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Lotta continua. Lo stupore del Vangelo di Alberto Fabio Ambrosio

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Una lettura originale e sorprendente delle parabole di Gesù. Possiamo dire che le parabole sono la dimostrazione antropologica che Cristo era davvero uomo, perché conosceva la vita nei dettagli futili del qui e ora, perché gli erano familiari paesaggi concreti, la polvere delle strade e le acque limacciose del Giordano, perché sapeva il sapore del vino e il gusto dell’acqua del pozzo. Perché aveva un’esperienza del mondo che può avere solo chi vi ha vissuto nelle contingenze particolari del presente» (dalla Prefazione di Franco La Cecla). In questo volume, Alberto Fabio Ambrosio offre al lettore una lettura inedita di alcune tra le più belle parabole dei Vangeli, dalla perla preziosa al buon Samaritano, dal banchetto di nozze al figliol prodigo.

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Alberto Fabio Ambrosio

LOTTA CONTINUA

Lo stupore del Vangelo

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© EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2015 Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano) www.edizionisanpaolo.it Distribuzione: Diffusione San Paolo s.r.l. Piazza Soncino, 5 - 20092 Cinisello Balsamo (Milano)

ISBN 978-88-215-9489-2

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A padre Nicolas-Jean Séd opEx-direttore della casa editrice parigina

Les Editions du Cerf

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PREFAZIONE

È una condizione singolare quella di un laico come me che fa una prefazione a un libro di un frate e per giunta a un libro che è un commento esegetico e pasto-rale alle parabole del Vangelo. Ed è anche un privile-gio. Come l’amico Ambrosio sa, in altre culture e reli-gioni è più frequente che filosofi, studiosi laici di varia natura si cimentino in un commentario a testi conside-rati sacri. Ci sono bellissimi commenti al Talmud scrit-ti da Emmanuel Levinas, mentre Ananda Cooma-raswamy ha commentato i Veda indiani. E ovviamente qualcosa di simile accade nell’Islam e nel Buddhismo. Nel Cristianesimo è più raro che un laico faccia da con-tro/coro a un religioso su un testo biblico o evangelico. Proprio perché sembra che ai laici debba sempre spet-tare la condizione “esterna”, un po’ contrapposta a quella interna di un religioso, una vecchia storia soprat-tutto italiana. Per questo è un privilegio poter introdur-re il commento di Fabio Alberto Ambrosio su alcune parabole evangeliche.

Come antropologo, le parabole mi chiamano parti-colarmente in causa perché hanno a che fare con una quotidianità che è il campo specifico dell’antropologia.

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Le parabole evangeliche sono un metodo straordina-rio proprio perché si rifanno a un senso comune quo-tidiano. Gesù sa di parlare a gente concreta, che ha come orizzonte quello delle pratiche normali e quoti-diane su cui in genere non si ragiona molto: «le cose stanno così», «è così che si fanno le cose», «la gente si comporta in questo modo», «a questa azione in gene-re corrisponde una reazione di questo tipo», e via di-cendo. La vita quotidiana offre un’etica di base, un buon senso e un’evidenza a cui ci si attiene spesso co-me dato. Ovviamente non è così. Molte parabole di Cristo sovvertono il senso comune, ma per farlo devo-no partire da esso. C’è un’etica quotidiana, una mora-le condivisa nelle piccole cose, che non chiama in cau-sa sommi sistemi. Gesù lo sa e parte da questa base convissuta per proporre la sua visione rivoluzionaria della vita, del mondo e della convivenza. Si tratti di soccorrere un malcapitato, dell’insistenza di una vedo-va, di una questione di giustizia tra familiari, di un do-vere compiuto o meno; si tratti del sapere attendere, della maniera di rispondere alle istituzioni, o del giu-dizio che fa sì che coloro che sono considerati ultimi e peccatori in una società, in realtà custodiscano una speranza speciale.

Come racconta bene Ambrosio, qui vengono evocate scene da una vita vissuta, quotidiana. Possiamo dire che le parabole sono la dimostrazione antropologica che Cristo era davvero uomo, perché conosceva la vita nei dettagli futili del qui e ora, perché gli erano familiari paesaggi concreti, la polvere delle strade e le acque li-macciose del Giordano, perché sapeva il sapore del vino e il gusto dell’acqua del pozzo. Perché aveva un’espe-

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rienza del mondo che può avere solo chi vi ha vissuto nelle contingenze particolari del presente.

Le parabole sono bivalve. Da un lato mostrano il vis-suto umano di Gesù, dall’altro innestano, nella storia dei circostanti e nella storia che verrà, gli insegnamenti della Buona Novella. Sono un modo di calare nella Sto-ria, come storia quotidiana, la verità di cui Cristo si fa portatore. La Storia come storie, come storie particolari di ciascuno e di tutti. Cristo, si direbbe in antropologia, fa del vero fieldwork. La differenza è che lui non sta eser-citando una professione, ma sta vivendo primo tra noi per raccontarci come si può vivere da lui in poi.

La parabola, direbbe Foucault con una forzatura a cui lo sottopongo, è un dispositivo. Innesta la verità là dove essa ha effetto perché si tratta del tessuto del quo-tidiano. È uno stratagemma retorico a cui i filosofi gre-ci non ricorrono, e sarà per questo difficile a parecchi di loro accettare la prosaicità dello stile del Vangelo e delle parabole. È apparentemente un discorso “terra terra”, ma è da questo livello che la verità irrompe nel-la storia. E non si tratta solo di Cristo. La verità si fa carne nella storia attraverso la minutezza dei vissuti, emerge come una deriva inconscia dai sogni, dalle at-tese e dalle aspettative della gente. I grandi cambia-menti nella storia arrivano in questo modo, lentamen-te, inavvertiti dai più, ma a partire dal tessuto dello sgranarsi quotidiano delle ore. Ce lo ha raccontato con il suo spirito messianico Benjamin e lo ha fatto anche Tardieu, due persone che in maniera diversa hanno saputo amare la gente e le folle tanto bistrattate nei se-coli recenti.

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Mi piace delle parabole scelte da Fabio Alberto Am-brosio il loro carattere semplice e paradossale allo stesso tempo. Perché, come dispositivo, le parabole sono anche una trappola. Ci ritroviamo trasportati dal buon senso fin quando Cristo non ci fa inciampare o non ci fa fare una capriola, e allora quello che sembrava ovvio non lo è più e molte nostre immagini vanno in frantumi e ne emergono altre. Ma è quello a cui la vita quotidiana ci dispone, questo apparente svolgersi delle routine e poi il dispiegarsi dell’inaspettato. Il padre che è meno mo-ralista del suo figliol prodigo! Il Samaritano che non è invadente nei confronti di chi soccorre: lo aiuta, ma poi non gli sta sulle costole, anche se lo affida con cura al padrone della locanda. Che novità per noi e le nostre società dell’assistenza e dell’assicurazione morbosa!

Quanta aria buona si respira nelle parabole! Quanta libertà dai pregiudizi, quanta libertà di emozioni: si può dire di no! Anche il figlio invitato a prendersi cura della vigna può dire che proprio non ne ha voglia, anche se poi va a occuparsene. Sembra, a leggere queste parabo-le, che il Signore che vi viene presentato abbia molto a cuore la distanza dei suoi figli: se ne rallegra, si rallegra che i suoi figli si muovano “da soli” nel mondo, combi-nando pasticci, cadendo in contraddizione, sbuffando e ripensandoci. Come se il Signore si fosse abituato a Gio-na e al suo fuggire e al suo brontolare.

Pare che «uffa» sia un’espressione orientale, di origine araba. Da questo punto di vista è probabile che Cristo ne avesse sperimentato una versione medio-orientale particolare. Eppure, rispetto a Giona, qui il Signore sem-bra più avanti, depista il moralismo quotidiano e lo spiaz-za e gioisce dei movimenti del cuore umano.

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Un’ultima osservazione sulla parabola del buon Sa-maritano. Anche a me ha sempre impressionato che, rispetto alla lettura tradizionale, qui la questione non sia chi è il prossimo per il Samaritano, ma il contrario, chi è il prossimo per il malcapitato. È il Samaritano a essere il prossimo. C’è qui qualcosa di molto sottile. Ama il prossimo tuo potrebbe anche significare: non pensare che chi ti è vicino sia quello che tu pensi. Spesso il tuo vicino è colui che è lontano culturalmente, come classe sociale, come appartenenza religiosa. Spesso è da lui che meno ti aspetti qualcosa. Il Samaritano è la prefigura-zione dell’assoluto estraneo, dell’anonimo. Non è qual-cuno dei tuoi, non è qualcuno che conosci. Forse qui Cristo davvero lancia il suo messaggio universale. Non è la vicinanza del cuore, degli affetti, delle idee, delle concezioni comuni, non è l’appartenenza allo stesso mondo. Proprio no: il tuo prossimo è il tuo estraneo. Che me-raviglioso scavalcamento del provincialismo e del nazio-nalismo religioso, che coraggiosa caduta di steccati e, soprattutto per noi moderni, che lezione straordinaria contro il nostro moralismo localista. La verità si mani-festa attraverso le mani di un estraneo che si prende cu-ra di te!

Franco La cecLa

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INTRODUZIONE

Vorrei iniziare questa introduzione con i ringrazia-menti, in particolare uno speciale a Natale Benazzi edi-tor delle Edizioni San Paolo e a tutti i responsabili di questa storica casa editrice. Non è un ringraziamento di cortesia per ingraziarsi l’editore. Di solito sono pochi quelli che leggono i ringraziamenti nei libri, lo fanno spesso i ricercatori – quando si tratta di libri di un certo spessore intellettuale – perché vogliono capire di chi si è avvalso l’autore nella stesura del lavoro di una ricerca pluriennale. Il lettore ordinario non ha probabilmente questa curiosità.

Nel mio caso devo iniziare con il ringraziamento per-ché questo libro sulle parabole – senza l’avallo di un editore come San Paolo – non avrebbe mai visto la lu-ce. Mi spiego. Da anni impegnato a studiare il sufismo, la mistica musulmana, la storia della Turchia e le que-stioni di dialogo interreligioso, mi sono domandato co-me avrei reagito a scrivere qualcosa di semplicemente cristiano. Anzi, a dire la verità alcuni dei miei parroc-chiani di Istanbul – dove per più di undici anni ho vis-suto in maniera stabile – mi dicevano testualmente: «È bello vedere i tuoi libri dedicati ai dervisci, ma credia-

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mo che sia bene che tu scriva della tua propria tradi-zione cristiana, della tua fede!»

Questa suggestione, quando viene dai “piccoli” non può e non deve cadere nel vuoto. Perciò, quando ho po-tuto, ne ho parlato con la casa editrice e mi sono lancia-to in questa avventura. Ringrazio, quindi, coloro che hanno creduto che si possa fare spiritualità e teologia cristiana anche quando si vive in casa dell’altro – nel mio caso, nella casa dell’Islam –; e che l’esperienza mia potesse portare una minima, ma nuova luce, alla rilet-tura del Vangelo; e, infine, che non si smette mai di fare teologia anche quando si testimonia diversamente l’an-nuncio della fede.

Quando ho avuto l’accordo di principio, mi sono det-to: e adesso?

Allora ho fatto quanto fa ogni buon teologo: mi sono voluto confrontare con le pagine dei Vangeli che cono-sco, con quelle che qualche volta dimentico e, forse e soprattutto, con le pagine che amo. A forza di riflettere sul tipo di libro che avrei potuto scrivere per onorare quell’invito dei miei parrocchiani di Istanbul, mi sono deciso a confrontarmi con le parabole di Gesù. Sarebbe stata una scelta minimale ma ben pensata di alcune pa-rabole, che avrei commentato con questo bagaglio di conoscenze e di esperienze.

Perché poi proprio le parabole? Esistevano una o forse più ragioni. La prima è det-

tata proprio dal fatto di essermi confrontato per anni con un’altra cultura e un’altra spiritualità, quella dell’Islam. Ricordo bene il giorno in cui – mi sfuggo-no i dettagli – una persona di fede musulmana mi ha

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sollecitato e, forse, provocato a spiegargli il senso delle parabole.

Per quel che ho capito dell’atteggiamento musulma-no nei confronti del Vangelo, le parabole sono il gene-re letterario più fantasioso, più balzano e forse il più inutile, oltre che estremamente ermetico. Insomma, gli islamici fanno molta difficoltà a comprenderle, perché per farlo bisogna semplicemente essere già nella logica del Vangelo. Quella conversazione mi aveva condotto a percepire sulla mia pelle che le parabole sono uno dei generi letterari più caratteristici del Nuovo Testa-mento.

Quando poi mi sono messo a rileggere alcuni testi di esegesi, alcuni dei quali sono segnalati in una simbolica bibliografia in fondo a questo volume, mi sono accorto che la parabola è veramente il nuovo genere letterario del Nuovo Testamento.

Gesù consacra quanto già esisteva dei racconti para-bolici in modo molto rudimentale, facendone il genere letterario più originale di tutti e quattro i Vangeli. Mi sembrava, dunque, che il dialogo mi avesse fatto tocca-re con mano una verità cristiana che conoscevo solo at-traverso la mia esperienza personale: infatti non ho mai tralasciato di meditare quelle parabole, non fosse altro per il fatto che molte di esse sono proposte con regola-rità nella liturgia quotidiana o domenicale. E questo mi ha confermato nel fatto che dialogare rinvia sempre al cuore della propria fede, e non bisogna temere di per-dere la propria tradizione. Al contrario, il continuo dia-logo fa riscoprire la radice del credere: lo voglio testi-moniare con queste brevi riflessioni.

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Rimaneva il fatto ancora più complesso della scelta dei testi; devo dire che ho deciso per una via facile, così da non complicare la lettura e la meditazione. Ho scel-to solo alcune delle parabole che sono proprie a due dei quattro Evangeli: quelli di Matteo o di Luca; parabole che al tempo stesso parlassero alla mia fede in dialogo con l’Islam.

Volevo leggere queste pagine con naturalezza, senza fare né esegesi e nemmeno una vera e propria teologia biblica, benché in certi casi alcune mie riflessioni si pos-sano considerare tali. Quello che ne è venuto è un testo tra la spiritualità e la teologia biblica, a partire dal rac-conto parabolico e da quanto da me vissuto in questi anni; lo pongo nell’alveo di un’antropologia religiosa.

Sono sempre più convinto che il Vangelo debba con-frontarsi seriamente con l’antropologia culturale – dal-la quale proviene certamente il senso di profondo rela-tivismo nella cultura contemporanea –, forse ancor più che con la filosofia. C’è poi antropologia e antropologia: ce n’è una naturale e spontanea, che è il desiderio di co-noscere, di apprendere il nuovo che si nasconde in un’al-tra cultura. Ce n’è un’altra più tecnica, quella dei ricer-catori universitari, che si recano nei luoghi lontani abi-tati dai cosiddetti “primitivi” e cercano di capire l’altro. Esagero volutamente i termini della questione, per far risaltare quanto mi sembra essenziale dell’approccio, che si vuole di antropologia naturale e solo talvolta più tecnico.

Rimaneva ancora un punto a ispirare tutto questo la-voro, ed era il titolo, che mi era parso evidente fin dal

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momento in cui avevo preso la risoluzione di scrivere un libretto di meditazione su alcuni testi del Vangelo: Lotta continua. Parole che ricordavano i cosiddetti “anni di piombo”, tra la fine degli anni ’60 e gli anni ’80, se-gnati dal terrorismo politico. Benché non sia un cono-scitore della storia di questo movimento extraparlamen-tare di sinistra, all’origine di una vera e propria ideolo-gia comunista rivoluzionaria, il nome mi era ben noto. Conoscitore invece più competente della spiritualità cri-stiana e musulmana, sapevo che questo appellativo pre-so in prestito dal gruppo rivoluzionario è – ai miei oc-chi – quanto di più espressivo della vera vita interiore.

La vita evangelica è davvero una lotta continua per mantenersi nel solco della fede: questa non è mai data come scontata, proprio come – mi sia consentita l’ana-logia paradossale – non era mai data per scontata agli occhi dei rivoluzionari la destabilizzazione contro l’isti-tuzione e lo Stato, percepiti come fonte di profonda in-giustizia.

La vera vita di fede, e quella interiore che ne deriva, costituiscono una lotta continua, una buona battaglia come definisce san Paolo. Rileggere le parabole e ren-derne conto significa per me una lotta continua per ri-tornare alle fonti, ma anche e soprattutto deve ricorda-re al lettore quanto sia necessaria una lotta per mante-nersi nel solco della fede di Cristo. Mai dare per scon-tato che siamo già cristiani, e men che meno che siamo dei buoni cristiani, buoni conoscitori del Vangelo!

La lotta continua è nei confronti di una mentalità considerata come certa e sicura. Il contrario di quest’ul-tima è tipicamente cristiano: non conosciamo mai per-fettamente quando possiamo considerarci dei buoni cre-

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denti, dei buoni fedeli e discepoli di Cristo, e ancora meno quando possiamo considerarci “perfetti” da un punto di vista spirituale.

Questa lotta continua deve ricondurci a ciò che è es-senziale per il Vangelo: la novità della fede e della nuo-va logica evangelica. Solo una lotta continua può aiu-tarci a permanere in uno stato di stupore davanti alla novità. Il sottotitolo ambisce a dire che, rileggendo il Vangelo con altri occhi rispetto a quelli della tradizione, si ritorna allo stupore originato dalla novità della Re-surrezione. Questo è stato il mio percorso, che con gioia e senso di gratitudine offro al lettore che vorrà avventu-rarsi, con me, nella medesima lotta.

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