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Rossano Astremo, nato nel 1979. È pugliese, ma vive a Roma dal 2007. Ha pubblicato 9 libri, tra cui due sillogi poetiche, “Corpo poetico irrisolto” (Besa Editrice, 2003), con prefazione di Mario Desiati, e “L’incanto delle macerie” (Icaro, 2007), introdotto da Flavio Santi. Estratti di “Epica d’interni” sono stati pubblicati sulle riviste Nuovi Argomenti, L’immaginazione e Nazione Indiana. “Decidendo di rinunziare allo stato amoroso, il soggetto si vede con tristezza esiliato dal proprio immaginario” Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso per contattare l’autore [email protected] 3475206564
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Rossano Astremo
Epica d’interni
poesie
Rossano Astremo
Epica d’interni
Rossano Astremo, nato nel 1979. È pugliese, ma vive a Roma dal 2007. Ha
pubblicato 9 libri, tra cui due sillogi poetiche, “Corpo poetico irrisolto” (Besa
Editrice, 2003), con prefazione di Mario Desiati, e “L’incanto delle macerie” (Icaro,
2007), introdotto da Flavio Santi. Estratti di “Epica d’interni” sono stati pubblicati
sulle riviste Nuovi Argomenti, L’immaginazione e Nazione Indiana.
“Decidendo di rinunziare allo stato amoroso, il soggetto si vede con tristezza esiliato
dal proprio immaginario”
Roland Barthes, Frammenti di un discorso amoroso
per contattare l’autore
3475206564
a Maria,
semplicemente
Ho mosso i pezzi della scacchiera
con strategia di pura difesa,
sul cammino pallido di giorni e notti.
Nell’assedio della tua distanza
osservo la fragilità dei bordi
su cui m’adagio, senza oltrepassare
la linea che separa l’illecito
dal lecito, il vitale dal vano
consumarsi di questo fiato deserto.
L’assurda qualifica dei giorni
avviene lungo questo discrimine,
dentro o fuori, vita o morte,
tutto a portata di mano, letale,
ma così slegato perché è la mente
inane che urla sotto vuoto spinto
la fragilità di sogni lacerati
come pagine di libri ingialliti.
La prima immagine che ho di te
è un occhio di candido smarrimento
su un monitor divenuto prigione.
La seconda immagine che ho di te
è il tuo corpo perduto in un locale
e poi il suo liquefarsi in mesi di guerra.
La terza immagine che ho di te
è una bocca immobile in una stanza.
Tu mi ammali: è l’innesto perfetto.
Mi accontento delle briciole, tu lo sai,
lascio le porzioni più gustose ai mai sazi
e affondo la lama nel centro delle idee
o, almeno, ci provo, ponderando le crisi.
Cerco gli spigoli che mi donano aperture,
godo del corpo perforato in azione
e non piango, non mi sciolgo nell’ombra
o, almeno, ci provo, balbettando la grazia.
Se tu mi guardassi riflesso su questa neve
saresti orgogliosa della mia debolezza,
invece la neve ti tiene lontana:
io cerco la luna e crollo supino.
Che tutti i sogni parlino della tua assenza,
questo chiedo prima della chiusura
delle palpebre, del lento perdersi
del vigore della respirazione,
che tutto sia un continuo dialogo
con l’oblio rinato in altro loco.
Pur se spaventosi, orribili,
che tutti i sogni siano miei e tuoi,
di nessun altro: nella lacerazione,
nella progressiva regressione
delle punte delle tue dita
dal cavo roteare del mio cuore.
Che il risveglio sia l’ultima verità
possibile, il tragico atto di uno
spettacolo che nel mondo sopito
è ricco di colori di occhi fusi:
incontro ritmico cosparso d’eterno.
Dalla moschea arrivano preghiere che tagliano il silenzio,
due gatti amoreggiano nella penombra,
l’alba getta fili di fuoco sulle ore a venire.
Nel covo della stanza i miei occhi inseguono l’umido,
un libro di Barthes è aperto da ore sulla stessa pagina.
Tu sei a poche centinaia di metri da me,
senza un briciolo di sonno, alle cinque del mattino:
a cosa stai pensando?
Chissà se, come milioni di altre volte,
le nostre menti producono il medesimo pensiero.
Collima il nostro immaginario, ancora?
Porto l’inverno docile delle tue spine,
mi muovo da equilibrista pallido
sul sottile filo di ciò che sarà
in attesa che danzi ieratico il silenzio.
Porto mani piene di cicatrici,
un modo perverso per donarti
carezze al suono delle onde sulle pietre.
Porto il linguaggio della tua divina
geometria, come pupille di ciechi
nell’azzurro che non possono mirare.
È eclissi ciò che resta, sublime la nostra,
perché, mi permetto di citare, non affatto parziale.
Strano ora pensare a te
collocata in zone rarefatte
che non riesco a rendere immagine,
sul tappeto osceno di questa stanza
a pochi centimetri dal tunnel del liquido.
L’unico modo per farti mia
è chiudere gli occhi e soffiare sull’oblio della forma,
scagliare lontano il vortice che strattona lo stomaco,
leccarmi le vene delle mani
sino a renderle polvere,
dare inizio alla sparizione dagli arti superiori
e proseguire con dovizia di particolari:
petto, stomaco, pene, gambe, piedi.
L’ultima zona tangibile resta il cranio
e ciò che dentro s’agita.
La nostra epica d’interni danza con le ore:
sostare nel punto dove lingua e cazzo
sono separati dalla sospesa frattura delle menti
non ha senso dopo un anno di rincorse.
Tu mi chiedi: hai mai avuto un’ossessione?
Questa come la chiami? Non ti sembra abbastanza?
Non appartiene ad entrambi? (Brucia le tue remore).
L’ossessione, credimi, mai diverrà follia
perché è cosa buona e giusta che
la ritirata avvenga prima della disfatta.
Vano è dissimulare parvenze di vitalità:
Poter riposare nel tuo cuore
è tutto quello che ti chiedo.
La sottile unione delle nostre labbra
in uno spazio roboante e malato
sarà il lasciapassare per l’inferno.
Il batticuore degli occhi
fende l’aria di questa via.
Le labbra svaniscono in lingua
sospese come rima antica.
Tu fiorisci attorno al mio corpo.
Tutti i soffitti sono crollati.
Non ci resta che essere sfondo
di una luna morbida come burro.
Espropriami: anche solo per poche ore.
“C'è una via in cui puoi tenermi per mano
e in cui puoi anche baciarmi.
A Roma: ci ho messo 10 anni per trovarla”.
Ricordi queste tue parole?
A volte mi capita di passare da lì,
evito con cura maniacale
di ritrovarmi immerso in quella via.
Ci capitammo per caso per evitare
la voragine tonante di un traforo.
Anche a distanza di centinaia di metri
quando gravito attorno a quello spazio
m’invade un sapore di liquirizia stopposa,
un gusto rancido di radice che sbrana lo stomaco.
Tutto il tuo corpo è magnete
attaccato al dentro che m’irradia.
Vacillo al risucchio del sangue:
rotoliamo sotto il letto
tra le folgori della stretta morsa.
La lampada piazzata accanto al nulla
dona luce sul tuo seno di pura seta.
Oltre il vetro una pioggia acida divampa.
La verità è che ogni grammo del nostro
amore ha il peso specifico del granito,
la verità è che non è in un altrove
che cerchiamo dimora, ma qui, solo qui,
tra queste lenzuola che evocano tempesta.
Eppure, nel tutto che siamo, ci portiamo
addosso ferite che stentano a chiudersi:
privi di terrore le annichileremo,
privi di terrore, io e te - non altre combinazioni.
La pioggia danza lungo
il collo del mattino.
Esili fili d’argento solcano
il concavo suono
che scuote l’asfalto.
Dormi e racchiudi tra
le tue morbide labbra
le forme di delizia
di tutti i bambini.
Il tempo scorre corroso su di noi
ed il pensiero di ciò è struggente,
null’altro importa se non l’ombra
di quel che saremo tra mille anni:
non più corpi invasi dalla voglia
di possedersi su letti sfatti, alieni,
non più il ritmo di arti che sondano
il battere religioso del coito.
Noi, manichini disadorni d’occhi,
come sogni conservati e bruciati,
custoditi tra strada e cielo, poi
sbudellati al tepore del chiaro di luna.
Sintetico è il tappeto delle emozioni,
nel fondo del fondo di questo corpo
solo chincaglierie a poco prezzo
e poi sole che attraversa organi
come lastre appese su neon evanescenti.
Riavvolgi il nastro di ciò che eravamo
nelle mani si scioglie il battito primigenio
il limpido scoccare di frecce nel centro
il centro, quel centro, il nostro, cos’altro?
Ora che è amputato il nostro amore
ricucimi sino all’istante del nuovo incontro.
Non è ferita ciò che tocco,
è parte di te dal cui tutto mi sottraggo,
è la lenta agonia della fine,
lo sguardo che si posa su linee
che avrei voluto sottopelle
e, al contrario, svaniscono
nello sconquasso di parole inutili.
Non è l’infantile gesto di un lattante,
è mano che sfiora l’assoluto,
è atto che regge l’iterato lacerarsi,
il corpo di idee solo mio e tuo,
agli altri alieno, eppure, ora, mortale,
perché zoppica: perché crolla.
Addio è parola priva di senso se
il cuore batte sbocciando in rose.
Come un gatto che lecca il proprio
riflesso su un vetro inumidito
così dovresti scontrarti col corpo,
un’invasione che dall’immagine
s’innerva all’interno, attraverso le vene:
diecimila sogni sepolti dentro un
sangue infetto sotto pelle candida.
Mi dici: io appartengo a zone non tue,
mi dici: non so come sia potuto accadere,
mi dici: sono avvilita, non c’è ragione.
È la grammatica dei poveri a tenermi vivo.
Una tenia ha fatto breccia nella tua mente,
ha divorato tutti i tuoi ricordi,
ha una testa dotata di uncini e ventose,
ha un aspetto orribile e non lascia scampo.
Ora mi dici non sei sereno,
mi tieni lontano, mi curi come si cura
un eroinomane: metadone per non precipitare
(ricordi quando anche tu eri tossica come me?).
Io sono oltre il precipizio, cara,
è per questo che ti chiedo di farmi
dono della tua tenia: voglio smemorare,
rendere il passato tempo non corruttibile,
essere mangiucchiato da un parassita:il tuo.
Questo non è un incontro di tennis.
Il risultato più consono mi sembra il pareggio.
Bianca, come un ossario sepolto,
così la pupilla precipita nel vuoto.
L’inferno s’impossessa dei migliori,
ciò è risaputo e tu tremi, tu cadi
tu respiri nell’affanno di giochi
pieni d’ira, tu cerchi, tu dici,
tu crepi, bestia nascosta senza ali,
oltre il varco di una bellezza sfiorita.
Nera, come una camera sventrata,
così la rima violenta l’antico.
L’inferno s’espande in un pozzo
di paura. Tu giochi, tu sogni,
tu ami, sacco di lacrime spillato,
tu vibri, tu disperi, tu dolce
fiore delicato dalle marce foglie.
Consunzione è parola che ruota
nell’intero curvo cielo della mente,
l’idea del bagliore riflesso di cristalli,
il reclinare marmoreo d’ogni fuga di luce.
Implosione è lo stato che m’impedisce
di soffiare il vero (precipito nel tuo bersaglio)
e le ceneri dei miei giorni cantano
la sorte rivoluzionaria del superstite.
Attrazione è l’osso spolpato del bassoventre,
io e te confinati nell’industriale amore,
coito di voli nel periferico arcobaleno,
carne in scatola di una voglia transitiva.
C’è solo nausea nei miei deliri.
Resta solo nausea in tutto questo.
Ho una polaroid tra le pagine della mia
copia dei Vagabondi del Dharma.
Dentro ci sei tu, poggiata sul
bordo della cucina che guardi
con sospetto l’obiettivo, convinta
che la macchina non compia il suo dovere,
visto che è in disuso dal 1992.
Eppure una luce intensa sorprende
entrambi, dopo la quale una pellicola
sottile scorre verso l’esterno,
lasciando, in pochi attimi,
il suo pallido colorito e
assumendo l’esile tua forma.
Ora quella foto è ben chiusa
in un libro, quel libro è riposto
in un cassetto, un doppio strato
di difesa contro quell’immagine
che, se osservata, fende e spacca.
Divento di giorno in giorno, di ora
in ora, da un battito di ciglia all’altro,
sempre più astratto, sfocato, illeggibile.
Come una foto della Woodman
spingo il mio corpo oltre la soglia
che divide l’impresso dall’assente.
Richiedo sparizione con forza finale,
un modo per non guardare il risvolto
della giacca che sono diventato:
pellicola graffiata con unghie dorate,
proiettata al contrario in dono corporeo.
Ti sogno da notti che non so numerare,
c’è sempre l’immagine di te al centro
di una stanza, nuda sul letto che scaglia
una palla da tennis contro la parete,
sfiorando la tv, incuneandosi nella zona
che separa l’antenna dallo specchio.
Sei racchiusa in un gesto privato,
avvolta nel sapone onirico della mente.
Non sei qui. Non sei qui. Sei solo un sogno.
È la totale assenza di atti d’amore
a cristallizzare questo mio sguardo
di sole ambrato come crisalide franta.
Sono qui, non mi smuovo, adoro
la lentezza dei miei movimenti
lo scorrere del mondo osservato
come s’osserva il rallenty di una
penetrazione anale reiterata
nella quale piacere o disgusto
lasciano spazio alla sospensione.
Oggetti in oggetti: nient’altro.
La pagina non smette di sbocciare
mentre io, di contro, appassisco:
sento la ruggine che scava un fosso
tra ciò che voglio e ciò che posseggo,
inalo gas tossici che scombinano
l’esatta combinazione dell’emoglobina.
16 luglio. Ho mani nere che perdono forza,
una t-shirt pagata 3 euro, un jeans sdrucito
e i piedi poggiano su un pavimento ardente.
È il desiderio cellulare moltiplicato
a dare linfa a questi giorni della deriva;
sono gli infiniti mari di lacrime salate
a tenermi sospeso come un cappio rifinito;
è il tempo del nulla migliore
a generare questa fame di immagini;
sono le tue labbra sul mio collo
a ricordarmi ciò che siamo.
Non ho più versi per te,
ne restano una dozzina sulla
superficie bagnata di un tappeto.
È giunta l’ora di afferrarli,
inserirli in una busta trasparente
e buttare poi fuori tutta l’aria:
un sottovuoto di emozioni inutilizzate.
Tutto l’amore che prima c’era
ora è rimasto incastrato tra
le molecole asfissiate di un’utilitaria,
al termine di un reading di Lawrence Ferlinghetti
al quale inermi assieme abbiamo assistito.
Prima di sparire verrò da te,
ti accarezzerò i capelli,
sfiorerò il bianco angelico
che copre una zona del tuo teschio,
poi mi volterò senza proferire parola.
Come milioni di altre volte
ci doneremo le spalle e
allontaneremo in progressione i nostri corpi.
Ora rivoglio bianche le mie lettere,
non un segno lasciato a macchiare,
un nulla di suoni, un vuoto di corpi,
io e te, gemelli sepolti, granelli
di sabbia in un mare di merde.
Spedisci tutto al solito indirizzo,
non ho ambizioni, spostarmi per dove?
Tu non esisti: lo implora il mio petto.
Oggi sarà luna piena. Domani
il mattino sorgerà luminoso.
Roma, gennaio-dicembre 2008