l’oppenio-ne che fusse egli fornito di sublime sapienza riposta (on-de l’hanno seguìto a tutta voga tutti gli altri filosofi, e so-pra gli altri Plutarco ne ha lavorato un intiero libro), noiqui particolarmente ci daremo ad esaminare se Omeromai fusse stato filosofo; sul qual dubbio scrisse un altrointiero libro Dionigi Longino, il quale da Diogene Laer-zio nella Vita di Pirrone sta mentovato.

1.DELLA SAPIENZA RIPOSTA C’HANNO

OPPINATO D’OMERO.

Perché gli si conceda pure ciò che certamente deelesidare, ch’Omero dovette andar a seconda de’ sensi tuttivolgari, e perciò de’ volgari costumi della Grecia, a’ suoitempi barbara, perché tali sensi volgari e tai volgari co-stumi danno le propie materie a’ poeti. E perciò gli siconceda quello che narra: – estimarsi gli dèi dalla forza,– come dalla somma sua forza Giove vuol dimostrare,nella favola della gran catena, ch’esso sia il re degli uo-mini e degli dèi, come si è sopra osservato; sulla qualvolgar oppenione fa credibile che Diomede ferisce Ve-nere e Marte con l’aiuto portatogli da Minerva, la quale,nella contesa degli dèi, e spoglia Venere e percuote Mar-te con un colpo di sasso (tanto Minerva nella volgar cre-

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denza era dea della filosofia! e sì ben usa armadura de-gna della sapienza di Giove!). Gli si conceda narrare ilcostume immanissimo (il cui contrario gli autori del di-ritto natural delle genti vogliono essere stato eterno tral-le nazioni), che pur allora correva tralle barbarissimegenti greche (le quali si è creduto avere sparso l’umanitàper lo mondo), di avvelenar le saette (onde Ulisse perciò va in Efira, per ritruovarvi le velenose erbe) e di nonseppellire i nimici uccisi in battaglia, ma lasciargli insep-polti per pasto de’ corvi e cani (onde tanto costò all’infe-lice Priamo il riscatto del cadavero di Ettore da Achille,che, pure nudo, legato al suo carro, l’aveva tre giornistrascinato d’intorno alle mura di Troia).

Però, essendo il fine della poesia d’addimesticare laferocia del volgo, del quale sono maestri i poeti, non erad’uom saggio di tai sensi e costumi cotanto fieri destarnel volgo la maraviglia per dilettarsene, e col diletto con-fermargli vieppiù. Non era d’uom saggio al volgo villanodestar piacere delle villanie degli dèi nonché degli eroi,come, nella contesa, si legge che Marte ingiuria «moscacanina» a Minerva, Minerva dà un pugno a Diana,Achille ed Agamennone, uno il massimo de’ greci eroi,l’altro il principe della greca lega, entrambi re, s’ingiu-riano l’un l’altro «cani», ch’appena ora direbbesi da’servidori nelle commedie.

Ma, per Dio! qual nome più propio che di «stoltezza»merita la sapienza del suo capitano Agamennone, il qua-le dev’essere costretto da Achille a far suo dovere di re-stituire Criseide a Crise, di lei padre, sacerdote d’Apol-lo, il qual dio per tal rapina faceva scempio dell’esercitogreco con una crudelissima pestilenza? e, stimando d’es-servi in ciò andato del punto suo, credette rimettersi inonore con usar una giustizia ch’andasse di séguito a sìfatta sapienza, e toglier a torto Briseide ad Achille, ilqual portava seco i fati di Troia, acciocché, disgustatodipartendosi con le sue genti e con le sue navi, Ettore fa-

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cesse il resto de’ greci ch’erano dalla peste campati? Ec-co l’Omero finor creduto ordinatore della greca poliziao sia civiltà, che da tal fatto incomincia il filo con cui tes-se tutta l’Iliade, i cui principali personaggi sono un talcapitano ed un tal eroe, quale noi facemmo vedereAchille ove ragionammo dell’Eroismo de’ primi popoli!Ecco l’Omero innarrivabile nel fingere i caratteri poeti-ci, come qui dentro il farem vedere, de’ quali gli piùgrandi sono tanto sconvenevoli in questa nostra umanacivil natura! Ma eglino sono decorosissimi in rapportoalla natura eroica, come si è sopra detto, de’ puntigliosi.

Che dobbiam poi dire di quello che narra: i suoi eroicotanto dilettarsi del vino, e, ove sono afflittissimi d’ani-mo, porre tutto il lor conforto, e sopra tutti il saggioUlisse, in ubbriacarsi? Precetti invero di consolazione,degnissimi di filosofo!

Fanno risentire lo Scaligero quasi tutte le compara-zioni prese dalle fiere e da altre selvagge cose. Ma conce-dasi ciò essere stato necessario ad Omero per farsi me-glio intendere dal volgo fiero e selvaggio: però cotantoriuscirvi, che tali comparazioni sono incomparabili, nonè certamente d’ingegno addimesticato ed incivilito da al-cuna filosofia. Né da un animo da alcuna filosofia uma-nato ed impietosito potrebbe nascer quella truculenza efierezza di stile, con cui descrive tante, sì varie e sangui-nose battaglie, tante, sì diverse e tutte in istravaganti gui-se crudelissime spezie d’ammazzamenti, che particolar-mente fanno tutta la sublimità dell’Iliade.

La costanza poi, che si stabilisce e si ferma con lo stu-dio della sapienza de’ filosofi, non poteva fingere gli dèie gli eroi cotanti leggieri, ch’altri ad ogni picciolo motivodi contraria ragione, quantunque commossi e turbati,s’acquetano e si tranquillano; – altri nel bollore di vio-lentissime collere, in rimembrando cosa lagrimevole, sidileguano in amarissimi pianti (appunto come nella ri-tornata barbarie d’Italia – nel fin della quale provenne

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Dante, il toscano Omero, che pure non cantò altro cheistorie – si legge che Cola di Rienzo – la cui Vita dicem-mo sopra esprimer al vivo i costumi degli eroi di Grecia,che narra Omero, – mentre mentova l’infelice stato ro-mano oppresso da’ potenti in quel tempo, esso e coloro,appo i quali ragiona, prorompono in dirottissime lagri-me); – al contrario altri, da sommo dolor afflitti, in pre-sentandosi loro cose liete, come al saggio Ulisse la cenada Alcinoo, si dimenticano affatto de’ guai e tutti sisciolgono in allegria; – altri, tutti riposati e quieti, ad uninnocente detto d’altrui che lor non vada all’umore, sirisentono cotanto e montano in sì cieca collera, che mi-nacciano presente atroce morte a chi ’l disse. Come quelfatto d’Achille, che riceve alla sua tenda Priamo (il qualedi notte, con la scorta di Mercurio, per mezzo al campode’ greci, era venuto tutto solo da essolui per riscattar ilcadavero, com’altra volta abbiam detto, di Ettorre),l’ammette a cenar seco; e, per un sol detto il quale nongli va a seconda, ch’all’infelicissimo padre cadde innav-vedutamente di bocca per la pietà d’un sì valoroso fi-gliuolo, – dimenticato delle santissime leggi dell’ospita-lità; non rattenuto dalla fede onde Priamo era venutotutto solo da essolui, perché confidava tutto in lui solo;nulla commosso dalle molte e gravi miserie di un tal re,nulla dalla pietà di tal padre, nulla dalla venerazione diun tanto vecchio; nulla riflettendo alla fortuna comune,della quale non vi ha cosa che più vaglia a muover com-patimento; – montato in una collera bestiale, l’intuonasopra volergli mozzar la testa. Nello stesso tempoch’empiamente ostinato di non rimettere una privata of-fesa fattagli da Agamennone (la quale, benché statafuss’ella grave, non era giusto di vendicare con la rovinadella patria e di tutta la sua nazione), si compiace, chiporta seco i fati di Troia, che vadano in rovina tutti i gre-ci, battuti miseramente da Ettorre; né pietà di patria, négloria di nazione il muovono a portar loro soccorso, il

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quale non porta finalmente che per soddisfare un suoprivato dolore, d’aver Ettorre ucciso il suo Patroclo. Edella Briseide toltagli nemmeno morto si placa, senonsél’infelice bellissima real donzella Polissena, della rovina-ta casa del poc’anzi ricco e potente Priamo, divenuta mi-sera schiava, fusse sagrificata innanzi al di lui sepolcro, ele di lui ceneri, assetate di vendetta, non insuppassedell’ultima sua goccia di sangue. Per tacer affatto diquello che non può intendersi: ch’avesse gravità ed ac-concezza di pensar da filosofo chi si trattenesse in ri-truovare tante favole di vecchiarelle da trattener i fan-ciulli, di quante Omero affollò l’altro poemadell’Odissea.

Tali costumi rozzi, villani, feroci, fieri, mobili, irragio-nevoli o irragionevolmente ostinati, leggieri e sciocchi,quali nel libro II dimostrammo ne’ Corollari della naturaeroica, non posson esser che d’uomini per debolezza dimenti quasi fanciulli, per robustezza di fantasie come difemmine, per bollore di passioni come di violentissimigiovani; onde hassene a niegar ad Omero ogni sapienzariposta. Le quali cose qui ragionate sono materie per lequali incomincian ad uscir i dubbi che ci pongono nellanecessità per la ricerca del vero Omero.

2.DELLA PATRIA D’OMERO.

Tal fu la sapienza riposta finor creduta d’Omero: oravediamo della patria. Per la qual contesero quasi tutte lecittà della Grecia, anzi non mancarono di coloro che ’lvollero greco d’Italia, e per determinarla Leone Allacci(De patria Homeri) invano vi s’affatica. Ma, perché nonci è giunto scrittore che sia più antico d’Omero, comerisolutamente il sostiene Giuseffo contro Appione gra-matico, e gli scrittori vennero per lunga età dopo lui, sia-mo necessitati con la nostra critica metafisica, come so-

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pra un autore di nazione, qual egli è stato tenuto diquella di Grecia, di ritruovarne il vero, e della età e dellapatria, da esso Omero medesimo.

Certamente, di Omero autore dell’Odissea siamo assi-curati essere stato dell’occidente di Grecia verso mez-zodì da quel luogo d’oro dove Alcinoo, re de’ feaci (oraCorfù) ad Ulisse, che vuol partire, offerisce una ben cor-redata nave de’ suoi vassalli, i quali dice essere spertissi-mi marinai, che ’l porterebbero, se bisognasse, fin in Eu-bea (or Negroponto), la quale, coloro ch’avevano perfortuna veduto, dicevano essere lontanissima, come sefusse l’ultima Tule del mondo greco. Dal qual luogo sidimostra con evidenza Omero dell’Odissea essere statoaltro da quello che fu autor dell’Iliade; perocché Eubeanon era molto lontana da Troia, ch’era posta nell’Asialungo la riviera dell’Ellesponto, nel cui angustissimostretto son ora due fortezze che chiamano Dardanelli, efin al dì d’oggi conservano l’origine della voce «Darda-nia», che fu l’antico territorio di Troia. E certamente ap-po Seneca si ha essere stata celebre quistione tra’ grecigramatici: se l’Iliade e l’Odissea fussero d’un medesimoautore.

La contesa delle greche città per l’onore d’aver cia-scuna Omero suo cittadino, ella provenne perché quasiogniuna osservava ne’ di lui poemi e voci e frasi e dialet-ti ch’eran volgari di ciascheduna.

Lo che qui detto serve per la discoverta del veroOmero.

3.DELL’ETÀ D’OMERO.

Ci assicurano dell’età d’Omero le seguenti autoritàde’ di lui poemi:

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I

Achille ne’ funerali di Patroclo dà a vedere quasi tuttele spezie de’ giuochi, che poi negli olimpici celebrò lacoltissima Grecia.

II

Eransi già ritruovate l’arti di fondere in bassirilievi,d’intagliar in metalli, come, fralle altre cose, si dimostracon lo scudo d’Achille ch’abbiamo sopra osservato: lapittura non erasi ancor truovata. Perché la fonderiaastrae le superficie con qualche rilevatezza, l’intagliaturafa lo stesso con qualche profondità; ma la pittura astraele superficie assolute, ch’è difficilissimo lavoro d’inge-gno. Onde né Omero né Mosè mentovano cose dipintegiammai: argomento della lor antichità.

III

Le delizie de’ giardini d’Alcinoo, la magnificenza del-la sua reggia e la lautezza delle sue cene ci appruovanoche già i greci ammiravano lusso e fasto.

IV

I fenici già portavano nelle greche marine avolio, por-pora, incenso arabico, di che odora la grotta di Venere;oltracciò, bisso più sottile della secca membrana d’unacipolla, vesti ricamate, e, tra’ doni de’ proci, una da riga-larsi a Penelope, che reggeva sopra una macchina così didilicate molle contesta, che ne’ luoghi spaziosi la dilar-gassero, e l’assettassero negli angusti. Ritruovato degnodella mollezza de’ nostri tempi!

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V

Il cocchio di Priamo, con cui si porta ad Achille, fattodi cedro, e l’antro di Calipso ne odora ancor di profumi,il qual è un buon gusto de’ sensi, che non intese il piacerromano quando più infuriava a disperdere le sostanzenel lusso sotto i Neroni e gli Eliogabali.

VI

Si descrivono dilicatissimi bagni appo Circe.

VII

I servetti de’ proci, belli, leggiadri e di chiome bion-de, quali appunto si vogliono nell’amenità de’ nostri co-stumi presenti.

VIII

Gli uomini come femmine curano la zazzera; lo cheEttorre e Diomede rinfacciano a Paride effemminato.

IX

E, quantunque egli narri i suoi eroi sempre cibarsi dicarni arroste, il qual cibo è ’l più semplice e schietto ditutti gli altri, perché non ha d’altro bisogno che dellebrace: il qual costume restò dopo ne’ sagrifizi, e ne re-starono a’ romani dette «prosiicia» le carni delle vittimearroste sopra gli altari, che poi si tagliavano per divider-si a’ convitati, quantunque poscia si arrostirono, come leprofane, con gli schidoni. Ond’è che Achille, ove dà lacena a Priamo, esso fende l’agnello e Patroclo poi l’arro-ste, apparecchia la mensa e vi pone sopra il pane dentroi canestri: perché gli eroi non celebravano banchetti che

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non fussero sagrifizi, dov’essi dovevano esser i sacerdoti.E ne restarono a’ latini «epulæ», ch’erano lauti banchet-ti e, per lo più, che celebravano i grandi; ed «epulum»,che dal pubblico si dava al popolo, e la «cena sagra», incui banchettavano i sacerdoti detti «epulones». PerciòAgamennone esso uccide i due agnelli, col qual sagrifi-zio consagra i patti della guerra con Priamo. Tanto allo-ra era magnifica cotal idea, ch’ora ci sembra essere dibeccaio! Appresso dovettero venire le carni allesse,ch’oltre al fuoco hanno di bisogno dell’acqua, del cal-daio e, con ciò, del treppiedi; delle quali Virgilio fa ancocibar i suoi eroi, e gli fa con gli schidoni arrostir le carni.Vennero finalmente i cibi conditi, i quali, oltre a tutte lecose che si son dette, han bisogno de’ condimenti, –Ora, per ritornar alle cene eroiche d’Omero, benché lopiù dilicato cibo de’ greci eroi egli descriva esser farinacon cascio e mèle, però per due comparazioni si servedella pescagione; ed Ulisse, fintosi poverello, doman-dando la limosina ad un de’ proci, gli dice che gli dèiagli re ospitali, o sien caritatevoli co’ poveri viandanti,danno i mari pescosi, o sia abbondanti di pesci, che fan-no la delizia maggior delle cene.

X

Finalmente (quel che più importa al nostro proposi-to) Omero sembra esser venuto in tempi ch’era già ca-duto in Grecia il diritto eroico e ’ncominciata a cele-brarsi la libertà popolare, perché gli eroi contraggonomatrimoni con istraniere e i bastardi vengono nelle suc-cessioni de’ regni. E così dovett’andar la bisogna, per-ché, lungo tempo innanzi, Ercole, tinto dal sangue delbrutto centauro Nesso, e quindi uscito in furore, eramorto; cioè, come si è nel libro II spiegato, era finito ildiritto eroico.

Adunque, volendo noi d’intorno all’età d’Omero non

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disprezzare punto l’autorità, per tutte queste cose osser-vate e raccolte da’ di lui poemi medesimi, e, più chedall’Iliade, da quello dell’Odissea, che Dionigi Longinostima aver Omero essendo vecchio composto, avvaloria-mo l’oppenion di coloro che ’l pongono lontanissimodalla guerra troiana: il qual tempo corre per lo spazio diquattrocensessant’anni, che vien ad essere circa i tempidi Numa. E pure crediamo di far loro piacere in ciò, chenol poniamo a’ tempi più a noi vicini, perché dopo itempi di Numa dicono che Psammetico aprì a’ grecil’Egitto, i quali, per infiniti luoghi dell’Odissea partico-larmente, avevano da lungo tempo aperto il commerzionella loro Grecia a’ fenici; delle relazioni de’ quali, nien-te meno che delle mercatanzie, com’ora gli europei diquelle dell’Indie, eran i popoli greci già usi di dilettarsi.Laonde convengono queste due cose: e che Omero eglinon vide l’Egitto, e che narra tante cose e di Egitto e diLibia, e di Fenicia e dell’Asia, e sopra tutto d’Italia e diSicilia, per le relazioni ch’i greci avute n’avevano da’ fe-nici.

Ma non veggiamo se questi tanti e sì dilicati costumiben si convengono con quanti e quali selvaggi e fieri eglinello stesso tempo narra de’ suoi eroi, e particolarmentenell’Iliade. Talché,

ne placidis coëant immitia,

sembrano tai poemi essere stati per più età e da più ma-ni lavorati e condotti.

Così, con queste cose qui dette della patria e dell’etàdel finora creduto, si avanzano i dubbi per la ricerca delvero Omero.

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4.DELL’INNARRIVABILE FACULTÀ POETICA

EROICA D’OMERO.

Ma la niuna filosofia, che noi abbiamo sopra dimo-strato d’Omero e le discoverte fatte della di lui patria edetà, che ci pongono in un forte dubbio che non forseegli sia stato un uomo affatto volgare, troppo ci son av-valorate dalla disperata difficultà, che propone Orazionell’Arte poetica, di potersi dopo Omero fingere caratte-ri, ovvero personaggi di tragedie, di getto nuovi, ond’es-so a’ poeti dà quel consiglio di prenderglisi da’ poemid’Omero. Ora cotal disperata difficultà si combini conquello: ch’i personaggi della commedia nuova son purtutti di getto finti, anzi per una legge ateniese dovette lacommedia nuova comparire ne’ teatri con personaggitutti finti di getto; e sì felicemente i greci vi riuscirono,ch’i latini, nel loro fasto, a giudizio di Fabio Quintiliano,ne disperarono anco la competenza, dicendo: «Cumgræcis de comoedia non contendimus».

A tal difficultà d’Orazio aggiugniamo in più ampia di-stesa quest’altre due. Delle quali una è: come Omero,ch’era venuto innanzi, fu egli tanto innimitabil poetaeroico, e la tragedia, che nacque dopo, cominciò cosìrozza, com’ogniun sa e noi più a minuto qui appressol’osserveremo? L’altra è: come Omero, venuto innanzialle filosofie ed alle arti poetiche e critiche, fu egli il piùsublime di tutti gli più sublimi poeti, quali sono gli eroi-ci, e, dopo ritruovate le filosofie e le poetiche e critichearti, non vi fu poeta, il quale [non] potesse che per lun-ghissimi spazi tenergli dietro? Ma, lasciando queste duenostre, la difficultà d’Orazio, combinata con quelloch’abbiamo detto della commedia nuova doveva pureporre in ricerca i Patrizi, gli Scaligeri, i Castelvetri ed al-tri valenti maestri d’arte poetica d’investigarne la ragiondella differenza.

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Cotal ragione non può rifondersi altrove che nell’ori-gine della poesia, sopra qui scoverta nella Sapienza poeti-ca, e ’n conseguenza nella discoverta de’ caratteri poeti-ci, ne’ quali unicamente consiste l’essenza dellamedesima poesia. Perché la commedia nuova proponeritratti de’ nostri presenti costumi umani, sopra i qualiaveva meditato la socratica filosofia, donde dalle di leimassime generali d’intorno all’umana morale poterono igreci poeti, in quella addottrinati profondamente (qualeMenandro, a petto di cui Terenzio da essi latini fu detto«Menandro dimezzato»); poterono, dico, fingersicert’esempli luminosi di uomini d’idea, al lume e splen-dor de’ quali si potesse destar il volgo, il quale tanto èdocile ad apprendere da’ forti esempli quanto è incapa-ce d’apparare per massime ragionate. La commedia an-tica prendeva argomenti ovvero subbietti veri e gli met-teva in favola quali essi erano, come per una il cattivoAristofane mise in favola il buonissimo Socrate e ’l ro-vinò. Ma la tragedia caccia fuori in iscena odî, sdegni,collere, vendette eroiche (ch’escano da nature sublimi,dalle quali naturalmente provengano sentimenti, parlari,azioni in genere, di ferocia, di crudezza, di atrocità) ve-stiti di maraviglia; e tutte queste cose sommamenteconformi tra loro ed uniformi ne’ lor subbietti, i quali la-vori si seppero unicamente fare da’ greci ne’ loro tempidell’eroismo, nel fine de’ quali dovette venir Omero. Loche con questa critica metafisica si dimostra: che le favo-le, le quali sul loro nascere eran uscite diritte e convene-voli, elleno ad Omero giunsero e torte e sconce; come sipuò osservare per tutta la Sapienza poetica sopra qui ra-gionata, che tutte dapprima furono vere storie, che trat-to tratto s’alterarono e si corruppero, e così corrotte fi-nalmente ad Omero pervennero. Ond’egli è da porsinella terza età de’ poeti eroici: dopo la prima, che ri-truovò tali favole in uso di vere narrazioni, nella primapropia significazione della voce mûthos, che da essi gre-

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ci è diffinita «vera narrazione»; la seconda di quelli chel’alterarono e le corruppero; la terza, finalmente,d’Omero, che così corrotte le ricevé.

Ma, per richiamarci al nostro proponimento, per laragione da noi di tal effetto assegnata, Aristotile nellaPoetica dice che le bugie poetiche si seppero unicamenteritruovare da Omero, perché i di lui caratteri poetici,che in una sublime acconcezza sono incomparabili,quanto Orazio gli ammira, furono generi fantastici, qua-li sopra si sono nella Metafisica poetica diffiniti, a’ quali ipopoli greci attaccarono tutti i particolari diversi appar-tenenti a ciascun d’essi generi. Come ad Achille, ch’è ’lsubbietto dell’Iliade, attaccarono tutte le propietà dellavirtù eroica e tutt’i sensi e costumi uscenti da tali pro-pietà di natura, quali sono risentiti, puntigliosi, collerici,implacabili, violenti, ch’arrogano tutta la ragione allaforza, come appunto gli raccoglie Orazio ove ne descri-ve il carattere. Ad Ulisse, ch’è ’l subbietto dell’Odissea,appiccarono tutti quelli dell’eroica sapienza, cioè tutti icostumi accorti, tolleranti, dissimulati, doppi, inganne-voli, salva sempre la propietà delle parole e l’indifferen-za dell’azioni, ond’altri da se stessi entrasser in errore es’ingannassero da se stessi. E ad entrambi tali caratteriattaccarono l’azioni de’ particolari, secondo ciascun de’due generi, più strepitose, le qual’i greci, ancora storditie stupidi, avessero potuto destar e muover ad avvertirlee rapportarle a’ loro generi. I quali due caratteri, aven-dogli formati tutta una nazione, non potevano non fin-gersi che naturalmente uniformi (nella quale uniformità,convenevole al senso comune di tutta una nazione, con-siste unicamente il decoro, o sia la bellezza e leggiadriad’una favola); e, perché si fingevano da fortissime imma-ginative, non si potevano fingere che sublimi. Di che ri-masero due eterne propietà in poesia: delle quali una èche ’l sublime poetico debba sempre andar unito al po-polaresco; l’altra, ch’i popoli, i quali prima si lavoraron

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essi i caratteri eroici, ora non avvertono a’ costumi uma-ni altrimente che per caratteri strepitosi di luminosissimiesempli.

5.PRUOVE FILOSOFICHE PER LA DISCOVERTA

DEL VERO OMERO.

Le quali cose stando così, vi si combinino questepruove filosofiche:

I

Quella che si è sopra tralle Degnità noverata: che gliuomini sono naturalmente portati a conservare le me-morie degli ordini e delle leggi che gli tengono dentro leloro società.

II

Quella verità ch’intese Lodovico Castelvetro: che pri-ma dovette nascere l’istoria, dopo la poesia; perché lastoria è una semplice enonziazione del vero, ma la poe-sia è una imitazione di più. E l’uomo, per altro acutissi-mo, non ne seppe far uso per rinvenire i veri princìpidella poesia, col combinarvi questa pruova filosofica,che qui si pone per

III

ch’essendo stati i poeti certamente innanzi agli storicivolgari, la prima storia debba essere la poetica.

IV

Che le favole nel loro nascere furono narrazioni vere e

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severe (onde mûthos, la favola, fu diffinita «vera narra-tio», come abbiamo sopra più volte detto); le quali nac-quero dapprima per lo più sconce, e perciò poi si reseroimpropie, quindi alterate, seguentemente inverisimili,appresso oscure, di là scandalose, ed alla fine incredibili;che sono sette fonti della difficultà delle favole, i quali dileggieri si possono rincontrare in tutto il secondo libro.

V

E, come nel medesimo libro si è dimostrato, così gua-ste e corrotte da Omero furono ricevute.

VI

Che i caratteri poetici, ne’ quali consiste l’essenza del-le favole, nacquero da necessità di natura, incapaced’astrarne le forme e le propietà da’ subbietti; e, ’n con-seguenza, dovett’essere maniera di pensare d’intieri po-poli, che fussero stati messi dentro tal necessità di natu-ra, ch’è ne’ tempi della loro maggior barbarie. Dellequali è eterna propietà d’ingrandir sempre l’idee de’particolari: di che vi ha un bel luogo d’Aristotile ne’ Li-bri morali, ove riflette che gli uomini di corte idee d’ogniparticolare fan massime. Del qual detto dev’essere la ra-gione: perché la mente umana, la qual è indiffinita, es-sendo angustiata dalla robustezza de’ sensi, non può al-trimente celebrare la sua presso che divina natura checon la fantasia ingrandir essi particolari. Onde forse, ap-presso i poeti greci egualmente e latini, le immagini co-me degli dèi così degli eroi compariscono sempre mag-giori di quelle degli uomini; e ne’ tempi barbari ritornatile dipinture, particolarmente del Padre eterno, di GesùCristo, della Vergine Maria, si veggono d’una eccedentegrandezza.

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VII

Perché i barbari mancano di riflessione, la qual, malusata, è madre della menzogna, i primi poeti latini eroicicantaron istorie vere, cioè le guerre romane. E ne’ tempibarbari ritornati, per sì fatta natura della barbarie, glistessi poeti latini non cantaron altro che istorie, comefuron i Gunteri, i Guglielmi pugliesi ed altri; e i roman-zieri de’ medesimi tempi credettero di scriver istorie ve-re: onde il Boiardo, l’Ariosto, venuti in tempi illuminatidalle filosofie, presero i subbietti de’ lor poemi dalla sto-ria di Turpino, vescovo di Parigi. E per questa stessa na-tura della barbarie, la quale per difetto di riflessione nonsa fingere (ond’ella è naturalmente veritiera, aperta, fi-da, generosa e magnanima), quantunque egli fusse dottodi altissima scienza riposta, con tutto ciò Dante nella suaCommedia spose in comparsa persone vere e rappre-sentò veri fatti de’ trappassati, e perciò diede al poema iltitolo di «commedia», qual fu l’antica de’ greci, che, co-me sopra abbiam detto, poneva persone vere in favola.E Dante somigliò in questo l’Omero dell’Iliade, la qualeDionigi Longino dice essere tutta «dramatica» o sia rap-presentativa, come tutta «narrativa» essere l’Odissea. EFrancesco Petrarca, quantunque dottissimo, pure in la-tino si diede a cantare la seconda guerra cartaginese; edin toscano, ne’ Trionfi, i quali sono di nota eroica, non faaltro che raccolta di storie. E qui nasce una luminosapruova di ciò: che le prime favole furon istorie. Perchéla satira diceva male di persone non solo vere, ma, dipiù, conosciute; la tragedia prendeva per argomenti per-sonaggi della storia poetica; la commedia antica ponevain favola chiari personaggi viventi; la commedia nuova,nata a’ tempi della più scorta riflessione, finalmente fin-se personaggi tutti di getto (siccome nella lingua italiananon ritornò la commedia nuova che incominciando il se-colo a maraviglia addottrinato del Cinquecento): né ap-

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po i greci né appo i latini giammai si finse di getto unpersonaggio che fusse il principale subbietto d’una tra-gedia. E ’l gusto del volgo gravemente lo ci conferma,che non vuole drami per musica, de’ quali gli argomentison tutti tragici, se non sono presi da istorie; ed intantosopporta gli argomenti finti nelle commedie, perché, es-sendo privati e perciò sconosciuti, gli crede veri.

VIII

Essendo tali stati i caratteri poetici, di necessità le lo-ro poetiche allegorie, come si è sopra dimostro per tuttala Sapienza poetica, devon unicamente contenere signifi-cati istorici de’ primi tempi di Grecia.

IX

Che tali storie si dovettero naturalmente conservare amemoria da’ comuni de’ popoli, per la prima pruova fi-losofica testé mentovata: che, come fanciulli delle nazio-ni, dovettero maravigliosamente valere nella memoria. Eciò, non senza divino provvedimento: poiché infin a’tempi di esso Omero, ed alquanto dopo di lui, non si eraritruovata ancora la scrittura volgare (come più volte so-pra si è udito da Giuseffo contro Appione), in tal umanabisogna i popoli, i quali erano quasi tutti corpo e quasiniuna riflessione, fussero tutti vivido senso in sentir iparticolari, forte fantasia in apprendergli ed ingrandir-gli, acuto ingegno nel rapportargli a’ loro generi fantasti-ci, e robusta memoria nel ritenergli. Le quali facultà ap-partengono, egli è vero, alla mente, ma mettono le lororadici nel corpo e prendon vigore dal corpo. Onde lamemoria è la stessa che la fantasia, la quale perciò «me-moria» dicesi da’ latini (come appo Terenzio truovasi«memorabile» in significato di «cosa da potersi immagi-nare», e volgarmente «comminisci» per «fingere», ch’è

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propio della fantasia, ond’è «commentum», ch’è un ri-truovato finto); e «fantasia» altresì prendesi per l’inge-gno (come ne’ tempi barbari ritornati si disse «uomofantastico» per significar «uomo d’ingegno», come si di-ce essere stato Cola di Rienzo dall’autore contempora-neo che scrisse la di lui vita). E prende tali tre differen-ze: ch’è memoria, mentre rimembra le cose; fantasia,mentre l’altera e contrafà; ingegno, mentre le contorna epone in acconcezza ed assettamento. Per le quali cagionii poeti teologi chiamarono la Memoria «madre dellemuse».

X

Perciò i poeti dovetter esser i primi storici delle na-zioni: ch’è quello ond’il Castelvetro non seppe far usodel suo detto per rinvenire le vere origini della poesia;ché ed esso e tutti gli altri che ne han ragionato (infinoda Aristotile e da Platone) potevano facilmente avvertireche tutte le storie gentilesche hanno favolosi i princìpi,come l’abbiamo nelle Degnità proposto e nella Sapienzapoetica dimostrato.

XI

Che la ragion poetica determina esser impossibil cosach’alcuno sia e poeta e metafisico egualmente sublime,perché la metafisica astrae la mente da’ sensi, la facultàpoetica dev’immergere tutta la mente ne’ sensi; la meta-fisica s’innalza sopra agli universali, la facultà poeticadeve profondarsi dentro i particolari.

XII

Che, ’n forza di quella Degnità sopra posta: – che ’nogni facultà può riuscire con l’industria chi non vi ha la

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natura, ma in poesia è affatto niegato a chi non vi ha lanatura di potervi riuscir con l’industria, – l’arti poetichee l’arti critiche servono a fare colti gl’ingegni, non gran-di. Perché la dilicatezza è una minuta virtù, e la grandez-za naturalmente disprezza tutte le cose picciole; anzi,come grande rovinoso torrente non può far di meno dinon portar seco torbide l’acque e rotolare e sassi e tron-chi con la violenza del corso, così sono le cose vili dette,che si truovano sì spesse in Omero.

XIII

Ma queste non fanno ch’Omero egli non sia il padre e’l principe di tutti i sublimi poeti.

XIV

Perché udimmo Aristotile stimar innarrivabili le bu-gie omeriche; ch’è lo stesso che Orazio stima inimitabilii di lui caratteri.

XV

Egli è infin al cielo sublime nelle sentenze poetiche,ch’abbiam dimostrato, ne’ Corollari della natura eroicanel libro secondo, dover esser concetti di passioni vere oche in forza d’un’accesa fantasia ci si facciano veramentesentire, e perciò debbon esser individuate in coloro chele sentono. Onde diffinimmo che le massime di vita,perché sono generali, sono sentenze di filosofi; e le ri-flessioni sopra le passioni medesime sono di falsi e fred-di poeti.

XVI

Le comparazioni poetiche prese da cose fiere e sel-

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vagge, quali sopra osservammo, sono incomparabili cer-tamente in Omero.

XVII

L’atrocità delle battaglie omeriche e delle morti, co-me pur sopra vedemmo, fanno all’Iliade tutta la maravi-glia.

XVIII

Ma tali sentenze, tali comparazioni, tali descrizionipur sopra pruovammo non aver potuto essere naturalidi riposato, ingentilito e mansueto filosofo.

XIX

Che i costumi degli eroi omerici sono di fanciulli perla leggerezza delle menti, di femmine per la robustezzadella fantasia, di violentissimi giovani per lo ferventebollor della collera, come pur sopra si è dimostrato, e, ’nconseguenza, impossibili da un filosofo fingersi con tan-ta naturalezza e felicità.

XX

Che l’inezie e sconcezze sono, come pur si è qui soprapruovato, effetti dell’infelicità, di che avevano travaglia-to nella somma povertà della loro lingua, mentre la siformavano, i popoli greci, a spiegarsi.

XXI

E contengansi pure gli più sublimi misteri della sa-pienza riposta, i quali abbiamo dimostrato nella Sapien-za poetica non contenere certamente: come suonano,

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non posson essere stati concetti di mente diritta, ordina-ta e grave, qual a filosofo si conviene.

XXII

Che la favella eroica, come si è sopra veduto nel libroII, nell’Origini delle lingue, fu una favella per simiglian-ze, immagini, comparazioni, nata da inopia di generi edi spezie, ch’abbisognano per diffinire le cose con pro-pietà, e, ’n conseguenza, nata per necessità di natura co-mune ad intieri popoli.

XXIII

Che per necessità di natura, come anco nel libro II siè detto, le prime nazioni parlarono in verso eroico. Nel-lo che è anco da ammirare la provvedenza, che, nel tem-po nel quale non si fussero ancor truovati i caratteri del-la scrittura volgare, le nazioni parlassero frattanto inversi, i quali coi metri e ritmi agevolassero lor la memo-ria a conservare più facilmente le loro storie famigliari ecivili.

XXIV

Che tali favole, tali sentenze, tali costumi, tal favella,tal verso si dissero tutti «eroici», e si celebrarono netempi ne’ quali la storia ci ha collocato gli eroi, com’ap-pieno si è dimostrato sopra nella Sapienza poetica.

XXV

Adunque tutte l’anzidette furono propietà d’intieripopoli e, ’n conseguenza, comuni a tutti i particolari uo-mini di tali popoli.

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XXVI

Ma noi, per essa natura, dalla quale son uscite tuttel’anzidette propietà, per le quali egli fu il massimo de’poeti, niegammo che Omero fusse mai stato filosofo.

XXVII

Altronde dimostrammo sopra nella Sapienza poeticache i sensi di sapienza riposta da’ filosofi, i quali venne-ro appresso, s’intrusero dentro le favole omeriche.

XXVIII

Ma, siccome la sapienza riposta non è che di pochiuomini particolari, così il solo decoro de’ caratteri poeti-ci eroici, ne’ quali consiste tutta l’essenza delle favoleeroiche, abbiamo testé veduto che non posson oggi con-seguirsi da uomini dottissimi in filosofie, arti poeticheed arti critiche. Per lo qual decoro dà Aristotile il privi-legio ad Omero d’esser innarrivabili le di lui bugie; ch’èlo stesso che quello, che gli dà Orazio, d’esser innimita-bili i di lui caratteri.

6.PRUOVE FILOLOGICHE PER LA DISCOVERTA

DEL VERO OMERO.

Con questo gran numero di pruove filosofiche, fattebuona parte in forza della critica metafisica sopra gli au-tori delle nazioni gentili, nel qual numero è da porsiOmero, perocché non abbiamo certamente scrittor pro-fano che sia più antico di lui, come risolutamente il so-stiene Giuseffo ebreo, si congiugnan ora queste pruovefilologiche:

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I

Che tutte l’antiche storie profane hanno favolosi iprincìpi.

II

Che i popoli barbari, chiusi a tutte l’altre nazioni delmondo, come furono i germani antichi e gli americani,furono ritruovati conservar in versi i princìpi delle lorostorie, conforme si è sopra veduto.

III

Che la storia romana si cominciò a scrivere da’ poeti.

IV

Che ne’ tempi barbari ritornati i poeti latini ne scris-sero l’istorie.

V

Che Maneto, pontefice massimo egizio, portò l’anti-chissima storia egiziaca scritta per geroglifici ad una su-blime teologia naturale.

VI

E nella Sapienza poetica tale dimostrammo aver fatto igreci filosofi dell’antichissima storia greca narrata perfavole

VII

Onde noi sopra, nella Sapienza poetica, abbiam dovu-

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to tenere un cammino affatto retrogrado da quelloch’aveva tenuto Maneto, e dai sensi mistici restituir allefavole i loro natii sensi storici; e la naturalezza e facilità,senza sforzi, raggiri e contorcimenti, con che l’abbiamfatto, appruova la propietà dell’allegorie storiche checontenevano.

VIII

Lo che gravemente appruova ciò che Strabone in unluogo d’oro afferma: prima d’Erodoto, anzi primad’Ecateo milesio, tutta la storia de’ popoli della Greciaessere stata scritta da’ lor poeti.

IX

E noi nel libro secondo dimostrammo i primi scrittoridelle nazioni così antiche come moderne essere statipoeti.

X

Vi sono due aurei luoghi nell’Odissea, dove, volendo-si acclamar ad alcuno d’aver lui narrato ben un’istoria, sidice averla raccónta da musico e da cantore. Che dovet-ter esser appunto quelli che furon i suoi rapsòdi, i qualifuron uomini volgari, che partitamente conservavano amemoria i libri de’ poemi omerici.

XI

Che Omero non lasciò scritto niuno de’ suoi poemi,come più volte l’hacci detto risolutamente Flavio Giu-seffo ebreo contro Appione, greco gramatico.

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XII

Ch’i rapsòdi partitamente, chi uno, chi altro, andava-no cantando i libri d’Omero nelle fiere e feste per lecittà della Grecia.

XIII

Che dall’origini delle due voci, onde tal nome «rapsò-di» è composto, erano «consarcinatori di canti», che do-vettero aver raccolto non da altri certamente che da’ lo-ro medesimi popoli: siccome hómeros vogliono puressersi detto da homú, «simul», ed éirein, «connectere»,ove significa il «mallevadore», perocché leghi insieme ilcreditore col debitore. La qual origine è cotanto lontanae sforzata quanto è agiata e propia per significarel’Omero nostro, che fu legatore ovvero componitore difavole.

XIV

Che i Pisistratidi, tiranni d’Atene, eglino divisero e di-sposero, o fecero dividere e disponere, i poemi d’Omeronell’Iliade e nell’Odissea: onde s’intenda quanto innanzidovevan essere stati una confusa congerie di cose, quan-do è infinita la differenza che si può osservar degli stilidell’uno e dell’altro poema omerico.

XV

Che gli stessi Pisistratidi ordinarono ch’indi in poi da’rapsòdi fussero cantati nelle feste panatenaiche, comescrive Cicerone, De natura deorum, ed Eliano, in ciò se-guìto dallo Scheffero.

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XVI

Ma i Pisistratidi furono cacciati da Atene pochi anniinnanzi che lo furon i Tarquini da Roma: talché, ponen-dosi Omero a’ tempi di Numa, come abbiamo soprapruovato, pur dovette correre lunga età appresso chi ra-psòdi avessero seguitato a conservar a memoria i di luipoemi. La qual tradizione toglie affatto il credito all’al-tra di Aristarco ch’a’ tempi de’ Pisistratidi avesse fattocotal ripurga, divisione ed ordinamento de’ poemid’Omero, perché ciò non si poté fare senza la scritturavolgare, e sì da indi in poi non vi era bisogno più de’ ra-psòdi che gli cantassero per parti ed a mente.

XVII

Talché Esiodo, che lasciò opere di sé scritte, poichénon abbiamo autorità che da’ rapsòdi fusse stato,com’Omero, conservato a memoria, e da’ cronologi, conuna vanissima diligenza, è posto trent’anni innanzid’Omero, si dee porre dopo de’ Pisistratidi. Se non pu-re, qual’i rapsòdi omerici, tali furono i poeti ciclici, checonservarono tutta la storia favolosa de’ greci dal princi-pio de’ loro dèi fin al ritorno d’Ulisse in Itaca. I qualipoeti, dalla voce kúklos, non poteron esser altri ch’uo-mini idioti che cantassero le favole a gente volgare rac-colta in cerchio il dì di festa; qual cerchio è quell’appun-to che Orazio nell’Arte dice «vilem patulumque orbem»,che ’l Dacier punto non riman soddisfatto de’ commen-tatori ch’Orazio ivi voglia dir «i lunghi episodi». E forsela ragione di punto non soddisfarsene ella è questa: per-ché non è necessario che l’episodio d’una favola, peroc-ché sia lungo, debba ancor esser vile: come, per cagiond’esemplo, quelli delle delizie di Rinaldo con Armidanel giardino incantato e del ragionamento che fa il vec-chio pastore ad Erminia sono lunghi bensì, ma pertanto

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non sono vili, perché l’uno è ornato, l’altro è tenue o di-licato, entrambi nobili. Ma ivi Orazio, avendo dato l’av-viso a’ poeti tragici di prendersi gli argomenti da’ poemidi Omero, va incontro alla difficultà, ch’in tal guisa essinon sarebbon poeti, perché le favole sarebbero le ritruo-vate da Omero. Però Orazio risponde loro che le favoleepiche d’Omero diverranno favole tragiche propie, seessi staranno sopra questi tre avvisi. De’ quali il primo è:se essi non ne faranno oziose parafrasi, come osserviamotuttavia uomini leggere l’Orlando furioso o innamorato oaltro romanzo in rima a’ vili e larghi cerchi di sfaccenda-ta gente gli dì delle feste, e, recitata ciascuna stanza,spiegarla loro in prosa con più parole; – il secondo, senon ne saranno fedeli traduttori; – il terzo ed ultimo av-viso è: se finalmente non ne saranno servili imitatori,ma, seguitando i costumi ch’Omero attribuisce a’ suoieroi, eglino da tali stessi costumi faranno uscire altri sen-timenti, altri parlari, altre azioni conformi, e sì circa imedesimi subbietti saranno altri poeti da Omero. Cosìnella stess’Arte lo stesso Orazio chiama «poeta ciclico»un poeta triviale e da fiera. Sì fatti autori ordinariamentesi leggono detti kúklioi ed enkúklioi e la loro raccolta nefu detta kúklos epikós, kúklia épe, póiema enkúklikon e,senz’aggiunta alcuna, talora kúklos, come osserva Ge-rardo Langbenio nella sua prefazione a Dionigi Longi-no. Talché di questa maniera può essere ch’Esiodo, ilquale contiene tutte favole di dèi, egli fusse stato innanzid’Omero.

XVIII

Per questa ragione lo stesso è da dirsi d’Ippocrate, ilquale lasciò molte e grandi opere scritte non già in versoma in prosa, che perciò naturalmente non si potevanoconservar a memoria: ond’egli è da porsi circa i tempid’Erodoto.

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XIX

Per tutto ciò il Vossio troppo di buona fede ha credu-to confutare Giuseffo con tre iscrizioni eroiche, unad’Anfitrione, la seconda d’Ippocoonte, la terza di Lao-medonte (imposture somiglianti a quelle che fanno tut-tavia i falsatori delle medaglie); e Martino Scoockio assi-ste a Giuseffo contro del Vossio.

XX

A cui aggiugniamo che Omero non mai fa menzionedi lettere greche volgari, e la lettera da Preto scritta adEuria, insidiosa a Bellerofonte, come abbiamo altra vol-ta sopra osservato, dice essere stata scritta per sémata.

XXI

Che Aristarco emendò i poemi d’Omero, i quali pureritengono tanta varietà di dialetti, tante sconcezze di fa-vellari, che deon essere stati vari idiotismi de’ popolidella Grecia e tante licenze eziandio di misure.

XXII

Di Omero non si sa la patria, come si è sopra notato.

XXIII

Quasi tutti i popoli della Grecia il vollero lor cittadi-no, come si è osservato pur sopra.

XXIV

Sopra si son arrecate forti congetture l’Omerodell’Odissea essere stato dell’occidente di Grecia verso

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mezzodì, e quello dell’Iliade essere stato dell’oriente ver-so settentrione.

XXV

Non se ne sa nemmeno l’età.

XXVI

E l’oppenioni ne sono sì molte e cotanto varie, che ’ldivario è lo spazio di quattrocensessant’anni, ponendo-lo, dalle sommamente opposte tra loro, una a’ tempi del-la guerra di Troia, l’altra verso i tempi di Numa.

XXVII

Dionigi Longino, non potendo dissimulare la gran di-versità degli stili de’ due poemi, dice che Omero essen-do giovine compose l’Iliade e vecchio poi l’Odissea: par-ticolarità invero da sapersi di chi non si seppero le duecose più rilevanti nella storia, che sono prima il tempo epoi il luogo, delle quali ci ha lasciato al buio, ove ci nar-ra del maggior lume di Grecia.

XXVIII

Lo che dee togliere tutta la fede ad Erodoto, o chi al-tro ne sia l’autore, nella Vita d’Omero, ove ne raccontatante belle varie minute cose, che n’empie un giusto vo-lume; ed alla Vita che ne scrisse Plutarco, il qual, essen-do filosofo, ne parlò con maggiore sobrietà.

XXIX

Ma forse Longino formò cotal congettura, perchéOmero spiega nell’Iliade la collera e l’orgoglio d’Achille,

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che sono propietà di giovani, e nell’Odissea narra ledoppiezze e le cautele di Ulisse, che sono costumi divecchi.

XXX

È pur tradizione che Omero fu cieco, e dalla cecitàprese sì fatto nome, ch’in lingua ionica vuol dir «cieco».

XXXI

Ed Omero stesso narra ciechi i poeti che cantano nel-le cene de’ grandi, come cieco colui che canta in quellache dà Alcinoo ad Ulisse, e pur cieco l’altro che cantanella cena de’ proci.

XXXII

Ed è propietà di natura umana ch’i ciechi vaglionomaravigliosamente nella memoria.

XXXIII

E finalmente ch’egli fu povero e andò per gli mercatidi Grecia cantando i suoi propi poemi.

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IIDISCOVERTA DEL VERO OMERO.

Or tutte queste cose e ragionate da noi e narrate daaltri d’intorno ad Omero e i di lui poemi, senza puntoaverloci noi eletto o proposto, tanto che nemmeno ave-vamo sopra ciò riflettuto, quando (né con tal metodo colquale ora questa Scienza si è ragionata) acutissimi inge-gni d’uomini eccellenti in dottrina ed erudizione, conleggere la Scienza nuova la prima volta stampata, sospet-tarono che Omero finor creduto non fusse vero: tuttequeste cose, dico, ora ci strascinano ad affermare che ta-le sia adivenuto di Omero appunto quale della guerratroiana, che, quantunque ella dia una famosa epoca de’tempi alla storia, pur i critici più avveduti giudicano chequella non mai siesi stata fatta nel mondo. E certamente,se, come della guerra troiana, così di Omero non fusserocerti grandi vestigi rimasti, quanti sono i di lui poemi, atante difficultà si direbbe che Omero fusse stato un poe-ta d’idea, il quale non fu particolar uomo in natura. Matali e tante difficultà, e insiememente i poemi di lui per-venutici, sembrano farci cotal forza d’affermarlo per lametà: che quest’Omero sia egli stato un’idea ovvero uncarattere eroico d’uomini greci, in quanto essi narrava-no, cantando, le loro storie.

1.LE SCONCEZZE E INVERISIMIGLIANZE

DELL’OMERO FINOR CREDUTO DIVENGONONELL’OMERO QUI SCOVERTO

CONVENEVOLEZZE E NECESSITÀ.

Per sì fatta discoverta tutte le cose e discorse e narra-

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te, che sono sconcezze e inverisimiglianze nell’Omero fi-nor creduto, divengono nell’Omero qui ritruovato tutteconvenevolezze e necessità. E primieramente le stessecose massime lasciateci incerte di Omero ci violentano

I

Che per ciò i popoli greci cotanto contesero della dilui patria e ’l vollero quasi tutti lor cittadino, perché essipopoli greci furono quest’Omero.

II

Che per ciò variino cotanto l’oppenioni d’intorno alladi lui età, perché un tal Omero veramente egli visse perle bocche e nella memoria di essi popoli greci dalla guer-ra troiana fin a’ tempi di Numa, che fanno lo spazio diquattrocensessant’anni.

III

E la cecità

IV

e la povertà d’Omero furono de’ rapsòdi, i quali, essen-do ciechi, onde ogniun di loro si disse «omèro», prevale-vano nella memoria, ed essendo poveri, ne sostentavanola vita con andar cantando i poemi d’Omero per le cittàdella Grecia, de’ quali essi eran autori, perch’erano par-te di que’ popoli che vi avevano composte le loro istorie.

V

Così Omero compose giovine l’Iliade, quando eragiovinetta la Grecia e, ’n conseguenza, ardente di subli-

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mi passioni, come d’orgoglio, di collera, di vendetta, lequali passioni non soffrono dissimulazione ed amanogenerosità; onde ammirò Achille, eroe della forza: mavecchio compose poi l’Odissea, quando la Grecia avevaalquanto raffreddato gli animi con la riflessione, la qualè madre dell’accortezza; onde ammirò Ulisse, eroe dellasapienza. Talché a’ tempi d’Omero giovine a’ popolidella Grecia piacquero la crudezza, la villania, la ferocia,la fierezza, l’atrocità: a’ tempi d’Omero vecchio già glidilettavano i lussi d’Alcinoo, le delizie di Calipso, i pia-ceri di Circe, i canti delle sirene, i passatempi de’ proci edi, nonché tentare, assediar e combattere le caste Pene-lopi; i quali costumi, tutti ad un tempo, sopra ci sembra-rono incompossibili. La qual difficultà poté tanto nel di-vino Platone che, per solverla, disse che Omero avevapreveduti in estro tali costumi nauseanti, morbidi e dis-soluti. Ma egli, così, fece Omero uno stolto ordinatoredella greca civiltà, perché, quantunque gli condanni,però insegna i corrotti e guasti costumi, i quali dovevanovenire dopo lungo tempo ordinate le nazioni di Grecia,affinché, affrettando il natural corso che fanno le coseumane, i greci alla corrottella più s’avacciassero.

VI

In cotal guisa si dimostra l’Omero autor dell’Iliadeavere di molt’età preceduto l’Omero autore dell’Odis-sea.

VII

Si dimostra che quello fu dell’oriente di Grecia versosettentrione, che cantò la guerra troiana fatta nel suopaese; e che questo fu dell’occidente di Grecia versomezzodì, che canta Ulisse, ch’aveva in quella parte il suoregno.

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VIII

Così Omero, sperduto dentro la folla de’ greci popoli,non solo si giustifica di tutte le accuse che gli sono statefatte da’ critici, e particolarmente:

IX

delle vili sentenze,

X

de’ villani costumi,

XI

delle crude comparazioni,

XII

degl’idiotismi,

XIII

delle licenze de’ metri,

XIV

dell’incostante varietà de’ dialetti,

XV

e di avere fatto gli uomini dèi e gli dèi uomini.Le quali favole Dionigi Longino non si fida di soste-

nere che co’ puntelli dell’allegorie filosofiche, cioè a dire

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che, come suonano cantate a’ greci, non possono avergliprodutto la gloria d’essere stato l’ordinatore della grecaciviltà: la qual difficultà ricorre in Omero la stessa, chenoi sopra, nell’Annotazioni alla Tavola cronologica, fa-cemmo contro d’Orfeo, detto il fondatore dell’umanitàdella Grecia. Ma le sopradette furono tutte propietà diessi popoli greci, e particolarmente l’ultima: che, nelfondarsi, come la teogonia naturale sopra l’ha dimostra-to, i greci di sì pii, religiosi, casti, forti, giusti e magnani-mi, tali fecero i dèi; e poscia, col lungo volger degli anni,con l’oscurarsi le favole e col corrompersi de’ costumi,come si è a lungo nella Sapienza poetica ragionato, da sé,dissoluti estimaron gli dèi, – per quella Degnità, la qual èstata sopra proposta: che gli uomini naturalmente attira-no le leggi oscure o dubbie alla loro passione ed utilità,– perché temevano gli dèi contrari a’ loro voti, se fusserostati contrari a’ di loro costumi, com’altra volta si è det-to.

XVI

Ma di più appartengono ad Omero per giustizia i duegrandi privilegi, che ’n fatti son uno, che gli danno Ari-stotile, che le bugie poetiche, Orazio, che i caratterieroici solamente si seppero finger da Omero. OndeOrazio stesso si professa di non esser poeta, perché onon può o non sa osservare quelli che chiama «coloresoperum», che tanto suona quanto le «bugie poetiche», lequali dice Aristotile; come appresso Plauto si legge «ob-tinere colorem» nel sentimento di «dir bugia che per tut-ti gli aspetti abbia faccia di verità», qual dev’esser labuona favola.

Ma, oltre a questi, gli convengono tutti gli altri privi-legi, ch’a lui danno tutti i maestri d’arte poetica, d’esserestato incomparabile:

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XVII

in quelle sue selvagge e fiere comparazioni,

XVIII

in quelle sue crude ed atroci descrizioni di battaglie e dimorti,

XIX

in quelle sue sentenze sparse di passioni sublimi,

XX

in quella sua locuzione piena di evidenza e splendore.Le quali tutte furono propietà dell’età eroica de’ greci,nella quale e per la quale fu Omero incomparabil poeta;perché, nell’età della vigorosa memoria, della robustafantasia e del sublime ingegno, egli non fu punto filo-sofo.

XXI

Onde né filosofie, né arti poetiche e critiche, le qualivennero appresso, poterono far un poeta che per cortispazi potesse tener dietro ad Omero.

E, quel ch’è più, egli fa certo acquisto degli tre im-mortali elogi, che gli son dati:

XXII

primo, d’essere stato l’ordinatore della greca polizia osia civiltà;

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XXIII

secondo, d’essere stato il padre di tutti gli altri poeti;

XXIV

terzo, d’essere stato il fonte di tutte le greche filosofie:niuno de’ quali all’Omero finor creduto poteva darsi.Non lo primo, perché, da’ tempi di Deucalione e Pirra,vien Omero da mille e ottocento anni dopo essersi inco-minciata co’ matrimoni a fondare la greca civiltà, comesi è dimostrato in tutta la scorsa della Sapienza poeticache la fondò. Non lo secondo, perché prima d’Omerofiorirono certamente i poeti teologi, quali furon Orfeo,Anfione, Lino, Museo ed altri, tra’ quali i cronologi hanposto Esiodo e fattolo di trent’anni prevenir ad Omero;altri poeti eroici innanzi d’Omero sono affermati da Ci-cerone nel Bruto e nominati da Eusebio nella Preparazio-ne evangelica, quali furono Filamone, Temirida, Demo-doco, Epimenide, Aristeo ed altri. Non finalmente ilterzo, imperciocché, come abbiamo a lungo ed appienonella Sapienza poetica dimostrato, i filosofi nelle favoleomeriche non ritruovarono, ma ficcarono essi le loro fi-losofie; ma essa sapienza poetica, con le sue favole, die-de l’occasioni a’ filosofi di meditare le lor altissime ve-rità, e diede altresì le comodità di spiegarle, conforme ilpromettemmo nel di lui principio e ’l facemmo vedereper tutto il libro secondo.

2.I POEMI D’OMERO SI TRUOVANO DUE

GRANDI TESORI DEL DIRITTO NATURALEDELLE GENTI DI GRECIA.

Ma sopra tutto, per tal discoverta, gli si aggiugne unasfolgorantissima lode:

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XXV

d’esser Omero stato il primo storico, il quale ci sia giun-to di tutta la gentilità;

XXVI

onde dovranno, quindi appresso, i di lui poemi salirenell’alto credito d’essere due grandi tesori de’ costumidell’antichissima Grecia. Tanto che lo stesso fato è avve-nuto de’ poemi d’Omero, che avvenne della legge delleXII Tavole: perché, come queste, essendo state creduteleggi date da Solone agli ateniesi, e quindi fussero venu-te a’ romani, ci hanno tenuto finor nascosta la storia deldiritto naturale delle genti eroiche del Lazio; così, per-ché tai poemi sono stati creduti lavori di getto d’un uo-mo particolare, sommo e raro poeta, ci hanno tenuta fi-nor nascosta l’istoria del diritto naturale delle genti diGrecia.

3.ISTORIA DE’ POETI DRAMATICI E LIRICI

RAGIONATA.

Già dimostrammo sopra tre essere state l’età de’ poetiinnanzi d’Omero: la prima de’ poeti teologi, ch’i mede-simi furon eroi, i quali cantarono favole vere e severe; laseconda de’ poeti eroici, che l’alterarono e le corruppe-ro; la terza d’Omero, ch’alterate e corrotte le ricevette.Ora la stessa critica metafisica sopra la storia dell’oscu-rissima antichità, ovvero la spiegazione dell’idee ch’an-darono naturalmente faccendo le antichissime nazioni,ci può illustrar e distinguere la storia de’ poeti dramaticie lirici, della quale troppo oscura e confusamente hannoscritto i filologi.

Essi pongono tra’ lirici Anfione metinneo, poeta anti-

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chissimo de’ tempi eroici, e ch’egli ritruovò il ditiramboe, con quello, il coro, e che introdusse i satiri a cantar inversi, e che ’l ditirambo era un coro menato in giro, checantava versi fatti in lode di Bacco. Dicono che dentro iltempo della lirica fiorirono insigni tragici, e DiogeneLaerzio afferma che la prima tragedia fu rappresentatadal solo coro. Dicono ch’Eschilo fu il primo poeta tragi-co, e Pausania racconta essere stato da Bacco comanda-to a scriver tragedie (quantunque Orazio narri Tespi es-serne stato l’autore, ove nell’Arte poetica incominciadalla satira a trattare della tragedia, e che Tespi intro-dusse la satira sui carri nel tempo delle vendemmie); cheappresso venne Sofocle, il quale da Palemone fu dettol’«Omero de’ tragici»; e che compiè la tragedia final-mente Euripide, che Aristotile chiama traghikótaton.Dicono che dentro la medesima età provenne Aristofa-ne, che ritruovò la commedia antica ed aprì la strada allanuova (nella quale caminò poi Menandro), per la com-media d’Aristofane intitolata Le nebbie, che portò a So-crate la rovina. Poi altri di loro pongono Ippocrate neltempo de’ tragici, altri in quello de’ lirici. Ma Sofocle edEuripide vissero alquanto innanzi i tempi della leggedelle XII Tavole, e i lirici vennero anco dappoi; lo chesembra assai turbar la cronologia, che pone Ippocratene’ tempi de’ sette savi di Grecia.

La qual difficultà per solversi, deesi dire che vi furonodue spezie di poeti tragici ed altrettante di lirici.

I lirici antichi devon essere prima stati gli autori de-gl’inni in lode degli dèi, della spezie della quale sonoquelli che si dicon d’Omero, tessuti in verso eroico; di-poi deon essere stati i poeti di quella lirica onde Achillecanta alla lira le laudi degli eroi trappassati. Siccome tra’latini i primi poeti furono gli autori de’ versi saliari,ch’erano inni che si cantavano nelle feste degli dèi da’sacerdoti chiamati «salii» (forse detti così dal saltare, co-me saltando in giro s’introdusse il primo coro tra’ greci),

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i frantumi de’ quali versi sono le più antiche memorieche ci son giunte della lingua latina, c’hanno un’aria diverso eroico, com’abbiamo sopra osservato. E tutto ciòconvenevolmente a questi princìpi dell’umanità dellenazioni, che ne’ primi tempi, i quali furon religiosi, nondovetter altro lodar che gli dèi (siccome a’ tempi barbariultimi ritornò tal costume religioso, ch’i sacerdoti, i qua-li soli, come in quel tempo, erano letterati, non compo-sero altre poesie che inni sagri); appresso, ne’ tempieroici, non dovetter ammirare e celebrare che forti fattid’eroi, come gli cantò Achille. Così di tal sorta di liricisagri dovett’esser Anfione metinneo, il qual altresì fu au-tore del ditirambo; e che il ditirambo fu il primo abboz-zo della tragedia, tessuta in verso eroico (che fu la primaspezie di verso nel quale cantarono i greci, come sopra siè dimostrato); e sì il ditirambo d’Anfione sia stata la pri-ma satira, dalla qual Orazio comincia a ragionare dellatragedia.

I nuovi furono i lirici melici, de’ quali è principe Pin-daro, che scrissero in versi che nella nostra italiana favel-la si dicon «arie per musica»; la qual sorta di verso do-vette venire dopo del giambico, che fu la spezie di versonel quale, come sopra si è dimostrato, volgarmente i gre-ci parlarono dopo l’eroico. Così Pindaro venne ne’ tem-pi della virtù pomposa di Grecia, ammirata ne’ giuochiolimpici, ne’ quali tai lirici poeti cantarono; siccomeOrazio venne a’ tempi più sfoggiosi di Roma, quali furo-no quelli sotto di Augusto; e nella lingua italiana è venu-ta la melica ne’ di lei tempi più inteneriti e più molli.

I tragici poi e i comici corsero dentro questi termini:che Tespi in altra parte di Grecia, come Anfione in altra,nel tempo della vendemmia diede principio alla satira,ovvero tragedia antica, co’ personaggi de’ satiri, ch’inquella rozzezza e semplicità dovettero ritruovare la pri-ma maschera col vestire i piedi, le gambe e cosce di pellicaprine, che dovevan aver alla mano, e tingersi i volti e ’l

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petto di fecce d’uva, ed armar la fronte di corna (ondeforse finor, appresso di noi, i vendemmiatori si diconovolgarmente «cornuti»); e sì può esser vero che Bacco,dio della vendemmia, avesse comandato ad Eschilo dicomporre tragedie; e tutto ciò convenevolmente a’ tem-pi che gli eroi dicevano i plebei esser mostri di due natu-re, cioè d’uomini e di caproni, come appieno sopra si èdimostrato. Così è forte congettura che anzi da tal ma-schera che da ciò: – che in premio a chi vincesse in talsorta di far versi si dasse un capro (il qual Orazio, senzafarne poi uso, riflette e chiama pur «vile»), il quale si di-ce trágos, – avesse preso il nome la tragedia, e ch’ellaavesse incominciato da questo coro di satiri. E la satiraserbò quest’eterna propietà, con la qual ella nacque, didir villanie ed ingiurie, perché i contadini, così rozza-mente mascherati sopra i carri co’ quali portavano l’uve,avevano licenza, la qual ancor oggi hanno i vendemmia-tori della nostra Campagna felice, che fu detta «stanzadi Bacco», di dire villanie a’ signori. Quindi s’intendacon quanto di verità poscia gli addottrinati nella favoladi Pane, perché pãn significa «tutto», ficcarono la mito-logia filosofica che significhi l’universo, e che le partibasse pelose voglian dire la terra, il petto e la faccia rubi-conda dinotino l’elemento del fuoco, e le corna signifi-chino il sole e la luna. Ma i romani ce ne serbarono lamitologia istorica in essa voce «satyra», la quale, comevuol Festo, fu vivanda di varie spezie di cibi: donde poise ne disse «lex per satyram» quella la quale contenevadiversi capi di cose: siccome nella satira dramatica,ch’ora qui ragioniamo, al riferire di esso Orazio (poichéné de’ latini né de’ greci ce n’è giunta pur una), compa-rivano diverse spezie di persone, come dèi, eroi, re, arte-giani e servi. Perché la satira, la quale restò a’ romani,non tratta di materie diverse, poiché è assegnata ciasche-duna a ciaschedun argomento.

Poscia Eschilo portò la tragedia antica, cioè cotal sati-

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ra, nella tragedia mezzana con maschere umane, tra-sportando il ditirambo d’Anfione, ch’era coro di satiri,in coro d’uomini. E la tragedia mezzana dovett’esserprincipio della commedia antica, nella quale si ponevanin favola grandi personaggi, e perciò le convenne il coro.Appresso vennero Sofocle prima, e poi Euripide, che cilasciarono la tragedia ultima. Ed in Aristofane finì lacommedia antica, per lo scandalo succeduto nella perso-na di Socrate; e Menandro ci lasciò la commedia nuova,lavorata su personaggi privati e finti, i quali, perché pri-vati, potevan esser finti, e perciò esser creduti per veri,come sopra si è ragionato; onde dovette non più interve-nirvi il coro, ch’è un pubblico che ragiona, né di altroragiona che di cose pubbliche.

In cotal guisa fu tessuta la satira in verso eroico, comela conservarono poscia i latini, perché in verso eroicoparlarono i primi popoli, i quali appresso parlarono inverso giambico; e perciò la tragedia fu tessuta in versogiambico per natura, e la commedia lo fu per una vanaosservazione d’esemplo, quando i popoli greci già parla-vano in prosa. E convenne certamente il giambico allatragedia, perocch’è verso nato per isfogare la collera,che cammina con un piede ch’Orazio chiama «presto»(lo che in una Degnità si è avvisato): siccome dicono vol-garmente che Archiloco avesselo ritruovato per isfogarela sua contro di Licambe, il quale non aveva voluto dar-gli in moglie la sua figliuola, e con l’acerbezza de’ versiavesse ridutti la figliuola col padre alla disperaziond’afforcarsi: che dev’esser un’istoria di contesa eroicad’intorno a’ connubi, nella qual i plebei sollevati dovet-ter afforcar i nobili con le loro figliuole.

Quindi esce quel mostro d’arte poetica, ch’un istessoverso violento, rapido e concitato convenga a poematanto grande quanto è la tragedia, la qual Platone stimapiù grande dell’epopea, e ad un poema dilicato qual è lacommedia; e che lo stesso piede, propio, come si è det-

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to, per isfogare collera e rabbia, nelle quali proromperdee atrocissime la tragedia, siesi egualmente buono a ri-cevere scherzi, giuochi e teneri amori, che far debbonoalla commedia tutta la piacevolezza ed amenità.

Questi stessi nomi non diffiniti di poeti «lirici» e «tra-gici» fecero porre Ippocrate a’ tempi de’ sette savi; ilquale dev’esser posto circa i tempi d’Erodoto, perchévenne in tempi ch’ancora si parlava buona parte per fa-vole (com’è di favole tinta la di lui vita, ed Erodoto nar-ra in gran parte per favole le sue storie), e non solo si eraintrodutto il parlare da prosa, ma anco lo scrivere pervolgari caratteri, co’ quali Erodoto le sue storie, ed egliscrisse in medicina le molte opere che ci lasciò, siccomealtra volta sopra si è detto.

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LIBRO QUARTO

DEL CORSO CHE FANNO LE NAZIONI.

In forza de’ princìpi di questa Scienza, stabiliti nel li-bro primo; e dell’origini di tutte le divine ed umane cosedella gentilità, ricercate e discoverte dentro la Sapienzapoetica nel libro secondo; e nel libro terzo ritruovati ipoemi d’Omero essere due grandi tesori del diritto na-turale delle genti di Grecia, siccome la legge delle XIITavole era stata già da noi ritruovata esser un gravissimotestimone del diritto naturale delle genti del Lazio: – oracon tai lumi così di filosofia come di filologia, in séguitodelle Degnità d’intorno alla storia ideal eterna già sopraposte, in questo libro quarto soggiugniamo il corso chefanno le nazioni, con costante uniformità procedendo intutti i loro tanto vari e sì diversi costumi sopra la divisio-ne delle tre età, che dicevano gli egizi essere scorse in-nanzi nel loro mondo, degli dèi, degli eroi e degli uomi-ni. Perché sopra di essa si vedranno reggere concostante e non mai interrotto ordine di cagioni e d’effet-ti, sempre andante nelle nazioni, per tre spezie di natu-re; e da esse nature uscite tre spezie di costumi; da essicostumi osservate tre spezie di diritti naturali delle genti;e, ’n conseguenza di essi diritti, ordinate tre spezie diStati civili o sia di repubbliche; e, per comunicare tra lo-ro gli uomini venuti all’umana società tutte queste giàdette tre spezie di cose massime, essersi formate tre spe-zie di lingue ed altrettante di caratteri; e, per giustificar-le, tre spezie di giurisprudenze, assistite da tre spezied’autorità e da altrettante di ragioni in altrettante speziedi giudizi; le quali giurisprudenze si celebrarono per tresètte de’ tempi, che professano in tutto il corso della lorvita le nazioni. Le quali tre speziali unità, con altre molteche loro vanno di séguito e saranno in questo libro pur

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noverate, tutte mettono capo in una unità generale, ch’èl’unità della religione d’una divinità provvedente, laqual è l’unità dello spirito, che informa e dà vita a que-sto mondo di nazioni. Le quali cose sopra sparsamenteessendosi ragionate, qui si dimostra l’ordine del lor cor-so.

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ITRE SPEZIE DI NATURE.

La prima natura, per forte inganno di fantasia, la qualè robustissima ne’ debolissimi di raziocinio, fu una natu-ra poetica o sia creatrice, lecito ci sia dire divina, la quala’ corpi diede l’essere di sostanze animate di dèi, e glielediede dalla sua idea. La qual natura fu quella de’ poetiteologi, che furono gli più antichi sappienti di tutte lenazioni gentili, quando tutte le gentili nazioni si fonda-rono sulla credenza, ch’ebbe ogniuna, di certi suoi propidèi. Altronde era natura tutta fiera ed immane; ma, perquello stesso lor errore di fantasia, eglino temevano spa-ventosamente gli dèi ch’essi stessi si avevano finti. Diche restarono queste due eterne propietà: una, che la re-ligione è l’unico mezzo potente a raffrenare la fierezzade’ popoli; l’altra, ch’allora vanno bene le religioni, ovecoloro che vi presiedono, essi stessi internamente le rive-riscano.

La seconda fu natura eroica, creduta da essi eroi didivina origine; perché, credendo che tutto facessero idèi, si tenevano esser figliuoli di Giove, siccome quellich’erano stati generati con gli auspìci di Giove: nel qualeroismo essi, con giusto senso, riponevano la natural no-biltà: – perocché fussero della spezie umana; – per laqual essi furono i prìncipi dell’umana generazione. Laquale natural nobiltà essi vantavano sopra quelli chedall’infame comunion bestiale, per salvarsi nelle rissech’essa comunion produceva, s’erano dappoi riparati a’di lor asili: i quali, venutivi senza dèi, tenevano per be-stie, siccome l’una e l’altra natura sopra si è ragionata.La terza fu natura umana, intelligente, e quindi mode-sta, benigna e ragionevole, la quale riconosce per leggi lacoscienza, la ragione, il dovere.

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IITRE SPEZIE DI COSTUMI

I primi costumi [furono] tutti aspersi di religione epietà, quali ci si narrano quelli di Deucalione e Pirra, ve-nuti di fresco dopo il diluvio.

I secondi furono collerici e puntigliosi, quali sononarrati di Achille.

I terzi son officiosi, insegnati dal propio punto de’ ci-vili doveri.

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IIITRE SPEZIE DI DIRITTI NATURALI.

Il primo diritto fu divino, per lo quale credevano e sée le loro cose essere tutte in ragion degli dèi, sull’oppe-nione che tutto fussero o facessero i dèi.

Il secondo fu eroico, ovvero della forza, ma però pre-venuta già dalla religione, che sola può tener in doverela forza, ove non sono, o, se vi sono, non vagliono, leumane leggi per raffrenarla. Perciò la provvedenza di-spose che le prime genti, per natura feroci, fussero per-suase di sì fatta loro religione, acciocché si acquetasseronaturalmente alla forza, e che, non essendo capaci ancordi ragione, estimassero la ragione dalla fortuna, per laquale si consigliavano con la divinazion degli auspìci.Tal diritto della forza è ’l diritto di Achille, che pone tut-ta la ragione nella punta dell’asta.

Il terzo è ’l diritto umano dettato dalla ragion umanatutta spiegata.

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IVTRE SPEZIE DI GOVERNI.

I primi furono divini, che i greci direbbono «teocrati-ci», ne’ quali gli uomini credettero ogni cosa comandaregli dèi; che fu l’età degli oracoli, che sono la più anticadelle cose che si leggono sulla storia.

I secondi furono governi eroici ovvero aristocratici,ch’è tanto dire quanto «governi d’ottimati», in significa-zion di «fortissimi»; ed anco, in greco, «governi d’Era-clidi» o usciti da razza erculea, in sentimento di «nobi-li», quali furono sparsi per tutta l’antichissima Grecia, epoi restò lo spartano; ed eziandio «governi di cureti»,ch’i greci osservarono sparsi nella Saturnia, o sia anticaItalia, in Creta ed in Asia; e quindi «governo di quiriti»ai romani, o sieno di sacerdoti armati in pubblica ragu-nanza. Ne’ quali, per distinzion di natura più nobile,perché creduta di divina origine, ch’abbiam sopra detto,tutte le ragioni civili erano chiuse dentro gli ordini re-gnanti de’ medesimi eroi, ed a’ plebei, come riputatid’origine bestiale, si permettevano i soli usi della vita edella natural libertà.

I terzi sono governi umani, ne’ quali, per l’ugualità diessa intelligente natura, la qual è la propia naturadell’uomo, tutti si uguagliano con le leggi, perocché tut-ti sien nati liberi nelle loro città, così libere popolari, ovetutti o la maggior parte sono esse forze giuste della città,per le quali forze giuste son essi i signori della libertàpopolare; o nelle monarchie, nelle qual’i monarchiuguagliano tutti i soggetti con le lor leggi, e, avendo essisoli in lor mano tutta la forza dell’armi, essi vi sono sola-mente distinti in civil natura.

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VTRE SPEZIE DI LINGUE.

Tre spezie di lingue.Delle quali la prima fu una lingua divina mentale per

atti muti religiosi, o sieno divine cerimonie; onde resta-ron in ragion civile a’ romani gli atti legittimi, co’ qualicelebravano tutte le faccende delle loro civili utilità.Qual lingua si conviene alle religioni per tal eterna pro-pietà: che più importa loro essere riverite che ragionate;e fu necessaria ne’ primi tempi, che gli uomini gentilinon sapevano ancora articolar la favella.

La seconda fu per imprese eroiche, con le quali parla-no l’armi; la qual favella, come abbiam sopra detto, re-stò alla militar disciplina.

La terza è per parlari, che per tutte le nazioni oggis’usano, articolati.I. Tre spezie di nature 439I. Tre spezie di nature 439

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VITRE SPEZIE DI CARATTERI.

Tre spezie di caratteri.De’ qual’i primi furon divini, che propiamente si dis-

sero «geroglifici», de’ quali sopra pruovammo che ne lo-ro princìpi si servirono tutte le nazioni. E furono certiuniversali fantastici, dettati naturalmente da quell’innatapropietà della mente umana di dilettarsi dell’uniforme(di che proponemmo una Degnità), lo che non potendofare con l’astrazione per generi, il fecero con la fantasiaper ritratti. A’ quali universali poetici riducevano tuttele particolari spezie a ciascun genere appartenenti,com’a Giove tutte le cose degli auspìci, a Giunone tuttele cose delle nozze, e così agli altri l’altre.

I secondi furono caratteri eroici, ch’erano pur univer-sali fantastici, a’ quali riducevano le varie spezie dellecose eroiche: come ad Achille tutti i fatti de’ forti com-battidori, ad Ulisse tutti i consigli de’ saggi. I quali gene-ri fantastici, con avvezzarsi poscia la mente umana adastrarre le forme e le propietà da’ subbietti, passarono ingeneri intelligibili, onde provennero appresso i filosofi;da’ quali poscia gli autori della commedia nuova, la qua-le venne ne’ tempi umanissimi della Grecia, presero i ge-neri intelligibili de’ costumi umani e ne fecero ritrattinelle loro commedie.

Finalmente si ritruovarono i volgari caratteri, i qualiandarono di compagnia con le lingue volgari: poiché,come queste si compongono di parole, che sono quasigeneri de’ particolari co’ quali avevan innanzi parlato lelingue eroiche (come, per l’esemplo sopra arrecato, del-la frase eroica «mi bolle il sangue nel cuore», ne feceroquesta voce: «m’adiro»); così di cenventimila caratterigeroglifici, che, per esemplo, usano fin oggi i chinesi, nefecero poche lettere, alle quali, come generi, si riducono

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le cenventimila parole delle quali i chinesi compongonola loro lingua articolata volgare. Il qual ritruovato è cer-tamente un lavoro di mente ch’avesse più che dell’uma-na; onde sopra udimmo Bernardo da Melinckrot ed In-gewaldo Elingio che ’l credono ritruovato divino. E talcomun senso di maraviglia è facile ch’abbia mosso le na-zioni a credere ch’uomini eccellenti in divinità avesserloro ritruovate sì fatte lettere, come san Girolamo agl’il-liri, come san Cirillo agli slavi, come altri ad altre,conforme osserva e ragiona Angelo Rocha nella Bibliote-ca vaticana, ove gli autori delle lettere, che diciamo «vol-gari», coi lor alfabeti sono dipinti. Le quali oppenioni siconvincono manifestamente di falso col solo domanda-re: – Perché non l’insegnarono le loro propie? – La qualdifficultà abbiam noi sopra fatto di Cadmo, che dallaFenicia aveva portato a’ greci le lettere, e questi poi usa-rono forme di lettere cotanto diverse dalle fenicie.

Dicemmo sopra tali lingue e tali lettere esser in signo-ria del volgo de’ popoli, onde sono dette e l’une e l’altre«volgari». Per cotal signoria e di lingue e di lettere deb-bon i popoli liberi esser signori delle lor leggi, perchédanno alle leggi que’ sensi ne’ quali vi traggono ad os-servarle i potenti, che, come nelle Degnità fu avvisato,non le vorrebbono. Tal signoria è naturalmente niegatoa’ monarchi di toglier a’ popoli; ma, per questa stessa lo-ro niegata natura di umane cose civili, tal signoria, inse-parabile da’ popoli, fa in gran parte la potenza d’essimonarchi, perch’essi possano comandare le loro leggireali, alle quali debbano star i potenti, secondo i sensich’a quelle danno i lor popoli. Per tal signoria di volgarilettere e lingue è necessario, per ordine di civil natura,che le repubbliche libere popolari abbiano precedutoalle monarchie.

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VIITRE SPEZIE DI GIURISPRUDENZE.

Tre spezie di giurisprudenze, ovvero sapienze.La prima fu una sapienza divina, detta, come sopra

vedemmo, «teologia mistica», che vuol dire «scienza didivini parlari» o d’intendere i divini misteri della divina-zione, e sì fu scienza in divinità d’auspìci e sapienza vol-gare, della quale furono sappienti i poeti teologi, che fu-rono i primi sappienti del gentilesimo; e da tal misticateologia essi se ne dissero «mystæ», i quali Orazio, coniscienza, volta «interpetri degli dèi». Talché di questaprima giurisprudenza fu il primo e propio «interpreta-ri», detto quasi «interpatrari», cioè «entrare in essi pa-dri», quali furono dapprima detti gli dèi, come si è sopraosservato: che Dante direbbe «indiarsi» cioè entrare nel-la mente di Dio. E tal giurisprudenza estimava il giustodalla sola solennità delle divine cerimonie; onde vennea’ romani tanta superstizione degli atti legittimi, e nelleloro leggi ne restarono quelle frasi «iustæ nuptiæ», e «iu-stum testamentum», per nozze e testamento «solenni».

La seconda fu la giurisprudenza eroica, di cautelarsicon certe propie parole, qual è la sapienza di Ulisse, ilquale, appo Omero, sempre parla sì accorto, che consie-gua la propostasi utilità, serbata sempre la propietà dellesue parole. Onde tutta la riputazione de’ giureconsultiromani antichi consisteva in quel lor «cavere»; e quel lo-ro «de iure respondere» pur altro non era che cautelarcoloro, ch’avevano da sperimentar in giudizio la lor ra-gione, d’esporre al pretore i fatti così circostanziati, chele formole dell’azioni vi cadessero sopra a livello, talchéil pretore non potesse loro niegarle. Così, a’ tempi bar-bari ritornati, tutta la riputazion de’ dottori era in truo-var cautele d’intorno a’ contratti o ultime volontà ed insaper formare domande di ragione ed articoli: ch’era ap-

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punto il «cavere» e «de iure respondere» de’ romani giu-reconsulti.

La terza è la giurisprudenza umana, che guarda la ve-rità d’essi fatti e piega benignamente la ragion delle leggia tutto ciò che richiede l’ugualità delle cause; la qualgiurisprudenza si celebra nelle repubbliche libere popo-lari, e molto più sotto le monarchie, ch’entrambe sonogoverni umani.

Talché le giurisprudenze divina ed eroica si attenneroal certo ne’ tempi delle nazioni rozze; l’umana guarda ilvero ne’ tempi delle medesime illuminate. E tutto ciò, inconseguenza delle diffinizioni del certo e del vero, e del-le Degnità che se ne sono poste negli Elementi.

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VIIITRE SPEZIE D’AUTORITÀ.

Furono tre spezie d’autorità. Delle quali la prima è di-vina, per la quale dalla provvedenza non si domanda ra-gione; la seconda eroica, riposta tutta nelle solenni for-mole delle leggi; la terza umana, riposta nel credito dipersone sperimentate, di singolar prudenza nell’agibili edi sublime sapienza nell’intelligibili cose.

Le quali tre spezie d’autorità, ch’usa la giurispruden-za dentro il corso che fanno le nazioni, vanno di séguitoa tre sorte d’autorità de’ senati, che si cangiano dentro ilmedesimo loro corso.

Delle quali la prima fu autorità di dominio, dalla qua-le restarono detti «autores» coloro da’ quali abbiamo ca-gion di dominio, ed esso dominio nella legge delle XIITavole sempre «autoritas» vien appellato. La qual auto-rità mise capo ne’ governi divini fin dallo stato delle fa-miglie, nel quale la divina autorità dovett’essere deglidèi, perch’era creduto, con giusto senso, tutto essere de-gli dèi. Convenevolmente, appresso, nelle aristocrazieeroiche, dove i senati composero (com’ancor in quellede’ nostri tempi compongono) la signoria, tal autorità fudi essi senati regnanti. Onde i senati eroici davano la lorapprovagione a ciò ch’avevano innanzi trattato i popoli,che Livio dice «eius, quod populus iussisset, deinde pa-tres fierent autores»: però, non dall’interregno di Romo-lo, come narra la storia, ma da’ tempi più bassi dell’ari-stocrazia, ne’ quali era stata comunicata la cittadinanzaalla plebe, come sopra si è ragionato. Il qual ordinamen-to, come lo stesso Livio dice, «sæpe spectabat ad vim»,sovente minacciava rivolte; tanto che, se ’l popolo ne vo-leva venir a capo, doveva, per esemplo, nominar i conso-li ne’ qual’inchinasse il senato: appunto come sono le

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nominazioni de’ maestrati che si fanno da’ popoli sottole monarchie.

Dalla legge di Publilio Filone in poi, con la quale fudichiarato il popolo romano libero ed assoluto signordell’imperio, come sopra si è detto, l’autorità del senatofu di tutela; conforme l’approvagione de’ tutori a’ nego-zi che si trattano da’ pupilli, che sono signori de’ loropatrimoni, si dice «autoritas tutorum». La qual autoritàsi prestava dal senato al popolo in essa formola della leg-ge, conceputa innanzi in senato, nella quale, conformedee prestarsi l’autorità da’ tutori a’ pupilli, il senato fus-se presente al popolo, presente nelle grandi adunanze,nell’atto presente di comandar essa legge, s’egli volesselacomandare; altrimente, l’antiquasse e «probaret anti-qua», ch’è tanto dire quanto ch’egli dichiarasse che nonvoleva novità. E tutto ciò, acciocché il popolo, nel co-mandare le leggi, per cagione del suo infermo consiglio,non facesse un qualche pubblico danno, e perciò, nelcomandarle, si facesse regolar dal senato. Laonde le for-mole delle leggi, che dal senato si portavano al popoloperch’egli le comandasse, sono con iscienza da Ciceronediffinite «perscriptæ autoritates»: non autorità personali,come quelle de’ tutori, i quali con la loro presenza ap-pruovano gli atti che si fan da’ pupilli: ma autorità diste-se a lungo in iscritto (ché tanto suona «perscribere»), adifferenza delle formole dell’azioni, scritte «per notas»,le quali non s’intendevan dal popolo. Ch’è quello ch’or-dinò la legge Publilia: che, da essa in poi, l’autorità delsenato, per dirla come Livio la riferisce, «valeret in in-certum comitiorum eventum».

Passò finalmente la repubblica dalla libertà popolaresotto la monarchia, e succedette la terza spezie d’auto-rità, ch’è di credito o di riputazione in sapienza, e perciòautorità di consiglio, dalla qual i giureconsulti sottogl’imperadori se ne dissero «autores». E tal autoritàdev’essere de’ senati sotto i monarchi, i quali son in pie-

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na ed assoluta libertà di seguir o no ciò che loro hanconsigliato i senati.

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IXTRE SPEZIE DI RAGIONI.

1.RAGIONE DIVINA E RAGIONE DI STATO.

Furono tre le spezie delle ragioni.La prima, divina, di cui Iddio solamente s’intende, e

tanto ne sanno gli uomini quanto è stato loro rivelato:agli ebrei prima e poi a’ cristiani, per interni parlari, allementi, perché voci d’un Dio tutto mente; ma con parlariesterni, così da’ profeti, come da Gesù Cristo agli appo-stoli, e da questi palesati alla Chiesa; – a’ gentili, per gliauspìci, per gli oracoli ed altri segni corporei creduti di-vini avvisi, perché creduti venire dagli dèi, ch’essi gentilicredevano esser composti di corpo. Talché in Dio, ch’ètutto ragione, la ragion e l’autorità è una medesima cosa;onde nella buona teologia la divina autorità tiene lo stes-so luogo che di ragione. Ov’è da ammirare la provve-denza, che, ne’ primi tempi che gli uomini del gentilesi-mo non intendevan ragione (lo che sopra tuttodovett’essere nello stato delle famiglie), permise loroch’entrassero nell’errore di tener a luogo di ragione l’au-torità degli auspìci e co’ creduti divini consigli di quellisi governassero, per quella eterna propietà: ch’ove gliuomini nelle cose umane non vedon ragione, e moltopiù se la vedon contraria, s’acquetano negl’imperscruta-bili consigli che si nascondono nell’abisso della provve-denza divina.

La seconda fu la ragion di Stato, detta da’ romani «ci-vilis æquitas», la quale Ulpiano tralle Degnità sopra cidiffinì da ciò ch’ella non è naturalmente conosciuta daogni uomo, ma da pochi pratici di governo, che sappianvedere ciò ch’appartiensi alla conservazione del gener

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umano. Della quale furono naturalmente sappienti i se-nati eroici, e sopra tutti fu il romano, sappientissimo ne’tempi della libertà così aristocratica, ne’ quali la plebeera affatto esclusa di trattar cose pubbliche, come dellapopolare, per tutto il tempo che ’l popolo nelle pubbli-che faccende si fece regolar dal senato, che fu fin a’ tem-pi de’ Gracchi.

2.COROLLARIO: DELLA SAPIENZA DI STATO

DEGLI ANTICHI ROMANI.

Quindi nasce un problema, che sembra assai difficilea solversi: come ne’ tempi rozzi di Roma fussero statisappientissimi di Stato i romani, e ne’ loro tempi illumi-nati dice Ulpiano ch’«oggi di Stato s’intendono soli epochi pratici di governo»? – Perché, per quelle stessenaturali cagioni che produssero l’eroismo de’ primi po-poli, gli antichi romani, che furono gli eroi del mondo,essi naturalmente guardavano la civil equità, la qual erascrupolosissima delle parole con le quali parlavan le leg-gi; e, con osservarne superstiziosamente le lor parole, fa-cevano camminare le leggi diritto per tutti i fatti, ancodov’esse leggi riuscissero severe, dure, crudeli (per ciòche se n’è detto più sopra), com’oggi sul praticare la ra-gione di Stato; e sì la civil equità naturalmente sottomet-teva tutto a quella legge, regina di tutte l’altre, concepu-ta da Cicerone con gravità eguale alla materia: «Supremalex populi salus esto». Perché ne’ tempi eroici, ne’ qualigli Stati furono aristocratici, come si è appieno soprapruovato, gli eroi avevano privatamente ciascuno granparte della pubblica utilità, ch’erano le monarchie fami-gliari conservate lor dalla patria, e, per tal grande parti-colar interesse conservato loro dalla repubblica, natural-mente posponevano i privati interessi minori; ondenaturalmente, e magnanimi, difendevano il ben pubbli-

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co, ch’è quello dello Stato, e saggi, consigliavano d’in-torno allo Stato. Lo che fu alto consiglio della provve-denza divina, perché i padri polifemi dalla loro vita sel-vaggia (come con Omero e Platone si sono sopraosservati), senza un tale e tanto lor privato interesse me-desimato col pubblico, non si potevano altrimente in-durre a celebrare la civiltà, com’altra volta sopra si è ri-flettuto.

Al contrario, ne’ tempi umani, ne’ quali gli Stati pro-vengono o liberi popolari o monarchici, perché i cittadi-ni ne’ primi comandano il ben pubblico, che si riparti-sce loro in minutissime parti quanti son essi cittadini,che fanno il popolo che vi comanda, e ne’ secondi son isudditi comandati d’attender a’ loro privati interessi elasciare la cura del pubblico al sovrano principe; aggiu-gnendo a ciò le naturali cagioni, le quali produssero taliforme di Stati, che sono tutte contrarie a quelle che pro-dutto avevano l’eroismo, le quali sopra dimostrammoesser affetto d’agi, tenerezza di figliuoli, amor di donnee disiderio di vita: per tutto ciò, son oggi gli uomini na-turalmente portati ad attendere all’ultime circostanzede’ fatti, le quali agguaglino le loro private utilità. Ch’èl’«æquum bonum», considerato dalla terza spezie di ra-gione (che qui era da ragionarsi), la quale si dice «ragionnaturale», e da’ giureconsulti «æquitas naturalis» vienappellata, della quale sola è capace la moltitudine. Per-ché questa considera gli ultimi a sé appartenenti motividel giusto, che meritano le cause nell’individuali lorospezie de’ fatti; e nelle monarchie bisognano pochi sap-pienti di Stato per consigliare con equità civile le pub-bliche emergenze ne’ gabinetti, e moltissimi giurecon-sulti di giurisprudenza privata, che professa equitànaturale, per ministrare giustizia a’ popoli.

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3.COROLLARIO: ISTORIA FONDAMENTALE DEL

DIRITTO ROMANO.

Le cose qui ragionate d’intorno alle tre spezie dellaragione posson esser i fondamenti che stabiliscono lastoria del diritto romano. Perché i governi debbon esserconformi alla natura degli uomini governati, come se n’èproposta sopra una Degnità; – perché dalla natura degliuomini governati escon essi governi, come per questiPrincìpi sopra si è dimostrato; – e ché le leggi perciòdebbon essere ministrate in conformità de’ governi e,per tal cagione, dalla forma de’ governi si debbono in-terpetrare (lo che non sembra aver fatto niuno di tutti igiureconsulti ed interpetri, prendendo lo stesso errorech’avevano innanzi preso gli storici delle cose romane, iquali narrano le leggi comandate in vari tempi in quellarepubblica, ma non avvertono a’ rapporti che dovevanole leggi aver con gli stati per gli quali quella repubblicaprocedé; ond’escono i fatti tanto nudi delle loro propiecagioni le quali naturalmente l’avevano dovuto produr-re, che Giovanni Bodino, egualmente eruditissimo giu-reconsulto e politico, le cose fatte dagli antichi romaninella libertà, che falsamente gli storici narrano popolare,argomenta essere stati effetti di repubblica aristocratica,conforme in questi libri di fatto si è ritruovata): – pertutto ciò, se tutti gli adornatori della storia del diritto ro-mano son domandati: – perché la giurisprudenza anticausò tanti rigori d’intorno alla legge delle XII Tavole?perché la mezzana, con gli editti de’ pretori, cominciòad usare benignità di ragione, ma con rispetto però d’es-sa legge? perché la giurisprudenza nuova, senz’alcun ve-lo o riguardo di essa legge, prese generosamente a pro-fessare l’equità naturale? – essi, per renderne unaqualche ragione, danno in quella grave offesa alla roma-na generosità, con cui dicono ch’i rigori, le solennità, gli

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scrupoli, le sottigliezze delle parole e finalmente il segre-to delle medesime leggi furon imposture de’ nobili, peraver essi le leggi in mano, che fanno una gran parte dellapotenza nelle città.

Ma tanto sì fatte pratiche furono da ogn’imposturalontane, che furono costumi usciti dalle lor istesse natu-re, le quali, con tali costumi, produssero tali Stati, chenaturalmente dettavano tali e non altre pratiche. Perché,nel tempo della somma fierezza del loro primo generumano, essendo la religione l’unico potente mezzo d’ad-dimesticarla, la provvedenza, come si è veduto sopra, di-spose che vivessero gli uomini sotto governi divini edappertutto regnassero leggi sagre, ch’è tanto dire quan-to arcane e segrete al volgo de’ popoli; le quali, nello sta-to delle famiglie, tanto lo erano state naturalmente, chesi custodivano con lingue mutole, le quali si spiegavanocon consagrate solennità (che poi restarono negli atti le-gittimi), le quali tanto da quelle menti balorde eranocredute abbisognare per accertarsi uno della volontà ef-ficace dell’altro d’intorno a comunicare l’utilità, quantoora, in questa naturale intelligenza delle nostre, basta ac-certarsene con semplici parole ed anche con nudi cenni.Dipoi succedettero i governi umani di Stati civili aristo-cratici, e, per natura perseverando a celebrarsi i costumireligiosi, con essa religione seguitarono a custodirsi leleggi arcane o segrete (il qual arcano è l’anima con cuivivono le repubbliche aristocratiche), e con tal religionesi osservarono severamente le leggi; ch’è ’l rigore dellacivil equità, la quale principalmente conserva l’aristocra-zie. Appresso, avendo a venire le repubbliche popolari,che naturalmente son aperte, generose e magnanime(dovendovi comandare la moltitudine, ch’abbiam dimo-stro naturalmente intendersi dell’equità naturale), ven-nero con gli stessi passi le lingue e le lettere che si dicon«volgari» (delle quali, come sopra dicemmo, è signora lamoltitudine), e con quelle comandarono e scrisser le leg-

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gi, e naturalmente se n’andò a pubblicar il segreto: ch’è’l «ius latens», che Pomponio narra non avere soffertopiù la plebe romana, onde volle le leggi descritte in tavo-le, poich’eran venute le lettere volgari da’ greci in Roma,come si è sopra detto. Tal ordine di cose umane civili fi-nalmente si truovò apparecchiato per gli Stati monarchi-ci, ne’ quali i monarchi vogliono ministrate le leggi se-condo l’equità naturale e, ’n conseguenza, conformel’intende la moltitudine, e perciò adeguino in ragione ipotenti co’ deboli: lo che fa unicamente la monarchia. El’equità civile, o ragion di Stato, fu intesa da pochi sap-pienti di ragion pubblica e, con la sua eterna propietà, èserbata arcana dentro de’ gabinetti.

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XTRE SPEZIE DI GIUDIZI.

1.PRIMA SPEZIE: GIUDIZI DIVINI.

Le spezie de’ giudizi furono tre.La prima di giudizi divini, ne’ quali, nello stato che

dicesi «di natura» (che fu quello delle famiglie), non es-sendo imperi civili di leggi, i padri di famiglia si richia-mavano agli dèi de’ torti ch’erano stati lor fatti (che fu,prima e propiamente, «implorare deorum fidem»), chia-mavano in testimoni della loro ragion essi dèi (che fu,prima e propiamente, «deos obtestari»). E tali accuse odifese furono, con natia propietà, le prime orazioni delmondo, come restò a’ latini «oratio» per «accusa» o «di-fesa»: di che vi sono bellissimi luoghi in Plauto e ’n Te-renzio, e ne serbò due luoghi d’oro la legge delle XIITavole, che sono «furto orare» e «pacto orare» (non«adorare», come legge Lipsio), nel primo per «agere» enel secondo per «excipere»; talché da queste orazioni re-staron a’ latini detti «oratores» coloro ch’arringano lecause in giudizio. Tali richiami agli dèi si facevano dap-prima dalle genti semplici e rozze, sulla credulità ch’essieran uditi dagli dèi, ch’immaginavano starsi sulle cimede’ monti, siccome Omero gli narra su quella del monteOlimpo; e Tacito ne scrive tra gli ermonduri e catti unaguerra con tal superstizione: che dagli dèi se non dall’al-te cime de’ monti «preces mortalium nusquam propiusaudiri».

Le ragioni, le quali s’arrecavano in tali divini giudizi,eran essi dèi, siccome ne’ tempi ne’ quali i gentili tutte lecose immaginavano esser dèi: come «Lar» per lo domi-nio della casa, «dii Hospitales» per la ragion dell’alber-

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go, «dii Penates» per la paterna potestà, «deus Genius»per lo diritto del matrimonio, «deus Terminus» per lodominio del podere, «dii Manes» per la ragion del sepol-cro; di che restò nella legge delle XII Tavole un aureovestigio: «ius deorum manium».

Dopo tali orazioni (ovvero obsecrazioni, ovvero im-plorazioni) e dopo tali obtestazioni, venivan all’atto diesegrare essi rei; onde appo i greci, come certamente inArgo, vi furono i templi di essa esegrazione, e tali ese-grati si dicevano anathémata, che noi diciamo «scomuni-cati». E contro loro concepivano i voti (che fu il primo«nuncupare vota», che significa far voti solenni ovverocon formole consagrate) e gli consagravano alle Furie(che furono veramente «diris devoti»), e poi gli uccide-vano (ch’era quello degli sciti, lo che sopra osservammo,i quali ficcavano un coltello in terra e l’adoravano perdio, e poi uccidevano l’uomo). E i latini tal uccidere dis-sero col verbo «mactare», che restò vocabolo sagro chesi usava ne’ sagrifizi; onde agli spagnuoli restò «mattar»ed agl’italiani altresì «ammazzare» per «uccidere». E so-pra vedemmo c’appo i greci restò ára per significar il«corpo che danneggia», il «voto» e la «furia»; ed appo ilatini «ara» significò e l’«altare» e la «vittima». Quindirestò appo tutte le nazioni una spezie di scomunica: del-la quale, tra’ galli, ne lasciò Cesare un assai spiegata me-moria; e tra’ romani restonne l’interdetto dell’acqua efuoco, come sopra si è ragionato. Delle quali consagra-zioni molte passarono nella legge delle Xll Tavole: come«consagrato a Giove» chi aveva violato un tribuno dellaplebe, «consagrato agli dèi de’ padri» il figliuolo empio,«consagrato a Cerere» chi aveva dato fuoco alle biadealtrui, il quale fusse bruciato vivo (si veda crudeltà dipene divine, somigliante all’immanità, ch’abbiamo nelleDegnità detto, dell’immanissime streghe!), che debbonessere state quelle sopra da Plauto dette «Saturnihostiæ».

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Con questi giudizi praticati privatamente, usciron po-poli a far le guerre che si dissero «pura et pia bella», e sifacevano «pro aris et focis», per le cose civili come pub-bliche così private, col qual aspetto di divine si guarda-vano tutte le cose umane. Onde le guerre eroichetutt’erano di religione, perché gli araldi, nell’intimarle,dalle città, alle quali le portavano, chiamavan fuori glidèi e consagravano i nemici agli dèi. Onde gli re trionfa-ti erano da’ romani presentati a Giove Feretrio nel Cam-pidoglio e dappoi s’uccidevano, sull’esemplo de’ violen-ti empi, ch’erano stati le prime ostie, le prime vittime,ch’aveva consagrato Vesta sulle prime are del mondo: e ipopoli arresi erano considerati uomini senza dèi,sull’esemplo de’ primi famoli: onde gli schiavi, come co-se inanimate, in lingua romana si dissero «mancipia» edin romana giurisprudenza si tennero «loco rerum».

2.COROLLARIO: DE’ DUELLI E DELLE

RIPRESAGLIE.

Talché furon una spezie di giudizi divini, nella barba-rie delle nazioni, i duelli, che dovettero nascere sotto ilgoverno antichissimo degli dèi e condursi per lunga etàdentro le repubbliche eroiche. Delle quali riferimmonelle Degnità quel luogo d’oro d’Aristotile ne’ Libri poli-tici, ove dice che non avevano leggi giudiziarie da punir itorti ed emendare le violenze private: lo che, sulla falsaoppenione finor avuta dalla boria de’ dotti d’intornoall’eroismo filosofico de’ primi popoli, il qual andasse diséguito alla sapienza innarrivabile degli antichi, non si ècreduto finora.

Certamente, tra’ romani furono tardi introdutti, e purdal pretore, così l’interdetto «Unde vi» come le azioni«De vi bonorum raptorum» e «Quod metus caussa», co-me altra volta si è detto. E, per lo ricorso della barbarie

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ultima, le ripresaglie private durarono fin a’ tempi diBartolo; che dovetter essere «condiczioni», o «azionipersonali» degli antichi romani, perché «condicere», se-condo Festo, vuol dire «dinonziare» (talché il padre difamiglia doveva dinonziare, a colui che gli aveva ingiu-stamente tolto ciò ch’era suo, che glielo restituisse, perpoi usare la ripresaglia); onde tal dinonzia restò solen-nità dell’azioni personali: lo che da Udalrico Zasio acu-tamente fu inteso.

Ma i duelli contenevano giudizi reali, che, perocché sifacevano in re præsenti, non avevano bisogno della di-nonzia; onde restarono le vindiciæ, le quali, tolte all’in-giusto possessore con una finta forza, che Aulo Gelliochiama «festucaria», «di paglia» (le quali dalla forza ve-ra, che si era fatta prima, dovettero dirsi «vindiciæ»), sidovevano portare dal giudice, per dire, in quella gleba ozolla: «Aio hunc fundum meum esse ex iure quiritium».Quindi coloro che scrivono i duelli essersi introdutti perdifetto di pruove, egli è falso; ma devon dire: per difettodi leggi giudiziarie. Perché certamente Frotone, re diDanimarca, comandò che tutte le contese si terminasse-ro per mezzo degli abbattimenti, e sì vietò che si diffinis-sero con giudizi legittimi; e, per non terminarle con giu-dizi legittimi, sono de’ duelli piene le leggi de’longobardi, salii, inghilesi, borghignoni, normanni, da-nesi, alemanni; per lo che Cuiacio ne’ Feudi dice: «Ethoc genere purgationis diu usi sunt christiani tam in civili-bus quam in criminalibus caussis, re omni duello commis-sa». Di che è restato che in Lamagna professano scienzadi duello coloro che si dicon «reistri», i quali obbliganoquelli c’hanno da duellare a dire la verità, perocché iduelli, ammessivi i testimoni, e perciò dovendovi inter-venire i giudici, passerebbero in giudizi o criminali o ci-vili.

Non si è creduto della barbarie prima, perché non cene sono giunte memorie, ch’avesse praticato i duelli. Ma

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non sappiamo intendere come in questa parte sieno sta-ti, nonché umani, sofferenti di torti i polifemi d’Omero,ne’ quali riconosce gli antichissimi padri delle famiglie,nello stato di natura, Platone. Certamente Aristotile neha detto nelle Degnità che nell’antichissime repubbli-che, nonché nello stato delle famiglie, che furon innanzidelle città, non avevano leggi da emendar i torti e punirel’offese, con le qual’i cittadini s’oltraggiassero privata-mente tra loro (e noi l’abbiamo testé dimostro della ro-mana antica); e perciò Aristotile pur ci disse, nelle De-gnità, che tal costume era de’ popoli barbari, perché,come ivi avvertimmo, i popoli per ciò ne’ lor incomin-ciamenti son barbari, perché non son addimesticati an-cor con le leggi.

Ma di essi duelli vi hanno due grandi vestigi – unonella greca storia, un altro nella romana – ch’i popolidovettero incominciar le guerre (che si dissero dagli an-tichi latini «duella») dagli abbattimenti di essi particola-ri offesi, quantunque fussero re, ed essendo entrambi ipopoli spettatori, che pubblicamente volevano difende-re o vendicare l’offese. Come, certamente, così la guerratroiana incomincia dall’abbattimento di Menelao e diParide (questi ch’aveva, quegli a cui era stata rapita lamoglie Elena), il quale restando indiciso, seguitò poi afarsi tra greci e troiani la guerra; e noi sopra avvertimmoil costume istesso delle nazioni latine nella guerra de’ ro-mani ed albani, che con l’abbattimento degli tre Orazi edegli tre Curiazi (uno de’ quali dovette rapire l’Orazia)si diffinì dello ’n tutto. In sì fatti giudizi armati estimaro-no la ragione dalla fortuna della vittoria: lo che fu consi-glio della provvedenza divina, acciocché, tra genti bar-bare e di cortissimo raziocinio, che non intendevanragione, da guerre non si seminassero guerre, e sì avesse-ro idea della giustizia o ingiustizia degli uomini dall’averessi propizi o pur contrari gli dèi: siccome i gentili scher-nivano il santo Giobbe dalla regale sua fortuna caduto,

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perocch’egli avesse contrario Dio. E, ne’ tempi barbariritornati, perciò alla parte vinta, quantunque giusta, sitagliava barbaramente la destra.

Da sì fatto costume, privatamente da’ popoli celebra-to, uscì fuori la giustizia esterna, ch’i morali teologi di-cono, delle guerre, onde le nazioni riposassero sulla cer-tezza de’ lor imperi. Così quelli auspìci, che fondaronogl’imperi paterni monarchici a’ padri nello stato delle fa-miglie e apparecchiarono e conservarono loro i regniaristocratici nell’eroiche città e, comunicari loro, pro-dussero le repubbliche libere alle plebi de’ popoli (comela storia romana apertamente lo ci racconta), finalmentelegittimano le conquiste, con la fortuna dell’armi, a’ feli-ci conquistatori. Lo che tutto non può provenire altron-de che dal concetto innato della provvedenza c’hannouniversalmente le nazioni, alla quale si debbono confor-mare, ove vedono affliggersi i giusti e prosperarsi gliscellerati, come nell’Idea dell’opera altra volta si è detto.

3.SECONDA SPEZIE: GIUDIZI ORDINARI.

I secondi giudizi, per la recente origine da’ giudizi di-vini, furono tutti ordinari, osservati con una sommascrupolosità di parole, che da giudizi, innanzi stati, divi-ni dovette restar detta «religio verborum»; conforme lecose divine universalmente son concepute con formoleconsagrate, che non si possono d’una letteruccia altera-re; onde delle antiche formole dell’azioni si diceva: «quicadit virgula, caussa cadit». Ch’è ’l diritto naturale dellegenti eroiche, osservato naturalmente dalla giurispru-denza romana antica, e fu il «fari» del pretore, ch’era unparlar innalterabile, dal quale furono detti «dies fasti» igiorni ne’ quali rendeva ragion il pretore. La quale, per-ché i soli eroi ne avevano la comunione nell’eroiche ari-stocrazie, dev’esser il «fas deorum» de’ tempi ne’ quali,

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come sopra abbiamo spiegato, gli eroi s’avevano preso ilnome di «dèi», donde poi fu detto «Fatum» sopra le co-se della natura l’ordine ineluttabile delle cagioni che leproduce, perché tale sia il parlare di Dio: onde forseagl’italiani venne detto «ordinare», ed in ispezie in ra-gionamento di leggi, per «dare comandi che si devononecessariamente eseguire».

Per cotal ordine (che, ’n ragionamento di giudizi, si-gnifica «solenne formola d’azione»), ch’aveva dettato lacrudele e vil pena contro l’inclito reo d’Orazio, non po-tevano i duumviri essi stessi assolverlo, quantunque fus-sesi ritruovato innocente; e ’l popolo, a cui n’appellò,l’assolvette, come Livio il racconta, «magis admirationevirtutis quam iure caussæ». E tale ordine di giudizi biso-gnò ne’ tempi d’Achille, che riponeva tutta la ragion nel-la forza, per quella propietà de’ potenti che descrivePlauto con la sua solita grazia: «pactum non pactum, nonpactum pactum», ove le promesse non vanno a secondadelle lor orgogliose voglie o non voglion essi adempierele promesse. Così, perché non prorompessero in piati,risse ed uccisioni, fu consiglio della provvedenzach’avessero naturalmente tal oppenione del giusto, chetanto e tale fusse loro diritto quanto e quale si fussespiegato con solenni formole di parole; onde la riputa-zione della giurisprudenza romana e de’ nostri antichidottori fu in cautelare i clienti. Il qual diritto naturaledelle genti eroiche diede gli argomenti a più commediedi Plauto: nelle qual’i ruffiani, per inganni orditi loro da’giovani innamorati delle loro schiave, ne sono ingiusta-mente fraudati, fatti da quelli innocentemente truovarrei d’una qualche formola delle leggi; e non solamentenon isperimentano alcun’azione di dolo, ma altro rim-borsa al doloso giovane il prezzo della schiava venduta,altro priega l’altro che si contenti della mettà della pena,alla qual era tenuto, di furto non manifesto, altro si fug-ge dalla città per timore d’esser convinto d’aver corrotto

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lo schiavo altrui. Tanto a’ tempi di Plauto regnava ne’giudizi l’equità naturale!

Né solamente tal diritto stretto fu naturalmente osser-vato tra gli uomini; ma, dalle loro nature, gli uomini cre-dettero osservarsi da essi dèi anco ne’ lor giuramenti.Siccome Omero narra che Giunone giura a Giove, ch’ède’ giuramenti non sol testimone ma giudice, ch’essanon aveva solecitato Nettunno a muovere la tempestacontro i troiani, perocché ’l fece per mezzo dello dioSonno; e Giove ne riman soddisfatto. Così Mercurio,finto Sosia, giura a Sosia vero che, se esso l’inganna, siaMercurio contrario a Sosia: né è da credersi che Plautonell’Anfitrione avesse voluto introdurre i dèi ch’inse-gnassero i falsi giuramenti al popolo nel teatro. Lo chemeno è da credersi di Scipione Affricano e di Lelio (ilquale fu detto il «romano Socrate»), due sappientissimiprincipi della romana repubblica, co’ quali si dice Te-renzio aver composte le sue commedie; il quale nell’An-dria finge che Davo fa poner il bambino innanzi l’usciodi Simone con le mani di Miside, acciocché, se per av-ventura di ciò sia domandato dal suo padrone, possa inbuona coscienza niegare d’averlovi posto esso.

Ma quel che fa di ciò una gravissima pruova si è ch’inAtene, città di scorti ed intelligenti, ad un verso di Euri-pide, che Cicerone voltò in latino:

Iuravi lingua, mentem iniuratam habui,

gli spettatori del teatro, disgustati, fremettero, perchénaturalmente portavano oppenione che «uti lingua nun-cupassit, ita ius esto», come comandava la legge delleXII Tavole. Tanto l’infelice Agamennone poteva assol-versi del suo temerario voto, col quale consagrò ed ucci-se l’innocente e pia figliuola Ifigenia! Onde s’intendache, perché sconobbe la provvedenza, perciò Lucrezioal fatto d’Agamennone fa quell’empia acclamazione:

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Tantum relligio potuit suadere malorum!

che noi sopra nelle Degnità proponemmo.Finalmente inchiovano al nostro proposito questo ra-

gionamento queste due cose di giurisprudenza e d’isto-ria romana certa: una ch’a’ tempi ultimi Gallo Aquiliointrodusse l’azione de dolo; l’altra, che Augusto diede latavoletta a’ giudici d’assolvere gl’ingannati e sedutti.

A tal costume avvezze in pace, le nazioni poi, nelleguerre essendo vinte, esse, con le leggi delle rese, o furo-no miserevolmente oppresse o felicemente schernironol’ira de’ vincitori.

Miserevolmente oppressi furon i cartaginesi, i qualidal Romano avevano ricevuta la pace sotto la legge chesarebbero loro salve la vita, la città e le sostanze, inten-dendo essi la «città» per gli «edifici», che da’ latini si di-ce «urbs». Ma, perché dal Romano si era usata la voce«civitas», che significa «comune di cittadini», quandopoi, in esecuzion della legge, comandati di abbandonarla città posta al lido del mare e ritirarsi entro terra, ricu-sando essi ubbidire e di nuovo armandosi alla difesa, fu-rono dal Romano dichiarati rubelli e, per diritto di guer-ra eroico, presa Cartagine, barbaramente fu messa afuoco. I cartaginesi non s’acquetarono alla legge dellapace data lor da’ romani, ch’essi non avevano inteso nelpatteggiarla, perch’anzi tempo divenuti erano intelligen-ti, tra per l’acutezza affricana e per la negoziazione ma-rittima, per la quale si fanno più scorte le nazioni. Népertanto i romani quella guerra tennero per ingiusta; pe-rocché, quantunque alcuni stimino aver i romani inco-minciato a fare le guerre ingiuste da quella di Numanzia,che fu finita da esso Scipione Affricano, però tutti con-vengono aver loro dato principio da quella, che poi fece-ro, di Corinto.

Ma da’ tempi barbari ritornati si conferma meglio ilnostro proposito. Corrado III imperadore, avendo dato

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la legge della resa a Veinsberga, la qual aveva fomentatoil suo competitore dell’imperio: – che ne uscissero sola-mente salve le donne con quanto esse via ne portasseroaddosso fuora, quivi le pie donne veinsbergesi si carica-rono de’ loro figliuoli, mariti, padri; e, stando alla portadella città l’imperadore vittorioso, nell’atto dell’usar lavittoria (che per natura è solita insolentire), non ascoltòpunto la collera (ch’è spaventosa ne’ grandi e dev’esserefunestissima ove nasca da impedimento che lor si facciadi pervenire o di conservarsi la loro sovranità), stando acapo dell’esercito, ch’era accinto, con le spade sguainatee le lance in resta, di far strage degli uomini veinsberge-si, se ’l vide e ’l sofferse che salvi gli passassero dinanzitutti, ch’aveva voluto a fil di spada tutti passare. Tanto ildiritto naturale della ragion umana spiegata di Grozio,di Seldeno, di Pufendorfio corse naturalmente per tutti itempi in tutte le nazioni.

Lo che si è finor ragionato, e tutto ciò che ragioneras-sene appresso, esce da quelle diffinizioni che sopra, tral-le Degnità, abbiamo proposto d’intorno al vero ed alcerto delle leggi e de’ patti; e che così a’ tempi barbari ènaturale la ragion stretta osservata nelle parole, ch’èpropiamente il «fas gentium», com’a’ tempi umani lo èla ragione benigna, estimata da essa uguale utilità dellecause, che propiamente «fas naturæ» dee dirsi, dirittoimmutabile dell’umanità ragionevole, ch’è la vera e pro-pia natura dell’uomo.

4.TERZA SPEZIE: GIUDIZI UMANI.

I terzi giudizi sono tutti straordinari, ne’ quali signo-reggia la verità d’essi fatti, a’ quali, secondo i dettamidella coscienza, soccorrono ad ogni uopo benignamentele leggi in tutto ciò che domanda essa uguale utilità dellecause; tutti aspersi di pudor naturale (ch’è parto dell’in-

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telligenza), e garantiti perciò dalla buona fede (ch’è fi-gliuola dell’umanità), convenevole all’apertezza delle re-pubbliche popolari e molto più alla generosità delle mo-narchie, ov’i monarchi, in questi giudizi, fan pompad’esser superiori alle leggi e solamente soggetti alla lorocoscienza e a Dio. E da questi giudizi, praticati negli ul-timi tempi in pace, sono usciti, in guerra, gli tre sistemidi Grozio, di Seldeno, di Pufendorfio. Ne’ quali avendoosservato molti errori e difetti, il padre Niccolò Concinane ha meditato uno più conforme alla buona filosofia epiù utile all’umana società, che, con gloria dell’Italia,tuttavia insegna nell’inclita università di Padova, in sé-guito della metafisica, che primario lettor vi professa.

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XITRE SÈTTE DI TEMPI.

Tutte l’anzidette cose si sono praticate per tre sèttede’ tempi.

Delle quali la prima fu de’ tempi religiosi, che si cele-brò sotto i governi divini.

La seconda de’ puntigliosi, come di Achille; ch’a’tempi barbari ritornati fu quella de’ duellisti.

La terza, de’ tempi civili ovvero modesti, ne’ tempidel diritto naturale delle genti, che, nel diffinirlo, Ulpia-no lo specifica con l’aggiunto d’«umane», dicendo «iusnaturale gentium humanarum»; onde, appo gli scrittorilatini sotto gl’imperadori, il dovere de’ sudditi si dice«officium civile», e ogni peccato, che si prende nell’in-terpetrazion delle leggi contro l’equità naturale, si dice«incivile». Ed è l’ultima setta de’ tempi della giurispru-denza romana, cominciando dal tempo della libertà po-polare. Onde prima i pretori, per accomodare le leggialla natura, costumi, governo romano, di già cangiati,dovetter addolcire la severità ed ammollire la rigidezzadella legge delle XII Tavole, comandata, quand’era na-turale, ne’ tempi eroici di Roma; e dipoi gl’imperadoridovettero snudare di tutti i veli, di che l’avevano covertai pretori, e far comparire tutta aperta e generosa, qual siconviene alla gentilezza alla quale le nazioni s’erano ac-costumate, l’equità naturale.

Per ciò i giureconsulti con la «setta de’ loro tempi»(come si posson osservare) giustificano ciò ch’essi ragio-nano d’intorno al giusto: perché queste sono le sèttepropie della giurisprudenza romana, nelle quali conven-nero i romani con tutte le altre nazioni del mondo, inse-gnate loro dalla provvedenza divina, ch’i romani giure-consulti stabiliscono per principio del diritto naturaldelle genti; non già le sètte de’ filosofi, che vi hanno a

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forza intruso alcuni interpetri eruditi della romana ra-gione, come si è sopra detto nelle Degnità. Ed essi impe-radori, ove vogliono render ragione delle loro leggi o dialtri ordinamenti dati da essoloro, dicono essere stati aciò far indutti dalla «setta de’ loro tempi», come ne rac-coglie i luoghi Barnaba Brissonio, De formulis romano-rum: perocché la scuola de’ prìncipi sono i costumi delsecolo, siccome Tacito appella la setta guasta de’ tempisuoi, ove dice «corrumpere et corrumpi seculum vocatur»,ch’or direbbesi «moda».

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XIIALTRE PRUOVE TRATTE DALLE PROPIETÀ

DELL’ARISTOCRAZIE EROICHE.

Così costante perpetua ordinata successione di coseumane civili, dentro la forte catena di tante e tanto variecagioni ed effetti che si sono osservati nel corso che fan-no le nazioni, debbe strascinare le nostre menti a riceve-re la verità di questi princìpi. Ma, per non lasciare verunluogo di dubitarne, aggiugniamo la spiegazione d’altricivili fenomeni, i quali non si possono spiegare che conla discoverta, la qual sopra si è fatta, delle repubblicheeroiche.

1.DELLA CUSTODIA DE’ CONFINI

Imperciocché le due eterne massime propietà dellerepubbliche aristocratiche sono le due custodie, comesopra si è detto, una de’ confini, l’altra degli ordini.

La custodia de’ confini cominciò ad osservarsi, comesi è sopra veduto, con sanguinose religioni sotto i gover-ni divini, perché si avevano da porre i termini a’ campi,che riparassero all’infame comunion delle cose dello sta-to bestiale; sopra i quali termini avevano a fermarsi iconfini prima delle famiglie, poi delle genti o case, ap-presso de’ popoli e alfin delle nazioni. Onde i giganti,come dice Polifemo ad Ulisse, se ne stavano ciascunocon le loro mogli e figliuoli dentro le loro grotte, nés’impacciavano nulla l’uno delle cose dell’altro, serban-do in ciò il vezzo dell’immane loro recente origine, e fie-ramente uccidevano coloro che fussero entrati dentro iconfini di ciascheduno, come voleva Polifemo fared’Ulisse e de’ suoi compagni (nel qual gigante, come piùvolte si è detto, Platone ravvisa i padri nello stato delle

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famiglie); onde sopra dimostrammo esser poi derivato ilcostume di guardarsi lunga stagione le città con l’aspettodi eterne nimiche tra loro. Tanto è soave la divisione de’campi che narra Ermogeniano giureconsulto, e di buonafede si è ricevuta da tutti gl’interpetri della romana ra-gione! E da questo primo antichissimo principio di coseumane, donde ne incominciò la materia, sarebbe ragio-nevole incominciar ancor la dottrina ch’insegna De re-rum divisione et acquirendo earum dominio. Tal custodiade’ confini è naturalmente osservata nelle repubblichearistocratiche, le quali, come avvertono i politici, nonsono fatte per le conquiste. Ma, poi che, dissipata affattol’infame comunion delle cose, furono ben fermi i confinide’ popoli, vennero le repubbliche popolari, che sonofatte per dilatare gl’imperi, e finalmente le monarchie,che vi vagliono molto più.

Questa e non altra dev’essere la cagione perché la leg-ge delle XII Tavole non conobbe nude possessioni; el’usucapione ne’ tempi eroici serviva a sollennizzare letradizioni naturali, come i miglior interpetri ne leggonola diffinizione che dica «dominii adiectio», aggiunzionedel dominio civile al naturale innanzi acquistato. Ma, neltempo della libertà popolare, vennero, dopo, i pretoried assisterono alle nude possessioni con gl’interdetti, el’usucapione incominciò ad essere «dominii adeptio»,modo d’acquistare da principio il dominio civile; e,quando prima le possessioni non comparivano affatto ingiudizio, perché ne conosceva estragiudizialmente ilpretore, per ciò che se n’è sopra detto, oggi i giudizi piùaccertati sono quelli che si dicono «possessorii».

Laonde, nella libertà popolare di Roma in gran parte,ed affatto sotto la monarchia, cadde quella distinzionedi dominio bonitario, quiritario, ottimo e finalmente ci-vile, i quali nelle lor origini portavano significazioni di-versissime dalle significazioni presenti: il primo, di do-minio naturale, che si conservava con la perpetua

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corporale possessione; – il secondo, di dominio che po-tevasi vindicare, che correva tra plebei, comunicato loroda’ nobili con la legge delle XII Tavole, ma ch’a’ plebeidovevano vindicare, laudati in autori, essi nobili, da’qual’i plebei avevano la cagion del dominio, come pie-namente sopra si è dimostrato; – il terzo, di dominio li-bero d’ogni peso pubblico nonché privato, che celebra-rono tra essoloro i patrizi innanzi d’ordinarsi il censoche fu pianta della libertà popolare, come si è sopra det-to; – il quarto ed ultimo, di dominio ch’avevan esse città,ch’or si dice «eminente». Delle quali differenze, quellad’ottimo e di quiritario da essi tempi della libertà si eradi già oscurata, tanto che non n’ebbero niuna contezza igiureconsulti della giurisprudenza ultima. Ma sotto lamonarchia quel che si dice «dominio bonitario» (natodalla nuda tradizion naturale) e ’l detto «dominio quiri-tario» (nato dalla mancipazione o tradizion civile) affat-to si confusero da Giustiniano con le costituzioni De nu-do iure quiritium tollendo e De usucapionetransformanda, e la famosa differenza delle cose mancipie nec mancipi si tolse affatto; e restarono «dominio civi-le» in significazione di dominio valevole a produrre re-vindicazione, e «dominio ottimo» in significazione didominio non soggetto a veruno peso privato.

2.DELLA CUSTODIA DEGLI ORDINI.

La custodia degli ordini cominciò da’ tempi divinicon le gelosie (onde vedemmo sopra esser gelosa Giuno-ne, dea de’ matrimoni solenni), acciocché indi provenis-se la certezza delle famiglie incontro la nefaria comu-nion delle donne. Tal custodia è propietà naturale dellerepubbliche aristocratiche, le quali vogliono i parentadi,le successioni, e quindi le ricchezze, e per queste la po-tenza, dentro l’ordine de’ nobili; onde tardi vennero nel-

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le nazioni le leggi testamentarie (siccome tra’ germaniantichi narra Tacito che non era alcun testamento): ilperché, volendo il re Agide introdurle in Isparta, funnefatto strozzare dagli efori, custodi della libertà signorilede’ lacedemoni, com’altra volta si è detto. Quindi s’in-tenda con quanto accorgimento gli adornatori della leg-ge delle XII Tavole fissano nella tavola decimoprimo ilcapo «Auspicia incommunicata plebi sunto», de’ qualidapprima furono dipendenze tutte le ragioni civili cosìpubbliche come private, che si conservavano tutte den-tro l’ordine de’ nobili; e le private furono nozze, patriapotestà, suità, agnazioni, gentilità, successioni legittime,testamenti e tutele, come sopra si è ragionato; – talché,dopo avere, nelle prime tavole, col comunicare tai ragio-ni tutte alla plebe, stabilite le leggi propie d’una repub-blica popolare, particolarmente con la legge testamenta-ria, dappoi, nella tavola decimoprimo, in un sol capo laformano tutta aristocratica. Ma, in tanta confusione dicose, dicono pur questo, quantunque indovinando, divero: che nelle due ultime tavole passarono in leggi alcu-ne costumanze antiche d’essi romani; il qual detto avve-ra che lo Stato romano antico fu aristocratico.

Ora, ritornando al proposito, poi che fu fermato dap-pertutto il gener umano con la solennità de’ matrimoni,vennero le repubbliche popolari e, molto più appresso,le monarchie; nelle quali, per mezzo de’ parentadi con leplebi de’ popoli e delle successioni testamentarie, se neturbarono gli ordini della nobiltà, e quindi andaronotratto tratto uscendo le ricchezze dalle case nobili. Per-ché appieno sopra si è dimostrato ch’i plebei romani sinal trecento e nove di Roma, che riportarono da’ patrizifinalmente comunicati i connubi, o sia la ragione di con-trarre nozze solenni, essi contrassero matrimoni natura-li; né, in quello stato sì miserevole quasi di vilissimischiavi, come la storia romana pure gli ci racconta, pote-vano pretendere d’imparentare con essi nobili. Ch’è una

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delle cose massime, onde dicevamo in quest’opera laprima volta stampata che, se non si danno questi princì-pi alla giurisprudenza romana, la romana storia è più in-credibile della favolosa de’ greci, quale finora ci è stataella narrata. Perché di questa non sapevamo che si aves-se voluto dire; ma, della romana, sentiamo nella nostranatura l’ordine de’ disidèri umani esser tutto contrario:che uomini miserabilissimi pretendessero prima nobiltànella contesa de’ connubi, poi onori con quella che lorocomunicassesi il consolato, finalmente ricchezze conl’ultima pretensione che fecero de’ sacerdozi; quando,per eterna comune civil natura, gli uomini prima diside-rano ricchezze, dopo di queste onori, e per ultimo no-biltà.

Laonde s’ha necessariamente a dire ch’avendo i ple-bei riportato da’ nobili il dominio certo de’ campi con lalegge delle XII Tavole (che noi sopra dimostrammo es-sere stata la seconda agraria del mondo) ed essendo an-cora stranieri (perché tal dominio puossi concedere aglistranieri), con la sperienza furono fatti accorti che nonpotevano lasciargli ab intestato a’ loro congionti, perché,non contraendo nozze solenni tra essoloro, non avevanosuità, agnazioni, gentilità; molto meno in testamento,non essendo cittadini. Né è maraviglia, essendo stati uo-mini di niuna o pochissima intelligenza, come lo ci ap-pruovano le leggi Furia, Voconia e Falcidia, che tutte etre furono plebisciti; e tante ve n’abbisognarono perchécon la legge Falcidia si fermasse finalmente la disideratautilità ch’i retaggi non si assorbissero da’ legati. Perciò,con le morti d’essi plebei ch’eran avvenute in tre anni,accortisi che, per tal via, i campi loro assegnati ritorna-vano a’ nobili, coi connubi pretesero la cittadinanza, co-me sopra si è ragionato. Ma i gramatici, confusi da tutti ipolitici, ch’immaginarono Roma essere stata fondata daRomolo sullo stato nel quale ora stanno le città, non sep-pero che le plebi delle città eroiche per più secoli furono

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tenute per istraniere, e quindi contrassero matrimoninaturali tra loro; e perciò essi non avvertirono ch’erauna, quanto in fatti sconcia, tanto nelle parole men lati-na espressione quella della storia: che «plebei tentaruntconnubia patrum», ch’arebbe dovuto dire «cumpatribus» (perché le leggi connubiali parlan così peresemplo: «patruus non habet cum fratris filiaconnubium»), come anco si è sopra detto. Che, se aves-sero ciò avvertito, avrebbono certamente inteso ch’i ple-bei non pretesero aver diritto d’imparentare co’ nobili,ma di contrarre nozze solenni, il qual diritto era de’ no-bili.

Quindi, se si considerano le successioni legittime, ov-vero le comandate dalla legge delle XII Tavole: – ch’alpadre di famiglia difonto succedessero in primo luogo isuoi, in lor difetto gli agnati e ’n mancanza di questi igentili, – sembra la legge delle XII Tavole essere stataappunto una legge salica de’ romani; la quale ne’ suoiprimi tempi si osservò ancora per la Germania (onde sipuò congetturare lo stesso per l’altre nazioni prima dellaritornata barbarie), e finalmente si ristò nella Francia e,fuori di Francia, nella Savoia. Il qual diritto di successio-ni Baldo, assai acconciamente al nostro proposito, chia-ma «ius gentium gallorum»: alla qual istessa fatta, cotaldiritto romano di successioni agnatizie e gentilizie si puòcon ragion chiamare «ius gentium romanarum», aggion-tavi la voce «heroicarum», e, per dirla con più acconcez-za, «romanum»; che sarebbe appunto «ius quiritium ro-manorum», che noi provammo qui sopra essere stato ildiritto naturale comune a tutte le genti eroiche.

Né ciò, come sembra, egli turba punto le cose da noiqui dette d’intorno alla legge salica, in quanto esclude lefemmine dalla successione de’ regni: che Tanaquille,femmina, governò il regno romano. Perché ciò fu detto,con frase eroica, ch’egli fu un re d’animo debole, che sifece regolare dallo scaltrito di Servio Tullio, il qual inva-

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se il regno romano col favor della plebe, alla qual aveaportato la prima legge agraria, come sopra si è dimostra-to. Alla qual fatta di Tanaquille, per la stessa maniera diparlar eroico, ricorsa ne’ tempi barbari ritornati, Gio-vanni papa fu detto femmina (contro la qual favola Lio-ne Allacci scrisse un intiero libro), perché mostrò lagran debolezza di ceder a Fozio, patriarca di Costanti-nopoli, come ben avvisa il Baronio e, dopo di lui, loSpondano.

Sciolta adunque sì fatta difficultà, diciamo ch’allastessa maniera che prima si era detto «ius quiritium ro-manorum», nel significato di «ius naturale gentium he-roicarum romanarum», non altrimente sotto gl’impera-dori, quando Ulpiano il diffinisce, con peso di paroledice «ius naturale gentium humanarum», che corre nellerepubbliche libere e molto più sotto le monarchie. E pertutto ciò il titolo dell’Instituta sembra doversi leggere:De iure naturali gentium civili, non solo, con ErmannoVulteo, togliendo la virgola tralle voci «naturali» «gen-tium» (supplita, con Ulpiano, la seconda «humana-rum»), ma anco la particella «et» innanzi alla voce «civi-li». Perché i romani dovetter attendere al diritto loropropio, come, dall’età di Saturno introdutto, l’avevanoconservato prima coi costumi e poi con le leggi, siccomeVarrone, nella grand’opera Rerum divinarum et huma-narum, trattò le cose romane per origini tutte quante na-tie, nulla mescolandovi di straniere.

Ora, ritornando alle successioni eroiche romane, ab-biamo assai molti e troppo forti motivi di dubitare se,ne’ tempi romani antichi, di tutte le donne succedesserole figliuole; perché non abbiamo nessuno motivo di cre-dere ch’i padri eroi n’avessero sentito punto di tenerez-za, anzi n’abbiamo ben molti e grandi tutti contrari. Im-perciocché la legge delle XII Tavole chiamava un agnatoanco in settimo grado ad escludere un figliuolo, che tro-vavasi emancipato, dalla succession di suo padre. Per-

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ché i padri di famiglia avevano un sovrano diritto di vitae morte, e quindi un dominio dispotico sopra gli acqui-sti d’essi figliuoli: essi contraevano i parentadi per glimedesimi, per far entrar femmine nelle loro case degnedelle lor case (la qual istoria ci è narrata da esso verbo«spondere», ch’è, propiamente, «promettere per altrui»,onde vengono detti «sponsalia»); consideravano le ado-zioni quanto le medesime nozze, perché rinforzassero lecadenti famiglie con eleggere strani allievi che fusserogenerosi; tenevano l’emancipazioni a luogo di castigo edi pena; non intendevano legittimazioni, perché i concu-binati non erano che con affranchite e straniere, con lequali ne’ tempi eroici non si contraevano matrimoni so-lenni, onde i figliuoli degenerassero dalla nobiltà de’ loravoli; i loro testamenti per ogni frivola ragione o eranonulli o s’annullavano o si rompevano o non conseguiva-no il loro effetto, acciocché ricorressero le successionilegittime. Tanto furono naturalmente abbagliati dallachiarezza de’ loro privati nomi, onde furono per naturainfiammati per la gloria del comun nome romano! Tutticostumi propi di repubbliche aristocratiche, quali furo-no le repubbliche eroiche, le quali tutte sono propietàconfaccenti all’eroismo de’ primi popoli.

Ed è degno di riflessione questo sconcissimo errorepreso da cotesti eruditi adornatori della legge delle XIITavole, i quali vogliono essersi portata da Atene in Ro-ma: che de’ padri di famiglia romani l’eredità ab intesta-to, per tutto il tempo innanzi di portarvi tal legge le suc-cessioni testamentarie e legittime, dovettero andarenelle spezie delle cose che sono dette nullius. Ma laprovvedenza dispose che, perché ’l mondo non ricades-se nell’infame comunion delle cose, la certezza de’domìni si conservasse con essa e per essa forma delle re-pubbliche aristocratiche: onde tali successioni legittimeper tutte le prime nazioni naturalmente si dovettero ce-lebrare innanzi d’intendersi i testamenti, che sono propi

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delle repubbliche popolari e molto più delle monarchie,siccome de’ germani antichi (i quali ci danno luogo d’in-tendere lo stesso costume di tutti i primi popoli barbari)apertamente da Tacito ci è narrato; onde testé congettu-rammo la legge salica, la quale certamente fu celebratanella Germania, essere stata osservata universalmentedalle nazioni nel tempo della seconda barbarie.

Però i giureconsulti della giurisprudenza ultima, perquel fonte d’innumerabili errori (i quali si sono notati inquest’opera) d’estimare le cose de’ tempi primi non co-nosciuti da quelle de’ loro tempi ultimi, han creduto chela legge delle XII Tavole avesse chiamate le figliuole difamiglia all’eredità de’ loro padri, che morti fussero abintestato, con la parola «suus», su quella massima che ’lgenere maschile contenga ancora le donne. Ma la giuri-sprudenza eroica, della quale tanto in questi libri si è ra-gionato, prendeva le parole delle leggi nella propissimaloro significazione; talché la voce «suus» non significassealtro che ’l figliuol di famiglia. Di che con un’invittapruova ne convince la formola dell’istituzione de’ postu-mi, introdutta tanti secoli dopo da Gallo Aquilio, laquale sta così conceputa: «Si quis natus natave erit», perdubbio che nella sola voce «natus» la postuma non s’in-tendesse compresa. Onde, per ignorazione di queste co-se, Giustiniano nell’Istituta dice che la legge delle XIITavole con la voce «adgnatus» avesse chiamati egual-mente gli agnati maschi e l’agnate femmine, e che poi lagiurisprudenza mezzana avesse irrigidito essa legge, re-strignendola alle sole sorelle consanguinee; lo chedev’esser avvenuto tutto il contrario, e che prima avessesteso la parola «suus» alle figliuole ancor di famiglia, edipoi la voce «adgnatus» alle sorelle consanguinee. Ovea caso, ma però bene, tal giurisprudenza vien detta «me-dia», perch’ella da questi casi incominciò a rallentare irigori della legge delle XII Tavole: la qual venne dopo lagiurisprudenza antica, la quale n’aveva custodito con

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somma scrupolosità le parole, siccome dell’una e dell’al-tra appieno si è sopra detto.

Ma, essendo passato l’imperio da’ nobili al popolo,perché la plebe pone tutte le sue forze, tutte le sue ric-chezze, tutta la sua potenza nella moltitudine de’ figliuo-li, s’incominciò a sentire la tenerezza del sangue, ch’in-nanzi i plebei delle città eroiche non avevano dovutosentire, perché generavano i figliuoli per fargli schiavide’ nobili, da’ quali erano posti a generare in tempo ch’iparti provenissero nella stagione di primavera, perchénascessero non solo sani, ma ancor robusti (onde se nedissero «vernæ», come vogliono i latini etimologi, da’quali, come si è detto sopra, le lingue volgari furono det-te «vernaculæ»), e le madri dovevano odiargli anzi cheno, siccome quelli de’ quali sentivano il solo dolore nelpartorirgli e le sole molestie nel lattargli, senza prender-ne alcun piacere d’utilità nella vita. Ma, perché la molti-tudine de’ plebei, quanto era stata pericolosa alle repub-bliche aristocratiche, che sono e si dicon di pochi, tantoingrandiva le popolari, e molto più le monarchiche (on-de sono i tanti favori che fanno le leggi imperiali alledonne per gli pericoli e dolori del parto), quindi da’tempi della popolar libertà cominciaron i pretori a con-siderare i diritti del sangue ed a riguardarlo con le bono-rum possessioni; cominciaron a sanare co’ loro rimedi ivizi o difetti de’ testamenti, perche si divolgassero le ric-chezze, le quali sole son ammirate dal volgo. Finalmen-te, venuti gl’imperadori, a’ quali faceva ombra lo splen-dore della nobiltà, si dieder a promuovere le ragionidell’umana natura, comune così a’ plebei com’a’ nobili,incominciando da Augusto, il quale applicò a protegge-re i fedecommessi (per gli quali, con la puntualità deglieredi gravati, erano innanzi passati i beni agl’incapacid’eredità), e lor assisté tanto, che nella sua vita passaro-no in necessità di ragione di costrignere gli eredi a man-dargli in effetto. Succedettero tanti senaticonsulti, co’

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quali i cognati entrarono nell’ordine degli agnati; finchévenne Giustiniano e tolse le differenze de’ legati e de’ fe-decommessi, confuse le quarte falcidia e trebellianica, dipoco distinse i testamenti da’ codicilli e, ab intestato,adeguò gli agnati e i cognati in tutto e per tutto. E tantole leggi romane ultime si profusero in favorire l’ultimevolontà, che, quando anticamente per ogni leggier moti-vo si viziavano, oggi si devono sempre interpetrar in ma-niera che reggano più tosto che cadano.

Per l’umanità de’ tempi (ché le repubbliche popolariamano i figliuoli, e le monarchie vogliono i padri occu-pati nell’amor de’ figliuoli), essendo già caduto il dirittociclopico ch’avevano i padri delle famiglie sopra le per-sone, perché cadesse anco quello sopra gli acquisti de’lor figliuoli, gl’imperadori introdussero prima il peculiocastrense per invitar i figliuoli alla guerra, poi lo steseroal quasi castrense per invitargli alla milizia palatina, e fi-nalmente, per tener contenti i figliuoli che né eran sol-dati né letterati, introdussero il peculio avventizio. Tol-sero l’effetto della patria potestà all’adozioni, le qualinon si contengono ristrette dentro pochi congionti; ap-pruovarono universalmente le arrogazioni, difficili al-quanto ch’i cittadini, di padri di famiglia, divenganosoggetti nelle famiglie d’altrui; riputarono l’emancipa-zioni per benefizi; diedero alle legittimazioni che dicono«per subsequens matrimonium» tutto il vigore delle noz-ze solenni. Ma sopra tutto, perché sembrava scemare laloro maestà quell’«imperium paternum», il disposero achiamarsi «patria potestà»; sul lor esemplo, introduttocon grand’avvedimento da Augusto, che, per non inge-losire il popolo che volessegli togliere punto dell’impe-rio, si prese il titolo di «potestà tribunizia», o sia di pro-tettore della romana libertà, che ne’ tribuni della plebeera stata una potestà di fatto, perch’essi non ebberogiammai imperio nella repubblica: come ne’ tempi delmedesimo Augusto, avendo un tribuno della plebe ordi-

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nato a Labeone che comparisse avanti di lui, questoprincipe d’una delle due sètte de’ romani giureconsultiragionevolmente ricusò d’ubbidire, perché i tribuni del-la plebe non avessero imperio. Talché né da’ gramaticiné da’ politici né da’ giureconsulti è stato osservato ilperché, nella contesa di comunicarsi il consolato allaplebe, i patrizi, per farla contenta senza pregiudicarsi dicomunicarle punto d’imperio, fecero quell’uscita dicriare i tribuni militari, parte nobili parte plebei, «cumconsulari potestate», come sempre legge la storia, nongià «cum imperio consulari», che la storia non legge mai.

Onde la repubblica romana libera si concepì tuttacon questo motto, in queste tre parti diviso: «senatus au-toritas», «populi imperium», «tribunorum plebispotestas». E queste due voci restarono nelle leggi con ta-li loro native eleganze: che l’«imperio» si dice de’ mag-giori maestrati, come de’ consoli, de’ pretori, e si stendefino a poter condennare di morte; la «potestà» si dicede’ maestrati minori, come degli edili, e «modica coerci-tione continetur».

Finalmente, spiegando i romani prìncipi tutta la loroclemenza verso l’umanità, presero a favorire la schiavitùe raffrenarono la crudeltà de’ signori contro i loro mise-ri schiavi; ampliarono negli effetti e restrinsero nelle so-lennità le manomessioni; e la cittadinanza, che primanon si dava ch’a’ grandi stranieri benemeriti del popoloromano, diedero ad ogniuno ch’anco di padre schiavo,purché da madre libera (nonché nata, affranchita) na-scesse in Roma. Dalla qual sorta di nascere liberi nellecittà il diritto naturale, ch’innanzi dicevasi «delle genti»o delle case nobili (perché ne’ tempi eroici erano statetutte repubbliche aristocratiche, delle quali era propiocotal diritto, come sopra si è ragionato), poi che vennerole repubbliche popolari (nelle quali l’intiere nazioni so-no signore degl’imperi) e quindi le monarchie (dove i

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monarchi rappresentano l’intiere nazioni loro soggette),restò detto «diritto naturale delle nazioni».

3.DELLA CUSTODIA DELLE LEGGI.

La custodia degli ordini porta di séguito quella de’maestrati e de’ sacerdozi, e quindi quella ancor delle leg-gi e della scienza d’interpetrarle. Ond’è che si legge nel-la storia romana, a’ tempi ne’ quali era quella repubblicaaristocratica, che dentro l’ordine senatorio (ch’allora eratutto di nobili) erano chiusi e connubi e consolati e sa-cerdozi, e dentro il collegio de’ pontefici (nel quale nonsi ammettevano che patrizi), come appo tutte l’altre na-zioni eroiche, si custodiva sagra ovvero segreta (che so-no lo stesso) la scienza delle lor leggi: che durò tra’ ro-mani fin a cento anni dopo la legge delle XII Tavole, alnarrare di Pomponio giureconsulto. E ne restarono det-ti «viri», che tanto in que’ tempi a’ latini significò quan-to a’ greci significarono «eroi», e con tal nome s’appella-rono i mariti solenni, i maestrati, i sacerdoti e i giudici,come altra volta si è detto. Però noi qui ragioneremodella custodia delle leggi, siccome quella ch’era unamassima propietà dell’aristocrazie eroiche; onde fu l’ul-tima ad essere da’ patrizi comunicata alla plebe.

Tal custodia scrupolosamente si osservò ne’ tempi di-vini; talché l’osservanza delle leggi divine se ne chiama«religione», la quale si perpetuò per tutti i governi ap-presso, ne’ quali le leggi divine si devon osservare concerte innalterabili formole di consagrate parole e di ceri-monie solenni: la qual custodia delle leggi è tanto propiadelle repubbliche aristocratiche che nulla più. PerciòAtene (e, al di lei esemplo, quasi tutte le città della Gre-cia) andò prestamente alla libertà popolare, per quelloche gli spartani (ch’erano di repubblica aristocratica) di-cevano agli ateniesi: che le leggi in Atene tante se ne

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scrivevano, e le poche ch’erano in Isparta si osservava-no.

Furono i romani, nello stato aristocratico, rigidissimicustodi della legge delle XII Tavole, come si è sopra ve-duto; tanto che da Tacito funne detta «finis omnis æquiiuris», perché, dopo quelle che furono stimate bastevoliper adeguare la libertà (che dovettero essere comandatedopo i decemviri, a’ quali, per la maniera di pensare percaratteri poetici degli antichi popoli, che si è sempre di-mostro, furono richiamate), leggi consolari di diritto pri-vato furono appresso o niune o pochissime; e per que-st’istesso da Livio fu ella detta «fons omnis æqui iuris»,perch’ella dovett’esser il fonte di tutta l’interpetrazione.La plebe romana, a guisa dell’ateniese, tuttodì comanda-va delle leggi singolari, perché d’universali ella non è ca-pace: al qual disordine Silla, che fu capoparte di nobili,poi che vinse Mario, ch’era stato capoparte di plebe, ri-parò alquanto con le «quistioni perpetue»; ma, rinnun-ziata ch’ebbe la dittatura, ritornarono a moltiplicarsi,come Tacito narra, le leggi singolari niente meno di pri-ma. Della qual moltitudine delle leggi, com’i politicil’avvertiscono, non vi è via più spedita di pervenir allamonarchia; e perciò Augusto, per istabilirla, ne fece ingrandissimo numero, e i seguenti prìncipi usarono sopratutto il senato per fare senaticonsulti di privata ragione.Niente di manco, dentro essi tempi della libertà popola-re si custodirono sì severamente le formole dell’azioni,che vi bisognò tutta l’eloquenza di Crasso, che Ciceronechiamava il «romano Demostene», perché la sustituzio-ne pupillar espressa contenesse la volgar tacita, e vi biso-gnò tutta l’eloquenza di Cicerone per combattere una«r» che mancava alla formola, con la qual letterucciapretendeva Sesto Ebuzio ritenersi un podere d’Aulo Ce-cina. Finalmente si giunse a tanto, poi che Costantinocancellò affatto le formole, ch’ogni motivo particolard’equità fa mancare le leggi: tanto sotto i governi umani

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le umane menti sono docili a riconoscere l’equità natu-rale. Così, da quel capo della legge delle XII Tavole:«Privilegia ne irroganto», osservato nella romana aristo-crazia, per le tante leggi singolari, fatte, come si è detto,nella libertà popolare, si giunse a tanto sotto le monar-chie, ch’i prìncipi non fann’altro che concedere privile-gi, de’ quali, conceduti con merito, non vi è cosa piùconforme alla natural equità. Anzi tutte l’eccezioni,ch’oggi si danno alle leggi, si può con verità dire che so-no privilegi dettati dal particolar merito de’ fatti, il qualegli tragge fuori dalla comun disposizion delle leggi.

Quindi crediamo esser quello avvenuto: che, nellacrudezza della barbarie ricorsa, le nazioni sconobbero leleggi romane; tanto che in Francia era con gravi penepunito, ed in Ispagna anco con quella di morte, chiun-que nella sua causa n’avesse allegato alcuna. Certamen-te, in Italia si recavano a vergogna i nobili di regolar i loraffari con le leggi romane e professavano soggiacere allelongobarde; e i plebei, che tardi si disavvezzano de’ lorcostumi, praticavano alcuni diritti romani in forza diconsuetudini: ch’è la cagione onde il corpo delle leggi diGiustiniano ed altri del diritto romano occidentale tranoi latini, e i libri Basilici ed altri del diritto romanoorientale tra’ greci si seppellirono. Ma poi, rinnate lemonarchie e rintrodutta la libertà popolare, il diritto ro-mano compreso ne’ libri di Giustiniano è stato ricevutouniversalmente, tanto che Grozio afferma esser oggi undiritto naturale delle genti d’Europa.

Però qui è da ammirare la romana gravità e sapienza:che, in queste vicende di stati, i pretori e i giureconsultisi studiarono a tutto loro potere che di quanto meno econ tardi passi s’impropiassero le parole della legge del-le XII Tavole. Onde forse per cotal cagione principal-mente l’imperio romano cotanto s’ingrandì e durò: per-ché, nelle sue vicende di stato, proccurò a tutto poteredi star fermo sopra i suoi princìpi, che furono gli stessi

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che quelli di questo mondo di nazioni; come tutti i poli-tici vi convengono che non vi sia miglior consiglio di du-rar e d’ingrandire gli Stati. Così la cagione, che produssea’ romani la più saggia giurisprudenza del mondo (diche sopra si è ragionato), è la stessa che fece loro il mag-gior imperio del mondo; ed è la cagione della grandezzaromana, che Polibio, troppo generalmente, rifonde nellareligione de’ nobili, al contrario Macchiavello nella ma-gnanimità della plebe, e Plutarco, invidioso della roma-na virtù e sapienza, rifonde nella loro fortuna nel libroDe fortuna romanorum, a cui per altre vie meno diritteTorquato Tasso scrisse la sua generosa Risposta.

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XIIIALTRE PRUOVE PRESE DAL TEMPERAMENTO

DELLE REPUBBLICHE, FATTO DEGLI STATIDELLE SECONDE COI GOVERNI DELLE

PRIMIERE

1.

Per tutte le cose che in questo libro si sono dette, conevidenza si è dimostrato che, per tutta l’intiera vita ondevivon le nazioni, esse corrono con quest’ordine sopraqueste tre spezie di repubbliche, o sia di Stati civili, enon più: che tutti mettono capo ne’ primi, che furon idivini governi; da’ quali, appo tutte, incominciando (perle Degnità sopra poste come princìpi della storia idealeterna), debbe correre questa serie di cose umane, pri-ma in repubbliche d’ottimati, poi nelle libere popolari efinalmente sotto le monarchie: onde Tacito, quantunquenon le veda con tal ordine, dice (quale nell’Idea dell’ope-ra l’avvisammo) che, oltre a queste tre forme di Statipubblici, ordinate dalla natura de’ popoli, l’altre di que-ste tre, mescolate per umano provvedimento, sono piùda disiderarsi dal cielo che da potersi unquemai conse-guire, e, se per sorte ve n’hanno, non sono punto dure-voli. Ma, per non trallasciare punto di dubbio d’intornoa tal naturale successione di Stati politici o sien civili, se-condo questa ritruoverassi le repubbliche mescolarsi na-turalmente, non già di forme (che sarebbero mostri), madi forme seconde mescolate coi governi delle primiere; ilqual mescolamento è fondato sopra quella Degnità: che,cangiandosi gli uomini, ritengono per qualche tempol’impressione del loro vezzo primiero.

Perciò diciamo che, come i primi padri gentili, venutidalla vita lor bestiale all’umana, eglino, a’ tempi religio-

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si, nello stato di natura, sotto i divini governi, ritenneromolto di fierezza e d’immanità della lor fresca origine(onde Platone riconosce ne’ polifemi d’Omero i primipadri di famiglia del mondo); così, nel formarsi le primerepubbliche aristocratiche, restaron intieri gl’imperi so-vrani privati a’ padri delle famiglie, quali gli avevano es-si avuto nello stato già di natura; e, per lo loro sommoorgoglio, non dovendo niuno ceder ad altri, perch’eranotutti uguali, con la forma aristocratica s’assoggettironoall’imperio sovrano pubblico d’essi ordini loro regnanti;onde il dominio alto privato di ciascun padre di famigliaandò a comporre il dominio alto superiore pubblicod’essi senati, siccome delle potestà sovrane private,ch’avevano sopra le loro famiglie, essi composero la po-testà sovrana civile de’ loro medesimi ordini. Fuori dellaqual guisa, è impossibil intendere come altrimente dellefamiglie si composero le città, le quali, perciò, ne dovet-tero nascere repubbliche aristocratiche, naturalmentemescolate d’imperi famigliari sovrani.

Mentre i padri si conservarono cotal autorità di domi-nio dentro gli ordini loro regnanti, finché le plebi de’ lo-ro popoli eroici, per leggi di essi padri, riportarono co-municati loro il dominio certo de’ campi, i connubi,gl’imperi, i sacerdozi e, co’ sacerdozi, la scienza ancordelle leggi, le repubbliche durarono aristocratiche. Ma,poi che esse plebi dell’eroiche città, divenute numeroseed anco agguerrite (che mettevano paura a’ padri, chenelle repubbliche di pochi debbon essere pochi) ed assi-stite dalla forza (ch’è la loro moltitudine), cominciaronoa comandare leggi senza autorità de’ senati, si cangiaro-no le repubbliche, e da aristocratiche divennero popola-ri: perché non potevano pur un momento vivere ciascu-na con due potestà somme legislatrici, senza esseredistinte di subbietti, di tempi, di territori, d’intorno a’quali, ne’ quali e dentro i quali dovessero comandare leleggi: come con la legge Publilia, perciò, Filone dittatore

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dichiarò la repubblica romana essersi per natura fattagià popolare. In tal cangiamento, perché l’autorità didominio ritenesse ciò che poteva della cangiata sua for-ma, ella naturalmente divenne autorità di tutela (sicco-me la potestà c’hanno i padri sopra i loro figliuoli impu-beri, morti essi, diviene in altri autorità di tutori); per laquale autorità, i popoli liberi, signori de’ lor imperi,quasi pupilli regnanti, essendo di debole consiglio pub-blico, essi naturalmente si fanno governare, come da’ tu-tori, da’ lor senati; e sì furono repubbliche libere per na-tura, governate aristocraticamente. Ma, poi che i potentidelle repubbliche popolari ordinarono tal consigliopubblico a’ privati interessi della loro potenza, e i popo-li liberi, per fini di private utilità, si fecero da’ potenti se-durre ad assoggettire la loro pubblica libertà all’ambi-zione di quelli, con dividersi in partiti, sedizioni, guerrecivili, in eccidio delle loro medesime nazioni, s’introdus-se la forma monarchica.

2.D’UN’ETERNA NATURAL LEGGE REGIA, PERLA QUALE LE NAZIONI VANNO A RIPOSARE

SOTTO LE MONARCHIE.

E tal forma monarchica s’introdusse con questa eter-na natural legge regia, la qual sentirono pure tutte le na-zioni, che riconoscono da Augusto essersi fondata lamonarchia de’ romani: la qual legge non han vedutogl’interpetri della romana ragione, occupati tutti d’in-torno alla favola della «legge regia» di Triboniano, dicui apertamente si professa autore nell’Istituta, ed unavolta l’appicca ad Ulpiano nelle Pandette. Ma l’inteserobene i giureconsulti romani, che seppero bene del dirit-to naturale delle genti, per ciò che Pomponio, nella brie-ve storia del diritto romano, ragionando di cotal legge,

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con quella ben intesa espressione ci lasciò scritto: «rebusipsis dictantibus, regna condita».

Cotal legge regia naturale è conceputa con questa for-mola naturale di eterna utilità: che, poiché nelle repub-bliche libere tutti guardano a’ loro privati interessi, a’quali fanno servire le loro pubbliche armi in eccidio del-le loro nazioni, perché si conservin le nazioni, vi surgaun solo (come tra’ romani un Augusto), che con la forzadell’armi richiami a sé tutte le cure pubbliche e lasci a’soggetti corarsi le loro cose private, e tale e tanta curaabbiano delle pubbliche qual e quanta il monarca lor nepermetta; e così si salvino i popoli, ch’anderebbono al-trimente a distruggersi. Nella qual verità convengono ivolgari dottori, ove dicono che «universitates sub regehabentur loco privatorum», perché la maggior parte de’cittadini non curano più ben pubblico: lo che Tacito,sappientissimo del diritto natural delle genti, negli An-nali, dentro la sola famiglia de’ Cesari l’insegna con que-st’ordine d’idee umane civili: avvicinandosi al fine Au-gusto, «pauci bona libertatis incassum disserere»; tostovenuto Tiberio, «omnes principis iussa adspectare»; sottogli tre Cesari appresso, prima venne «incuria» e final-mente «ignorantia reipublicæ tanquam alienæ»: ond’es-sendo i cittadini divenuti quasi stranieri delle loro nazio-ni, è necessario ch’i monarchi nelle loro persone lereggano e rappresentino. Ora, perché nelle repubblichelibere per portarsi un potente alla monarchia vi deveparteggiare il popolo, perciò le monarchie per natura sigovernano popolarmente: prima con le leggi, con lequal’i monarchi vogliono i soggetti tutti uguagliati; dipoiper quella propietà monarchica, ch’i sovrani, con umi-liar i potenti, tengono libera e sicura la moltitudine dallelor oppressioni; appresso per quell’altra di mantenerlasoddisfatta e contenta circa il sostentamento che biso-gna alla vita e circa gli usi della libertà naturale; e final-mente co’ privilegi, ch’i monarchi concedono o ad intie-

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ri ordini (che si chiamano «privilegi di libertà») o a par-ticolari persone, con promuovere fuori d’ordine uominidi straordinario merito agli onori civili (che sono leggisingolari dettate dalla natural equità). Onde le monar-chie sono le più conformi all’umana natura della piùspiegata ragione, com’altra volta si è detto.

3.CONFUTAZIONE DE’ PRINCÌPI DELLADOTTRINA POLITICA FATTA SOPRA IL

SISTEMA DI GIOVANNI BODINO.

Dallo che si è fino qui ragionato s’intenda quantoGian Bodino stabilì con iscienza i princìpi della sua dot-trina politica, che dispone le forme degli Stati civili consì fatt’ordine: che prima furono monarchici, dipoi per letirannie passati in liberi popolari, e finalmente vennerogli aristocratici. Qui basterebbe averlo appien confutatocon la natural successione delle forme politiche, spezial-mente in questo libro a tante innumerabili pruove dimo-strata di fatto. Ma ci piace, ad exuberantiam, confutarlodagl’impossibili e dagli assurdi di cotal sua posizione.

Esso, certamente, conviene in quello ch’è vero: chesopra le famiglie si composero le città. Altronde, per co-mun errore, che si è qui sopra ripreso, ha creduto che lefamiglie sol fussero di figliuoli. Or il domandiamo: comesopra tali famiglie potevano surger le monarchie?

Due sono i mezzi: o la forza o la froda.Per forza, come un padre di famiglia poteva mano-

mettere gli altri? Perché, se nelle repubbliche libere(che, per esso, vennero dopo le tirannie) i padri di fami-glia consagravano sé e le loro famiglie per le loro patrie,che loro conservavano le famiglie (e, per esso, eranoquelli già stati addimesticati alle monarchie), quanto è

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da stimarsi ch’i padri di famiglia, allor polifemi, nella re-cente origine della loro ferocissima libertà bestiale, siarebbono tutti con le lor intiere famiglie fatti più tostouccidere che sopportar inegualità?

Per froda, ella è adoperata da coloro ch’affettano ilregno nelle repubbliche libere, con proporre a’ sedutti olibertà o potenza o ricchezze. Se libertà, nello stato dellefamiglie i padri erano tutti sovrani. Se potenza, la naturade’ polifemi era di starsi tutti soli nelle loro grotte e cu-rare le lor famiglie, e nulla impacciarsi di quelle ch’erand’altrui, convenevolmente al vezzo della lor origine im-mane. Se ricchezze, in quella semplicità e parsimonia de’primi tempi non s’intendevano affatto.

Cresce a dismisura la difficultà, perché ne’ tempi bar-bari primi non vi eran fortezze, e le città eroiche, le qua-li si composero dalle famiglie, furono lungo tempo smu-rate, come ce n’accertò sopra Tucidide; e, nelle gelosiedi Stato, che furono funestissime nell’aristocratiche eroi-che che sopra abbiam detto, Valerio Publicola, per aver-si fabbricato una casa in alto, venutone in sospetto d’af-fettata tirannide, affin di giustificarsene, in una nottefecela smantellare, e ’l giorno appresso, chiamata pub-blica ragunanza, fece da’ littori gittar i fasci consolari a’piedi del popolo; e ’l costume delle città smurate piùdurò ove furono più feroci le nazioni: talché in Lamagnasi legge ch’Arrigo detto l’uccellatore fu il primo che’ncominciasse a ridurre i popoli, da’ villaggi dove innan-zi avevano vivuto dispersi, a celebrar le città ed a cingerele città di muraglie. Tanto i primi fondatori delle cittàessi furono quelli che con l’aratro vi disegnarono le mu-ra e le porte, ch’i latini etimologi dicono essersi così det-te a «portando aratro», perché l’avessero portato alto,ove volevano che si aprisser le porte! Quindi, tra per laferocia de’ tempi barbari e per la poca sicurtà delle reg-ge, nella corte di Spagna in sessant’anni furon uccisi piùdi ottanta reali; talché i padri del concilio illiberitano,

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uno degli più antichi della Chiesa latina, con gravi sco-muniche ne condennarono la tanto frequentata scellera-tezza.

Ma giunge la difficultà all’infinito, poste le famigliesol di figliuoli. Ché o per forza o per froda debbon i fi-gliuoli essere stati i ministri dell’altrui ambizione, e otradire o uccidere i propi padri; talché le prime sarebbo-no state, non già monarchie, ma empie e scellerate tiran-nidi: come i giovani nobili in Roma congiurarono controi lor propi padri a favore del tiranno Tarquinio, perl’odio ch’avevano al rigor delle leggi, propio delle re-pubbliche aristocratiche (come le benigne sono delle re-pubbliche popolari, le clementi de’ regni legittimi, ledissolute sotto i tiranni); ed essi giovani congiurati lesperimentarono a costo delle propie lor vite; e, tra quel-li, due figliuoli di Bruto, dettando esso padre la severis-sima pena, furon entrambi decapitati. Tanto il regno ro-mano era stato monarchico e la libertà da Brutoordinatavi popolare!

Per tali e tante difficultà debbe Bodino (e con lui tuttigli altri politici) riconoscere le monarchie famigliari nel-lo stato delle famiglie che si sono qui dimostrate, e rico-noscere le famiglie, oltre de’ figliuoli, ancora de’ famoli(da’ quali principalmente si dissero le famiglie), i quali sisono qui truovati che abbozzi furono degli schiavi, iquali vennero dopo le città con le guerre. E ’n cotal gui-sa sono la materia delle repubbliche uomini liberi e ser-vi, i quali il Bodino pone per materia delle repubbliche,ma, per la sua posizione, non posson esserlo.

Per tale difficoltà di poter essere uomini liberi e servimateria delle repubbliche con la sua posizione, si mara-viglia esso Bodino che la sua nazione sia stata detta di«franchi», i quali osserva essere stati ne’ loro primi tem-pi trattati da vilissimi schiavi; perché, per la sua posizio-ne, non poté vedere che sugli sciolti dal nodo della leggePetelia si compierono le nazioni. Talché i franchi, de’

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quali si maraviglia il Bodino, sono gli stessi che [gli]«homines», de’ quali si maraviglia Ottomano essere statidetti i vassalli rustici, de’ quali, come in questi libri si èdimostrato, si composero le plebi de’ primi popoli, iquali eran d’eroi. Le quali moltitudini, come pure si èdimostrato, trassero l’aristocrazie alla libertà popolare e,finalmente, alle monarchie; e ciò, in forza della linguavolgare, con cui, in ogniuno dei due ultimi Stati, si con-cepiscon le leggi, come sopra si è ragionato: onde da’ la-tini si disse «vernacula» la volgar lingua, perocché venneda questi servi nati in casa, ché tanto «verna» significa,non «fatti in guerra»; quali sopra dimostrammo esserestati per tutte le nazioni antiche fin dallo stato delle fa-miglie. Il perché i greci non si dissero più «achivi» (ondeda Omero si dicono «filii achivorum» gli eroi), ma si dis-sero «elleni» da Elleno, che ’ncominciò la lingua grecavolgare; appunto come non più si dissero «filii Isræl»,come ne’ tempi primi, ma restò detto «popolo ebreo»,da Eber, che i padri vogliono essere stato il propagatordella lingua santa. Tanto Bodino, e tutti gli altri c’hannoscritto di dottrina politica, videro questa luminosissimaverità, la quale per tutta quest’opera, particolarmentecon la storia romana, ad evidenza si è dimostrata: che leplebi de’ popoli, sempre ed in tutte le nazioni, han can-giato gli Stati da aristocratici in popolari, da popolari inmonarchici, e che, come elleno fondarono le lingue vol-gari (come sopra appieno si è pruovato nell’Origini dellelingue), così hanno dato i nomi alle nazioni, conformetesté si è veduto! E sì gli antichi franchi, de’ quali il Bo-dino si maraviglia, il diedero alla sua Francia.

Finalmente gli Stati aristocratici, per la sperienzach’ora n’abbiamo, sono pochissimi, rimastici da essitempi della barbarie, che sono Vinegia, Genova, Luccain Italia, Ragugia in Dalmazia e Norimberga in Lama-gna, perocché gli altri sono Stati popolari governati ari-stocraticamente. Laonde lo stesso Bodino – che, sulla

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sua posizione, vuole il regno romano monarchico, e,cacciati indi i tiranni, vuole in Roma introdutta la popo-lar libertà, – non vedendo ne’ tempi primi di Roma libe-ra riuscirgli gli effetti conformi al disegno de’ suoiprincìpi (perch’eran propi di repubblica aristocratica),osservammo sopra che, per uscirne onestamente, diceprima che Roma fu popolare di Stato ma di governo ari-stocratica, ma poi, essendo costretto dalla forza del ve-ro, in altro luogo, con brutta incostanza, confessa esserestata aristocratica, nonché di governo, di Stato.

Tali errori nella dottrina politica sono nati da quelletre voci non diffinite, ch’altre volte abbiamo sopra os-servato: «popolo», «regno» e «libertà». E si è creduto iprimi popoli comporsi di cittadini così plebei come no-bili, i quali a mille pruove qui si sono truovati essere sta-ti di soli nobili. Si è creduto libertà popolare di Romaantica, cioè libertà del popolo da’ signori, quella che quisi è truovata libertà signorile, cioè libertà de’ signori da’tiranni Tarquini; onde agli uccisori di tai tiranni s’erge-vano le statue, perché gli uccidevano per ordine di essisenati regnanti. Gli re, nella ferocia de’ primi popoli enella mala sicurtà delle regge, furono aristocratici, qualii due re spartani a vita in Isparta (repubblica, fuor didubbio, aristocratica, come si è qui dimostrata), e poifurono i due consoli annali in Roma, che Cicerone chia-ma «reges annuos» nelle sue Leggi. Col qual ordinamen-to fatto da Giunio Bruto, apertamente Livio professache ’l regno romano di nulla fu mutato d’intorno alla re-gal potestà; come l’abbiamo sopra osservato che da que-sti re annali, durante il loro regno, vi era l’appellagioneal popolo, e, quello finito, dovevano render conto delregno da essi amministrato allo stesso popolo. E riflet-temmo che, ne’ tempi eroici, gli re tutto giorno si caccia-vano di sedia l’un l’altro, come ci disse Tucidide; co’quali componemmo i tempi barbari ritornati, ne’ qualinon si legge cosa più incerta e varia che la fortuna de’ re-

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gni. Ponderammo Tacito (che nella propietà ed energiadi esse voci spesso suol dare i suoi avvisi), che ’ncomin-cia gli Annali con questo motto: «Urbem Romam princi-pio reges habuere», ch’è la più debole spezie di posses-sione delle tre che ne fanno i giureconsulti, quandodicono «habere», «tenere», «possidere»; ed usò la voce«urbem», che, propiamente, sono gli edifici, per signifi-care una possessione conservata col corpo: non disse«civitatem», ch’è ’l comune de’ cittadini, i quali tutti, ola maggior parte, con gli animi fanno la ragion pubblica.

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XIVULTIME PRUOVE LE QUALI CONFERMANO

TAL CORSO DI NAZIONI.

1.

Vi sono altre convenevolezze di effetti con le cagioniche lor assegna questa Scienza ne’ suoi princìpi, perconfermare il natural corso che fanno nella lor vita le na-zioni. La maggior parte delle quali sparsamente sopra esenz’ordine si sono dette, e qui, dentro tal naturale suc-cessione di cose umane civili, si uniscono e si dispongo-no.

Come le pene, che nel tempo delle famiglie erano cru-delissime quanto erano quelle de’ polifemi, nel qualestato Apollo scortica vivo Marsia; e seguitarono nelle re-pubbliche aristocratiche: onde Perseo col suo scudo, co-me sopra spiegammo, insassiva coloro che ’l riguardava-no. E le pene se ne dissero da’ greci paradéigmata, nellostesso senso che da’ latini si chiamarono «exempla», insenso di «castighi esemplari»; e da’ tempi barbari ritor-nati, come si è anco osservato sopra, «pene ordinarie» sidissero le pene di morte. Onde le leggi di Sparta, repub-blica a tante pruove da noi dimostrata aristocratica, elle-no, selvagge e crude così da Platone come da Aristotilegiudicate, vollero un chiarissimo re, Agide, fatto strozza-re dagli efori; e quelle di Roma, mentre fu di stato aristo-cratico, volevano un inclito Orazio vittorioso battutonudo con le bacchette e quindi all’albero infelice affor-cato, come l’un e l’altro sopra si è detto ad altro proposi-to. Dalla legge delle XII Tavole condennati ad esserbruciati vivi coloro ch’avevano dato fuoco alle biade al-trui, precipitati giù dal monte Tarpeo li falsi testimoni,fatti vivi in brani i debitori falliti: la qual pena Tullo

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Ostilio non aveva risparmiato a Mezio Suffezio, re di Al-ba, suo pari, che gli aveva mancato la fede dell’alleanza;ed esso Romolo, innanzi, fu fatto in brani da’ padri perun semplice sospetto di Stato. Lo che sia detto per colo-ro i quali vogliono che tal pena non fu mai praticata inRoma.

Appresso vennero le pene benigne, praticate nelle re-pubbliche popolari, dove comanda la moltitudine, laquale, perché di deboli, è naturalmente alla compassio-ne inchinata; e quella pena – della qual Orazio (inclitoreo d’una collera eroica, con cui aveva ucciso la sorella,la qual esso vedeva piangere alla pubblica felicità) il po-polo romano assolvette «magis admiratione virtutisquam iure caussæ» (conforme all’elegante espressione diLivio, altra volta sopra osservata), – nella mansuetudinedella di lui libertà popolare, come Platone ed Aristotile,ne’ tempi d’Atene libera, poco fa udimmo riprendere leleggi spartane, così Cicerone grida esser inumana e cru-dele, per darsi ad un privato cavaliere romano, Rabirio,ch’era reo di ribellione. Finalmente si venne alle monar-chie, nelle qual’i principi godono di udire il grazioso ti-tolo di «clementi».

Come dalle guerre barbare de’ tempi eroici, che si ro-vinavano le città vinte, e gli arresi, cangiati in greggi digiornalieri, erano dispersi per le campagne a coltivar icampi per gli popoli vincitori (che, come sopra ragio-nammo, furono le colonie eroiche mediterranee) – quin-di per la magnanimità delle repubbliche popolari, lequali, finché si fecero regolare da’ lor senati, toglievanoa’ vinti il diritto delle genti eroiche e lasciavano loro tut-ti liberi gli usi del diritto natural delle genti umanech’Ulpiano diceva (onde, con la distesa delle conquiste,si ristrinsero a’ cittadini romani tutte le ragioni, che poisi dissero «propriæ civium romanorum», come sono noz-ze, patria potestà, suità, agnazione, gentilità, dominioquiritario o sia civile, mancipazioni, usucapioni, stipula-

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zioni, testamenti, tutele ed eredità; le quali ragioni civilitutte, innanzi d’esser soggette, dovettero aver propie lo-ro le libere nazioni) – si venne finalmente alle monar-chie, che vogliono, sotto Antonino Pio, di tutto il mon-do romano fatta una sola Roma. Perch’è voto propio de’gran monarchi di far una città sola di tutto il mondo, co-me diceva Alessandro Magno che tutto il mondo era perlui una città, della qual era ròcca la sua falange. Onde ildiritto natural delle nazioni, promosso da’ pretori roma-ni nelle provincie, venne, a capo di lunga età, a dar leleggi in casa d’essi romani; perché cadde il diritto eroicode’ romani sulle provincie, perché i monarchi voglionotutti i soggetti uguagliati con le lor leggi. E la giurispru-denza romana, la quale ne’ tempi eroici tutta si celebròsulla legge delle XII Tavole, e poi, fin da’ tempi di Cice-rone (com’egli il riferisce in un libro De legibus), era in-cominciata a praticarsi sopra l’editto del romano preto-re, finalmente, dall’imperador Adriano in poi, tuttas’occupò d’intorno all’Editto perpetuo, composto ed or-dinato da Salvio Giuliano quasi tutto d’editti provincia-li.

Come da’ piccioli distretti, che convengono a ben go-vernarsi le repubbliche aristocratiche, poi per le conqui-ste, alle quali sono ben disposte le repubbliche libere, siviene finalmente alle monarchie, le quali, quanto sonopiù grandi, sono più belle e magnifiche.

Come da’ funesti sospetti delle aristocrazie, per glibollori delle repubbliche popolari, vanno finalmente lenazioni a riposare sotto le monarchie.

Ma ci piace finalmente di dimostrare come sopra que-st’ordine di cose umane civili, corpolento e composto, viconvenga l’ordine de’ numeri, che sono cose astratte epurissime. Incominciarono i governi dall’uno, con lemonarchie famigliari; indi passarono a’ pochi, con l’ari-stocrazie eroiche; s’innoltrarono ai molti e tutti nelle re-pubbliche popolari, nelle quali o tutti o la maggior parte

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fanno la ragion pubblica; finalmente ritornarono all’unonelle monarchie civili. Né nella natura de’ numeri si puòintendere divisione più adeguata né con altr’ordine cheuno, pochi, molti e tutti, e che i pochi, molti e tutti riten-gano, ciascheduno nella sua spezie, la ragione dell’uno;siccome i numeri consistono in indivisibili, al dir d’Ari-stotile, e, oltrepassando i tutti, si debba ricominciaredall’uno. E sì l’umanità si contiene tutta tralle monar-chie famigliari e civili.

2.COROLLARIO

IL DIRITTO ROMANO ANTICO FU UN SERIOSOPOEMA E L’ANTICA GIURISPRUDENZA FU UNA

SEVERA POESIA, DENTRO LA QUALE SITRUOVANO I PRIMI DIROZZAMENTI DELLA

LEGAL METAFISICA, E COME A’ GRECI DALLELEGGI USCÌ LA FILOSOFIA.

Vi sono altri ben molti e ben grandi effetti, particolar-mente nella giurisprudenza romana, i quali non truova-no le loro cagioni che ’n questi stessi princìpi. E sopratutto per quella Degnità: – che, perocché sono gli uomi-ni naturalmente portati al conseguimento del vero, perlo cui affetto, ove non possono conseguirlo, s’attengonoal certo, – quindi le mancipazioni cominciarono con ve-ra mano, per dire con «vera forza», perché «forza» èastratto, «mano» è sensibile. E la mano appo tutte le na-zioni significò «potestà»; onde sono le «chirothesie» e le«chirotonie» che dicon i greci, delle quali quelle eranocriazioni che si facevano con le imposizioni delle manisopra il capo di colui ch’aveva da eleggersi in potestà,queste eran acclamazioni delle potestà già criate fattecon alzare le mani in alto. Solennità propie de’ tempimutoli, conforme a’ tempi barbari ritornati così accla-mavano all’elezioni de’ re. Tal mancipazion vera è l’oc-

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cupazione, primo gran fonte naturale di tutti i domini,ch’a’ romani detta poi restò nelle guerre; ond’e gli schia-vi furono detti «mancipia», e le prede e le conquiste «resmancipi» de’ romani, divenute con le vittorie «res necmancipi» ad essi vinti. Tanto la mancipazione nacquedentro le mura della sola città di Roma per modo d’ac-quistar il dominio civile ne’ commerzi privati d’essi ro-mani!

A tal mancipazione andò di séguito una conforme ve-ra usucapione, cioè acquisto di dominio (ché tanto suo-na «capio») con vero uso (in senso che la voce «usus» si-gnifica «possessio»). E le possessioni dapprima sicelebrarono col continuo ingombramento de’ corpi so-pra esse cose possedute, talché «possessio» dev’esserestata detta quasi «porro sessio» (per lo quale proseguitoatto di sedere o star fermo i domicili latinamente resta-ron chiamati «sedes»), e non già «pedum positio», comedicono i latini etimologi, perché il pretore assiste a quel-la e non a questa possessione e la mantiene con gl’inter-detti. Dalla qual posizione, detta thésis da’ greci, dovettechiamarsi Teseo, non dalla bella sua positura, come di-cono gli etimologi greci, perché uomini d’Attica fonda-ron Atene con lo stare lungo tempo ivi fermi; ch’è l’usu-capione, la qual legittima appo tutte le nazioni gli Stati.

Ancora, in quelle repubbliche eroiche d’Aristotileche non avevano leggi da ammendar i torti privati, ve-demmo, sopra, le revindicazioni esercitarsi con vera for-za (che furono i primi duelli o private guerre del mon-do), e le condiczioni essere state le ripresaglie private,che dalla barbarie ricorsa duraron fin a’ tempi di Barto-lo.

Imperciocché, essendosi incominciata ad addimesti-care la ferocia de’ tempi e, con le leggi giudiziarie, inco-minciate a proibirsi le violenze private, tutte le privateforze andandosi ad unire nella forza pubblica, che si di-ce «imperio civile», i primi popoli, per natura poeti, do-

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vettero naturalmente imitare quelle forze vere, ch’ave-van innanzi usate per conservarsi i loro diritti e ragioni:e così fecero una favola della mancipazion naturale, e nefecero la solenne tradizion civile, la quale si rappresenta-va con la consegna d’un nodo finto, per imitare la catenacon la qual Giove aveva incatenati i giganti alle primeterre vacue, e poi essi v’incatenarono i loro clienti ovve-ro famoli; e, con tal mancipazione favoleggiata, celebra-rono tutte le loro civili utilità con gli atti legittimi, chedovetter essere cerimonie solenni de’ popoli ancora mu-toli. Poscia (essendosi la favella articolata formata ap-presso), per accertarsi l’uno della volontà dell’altro nelcontrarre tra loro, vollero ch’i patti, nell’atto della con-segna di esso nodo, si vestissero con parole solenni, del-le quali fussero concepute stipulazioni certe e precise; ecosì dappoi in guerra concepivano le leggi con le quali sifacevano le rese delle vinte città, le quali si dissero «pa-ci» da «pacio», che lo stesso suona che «pactum». Di cherestò un gran vestigio nella formola con la quale fu con-ceputa la resa di Collazia, che, qual è riferita da Livio,ella è un contratto recettizio fatto con solenni interroga-zioni e risposte; onde con tutta propietà gli arresi ne fu-ron detti «recepti», conforme l’araldo romano disse aglioratori collatini; – «Et ego recipio». – Tanto la stipula-zione ne’ tempi eroici fu de’ soli cittadini romani! e tan-to con buon senno si è finora creduto che Tarquinio Pri-sco, nella formola con cui fu resa Collazia, avesseordinato alle nazioni com’avesser a fare le rese!

In cotal guisa il diritto delle genti eroiche del Laziorestò fisso nel famoso capo della legge delle XII Tavolecosì conceputo: «Si quis nexum faciet mancipiumque, utilingua nuncupassit, ita ius esto», ch’è il gran fonte di tut-to il diritto romano antico, ch’i pareggiatori del dirittoattico confessano non esser venuto da Atene in Roma.

L’usucapione procedé con la possessione presa colcorpo, e poi, finta, ritenersi con l’animo. Alla stessa fatta

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favoleggiarono con una pur finta forza le vendicazioni; ele ripresaglie eroiche passarono dappoi in azioni perso-nali, serbata la solennità di dinonziarla a coloro ch’eranodebitori. Né poté usar altro consiglio la fanciullezza delmondo, poiché i fanciulli, come se n’è proposta una de-gnità, vagliono potentemente nell’imitar il vero di chesono capaci, nella qual facultà consiste la poesia, ch’al-tro non è ch’imitazione.

Si portarono in piazza tante maschere quante son lepersone, ché «persona» non altro propiamente vuol direche «maschera», e quanti sono i nomi, i quali, ne’ tempide’ parlari mutoli, che si facevan con parole reali, dovet-ter essere l’insegne delle famiglie, con le quali furono ri-truovati distinguere le famiglie loro gli americani, comesopra si è detto; e sotto la persona o maschera d’un pa-dre d’una famiglia si nascondevano tutti i figliuoli e tuttii servi di quella, sotto un nome reale ovvero insegna dicasa si nascondevano tutti gli agnati e tutti i gentili dellamedesima. Onde vedemmo ed Aiace torre de’ greci, edOrazio solo sostenere sul ponte tutta Toscana, ed a’tempi barbari ritornati rincontrammo quaranta norman-ni eroi cacciare da Salerno un esercito intiero di sarace-ni; e quindi furono credute le stupende forze de’ paladi-ni di Francia (che erano sovrani principi, comerestarono così detti nella Germania) e, sopra tutti, delconte Rolando, poi detto Orlando. La cui ragione esceda’ princìpi della poesia che si sono sopra truovati: chegli autori del diritto romano, nell’età che non potevanointendere universali intelligibili, ne fecero universali fan-tastici; e come poi i poeti, per arte, ne portarono i perso-naggi e le maschere nel teatro così essi, per natura, in-nanzi avevano portato i «nomi» e le «persone» nel fòro.

Perché «persona» non dev’essere stata detta da «per-sonare», che significa «risuonar dappertutto» – lo chenon bisognava ne’ teatri assai piccioli delle prime città(quando, come dice Orazio, i popoli spettatori erano

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piccioli, che si potevano numerare) che le maschere siusassero, perché ivi dentro talmente risuonasse la vocech’empiesse un ampio teatro; né vi acconsente la quan-tità della sillaba, la quale, da «sono», debb’esser brieve;– ma dev’esser venuto da «personari», il qual verbo con-getturiamo aver significato «vestir pelli di fiere» (lo chenon era lecito ch’a’ soli eroi), e ci è rimasto il verbo com-pagno «opsonari», che dovette dapprima significare «ci-barsi di carne selvaggine cacciate», che dovetter esserele prime mense opime, qual’appunto de’ suoi eroi le de-scrive Virgilio. Onde le prime spoglie opime dovetteressere tali pelli di fiere uccise, che riportarono dalle pri-me guerre gli eroi, le quali prime essi fecero con le fiereper difenderne sé e le loro famiglie, come sopra si è ra-gionato, e i poeti di tali pelli fanno vestire gli eroi e, so-pra tutti, di quella del lione, Ercole. E da tal origine delverbo «personari», nel suo primiero significato che gliabbiamo restituito, congetturiamo che gl’italiani dicono«personaggi» gli uomini d’alto stato e di grande rappre-sentazione.

Per questi stessi princìpi, perché non intendevanoforme astratte, ne immaginarono forme corporee, e l’im-maginarono, dalla loro natura, animate. E finsero l’ere-dità signora delle robe ereditarie, ed in ogni particolarcosa ereditaria la ravvisavano tutta intiera: appunto co-me una gleba o zolla del podere, che presentavano algiudice, con la formola della revindicazione essi diceva-no «hunc fundum». E così, se non intesero, sentironorozzamente almeno ch’i diritti fussero indivisibili.

In conformità di tali nature, l’antica giurisprudenzatutta fu poetica, la quale fingeva i fatti non fatti, i nonfatti fatti, nati gli non nati ancora, morti i viventi, i mortivivere nelle loro giacenti eredità; introdusse tante ma-schere vane senza subbietti, che si dissero «iura imagina-ria», ragioni favoleggiate da fantasia; e riponeva tutta lasua riputazione in truovare sì fatte favole ch’alle leggi

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serbassero la gravità ed ai fatti ministrassero la ragione.Talché tutte le finzioni dell’antica giurisprudenza furo-no verità mascherate; e le formole con le quali parlavanle leggi, per le loro circoscritte misure di tante e tali pa-role – né più, né meno, né altre, si dissero «carmina»,come sopra udimmo dirsi da Livio quella che dettava lapena contro di Orazio. Lo che vien confermato con unluogo d’oro di Plauto nell’Asinaria, dove Diabolo dice ilparasito esser un gran poeta, perché sappia più di tuttiritruovare cautele o formole, le quali or si è veduto chesi dicevano «carmina».

Talché tutto il diritto romano antico fu un seriosopoema, che si rappresentava da’ romani nel fòro, e l’an-tica giurisprudenza fu una severa poesia. Ch’è quelloche, troppo acconciamente al nostro proposito, Giusti-niano nel proemio dell’Istituta chiama «antiqui iuris fa-bulas»: il qual motto dev’essere stato d’alcun antico giu-reconsulto, ch’avesse inteso queste cose qui ragionate;ma egli l’usa per farne beffe. Ma da queste antiche favo-le richiama i suoi princìpi, come qui si dimostra, la ro-mana giurisprudenza; e dalle maschere, le quali usaronotali favole dramatiche e vere e severe, che furon dette«personæ», derivano nella dottrina De iure personarumle prime origini.

Ma, venuti i tempi umani delle repubbliche popolari,s’incominciò nelle grandi adunanze a ravvisar intelletto;e le ragioni astratte dall’intelletto ed universali si disseroindi in poi «consistere in intellectu iuris». Il qual intellet-to è della volontà che ’l legislatore ha spiegato nella sualegge (la qual volontà si appella «ius»), che fu la volontàde’ cittadini uniformati in un’idea d’una comune ragio-nevole utilità, la qual dovettero intendere essere spiri-tuale di sua natura, perché tutti que’ diritti che non han-no corpi dov’essi si esercitino (i quali si chiamano «nudaiura», diritti nudi di corpolenza) dissero «in intellectuiuris consistere». Perché, adunque, son i diritti modi di

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sostanza spirituale, perciò son individui, e quindi sonanco eterni, perché la corrozione non è altro che divisio-ne di parti.

Gl’interpetri della romana ragione hanno riposta tut-ta la riputazione della legal metafisica in considerarel’indivisibilità de’ diritti sopra la famosa materia De divi-duis et individuis. Ma non ne considerarono l’altra nonmeno importante, ch’era l’eternità, la qual dovevano puravvertire in quelle due regole di ragione, che stabilisco-no, la prima, che, «cessante fine legis, cessat lex»; ovenon dicono «cessante ratione», perché il fine della leggeè l’uguale utilità delle cause, la qual può mancare; ma laragione della legge essendo una conformazione dellalegge al fatto, vestito di tali circostanze, le quali, sempreche vestono il fatto, vi regna viva sopra la ragion dellalegge; – l’altra, che «tempus non est modus constituendivel dissolvendi iuris» perché ’l tempo non può comincia-re né finire l’eterno, e nell’usucapioni e prescrizioni iltempo non produce né finisce i diritti, ma è pruova chechi gli aveva abbia voluto spogliarsene; né, perché si di-ca «finire l’usufrutto», per cagion d’esemplo, il diritto fi-nisce, ma dalla servitù si riceve alla primiera sua libertà.Dallo che escono questi due importantissimi corollari: ilprimo, ch’essendo i diritti eterni nel di lor intelletto, osia nella lor idea, e gli uomini essendo in tempo, nonposson i diritti altronde venire agli uomini che da Dio; ilsecondo, che tutti gl’innumerabili vari diversi diritti, chesono stati, sono e saranno nel mondo, sono varie modifi-cazioni diverse della potestà del primo uomo, che fu ilprincipe del gener umano, e del dominio ch’egli ebbesopra tutta la terra.

Or, poiché certamente furono prima le leggi, dopo ifilosofi, egli è necessario che Socrate, dall’osservare ch’icittadini ateniesi nel comandare le leggi si andavan adunire in un’idea conforme d’un’ugual utilità partitamen-te comune a tutti, cominciò ad abbozzare i generi intelli-

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gibili, ovvero gli universali astratti, con l’induzione, ch’èuna raccolta di uniformi particolari, che vanno a com-porre un genere di ciò nello che quei particolari sonouniformi tra loro.

Platone, dal riflettere che ’n tali ragunanze pubblichele menti degli uomini particolari, che son appassionateciascuna del propio utile, si conformavano in un’ideaspassionata di comune utilità (ch’è quello che dicono:«gli uomini partitamente sono portati da’ loro interessiprivati, ma in comune voglion giustizia»), s’alzò a medi-tare l’idee intelligibili ottime delle menti criate, divise daessi menti criate, le qual’in altri non posson esser che inDio, e s’innalzò a formare l’eroe filosofico, che comandicon piacere alle passioni.

Onde Aristotile poscia divinamente ci lasciò diffinitala buona legge: che sia una «volontà scevera di passio-ni», quanto è dire volontà d’eroe, intese la giustizia regi-na, la qual siede nell’animo dell’eroe e comanda a tuttel’altre virtù. Perché aveva osservato la giustizia legale (laqual siede nell’animo della civil potestà sovrana) coman-dar alla prudenza nel senato, alla fortezza negli eserciti,alla temperanza nelle feste, alla giustizia particolare, cosìdistributiva negli erari, come per lo più commutativa nelfòro, e la commutativa la proporzione aritmetica e la di-stributiva usare la geometrica. E dovette avvertire que-sta dal censo, ch’è la pianta delle repubbliche popolari,il quale distribuisce gli onori e i pesi con la proporzionegeometrica, secondo i patrimoni de’ cittadini: perché in-nanzi non si era inteso altro che la sola aritmetica; ondeAstrea, la giustizia eroica, ci fu dipinta con la bilancia, enella legge delle XII Tavole tutte le pene – le quali ora ifilosofi, i morali teologi e dottori che scrivono de iurepublico dicono doversi dispensare dalla giustizia distri-butiva con la proporzione geometrica – tutte si leggonorichiamate a «duplio» quelle in danaio e «talio» l’afflitti-ve del corpo. E, poiché la pena del taglione fu ritruovata

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da Radamanto, per cotal merito egli ne fu fatto giudicenell’inferno, dove certamente si distribuiscono pene. E’l taglione da Aristotile ne’ Libri morali fu detto «giustopittagorico», ritrovato da quel Pittagora che si è quitruovato fondatore di nazione, i cui nobili della MagnaGrecia si dissero Pittagorici, come sopra abbiamo osser-vato: che sarebbe vergogna di Pittagora il quale poi di-venne sublime filosofo e mattematico.

Dallo che tutto si conchiude che dalla piazza d’Ateneuscirono tali princìpi di metafisica, di logica, di morale.E dall’avviso di Solone dato agli ateniesi: «Nosce teipsum» (conforme ragionammo sopra in uno de’ corolla-ri della Logica poetica) uscirono le repubbliche popolari,dalle repubbliche popolari le leggi, e dalle leggi uscì lafilosofia; e Solone, da sappiente di sapienza volgare, fucreduto sappiente di sapienza riposta. Che sarebbe unaparticella della storia della filosofia narrata filosofica-mente, ed ultima ripruova delle tante che ’n questi librisi son fatte contro Polibio, il qual diceva che, se vi fusse-ro al mondo filosofi, non farebber uopo religioni. Che senon vi fussero state religioni, e quindi repubbliche, nonsarebber affatto al mondo filosofi, e che se le cose uma-ne non avesse così condotto la provvedenza divina, nonsi avrebbe niuna idea né di scienza né di virtù.

Ora, ritornando al proposito (per conchiudere l’argo-mento che ragioniamo), da questi tempi umani, ne’ qua-li provennero le repubbliche popolari e appresso le mo-narchie, intesero che le cause, le quali prima erano stateformole cautelate di propie e precise parole (che a «ca-vendo» si dissero dapprima «cavissæ», e poi restarondette in accorcio «caussæ»), fussero essi affari o negozinegli altri contratti (i qual’affari o negozi oggi solenniz-zano i patti, i quali nell’atto del contrarre son convenutiacciocché producano l’azioni); ed in quelli che sono va-levoli titoli a trasferir il dominio, solennizzassero la na-tural tradizione per farlo d’un in altro passare, e ne’ con-

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tratti soli che si dicono compiersi con le parole (che so-no le stipulazioni), in quelli esse cautele fussero le «cau-se» nella lor antica propietà. Le quali cose qui dette illu-strano vieppiù i princìpi sopra posti dell’obbligazioniche nascono da’ contratti e da’ patti.

Insomma – non essendo altro l’uomo, propiamente,che mente, corpo e favella, e la favella essendo come po-sta in mezzo alla mente ed al corpo – il certo d’intornoal giusto cominciò ne’ tempi muti dal corpo; dipoi, ri-truovate le favelle che si dicon articolate, passò alle certeidee, ovvero formole di parole; finalmente, essendosispiegata tutta la nostra umana ragione, andò a terminarenel vero dell’idee d’intorno al giusto, determinate con laragione dall’ultime circostanze de’ fatti. Ch’è una for-mola informe d’ogni forma particolare, che ’l dottissimoVarrone chiama «formulam naturæ», ch’a guisa di lucedi sé informa in tutte le ultime minutissime parti dellalor superficie i corpi opachi de’ fatti sopra i quali ella èdiffusa, siccome negli Elementi si è tutto ciò divisato.

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LIBRO QUINTO

DEL RICORSO DELLE COSE UMANE NELRISURGERE CHE FANNO LE NAZIONI.

Agl’innumerabili luoghi, che, per tutta quest’opera,d’intorno a innumerabili materie si sono finora sparsa-mente osservati corrispondersi con maravigliosa accon-cezza i tempi barbari primi e i tempi barbari ritornati, sipuò facilmente intendere il ricorso delle cose umane nelrisurgere che fanno le nazioni. Ma, per maggiormenteconfermarlo, ci piace in quest’ultimo libro dar quest’ar-gomento un luogo particolare, per ischiarire con mag-gior lume i tempi della barbarie seconda (i quali eranogiaciuti più oscuri di quelli della barbarie prima, chechiamava «oscuri», nella sua divisione de’ tempi, il dot-tissimo dell’antichità prime Marco Terenzio Varrone), eper dimostrar altresì come l’Ottimo Grandissimo Iddio iconsigli della sua provvedenza, con cui ha condotto lecose umane di tutte le nazioni, ha fatto servire agl’ineffa-bili decreti della sua grazia.

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1.

Imperciocché, avendo per vie sovrumane schiarita eferma la verità della cristiana religione con la virtù de’martiri incontro la potenza romana e con la dottrina de’Padri e co’ miracoli incontro la vana sapienza greca,avendo poi a surgere nazioni armate, ch’avevano dacombattere da ogni parte la vera divinità del suo Autore,permise nascere nuovo ordine d’umanità tralle nazioni,acciocché secondo il natural corso delle medesime coseumane ella fermamente fussesi stabilita.

Con tal eterno consiglio, rimenò i tempi veramentedivini, ne’ quali gli re catolici dappertutto, per difenderela religion cristiana, della qual essi son protettori, vesti-rono le dalmatiche de’ diaconi e consagrarono le loropersone reali (onde serbano il titolo di «Sagra Real Mae-stà»), presero degnitadi ecclesiastiche, come di UgoneCiapeto narra Sinforiano Camperio nella Geanologia de-gli re di Francia che s’intitolava «conte ed abate di Pari-gi», e ’l Paradino negli Annali della Borgogna osserva an-tichissime scritture nelle quali i principi di Franciacomunemente «duchi ed abati» ovvero «conti ed abati»s’intitolavano. Così i primi re cristiani fondarono religio-ni armate, con le quali ristabilirono ne’ loro reami la cri-stiana catolica religione incontro ad ariani (de’ quali sanGirolamo dice essere stato il mondo cristiano quasi tut-to bruttato), contro saraceni ed altro gran numero d’in-fedeli.

Quivi ritornarono con verità quelle che si dicevano«pura et pia bella» da’ popoli eroici; onde ora tutte lecristiane potenze con le loro corone sostengono sopraun orbe innalberata la croce, la qual avevano spiegatainnanzi nelle bandiere, quando facevano le guerre che sidicevano «crociate».

Ed è maraviglioso il ricorso di tali cose umane civili

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de’ tempi barbari ritornati, che, come gli antichi araldi,nell’intimare le guerre, essi «evocabant deos» dalle cittàalle quali le intimavano, con l’elegantissima formola epiena di splendore qual ci si conservò da Macrobio, on-de credevano che le genti vinte rimanessero senza dèi, equindi senz’auspìci (ch’è ’l primo principio di tutto ciòch’abbiamo in quest’opera ragionato) – ché, per lo dirit-to eroico delle vittorie, a’ vinti non rimaneva niuna ditutte le civili così pubbliche come private ragioni, lequali, come abbiamo sopra pienamente pruovato princi-palmente con la storia romana, tutte ne’ tempi eroicierano dipendenze degli auspìci divini; lo che tutto eracontenuto nella formola delle rese eroiche, la quale Tar-quinio Prisco praticò in quella di Collazia, che gli arresi«debebant divina et humana omnia» a’ popoli vincitori;– così i barbari ultimi, nel prendere delle città, non adaltro principalmente attendevano ch’a spiare, truovare eportar via dalle città prese famosi depositi o reliquie disanti; ond’è che i popoli in que’ tempi erano diligentissi-mi in sotterrarle e nasconderle, e perciò tai luoghi dap-pertutto si osservano nelle chiese gli più addentrati eprofondi; ch’è la cagione per la quale in tali tempi av-vennero quasi tutte le traslazioni de’ corpi santi. E n’èrestato questo vestigio: che tutte le campane delle cittàprese i popoli vinti devono riscattare da’ generali capita-ni vittoriosi.

Di più, perché fino dal Quattrocento, cominciandoad allagare l’Europa ed anco l’Affrica e l’Asia tante bar-bare nazioni, e i popoli vincitori non s’intendendo co’vinti, dalla barbarie de’ nimici della catolica religioneavvenne che di que’ tempi ferrei non si truova scritturain lingua volgare propia di quelli tempi, o italiana o fran-cese o spagnuola o anco tedesca (con la quale, comevuole l’Aventino, De annalibus boiorum, non s’incomin-ciaron a scriver diplomi che da’ tempi di Federico diSuevia, anzi voglion altri da quelli dell’imperadore Ri-

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dolfo d’Austria, come altra volta si è detto), e tra tutte lenazioni anzidette non si truovano scritture che ’n latinobarbaro, della qual lingua s’intendevano pochissimi no-bili, ch’erano ecclesiastici: onde resta da immaginareche ’n tutti que’ secoli infelici le nazioni fussero ritorna-te a parlare una lingua muta tra loro. Per la quale scar-sezza di volgari lettere, dovette ritornar dappertutto lascrittura geroglifica dell’imprese gentilizie, le quali, peraccertar i domìni (come sopra si è ragionata), significas-sero diritti signorili sopra, per lo più, case, sepolcri,campi ed armenti.

Ritornarono certe spezie di giudizi divini, che furonodetti «purgazioni canoniche»; de’ quali giudizi una spe-zie abbiam sopra dimostro ne’ tempi barbari primi esse-re stati i duelli, i quali però non furono conosciuti da’sagri canoni.

Ritornarono i ladronecci eroici; de’ quali vedemmosopra che, come gli eroi s’avevano recato ad onore d’es-ser chiamati «ladroni», così titolo di signoria fu quellopoi di «corsali».

Ritornarono le ripresaglie eroiche, le quali sopra os-servammo aver durato fin a’ tempi di Bartolo.

E, perché le guerre de’ tempi barbari ultimi furono,come quelle de’ primi, tutte di religione, quali testé ab-biam veduto, ritornarono le schiavitù eroiche, che dura-rono molto tempo tra esse nazioni cristiane medesime:perché, costumandosi in que’ tempi i duelli, i vincitoricredevano che i vinti non avessero Dio (come sopra, overagionammo de’ duelli, si è detto), e sì gli tenevano nien-te meno che bestie. Il qual senso di nazioni si conservatuttavia tra’ cristiani e turchi. La qual voce vuol dire«cani» (onde i cristiani, ove vogliono o debbon trattareco’ turchi con civiltà, gli chiamano «musulmani», che si-gnifica «veri credenti»), e i turchi, al contrario, i cristianichiamano «porci»; e quindi nelle guerre entrambi prati-

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cano le schiavitù eroiche, quantunque con maggiormansuetudine i cristiani.

Ma sopra tutto maraviglioso è ’l ricorso che ’n questaparte fecero le cose umane, che ’n tali tempi divini rico-minciarono i primi asili del mondo antico, dentro i qualiudimmo da Livio essersi fondate tutte le prime città.Perché – scorrendo dappertutto le violenze, le rapine,l’uccisioni, per la somma ferocia e fierezza di que’ secolibarbarissimi; né (come si è detto nelle Degnità) essendo-vi altro mezzo efficace di ritener in freno gli uomini,prosciolti da tutte le leggi umane, che le divine, dettatedalla religione – naturalmente, per timore d’esser op-pressi e spenti gli uomini, come in tanta barbarie piùmansueti, essi si portavano da’ vescovi e dagli abati dique’ secoli violenti, e ponevano sé, le loro famiglie e i lo-ro patrimoni sotto la protezione di quelli, e da quelli vierano ricevuti; le quali suggezione e protezione sono iprincipali costitutivi de’ feudi. Ond’è che nella Germa-nia, che dovett’essere più fiera e feroce di tutte l’altrenazioni d’Europa, restarono quasi più sovrani ecclesia-stici (o vescovi o abati) che secolari, e, come si è detto,nella Francia quanti sovrani principi erano, tanti s’inti-tolavano conti o duchi ed abati. Quindi nell’Europa inuno sformato numero tante città, terre e castella s’osser-vano con nomi di santi; perché in luoghi o erti o riposti,per udire la messa e fare gli altri ufizi di pietà comandatidalla nostra religione, si aprivano picciole chiesiccuole,le quali si possono diffinire essere state in que’ tempi inaturali asili de’ cristiani, i quali ivi da presso fabbrica-vano i lor abituri: onde dappertutto le più antiche cose,che si osservano di questa barbarie seconda, sono pic-ciole chiese in sì fatti luoghi, per lo più dirute. Di tuttociò un illustre esemplo nostrale sia l’abadia di San Lo-renzo d’Aversa, a cui s’incorporò l’abadia di San Loren-zo di Capova. Ella, nella Campania, Sannio, Puglia enell’antica Calabria, dal fiume Volturno fin al Mar Pic-

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ciolo di Taranto, governò cento e dieci chiese, o per sestessa o per abati o monaci a lei soggetti; e quasi di tutti iluoghi anzidetti gli abati di San Lorenzo eran essi baro-ni.

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2.RICORSO CHE FANNO LE NAZIONI SOPRA LA

NATURA ETERNA DE’ FEUDI E QUINDI ILRICORSO DEL DIRITTO ROMANO ANTICO

FATTO COL DIRITTO FEUDALE.

A questi succedettero certi tempi eroici, per una certadistinzione ritornata di nature quasi diverse, eroica edumana; da che esce la cagione di quell’effetto, di che simaraviglia Ottomano, ch’i vassalli rustici in lingua feu-dale si dicon «homines». Dalla qual voce deve venirl’origine di quelle due voci feudali «hominium» ed «ho-magium», che significano lo stesso; detto «hominium»quasi «hominis dominium», che Elmodio, all’osservar diCuiacio, vuole che sia più elegante che «homagium»,detto quasi «hominis agium», menamento dell’uomo ovassallo ove voglia il barone: la qual voce barbara i feu-disti eruditi, per lo vicendevole rapporto, con tutta lati-na eleganza, voltano «obsequium», che dapprima fu unaprontezza di seguir l’uomo, ovunque il menasse, a colti-var i suoi terreni, l’eroe. La qual voce «obsequium» con-tiene eminentemente la fedeltà che si deve dal vassallo albarone: tanto che l’«ossequio» de’ latini significa unita-mente e l’omaggio e la fedeltà che si debbono giurarenell’investiture de’ feudi; e l’ossequio appresso i romaniantichi non si scompagnava da quella ch’a’ medesimi re-stò detta «opera militaris», e da’ nostri feudisti si dice«militare servitium», per la quale i plebei romani lungaetà a loro propie spese serviron a’ nobili nelle guerre,come ce n’ha accertato, sopra, essa storia romana. Ilqual ossequio con l’opere restò finalmente a’ liberti ov-vero affranchiti inverso i loro patroni, il quale aveva in-cominciato, come sopra osservammo sulla storia roma-na, da’ tempi che Romolo fondò Roma sopra leclientele, che truovammo protezioni di contadini gior-

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nalieri da esso ricevuti al suo asilo, le quali «clientele»,come indicammo nelle Degnità, non si possono sullastoria antica spiegare con più propietà che per «feudi»,siccome i feudisti eruditi con sì fatta elegante voce latina«clientela» voltano questa barbara «feudum».

E di tali princìpi di cose apertamente ci convinconol’origini di esse voci «opera» e «servitium». Perché «ope-ra», nella sua significazione natia, è la fatiga d’un giornod’un contadino, detto quindi da’ latini «operarius», chegl’italiani dicono «giornaliere»: qual operaio o giornalie-re, che non aveva niun privilegio di cittadino, si duol es-sere stato Achille trattato da Agamennone, che gli avevaa torto tolta la sua Briseide. Quindi appo i medesimi la-tini restarono detti «greges operarum», siccome anco«greges servorum», perché tali operai prima, siccome glischiavi dopo, erano dagli eroi riputati quali le bestie, chesi dicono «pasci gregatim»; [e dovettero prima essere taigreggi d’uomini, dipoi le greggi de’ bestiami,] e, con lostesso vicendevol rapporto, dovettero prima essere i pa-stori di sì fatti uomini (come con tal aggiunto perpetuodi «pastori de’ popoli» sempre Omero appella gli eroi),e dopo essere stati i pastori degli armenti e de’ greggi. Ecel conferma la voce nómos, ch’a’ greci significa e «leg-ge» e «pasco», come si è sopra osservato; perché con laprima legge agraria fu accordato a’ famoli sollevati il so-stentamento in terreni assegnati lor dagli eroi, il quale fudetto «pasco», propio di tali bestie, come il cibo è pro-pio degli uomini.

Tal propietà di pascere tali primi greggi del mondodev’essere stata d’Apollo, che truovammo dio della lucecivile, o sia della nobiltà, ove dalla storia favolosa ci ènarrato pastore in Anfriso; come fu pastore Paride, ilquale certamente era reale di Troia. E tal è ’l padre di fa-miglia (che Omero appella «re») il quale con lo scettrocomanda il bue arrosto dividersi a’ mietitori, descrittonello scudo d’Achille, dove sopra abbiamo fatto vedere

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la storia del mondo, e quivi esser fissa l’epoca delle fami-glie. Perché de’ nostri pastori non è propio il pascere,ma il guidar e guardare gli armenti e i greggi, non aven-dosi potuto la pastoreccia introdurre che dopo alquantoassicurati i confini delle prime città, per gli ladronecciche si celebravano a’ tempi eroici. Che dev’essere la ca-gione perché la bucolica o pastoral poesia venne a’ tem-pi umanissimi egualmente tra’ greci con Teocrito, tra’latini con Virgilio e tra gl’italiani con Sannazaro.

La voce «servitium» appruova queste cose istesse es-sere ricorse ne’ tempi barbari ultimi: per lo cui contrariorapporto il barone si disse «senior», nel senso nel quals’intende «signore». Talché questi servi nati in casa do-vetter esser gli antichi franchi de’ quali si maraviglia ilBodino, e generalmente ritruovati, sopra, gli stessi che«vernæ», li quali si chiamarono dagli antichi romani; da’quali «vernaculæ» si dissero le lingue volgari, introduttedal volgo de’ popoli, che noi sopra truovammo esserestate le plebi dell’eroiche città, siccome la lingua poeticaera stata introdutta dagli eroi, ovvero nobili delle primerepubbliche.

Tal ossequio d’affranchiti – essendosi poi sparsa equindi dispersa la potenza de’ baroni tra’ popoli nelleguerre civili, nelle qual’i potenti han da dipender da’ po-poli, e quindi facilmente riunita essendosi nelle personede’ re monarchi – passò in quello che si dice «obsequiumprincipis», nel qual, all’avviso di Tacito, consiste tutto ildovere de’ soggetti alle monarchie. Al contrario, per ladifferenza creduta delle due nature, un’eroica, altraumana, i signori de’ feudi furon detti «baroni», nellostesso senso che noi qui sopra truovammo essere statidetti «eroi» da’ poeti greci e «viri» dagli antichi latini; loche restò agli spagnuoli, da’ quali l’«uomo» è detto «ba-ron», appresi tai vassalli, perché deboli, nel sentimentoeroico, che sopra dimostrammo, di «femmine».

Ed oltre a ciò che testé abbiam ragionato, i baroni fu-

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ron detti «signori», che non può altronde venire che dallatino «seniores», perché d’essi si dovettero comporre iprimi pubblici parlamenti de’ nuovi reami d’Europa;appunto come Romolo il Consiglio pubblico, che natu-ralmente aveva dovuto comporre de’ più vecchi dellanobiltà, aveva detto «senatum». E, come da quelli, cheperciò erano e si dicevano «patres», dovettero veniredetti «patroni» coloro che danno agli schiavi la libertà;così, in italiano, da questi dovettero venir chiamati «pa-droni» in significazione di «protettori», i quali «padro-ni» ritengono nella loro voce tutta la propietà ed elegan-za latina. A’ quali, per lo contrario, con altrettanta latinaeleganza e propietà risponde la voce «clientes», in senti-mento di «vassalli rustici», a’ quali Servio Tullio, con or-dinar il censo, qual è stato sopra spiegato, permise sì fat-ti feudi, col più corto passo col quale poté procederesulle clientele di Romolo, come si è sopra pienamentepruovato. Che son appunto gli affranchiti, i quali poidiedero il nome alla nazione de’ franchi, come si è detto,nel libro precedente, al Bodino.

In cotal guisa ritornarono i feudi, uscendo dalla loreterna sorgiva additata nelle Degnità, dove indicammo ibenefizi che si possono sperare in civil natura; onde ifeudi, con tutta propietà ed eleganza latina, da’ feudistieruditi si dicono «beneficia»; ch’è quello ch’osserva, masenza farne uso, Ottomano: che i vincitori tenevano persé i campi colti delle conquiste e davano a’ poveri vinti icampi incolti per sostentarvisi. E sì ritornarono i feudidel primo mondo che nel secondo libro si son truovati,rincominciando però (come dovett’essere per natura,quale sopra abbiam ragionato) da feudi rustici persona-li, che truovammo essere state dapprima le clientele diRomolo, delle quali osservammo nelle Degnità esserestato sparso tutto l’antico mondo de’ popoli. Le qualiclientele eroiche, nello splendore della romana libertàpopolare, passarono in quel costume col qual i plebei

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con le toghe si portavano la mattina a far la corte a’grandi signori, e davano loro il titolo degli antichi eroi:«Ave, rex», gli menavano nel fòro e gli rimenavano la se-ra in casa; e i signori (conforme gli antichi eroi furondetti «pastori de’ popoli») davano loro la cena.

Tai vassalli personali devon essere stati appo gli anti-chi romani i primi «vades», che poi restarono così detti irei obbligati nella persona di seguir i lor attori in giudi-zio: la qual obbligazione dicesi «vadimonium». I qualivades, per le nostre Origini della lingua latina, debbonesser derivati dal retto «vas», che da’ greci fu detto bás eda’ barbari «was», onde fu poi «wassus» e finalmente«vassallus». Della quale spezie di vassalli abbondano og-gi tuttavia i regni del più freddo Settentrione, che riten-gono ancor troppo della barbarie, e sopra tutti quel diPolonia, ove si dicono «kmetos», e son una spezie dischiavi, de’ quali que’ palatini sogliono giuocarsi l’intie-re famiglie, le quali debbono passare a servir ad altrinuovi padroni; che debbon essere gl’incatenati per gliorecchi, che, con catene d’oro poetico (cioè del frumen-to) che gli escono di bocca, gli si mena, dove vuol, dietrol’Ercole gallico.

Quindi si passò a’ feudi rustici di spezie reali, a’ quali[si giunse] con la prima legge agraria delle nazioni, chetruovammo essere stata tra’ romani quella con la qualeServio Tullio ordinò il primo censo, per lo quale permi-se, come ritruovammo, a’ plebei il dominio bonitario de’campi loro assegnati da’ nobili sotto certi non, come in-nanzi, sol personali ma anco reali pesi; che dovetter es-ser i primi «mancipes», che poi restaron detti coloro iquali in robe stabili son obbligati all’erario. Della qualspezie debbon essere stati i vinti, a’ quali Ottomano dis-se poc’anzi ch’i vincitori davano i campi incolti delleconquiste per sostentarvisi col coltivargli; e sì ritornaro-no gli Antei annodati alle terre da Ercole greco e i nessi

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del dio Fidio, ovvero Ercole romano (qual sopra truo-vammo), sciolti finalmente dalla legge Petelia.

Tali nessi della legge Petelia, per le cose le quali soprane ragionammo, con tutta la loro propietà cadon a livel-lo per ispiegar i vassalli, che dapprima si dovettero dire«ligi», da cotal nodo legati; i quali ora da’ feudisti sondiffiniti coloro i quali debbono riconoscere per amici onimici tutti gli amici o nimici del lor signore: ch’è ap-punto il giuramento ch’i vassalli germani antichi, appoTacito, come altra volta l’udimmo, davano a’ loro prin-cipi di servire alla loro gloria. Tali vassalli ligi, poscia,isplendidendosi tali feudi fin a sovrani civili, furono glire vinti, a’ quali il popolo romano, con la formola solen-ne con cui la storia romana il racconta, «regna dono da-bat», ch’era tanto dire quanto «beneficio dabat»; e ne di-venivano alleati del popolo romano, di quella spezied’alleanza che i latini dicevano «foedus inæquale», e sen’appellavano «re amici del popolo romano», nel senti-mento che dagl’imperadori si dicevano «amici» i loronobili cortegiani. La qual alleanza ineguale non era altroch’un’investitura di feudo sovrano, la quale si concepivacon quella formola che ci lasciò stesa Livio: che tal re al-leato «servaret maiestatem populi romani»; appunto co-me Paolo giureconsulto dice che ’l pretore rende ragio-ne «servata maiestate populi romani», cioè che renderagione a chi le leggi la danno, la niega a chi le leggi laniegano. Talché tali re alleati erano signori di feudi so-vrani soggetti a maggiore sovranità: di che ritornò unsenso comune all’Europa, che per lo più non vi hanno iltitolo di «Maestà» che grandi re, signori di grandi regnie di numerose provincie.

Con tali feudi rustici, da’ qual’incominciarono questecose, ritornarono l’enfiteusi, con le quali era stata colti-vata la gran selva antica della terra; onde il laudemio re-stò a significar egualmente ciò che paga il vassallo al si-gnore e l’enfiteuticario al padrone diretto.

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Ritornarono l’antiche clientele romane, che furonodette «commende», le quali poco più sopra abbiamofatto vedere; onde i vassalli, con latina eleganza e pro-pietà, da’ feudisti eruditi ne sono detti «clientes», ed essifeudi si dicono «clientelæ».

Ritornarono i censi, della spezie del censo ordinatoda Servio Tullio, per lo quale i plebei romani dovetterolungo tempo servir a’ nobili nelle guerre a lor propiespese; talché i vassalli detti ora «angarii» e «perangarii»furono gli antichi assidui romani, che, come truovammosopra, «suis assibus militabant»; e i nobili fino alla leggePetelia, che sciolse alla plebe romana il diritto feudaledel nodo, ebbero la ragione del carcere privato sopra iplebei debitori.

Ritornarono le precarie, che dovettero dapprima es-sere di terreni dati da’ signori alle preghiere de’ poveriper potervisi sostentare col coltivargli; ché tutte sono lepossessioni appunto, le quali non mai conobbe la leggedelle XII Tavole, come sopra si è dimostrato.

E perché la barbarie con le violenze rompe la fede de’commerzi, né lascia altro curar a’ popoli ch’appena lecose le quali alla natural vita fanno bisogno, e perchétutte le rendite dovetter esser in frutti che si dicono «na-turali», perciò a’ medesimi tempi vennero anco i livellicome permutazioni di beni stabili. De’ quali si dovett’in-tender l’utilità, com’altra volta si è detto, ch’altri abbon-dasse di campi che dassero una spezie di frutti de’ qualialtri avesse scarsezza, e così a vicenda, e perciò gli scam-biassero tra di loro.

Ritornarono le mancipazioni, con le quali il vassalloponeva le mani entro le mani del suo signore, per signifi-care fede e suggezione; onde i vassalli rustici, per lo cen-so di Servio Tullio, poco sopra abbiam detto essere statii primi mancipes de’ romani. E, con la mancipazione, ri-tornò la divisione delle cose mancipi e nec mancipi, per-ché i corpi feudali sono nec mancipi, ovvero innalienabi-

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li dal vassallo, e sono mancipi del signore; appunto comei fondi delle romane provincie furono nec mancipi de’provinciali e mancipi de’ romani. Nell’atto delle manci-pazioni, ritornarono le stipulazioni, con le infestucazionio investiture, che noi sopra dimostrammo essere statel’istesse. Con le stipulazioni, ritornarono quelle chedall’antica giurisprudenza romana osservammo soprapropiamente essere state dapprima dette «cavissæ», chepoi in accorcio restarono dette «caussæ», che da’ tempibarbari secondi dalla stessa latina origine furon dette«cautele»; e ’l solennizzare con quelle i patti e i contrattisi disse «homologare», da quelli «uomini» da’ quali quisopra vedemmo detti «hominium» ed «homagium»: pe-rocché tutti i contratti di quelli tempi dovetter esser feu-dali. Così, con le cautele, ritornarono i patti cautelatinell’atto della mancipazione, che «stipulati» si disseroda’ giureconsulti romani, che sopra truovammo detti da«stipula» che veste il grano; e sì nello stesso senso ch’idottori barbari, da esse investiture, dette anco «infestu-cazioni», dissero «patti vestiti», e i patti non cautelati,con la stessa significazione e voce, da entrambi si dissero«patti nudi».

Ritornarono le due spezie di dominio diretto ed utile,ch’a livello rispondono al quiritario e bonitario degli an-tichi romani. E nacque il dominio diretto come tra’ ro-mani era nato prima il dominio quiritario, che noi truo-vammo nel suo incominciamento essere stato dominiode’ terreni dati a’ plebei da’ nobili; dalla possessione de’quali se questi fussero caduti, dovevano sperimentare larevindicazione con la formola «Aio hunc fundum meumesse ex iure quiritium», in tal senso (come abbiamo so-pra dimostro) ch’essa revindicazione non altro fussech’una laudazione di tutto l’ordine de’ nobili (chenell’aristocrazia romana aveva fatto essa città) in autori,da’ quali essi plebei avevano la cagione del dominio civi-le, per lo quale potevano vindicar essi fondi. Il qual do-

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minio dalla legge delle XII Tavole fu sempre appellato«autoritas», dall’autorità di dominio ch’aveva esso sena-to regnante sul largo fondo romano, nel quale il popolopoi, con la libertà popolare, ebbe il sovrano imperio, co-me sopra si è ragionato.

Della qual «autorità» della barbarie seconda, allaquale, come ad innumerabili altre cose, noi inquest’opera facciam luce con le antichità della prima(tanto ci sono riusciti più oscuri de’ tempi della barbarieprima questi della seconda!), sono rimasti tre assai evi-denti vestigi in queste tre voci feudali: prima nella voce«diretto», la qual conferma che tal azione dapprima eraautorizzata dal diretto padrone; dipoi nella voce «laude-mio», che fu detto pagarsi eziandio per lo feudo che sifusse dovuto per cotal laudazione in autore che noi di-ciamo; finalmente nella voce «laudo», che dovette dap-prima significare sentenza di giudice in tali spezie dicause, che poi restò a’ giudizi che si dicono «compro-messi», perché tali giudizi sembravano terminarsi ami-chevolmente a petto de’ giudizi che si agitavano d’intor-no agli allodi (che Budeo oppina essere stati così dettiquasi «allaudi», come appo gl’italiani da «laude» si è fat-to «lode»), per gli quali prima i signori in duello la siavevan dovuto veder con l’armi, come sopra si è dimo-strato: il qual costume ha durato infino alla mia età nelnostro Reame di Napoli, dove i baroni, non coi giudizicivili, ma co’ duelli vendicavano gli attentati fatti da altribaroni dentro i territori de’ loro feudi. E come dominioquiritario degli antichi romani, così il diretto degli anti-chi barbari restarono finalmente a significare dominioche produce azione civile reale.

E qui si dà un assai luminoso luogo di contemplarenel ricorso che fanno le nazioni anco il ricorso che fecela sorte de’ giureconsulti romani ultimi con quella de’dottori barbari ultimi; ché, siccome quelli avevano già a’tempi loro perduto di vista il diritto romano antico,

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com’abbiamo a mille pruove sopra fatto vedere, cosìquesti negli ultimi tempi perderono di veduta l’anticodiritto feudale. Perciò gl’interpetri eruditi della romanaragione risolutamente niegano queste due spezie barba-re di dominio essere state conosciute dal diritto romano,attendendo al diverso suono delle parole, nulla inten-dendo essa identità delle cose.

Ritornarono i beni ex iure optimo, qual’i feudisti eru-diti diffiniscono i beni allodiali, liberi d’ogni peso pub-blico nonché privato, e ’l confrontano con quelle pochecase che Cicerone osserva ex iure optimo a’ suoi tempiessere restate in Roma. Però, come di tal sorta di beni siperdé la notizia entro le leggi romane ultime, così di taliallodi non si truova a’ nostri tempi pur uno affatto. E,come i predi ex iure optimo de’ romani innanzi, così di-poi gli allodi ritornarono ad essere beni stabili liberid’ogni peso reale privato, ma soggetti a’ pesi reali pub-blici; perché ritornò la guisa con la quale dal censo ordi-nato da Servio Tullio si formò il censo che fu il fondodell’erario romano: la qual guisa sopra si è ritruovata.Talché gli allodi e i feudi, ch’empiono la somma divisio-ne delle cose in diritto feudale, si distinguettero tra lorodapprima: ch’i beni feudali portavano di séguito la lau-dazione del signore, gli allodi non già. Dove, senza que-sti princìpi, si debbono perdere tutt’i feudisti eruditi,come gli allodi, ch’essi, con Cicerone, voltano in latino«bona ex iure optimo», ci vennero detti «beni del fuso», iquali, nel propio loro significato, come sopra si è detto,erano beni di un diritto fortissimo, non infievolito daniuno peso straniero, anche pubblico; che, come puresopra abbiam detto, furono i beni de’ padri nello statodelle famiglie, e durarono molto tempo in quello delleprime città, i quali beni essi avevano acquistato con lefatighe d’Ercole. La qual difficultà, per questi stessiprincìpi, facilmente si scioglie con quel medesimo Erco-le il quale poi filava, divenuto servo d’Iole e d’Onfale:

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cioè che gli eroi s’effeminarono e cedettero le loro ragio-ni eroiche a’ plebei, ch’essi avevano tenuti per femmine(a petto de’ quali essi si tenevano e si chiamavano «viri»,come si è sopra spiegato), e soffersero assoggettirsi i lorobeni all’erario col censo, il quale prima fu pianta dellerepubbliche popolari e poi si truovò acconcio a starvisopra le monarchie.

Così, per tal diritto feudale antico, che ne’ tempi ap-presso si era perduto di vista, ritornarono i fondi ex iurequiritium, che spiegammo «diritto de’ romani in pubbli-ca ragunanza, armati di lancie», che dicevano «quires»;de’ quali si concepì la formola della revindicazione:«Aio hunc fundum meum esse ex iure quiritium», ch’era,come si è detto, una laudazione in autore della città eroi-ca romana; – come dalla barbarie seconda certamente ifeudi si dissero «beni della lancia», i quali portavano lalaudazione de’ signori in autori, a differenza degli allodiultimi, detti «beni del fuso» (col qual Ercole, invilito, fi-la, fatto servo di femmine): onde sopra diemmo l’origineeroica al motto dell’arme reale di Francia, iscritto «Lilianon nent», ché ’n quel regno non succedon le donne.Perché ritornarono le successioni gentilizie della leggedelle XII Tavole, che truovammo essere «ius gentium ro-manorum», quale da Baldo udimmo la legge salica dirsi«ius gentium gallorum»; la qual fu celebrata certamenteper la Germania, e così dovette osservarsi per tutte l’al-tre prime barbare nazioni d’Europa, ma poi si ristrinsenella Francia e nella Savoia.

Ritornarono finalmente le corti armate, quali sopratruovammo essere state le ragunanze eroiche che si tene-vano sotto l’armi, dette di cureti greci e di quiriti roma-ni; e i primi parlamenti de’ reami d’Europa dovetter es-sere di baroni, come quel di Francia certamente lo fu dipari. Del quale la storia francese apertamente ci narraessere stati capi sul principio essi re, i quali in qualità dicommessari criavano i pari della curia, i quali giudicas-

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ser le cause; onde poi restaron detti i «duchi e pari» diFrancia. Appunto come il primo giudizio, che Cicerondice essersi agitato della vita d’un cittadino romano, fuquello in cui il re Tullo Ostilio criò i duumviri in qualitàdi commessari, i quali, per dirla con essa formola che Ti-to Livio n’arreca, «in Horatium perduellionem dicerent»,il qual aveva ucciso la sua sorella.

Perché, nella severità di tai tempi eroici, ogn’ammaz-zamento di cittadino (quando le città si componevano disoli eroi, come sopra pienamente si è dimostrato) era ri-putato un’ostilità fatta contro la patria, ch’è appunto«perduellio»; ed ogni tal ammazzamento era detto «par-ricidium», perch’era fatto d’un padre, o sia d’un nobile,siccome sopra vedemmo in tali tempi Roma dividersi inpadri e plebe. Perciò da Romolo infin a Tullo Ostilionon vi fu accusa d’alcun nobile ucciso, perché i nobilidovevan esser attenti a non commettere tali offese, prati-candosi tra loro i duelli, de’ quali sopra si è ragionato; e,perché, nel caso di Orazio, non v’era chi con duelloavesse vindicato privatamente l’ammazzamento d’Ora-zia, perciò da Tullo Ostilio ne fu la prima volta ordinatoun giudizio.

Altronde, gli ammazzamenti de’ plebei o eran fatti da’loro padroni medesimi, e niuno gli poteva accusare, oerano fatti da altri, e, come di servi altrui, si rifaceva alpadrone il danno, come ancor si costuma nella Polonia,Littuania, Svezia, Danimarca, Norvegia. Ma gl’interpetrieruditi della romana ragione non videro questa diffi-cultà, perché riposarono sulla vana oppenione dell’inno-cenza del secol d’oro, siccome i politici, per la stessa ca-gione, riposarono su quel detto d’Aristotile: chenell’antiche repubbliche non erano leggi d’intorno a’privati torti ed offese; onde Tacito, Sallustio e altri peraltro acutissimi autori, ove narrano dell’origine delle re-pubbliche e delle leggi, raccontano, del primo stato in-

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nanzi delle città, che gli uomini da principio menaronouna vita come tanti Adami nello stato dell’innocenza.Ma, poi che entrarono nella città quelli «homines» de’quali si maraviglia Ottomano e da’ quali viene il dirittonaturale delle genti che Ulpiano dice «humanarum», in-di in poi l’ammazzamento d’ogni uomo fu detto «homi-cidium».

Or in sì fatti parlamenti dovettero discettarsi causefeudali d’intorno [a] o diritti o successioni o devoluzionide’ feudi per cagione di fellonia o di caducazione; lequali cause, confermate più volte con tali giudicature,fecero le consuetudini feudali, le quali sono le più anti-che di tutte l’altre d’Europa, che ci attestano il dirittonatural delle genti esser nato con tali umani costumi de’feudi, come sopra si è pienamente pruovato.

Finalmente, come dalla sentenza, con la qual era statocondannato Orazio, permise il re Tullo al reo l’appella-gione al popolo, ch’allor era di soli nobili, come sopra siè dimostrato, perché da un senato regnante non vi è al-tro rimedio a’ rei che ’l ricorso al senato medesimo; cosìe non altrimente dovettero praticar i nobili de’ tempibarbari ritornati di richiamarsi ad essi re ne’ di lor parla-menti, come per esemplo agli re di Francia, che dappri-ma ne furon capi.

De’ quali parlamenti eroici serba un gran vestigio ilSagro Consiglio napoletano, al cui presidente si dà titolodi «Sagra Regal Maestà», i consiglieri s’appellano «mili-tes» e vi tengono luogo di commessari (perché ne’ tempibarbari secondi i soli nobili eran soldati, e i plebei servi-vano lor nelle guerre, come de’ tempi barbari primi l’os-servammo in Omero e nella storia romana antica), e dal-le di lui sentenze non v’è appellagione ad altro giudice,ma solamente il richiamo al medesimo tribunale.

Dalle quali cose tutte sopra qui noverate hassi a con-chiudere che furono dappertutto reami, non diciamo diStato, ma di governo aristocratici; come ancora nel fred-

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do Settentrione or è la Polonia (come, dacencinquant’anni fa, lo erano la Svezia e la Danimarca),che, col tempo, senonsé le impediscano il natural corsostraordinarie cagioni, verrà a perfettissima monarchia.

Lo che è tanto vero ch’esso Bodino giugne a dire delsuo regno di Francia che fu, non già di governo (comediciam noi), ma di Stato aristocratico duranti le due li-nee merovinga e carlovinga. Ora qui domandiamo il Bo-dino: – Come il regno di Francia diventò, qual ora è,perfettamente monarchico? Forse per una qualche leggeregia, con la quale i paladini di Francia si spogliaronodella loro potenza e la conferirono negli re della lineacapetinga? – Se egli ricorre alla favola della legge regiafinta da Triboniano, con la quale il popolo romano sispogliò del suo sovrano libero imperio e ’l conferì in Ot-tavio Augusto, per ravvisarla una favola, basta leggere leprime pagine degli Annali di Tacito, nelle quali narral’ultime cose d’Augusto, con le quali legittima nella dilui persona aver incominciato la monarchia de’ romani,la qual sentirono tutte le nazioni aver incominciato daAugusto. - Forse perché la Francia da alcuno de’ cape-tingi fu conquistata con forza d’armi? – Ma di tal infeli-cità la tengono lontana tutte le storie. Adunque e Bodi-no, e con lui tutti gli altri politici e tutti i giureconsultic’hanno scritto de iure publico, devono riconoscere que-sta eterna natural legge regia, per la quale la potenza li-bera d’uno Stato, perché libera, deve attuarsi: talché, diquanto ne rallentano gli ottimati, di tanto vi debbano in-vigorire i popoli, finché vi divengano liberi; di quanto nerallentano i popoli liberi, di tanto vi debbano invigoriregli re, fintanto che vi divengan monarchici. Per lo che,come quel de’ filosofi (o sia de’ morali teologi) è dellaragione, così questo delle genti è diritto naturaledell’utilità e della forza; il quale, com’i giureconsulti di-cono «usu exigente humanisque necessitatibus expostu-lantibus», dalle nazioni vien celebrato.

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Da tante sì belle e sì eleganti espressioni della giuri-sprudenza romana antica, con le quali i feudisti eruditimitigano di fatto e possono mitigare vieppiù la barbariedella dottrina feudale (sulle quali si è qui dimostratoconvenirvi l’idee con somma propietà), intenda Olden-dorpio (e tutti gli altri con lui) se ’l diritto feudale è natodalle scintille dell’incendio dato da’ barbari al diritto ro-mano; ché ’l diritto romano è nato dalle scintille de’ feu-di, celebrati dalla prima barbarie del Lazio, sopra i qualinacquero tutte le repubbliche al mondo. Lo che, sicco-me in un particolar ragionamento sopra (ove ragionam-mo della Politica poetica delle prime) si è dimostrato, co-sì in questo libro (conforme nell’Idea dell’opera avevamopromesso di dimostrare) si è veduto dentro la naturaeterna de’ feudi ritruovarsi l’origini de’ nuovi reamid’Europa.

Ma finalmente, con gli Studi aperti nell’universitàd’Italia, insegnandosi le leggi romane comprese ne’ libridi Giustiniano, le quali vi stanno concepute sul dirittonaturale delle genti umane, le menti, già più spiegate efattesi più intelligenti, si diedero a coltivare la giurispru-denza della natural equità, la qual adegua gl’ignobili co’nobili in civile ragione, come lo son eguali in naturaumana. E appunto come, da che Tiberio Coruncaniocominciò in Roma ad insegnare pubblicamente le leggi,n’incominciò ad uscire l’arcano di mano a’ nobili, e apoco a poco se n’infievolì la potenza; così avvenne a’ no-bili de’ reami d’Europa, che si erano regolati con gover-ni aristocratici, e si venne alle repubbliche libere e alleperfettissime monarchie.

Le quali forme di Stati, perché entrambe portano go-verni umani, comportevolmente si scambiano l’una conl’altra; ma richiamarsi a Stati aristocratici egli è quasi im-possibile in natura civile. Tanto che Dione siracusano,quantunque della real casa, ed aveva cacciato un mostrode’ principi, qual fu Dionigio tiranno, da Siragosa, ed

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era tanto adorno di belle civili virtù che ’l resero degnodell’amicizia del divino Platone, perché tentò riordinar-vi lo Stato aristocratico, funne barbaramente ucciso; e ipittagorici (cioè, come sopra abbiamo spiegato, i nobilidella Magna Grecia), per lo stesso attentato, furono tut-ti tagliati a pezzi, e pochi, che s’erano in luoghi forti sal-vati, furono dalla moltitudine bruciati vivi. Perché gliuomini plebei, una volta che si riconoscono essered’ugual natura co’ nobili, naturalmente non sopportanodi non esser loro uguagliati in civil ragione; lo che con-sieguono o nelle repubbliche libere o sotto le monar-chie. Laonde, nella presente umanità delle nazioni, le re-pubbliche aristocratiche, le quali ci sono rimastepochissime, con mille sollecite cure e accorti e saggiprovvedimenti, vi tengon, insiem insieme, e in dovere econtenta la moltitudine.

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3.DESCRIZIONE DEL MONDO ANTICO E

MODERNO DELLE NAZIONI OSSERVATACONFORME AL DISEGNO DE’ PRINCÌPI DI

QUESTA SCIENZA.

Questo corso di cose umane civili non fecero Cartagi-ne, Capova, Numanzia, dalle quali tre città Roma temél’imperio del mondo: perché i cartaginesi furono preve-nuti dalla natia acutezza affricana, che più aguzzaronocoi commerzi marittimi; i capovani furono prevenutidalla mollezza del cielo e dall’abbondanza della Campa-gna felice; e finalmente i numantini, perché sul loro pri-mo fiorire dell’eroismo furono oppressi dalla romanapotenza, comandata da uno Scipione Affricano, vincitordi Cartagine ed assistito dalle forze del mondo. Ma i ro-mani, da niuna di queste cose mai prevenuti, cammina-rono con giusti passi, faccendosi regolar dalla provve-denza per mezzo della sapienza volgare, e per tutte e trele forme degli Stati civili, secondo il lor ordine naturale,ch’a tante pruove in questi libri si è dimostrato, duraro-no sopra di ciascheduna finché naturalmente alle formeprime succedessero le seconde; e custodirono l’aristo-crazia fin alle leggi Publilia e Petelia, custodirono la li-bertà popolare fin a’ tempi d’Augusto, custodirono lamonarchia finché all’interne ed esterne cagioni che di-struggono tal forma di Stati poterono umanamente resi-stere.

Oggi una compiuta umanità sembra essere sparsa pertutte le nazioni, poiché pochi grandi monarchi reggonoquesto mondo di popoli; e, se ve n’hanno ancor barbari,egli n’è cagione perché le loro monarchie hanno duratosopra la sapienza volgare di religioni fantastiche e fiere,col congiugnervisi in alcune la natura men giusta dellenazioni loro soggette.

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E, faccendoci capo dal freddo Settentrione, lo czar diMoscovia, quantunque cristiano, signoreggia ad uominidi menti pigre. Lo cnez o cam di Tartaria domina a gen-te molle, quanto lo furono gli antichi seri, che facevanoil maggior corpo del di lui grand’imperio, ch’or egli haunito a quel della China. Il negus d’Etiopia e i potenti redi Efeza e Marocco regnano sopra popoli troppo debolie parchi.

Ma in mezzo alla zona temperata, dove nascon uomi-ni d’aggiustate nature, incominciando dal più lontanoOriente, l’imperador del Giappone vi celebra un’uma-nità somigliante alla romana ne’ tempi delle guerre car-taginesi, di cui imita la ferocia nell’armi, e, come osser-vano dotti viaggiatori, ha nella lingua un’aria simile allalatina; ma, per una religione fantasticata assai terribile efiera di dèi orribili, tutti carichi d’armi infeste, ritienemolto della natura eroica. Perché i padri missionari, chesonvi andati, riferiscono che la maggior difficultà, ch’es-si hanno incontrato per convertire quelle genti alla cri-stiana religione, è ch’i nobili non si possono persuaderech’i plebei abbiano la stessa natura umana ch’essi han-no. Quel de’ chinesi, perché regna per una religion man-sueta e coltiva lettere, egli è umanissimo. L’altro dell’In-die è umano anzi che no, e si esercita nell’arti per lo piùdella pace. Il persiano e ’l turco hanno mescolato allamollezza dell’Asia, da essi signoreggiata, la rozza dottri-na della loro religione; e così, particolarmente i turchi,temperano l’orgoglio con la magnificenza, col fasto, conla liberalità e con la gratitudine.

Ma in Europa, dove dappertutto si celebra la religioncristiana (ch’insegna un’idea di Dio infinitamente pura eperfetta e comanda la carità inverso tutto il gener uma-no), vi sono delle grandi monarchie ne’ lor costumiumanissime. Perché le poste nel freddo Settentrione(come da cencinquant’anni fa furono la Svezia e la Dani-marca, così oggi tuttavia la Polonia e ancor l’Inghilter-

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ra), quantunque sieno di Stato monarchiche, però ari-stocraticamente sembrano governarsi; ma, se ’l naturalcorso delle cose umane civili non è loro da straordinariecagioni impedito, perverranno a perfettissime monar-chie. In questa parte del mondo sola, perché coltivascienze, di più sono gran numero di repubbliche popo-lari che non si osservano affatto nell’altre tre. Anzi, perlo ricorso delle medesime pubbliche utilità e necessità,vi si è rinnovellata la forma delle repubbliche degli etolied achei; e, siccome quelle furon intese da’ greci per lanecessità d’assicurarsi della potenza grandissima de’ ro-mani, così han fatto i Cantoni svizzeri e le Provincie uni-te ovvero gli Stati d’Olanda, che di più città libere popo-lari hanno ordinato due aristocrazie, nelle quali stannounite in perpetua lega di pace e guerra. E ’l corpodell’imperio germanico è egli un sistema di molte cittàlibere e di sovrani principi, il cui capo è l’imperadore, enelle faccende che riguardano lo stato di esso imperio sigoverna aristocraticamente.

E qui è da osservare che sovrane potenze, unendosi inleghe, o in perpetuo o a tempo, vengon esse di sé a for-mare Stati aristocratici, ne’ quali entrano gli anziosi so-spetti propi dell’aristocrazie, come si è sopra dimostro.Laonde, essendo questa la forza ultima degli Stati civili(perché non si può intendere in civil natura uno Stato ilquale a sì fatte aristocrazie fusse superiore), questa stes-sa forma debb’essere stata la prima, ch’a tante pruoveabbiamo dimostrato in quest’opera che furono aristo-crazie di padri, re sovrani delle loro famiglie, uniti in or-dini regnanti nelle prime città. Perché questa è la naturade’ princìpi: che da essi primi incomincino ed in essi ul-timi le cose vadano a terminare.

Ora ritornando al proposito, oggi in Europa non so-no d’aristocrazie più che cinque, cioè Vinegia, Genova,Lucca in Italia, Ragugia in Dalmazia e Norimberga inLamagna, e quasi tutte son di brevi confini. Ma dapper-

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tutto l’Europa cristiana sfolgora di tanta umanità, che visi abbonda di tutti i beni che possano felicitare l’umanavita, non meno per gli agi del corpo che per gli piacericosì della mente come dell’animo. E tutto ciò in forzadella cristiana religione, ch’insegna verità cotanto subli-mi che vi si sono ricevute a servirla le più dotte filosofiede’ gentili, e coltiva tre lingue come sue: la più antica delmondo, l’ebrea; la più dilicata, la greca; la più grande,ch’è la latina. Talché, per fini anco umani, ella è la cri-stiana la migliore di tutte le religioni del mondo, perchéunisce una sapienza comandata con la ragionata, in for-za della più scelta dottrina de’ filosofi e della più coltaerudizion de’ filologi.

Finalmente, valicando l’oceano, nel nuovo mondo gliamericani correrebbono ora tal corso di cose umane, senon fussero stati scoperti dagli europei.

Ora, con tal ricorso di cose umane civili, che partico-larmente in questo libro si è ragionato, si rifletta sui con-fronti che per tutta quest’opera in un gran numero dimaterie si sono fatti circa i tempi primi e gli ultimi dellenazioni antiche e moderne; e si avrà tutta spiegata la sto-ria, non già particolare ed in tempo delle leggi e de’ fattide’ romani o de’ greci, ma (sull’identità in sostanza d’in-tendere e diversità de’ modi lor di spiegarsi) si avrà lastoria ideale delle leggi eterne, sopra le quali corron ifatti di tutte le nazioni, ne’ loro sorgimenti, progressi,stati, decadenze e fini, se ben fusse (lo che è certamentefalso) che dall’eternità di tempo in tempo nascesseromondi infiniti. Laonde non potemmo noi far a meno dinon dar a quest’opera l’invidioso titolo di Scienza nuova,perch’era un troppo ingiustamente defraudarla di suodiritto e ragione, ch’aveva sopra un argomento universa-le quanto lo è d’intorno alla natura comune delle nazio-ni, per quella propietà c’ha ogni scienza perfetta nellasua idea, la quale ci è da Seneca spiegata con quella va-

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sta espressione: «Pusilla res hic mundus est, nisi id, quodquærit, omnis mundus habeat».

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CONCHIUSIONE DELL’OPERASOPRA UN’ETERNA REPUBBLICA NATURALE,

IN CIASCHEDUNA SUA SPEZIE OTTIMA,DALLA DIVINA PROVVEDENZA ORDINATA.

Conchiudiamo adunque quest’opera con Platone, ilquale fa una quarta spezie di repubblica, nella quale gliuomini onesti e dabbene fussero supremi signori; chesarebbe la vera aristocrazia naturale. Tal repubblica, laqual intese Platone, così condusse la provvedenza da’primi incominciamenti delle nazioni, ordinando che gliuomini di gigantesche stature, più forti, che dovevanodivagare per l’alture de’ monti, come fanno le fiere chesono di più forti nature, eglino, a’ primi fulmini dopol’universale diluvio, da se stessi atterrandosi per entro legrotte de’ monti, s’assoggettissero ad una forza superio-re, ch’immaginarono Giove, e, tutti stupore quanto era-no tutti orgoglio e fierezza, essi s’umiliassero ad una di-vinità: ché, ’n tale ordine di cose umane, non si puòintender altro consiglio essere stato adoperato dallaprovvedenza divina per fermargli dal loro bestial erroreentro la gran selva della terra, affine d’introdurvi l’ordi-ne delle cose umane civili.

Perché quivi si formò uno stato di repubbliche, percosì dire, monastiche, ovvero di solitari sovrani, sotto ilgoverno d’un Ottimo Massimo, ch’essi stessi si finsero esi credettero al balenar di que’ fulmini, tra’ quali rifulseloro questo vero lume di Dio: – ch’egli governi gli uomi-ni; – onde poi tutte l’umane utilità loro somministrate etutti gli aiuti pòrti nelle lor umane necessità immagina-rono esser dèi e, come tali, gli temettero e riverirono.Quindi, tra forti freni di spaventosa superstizione e pu-gnentissimi stimoli di libidine bestiale (i quali entrambiin tali uomini dovetter esser violentissimi), perché senti-vano l’aspetto del cielo esser loro terribile e perciò im-

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pedir loro l’uso della venere, essi l’impeto del moto cor-poreo della libidine dovettero tener in conato; e sì, inco-minciando ad usare l’umana libertà (ch’è di tener in fre-no i moti della concupiscenza e dar loro altra direzione,che, non venendo dal corpo, da cui vien la concupiscen-za, dev’essere della mente, e quindi propio dell’uomo),divertirono in ciò: ch’afferrate le donne a forza, natural-mente ritrose e schive, le strascinarono dentro le lorogrotte e, per usarvi, le vi tennero ferme dentro in perpe-tua compagnia di lor vita; e sì, co’ primi umani concubi-ti, cioè pudichi e religiosi, diedero principio a’ matrimo-ni, per gli quali con certe mogli fecero certi figliuoli e nedivennero certi padri; e sì fondarono le famiglie, che go-vernavano con famigliari imperi ciclopici sopra i loro fi-gliuoli e le loro mogli, propi di sì fiere ed orgogliose na-ture, acciocché poi, nel surgere delle città, si truovasserodisposti gli uomini a temer gl’imperi civili. Così la prov-vedenza ordinò certe repubbliche iconomiche di formamonarchica sotto padri (in quello stato principi), ottimiper sesso, per età, per virtù; i quali, nello stato che dirdebbesi «di natura» (che fu lo stesso che lo stato dellefamiglie), dovettero formar i primi ordini naturali, sicco-me quelli ch’erano pii, casti e forti, i quali, fermi nellelor terre, per difenderne sé e le loro famiglie, non poten-done più campare fuggendo (come avevano innanzi fat-to nel loro divagamento ferino), dovettero uccider fiere,che l’infestavano, e, per sostentarvisi con le famiglie(non più divagando per truovar pasco), domar le terre eseminarvi il frumento; e tutto ciò per salvezza del generumano.

A capo di lunga età – cacciati dalla forza de’ propimali, che loro cagionava l’infame comunione delle cosee delle donne, nella qual erano restati dispersi per le pia-nure e le valli in gran numero – uomini empi, che nontemevano dèi; impudichi, ch’usavano la sfacciata venerebestiale; nefari, che spesso l’usavano con le madri, con le

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figliuole; deboli, erranti e soli, inseguiti alla vita da vio-lenti robusti, per le risse nate da essa infame comunione,corsero a ripararsi negli asili de’ padri; e questi, riceven-dogli in protezione, vennero con le clientele ad ampliarei regni famigliari sopra essi famoli. E sì spiegarono re-pubbliche sopra ordini naturalmente migliori per virtùcertamente eroiche; come di pietà, ch’adoravano la divi-nità, benché da essi per poco lume moltiplicata e divisanegli dei, e dei formati secondo le varie loro apprensioni(come da Diodoro sicolo, e più chiaramente da Eusebione’ libri De præparatione evangelica, e da san Cirillol’alessandrino ne’ libri Contro Giuliano apostata, si de-duce e conferma); e, per essa pietà, ornati di prudenza,onde si consigliavano con gli auspìci degli dèi; di tempe-ranza, ch’usavano ciascuno con una sola donna pudica-mente, ch’avevano co’ divini auspìci presa in perpetuacompagnia di lor vita; di fortezza, d’uccider fiere, domarterreni; e di magnanimità, di soccorrer a’ deboli e daraiuto a’ pericolanti: che furono per natura le repubbli-che erculee, nelle quali pii, sappienti, casti, forti e ma-gnanimi debellassero superbi e difendessero deboli, ch’èla forma eccellente de’ civili governi.

Ma finalmente i padri delle famiglie, per la religione evirtù de’ lor maggiori lasciati grandi con le fatighe de’lor clienti, abusando delle leggi della protezione, diquelli facevan aspro governo; ed essendo usciti dall’or-dine naturale, ch’è quello della giustizia, quivi i clientiloro si ammutinarono. Ma, perché senz’ordine (ch’è tan-to dir senza Dio) la società umana non può reggere nem-meno un momento, menò la provvedenza naturalmentei padri delle famiglie ad unirsi con le lor attenenze in or-dini contro di quelli; e, per pacificarli, con la prima leg-ge agraria che fu nel mondo, permisero loro il dominiobonitario de’ campi, ritenendosi essi il dominio ottimo osia sovrano famigliare: onde nacquero le prime città so-pra ordini regnanti di nobili. E sul mancare dell’ordine

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naturale, che, conforme allo stato allor di natura, era sta-to per spezie, per sesso, per età, per virtù, fece la prov-vedenza nascere l’ordine civile col nascere di esse città,e, prima di tutti, quello ch’alla natura più s’appressava:– per nobiltà della spezie umana (ch’altra nobiltà, in talestato di cose, non poteva estimarsi che dal generar uma-namente con le mogli prese con gli auspìci divini); – e sìper un eroismo, i nobili regnassero sopra i plebei (chenon contraevano matrimoni con sì fatta solennità); e, fi-niti i regni divini (co’ quali le famiglie si erano governateper mezzo de’ divini auspìci), dovendo regnar essi eroiin forza della forma de’ governi eroici medesimi, la prin-cipal pianta di tali repubbliche fusse la religione custo-dita dentro essi ordini eroici, e per essa religione fusserode’ soli eroi tutti i diritti e tutte le ragioni civili. Ma, per-ché cotal nobiltà era divenuta dono della fortuna, tra es-si nobili fece surgere l’ordine de’ padri di famiglia me-desimi, che per età erano naturalmente più degni; e traquelli stessi fece nascere per re gli più animosi e robusti,che dovettero far capo agli altri e fermargli in ordini perresistere ed atterrire i clienti ammutinati contr’essoloro.

Ma, col volger degli anni, vieppiù l’umane menti spie-gandosi, le plebi de’ popoli si ricredettero finalmentedella vanità di tal eroismo, ed intesero esser essi d’ugualnatura umana co’ nobili; onde vollero anch’essi entrarenegli ordini civili delle città. Ove, dovendo a capo ditempo esser sovrani essi popoli, permise la provvedenzache le plebi, per lungo tempo innanzi, gareggiassero conla nobiltà di pietà e di religione nelle contese eroiche didoversi da’ nobili comunicar a’ plebei gli auspìci, per ri-portarne comunicare tutte le pubbliche e private ragionicivili che se ne stimavano dipendenze; e sì la cura mede-sima della pietà e lo stesso affetto della religione portas-se i popoli ad esser sovrani nelle città: nello che il popo-lo romano avanzò tutti gli altri del mondo, e perciòfunne il popolo signor del mondo. In cotal guisa, tra essi

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ordini civili trammeschiandosi vieppiù l’ordine naturale,nacquero le popolari repubbliche: nelle quali, poiché siaveva a ridurre tutto o a sorte o a bilancia, perché il casoo ’l fato non vi regnasse, la provvedenza ordinò che ’lcenso vi fusse la regola degli onori; e così gl’industriosinon gl’infingardi, i parchi non gli pròdigi, i providi nongli scioperati, i magnanimi non gli gretti di cuore, ed inuna i ricchi con qualche virtù o con alcuna immagine divirtù non gli poveri con molti e sfacciati vizi, fusseroestimati gli ottimi del governo. Da repubbliche così fatte– gl’intieri popoli, ch’in comune voglion giustizia, co-mandando leggi giuste, perché universalmente buone,ch’Aristotile divinamente diffinisce «volontà senza pas-sioni», e sì volontà d’eroe che comanda alle passioni –uscì la filosofia, dalla forma di esse repubbliche destataa formar l’eroe e, per formarlo, interessata della verità;così ordinando la provvedenza: che, non avendosi ap-presso a fare più per sensi di religione (come si eranofatte innanzi) le azioni virtuose, facesse la filosofia inten-dere le virtù nella lor idea, in forza della quale riflessio-ne, se gli uomini non avessero virtù, almeno si vergo-gnassero de’ vizi ché sol tanto i popoli addestrati al maloperare può contenere in ufizio. E dalle filosofie permi-se provenir l’eloquenza, che dalla stessa forma di esserepubbliche popolari, dove si comandano buone leggi,fusse appassionata del giusto; la quale da esse idee divirtù infiammasse i popoli a comandare le buone leggi.La qual eloquenza risolutamente diffiniamo aver fioritoin Roma a’ tempi di Scipione Affricano, nella cui età lasapienza civile e ’l valor militare, ch’entrambi sulle rovi-ne di Cartagine stabilirono a Roma felicemente l’impe-rio del mondo, dovevano portare di séguito necessarioun’eloquenza robusta e sappientissima.

Ma – corrompendosi ancora gli Stati popolari, e quin-di ancor le filosofie (le quali cadendo nello scetticismo,si diedero gli stolti dotti a calonniare la verità), e nascen-

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do quindi una falsa eloquenza, apparecchiata egualmen-te a sostener nelle cause entrambe le parti opposte –provenne che, mal usando l’eloquenza (come i tribunidella plebe nella romana) e non più contentandosi i cit-tadini delle ricchezze per farne ordine, ne vollero farepotenza; come furiosi austri il mare, commovendo civiliguerre nelle loro repubbliche, le mandarono ad un tota-le disordine, e sì, da una perfetta libertà, le fecero caderesotto una perfetta tirannide (la qual è piggiore di tutte),ch’è l’anarchia, ovvero la sfrenata libertà de’ popoli libe-ri.

Al quale gran malore delle città adopera la provve-denza uno di questi tre grandi rimedi con quest’ordinedi cose umane civili.

Imperciocché dispone, prima, di ritruovarsi dentroessi popoli uno che, come Augusto, vi surga e vi si stabi-lisca monarca, il quale, poiché tutti gli ordini e tutte leleggi ritruovate per la libertà punto non più valsero a re-golarla e tenerlavi dentro in freno, egli abbia in sua ma-no tutti gli ordini e tutte le leggi con la forza dell’armi;ed al contrario essa forma dello stato monarchico, la vo-lontà de’ monarchi, in quel loro infinito imperio, stringadentro l’ordine naturale di mantenere contenti i popolie soddisfatti della loro religione e della loro natural li-bertà, senza la quale universal soddisfazione e conten-tezza de’ popoli gli Stati monarchici non sono né dure-voli né sicuri.

Dipoi, se la provvedenza non truova sì fatto rimediodentro, il va a cercar fuori; e, poiché tali popoli di tantocorrotti erano già innanzi divenuti schiavi per naturadelle sfrenate lor passioni (del lusso, della dilicatezza,dell’avarizia, dell’invidia, della superbia e del fasto) eper gli piaceri della dissoluta lor vita si rovesciavano intutti i vizi propi di vilissimi schiavi (come d’esser bugiar-di, furbi, calonniatori, ladri, codardi e finti), divenganoschiavi per diritto natural delle genti ch’esce da tal natu-

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ra di nazioni, e vadano ad esser soggette a nazioni mi-gliori, che l’abbiano conquistate con l’armi, e da questesi conservino ridutte in provincie. Nello che pure riful-gono due grandi lumi d’ordine naturale: de’ quali uno èche chi non può governarsi da sé, si lasci governare daaltri che ’l possa; l’altro è che governino il mondo sem-pre quelli che sono per natura migliori.

Ma, se i popoli marciscano in quell’ultimo civil malo-re, che né dentro acconsentino ad un monarca natio, névengano nazioni migliori a conquistargli e conservarglida fuori, allora la provvedenza a questo estremo lor ma-le adopera questo estremo rimedio: che – poiché tai po-poli a guisa di bestie si erano accostumati di non ad altropensare ch’alle particolari propie utilità di ciascuno edavevano dato nell’ultimo della dilicatezza o, per me’ dir,dell’orgoglio, ch’a guisa di fiere, nell’essere disgustated’un pelo, si risentono e s’infieriscono, e sì, nella loromaggiore celebrità o folla de’ corpi, vissero come bestieimmani in una somma solitudine d’animi e di voleri, nonpotendovi appena due convenire, seguendo ogniun de’due il suo propio piacere o capriccio, – per tutto ciò,con ostinatissime fazioni e disperate guerre civili, vada-no a fare selve delle città, e delle selve covili d’uomini; e,’n cotal guisa, dentro lunghi secoli di barbarie vadanoad irruginire le malnate sottigliezze degl’ingegni mali-ziosi, che gli avevano resi fiere più immani con la barba-rie della riflessione che non era stata la prima barbariedel senso. Perché quella scuopriva una fierezza genero-sa, dalla quale altri poteva difendersi o campare o guar-darsi; ma questa, con una fierezza vile, dentro le lusin-ghe e gli abbracci, insidia alla vita e alle fortune de’ suoiconfidenti ed amici. Perciò popoli di sì fatta riflessivamalizia, con tal ultimo rimedio, ch’adopera la provve-denza, così storditi e stupidi, non sentano più agi, dilica-tezze, piaceri e fasto, ma solamente le necessarie utilitàdella vita; e, nel poco numero degli uomini alfin rimasti

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e nella copia delle cose necessarie alla vita, divenganonaturalmente comportevoli; e, per la ritornata primierasemplicità del primo mondo de’ popoli, sieno religiosi,veraci e fidi; e così ritorni tra essi la pietà, la fede, la ve-rità, che sono i naturali fondamenti della giustizia e sonograzie e bellezze dell’ordine eterno di Dio.

A questa semplice e schietta osservazione fatta sullecose di tutto il gener umano, se altro non ce ne fusse purgiunto da’ filosofi, storici, gramatici, giureconsulti, si di-rebbe certamente questa essere la gran città delle nazio-ni fondata e governata da Dio. Imperciocché sono coneterne lodi di sappienti legislatori innalzati al cielo i Li-gurghi, i Soloni, i decemviri, perocché si è finor oppina-to che co’ lor buoni ordini e buone leggi avesser fondatole tre più luminose città che sfolgorassero mai delle piùbelle e più grandi virtù civili, quali sono state Sparta,Atene e Roma; le quali pure furono di brieve durata epur di corta distesa a riguardo dell’universo de’ popoli,ordinato con tali ordini e fermo con tali leggi, che dallestesse sue corrottelle prenda quelle forme di Stati, con lequali unicamente possa dappertutto conservarsi e per-petuamente durare. E non dobbiam dire ciò esser consi-glio d’una sovrumana sapienza, la quale, senza forza dileggi (che, per la loro forza, Dione ci disse sopra, nelleDegnità, essere simiglianti al tiranno), ma faccendo usodegli stessi costumi degli uomini (de’ quali le costuman-ze sono tanto libere d’ogni forza quanto lo è agli uominicelebrare la lor natura, onde lo stesso Dione ci disse lecostumanze essere simili al re, perché comandano conpiacere), ella divinamente la regola e la conduce?

Perché pur gli uomini hanno essi fatto questo mondodi nazioni (che fu il primo principio incontrastato diquesta Scienza, dappoiché disperammo di ritruovarlada’ filosofi e da’ filologi); ma egli è questo mondo, senzadubbio, uscito da una mente spesso diversa ed alle voltetutta contraria e sempre superiore ad essi fini particolari

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ch’essi uomini sì avevan proposti; quali fini ristretti, fattimezzi per servire a fini più ampi, gli ha sempre adopera-ti per conservare l’umana generazione in questa terra.Imperciocché vogliono gli uomini usar la libidine bestia-le e disperdere i loro parti, e ne fanno la castità de’ ma-trimoni, onde surgono le famiglie; vogliono i padri eser-citare smoderatamente gl’imperi paterni sopra i clienti,e gli assoggettiscono agl’imperi civili, onde surgono lecittà; vogliono gli ordini regnanti de’ nobili abusare la li-bertà signorile sopra i plebei, e vanno in servitù delleleggi, che fanno la libertà popolare; vogliono i popoli li-beri sciogliersi dal freno delle lor leggi, e vanno nellasoggezion de’ monarchi; vogliono i monarchi in tutti ivizi della dissolutezza che gli assicuri, invilire i loro sud-diti, e gli dispongono a sopportare la schiavitù di nazio-ni più forti; vogliono le nazioni disperdere se medesime,e vanno a salvarne gli avanzi dentro le solitudini, donde,qual fenice, nuovamente risurgano. Questo, che fecetutto ciò, fu pur mente, perché ’l fecero gli uomini conintelligenza; non fu fato, perché ’l fecero con elezione;non caso, perché con perpetuità, sempre così faccendo,escono nelle medesime cose.

Adunque, di fatto è confutato Epicuro, che dà il caso,e i di lui seguaci Obbes e Macchiavello; di fatto è confu-tato Zenone, e con lui Spinosa, che danno il fato: al con-trario, di fatto è stabilito a favor de’ filosofi politici, de’quali è principe il divino Platone, che stabilisce regolarele cose umane la provvedenza. Onde aveva la ragion Ci-cerone, che non poteva con Attico ragionar delle leggi,se non lasciava d’esser epicureo e non gli concedeva pri-ma la provvedenza regolare l’umane cose: la quale Pu-fendorfio sconobbe con la sua ipotesi, Seldeno supposee Grozio ne prescindé; ma i romani giureconsulti la sta-bilirono per primo principio del diritto natural dellegenti. Perché in quest’opera appieno si è dimostrato chesopra la provvedenza ebbero i primi governi del mondo

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per loro intiera forma la religione, sulla quale unicamen-te resse lo stato delle famiglie; indi, passando a’ governicivili eroici ovvero aristocratici, ne dovette essa religioneesserne la principal ferma pianta; quindi, innoltrandosia’ governi popolari, la medesima religione servì di mez-zo a’ popoli di pervenirvi; fermandosi finalmente ne’ go-verni monarchici, essa religione dev’essere lo scudo de’principi. Laonde, perdendosi la religione ne’ popoli,nulla resta loro per vivere in società, né scudo per difen-dersi, né mezzo per consigliarsi, né pianta dov’essi reg-gano, né forma per la qual essi sien affatto nel mondo.

Quindi veda Bayle se possan esser di fatto nazioni nelmondo senza veruna cognizione di Dio! E veda Polibioquanto sia vero il suo detto: che, se fussero al mondo fi-losofi, non bisognerebbero al mondo religioni! Ché lereligioni sono quelle unicamente per le quali i popolifanno opere virtuose per sensi, i quali efficacementemuovono gli uomini ad operarle, e le massime da’ filoso-fi ragionate intorno a virtù servono solamente alla buo-na eloquenza per accender i sensi a far i doveri dellevirtù. Con quella essenzial differenza tralla nostra cri-stiana, ch’è vera, e tutte l’altre degli altri, false: che, nellanostra, fa virtuosamente operare la divina grazia per unbene infinito ed eterno, il quale non può cader sotto isensi, e, ’n conseguenza, per lo quale la mente muove isensi alle virtuose azioni; a rovescio delle false ch’aven-dosi proposti beni terminati e caduchi così in questa vitacome nell’altra (dove aspettano una beatitudine di cor-porali piaceri), perciò i sensi devono strascinare la men-te a far opere di virtù.

Ma pur la provvedenza, per l’ordine delle cose civiliche ’n questi libri si è ragionato, ci si fa apertamente sen-tire in quelli tre sensi: – uno di maraviglia, l’altro di ve-nerazione c’hanno tutti i dotti finor avuto della sapienzainnarrivabile degli antichi, e ’l terzo dell’ardente diside-rio onde fervettero di ricercarla e di conseguirla; – per-

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Page 550: La scienza nuova - FAMIGLIA FIDEUS · 2019. 3. 30. · sofi; perch’ella, in quest’opera, più in suso innalzandosi, contempla in Dio il mondo delle menti umane, ch’è ’l

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ch’eglino son infatti tre lumi della sua divinità, che destòloro gli anzidetti tre bellissimi sensi diritti, i quali poidalla loro boria di dotti, unita alla boria delle nazioni(che noi sopra per prime Degnità proponemmo e pertutti questi libri si son riprese), loro si depravarono; iquali sono che tutti i dotti ammirano, venerano e diside-rano unirsi alla sapienza infinita di Dio.

Insomma, da tutto ciò che si è in quest’opera ragiona-to, è da finalmente conchiudersi che questa Scienza por-ta indivisibilmente seco lo studio della pietà, e che, senon siesi pio, non si può daddovero esser saggio.

FINE

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